Quando si parla di errori giudiziari, non si può non pensare ad uno dei più grandi errori giudiziari mai commessi in Italia: era il 17 giugno del 1983 quando i carabinieri notificarono il provvedimento di arresto ad Enzo Tortora, giornalista e popolarissimo conduttore tv, genovese, classe 1928, padre di Silvia Tortora, la giornalista tv scomparsa pochi giorni fa.
Il volto mite, per bene e per questo tanto amato di "Portobello" era stato accusato di traffico di stupefacenti. Secondo le confidenze raccolte da tre malavitosi, in carcere con l'accusa di aver commesso omicidi e di aver fatto parte di clan della camorra e della mafia, Tortora sarebbe l'uomo di contatto fra la criminalità e il mondo vip in una fiorente attività di compravendita di cocaina.
Sbattuto in prima pagina con le manette ai polsi , sottoposto all'umiliazione pubblica, Tortora ha sopportato un calvario giudiziario durato oltre tre anni, trascorrendo sette mesi fra carcere e arresti domiciliari. Un tempo infinito prima che giungesse la sentenza di assoluzione con formula piena della Corte di Appello di Napoli, confermata in Cassazione.
Nessuna contestazione, invece, fu avanzata nei confronti dei pubblici ministeri che a quelle accuse credettero, senza condurre gli accertamenti che avrebbero evitato a Tortora l'arresto.
Forse in pochi conoscono l’associazione senza fini di lucro denominata errorigiudiziari.com, la cui attività è testimoniata nell’omonimo sito internet. Creata da due giornalisti romani, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone che da oltre 20 anni si occupano di errori giudiziari ed ingiusta detenzione, l’associazione dà voce alle vittime di un sistema giudiziario che troppo spesso, silenziosamente e nell’indifferenza dell’opinione pubblica, fa finire in carcere persone innocenti.
Tra chi subisce un vero e proprio errore giudiziario in senso stretto (quelle persone che, dopo essere state condannate con sentenza definitiva, vengono assolte in seguito a un processo di revisione) e le vittime di ingiusta detenzione (cioè coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi venire assolte), dal 1992 ad oggi sono state più di 29.000 le vittime, con una media costante di 1.000 all’anno.
Si parla di persone che si ritrovano coinvolte in vicende giudiziarie e che, conseguentemente, vedono le loro carriere andare in fumo, la reputazione svanita, spese insostenibili per pagare gli avvocati e conseguenze psicologiche devastanti.
Solo un accenno alla casistica degli ultimi due anni. La convivente lo ha denunciato per una violenza sessuale che lui in realtà non ha mai commesso: è solo una falsa accusa, al culmine di una crisi nel rapporto. 545 giorni di carcere. Condannato con sentenza definitiva, riesce a riaprire il caso solo grazie al test del Dna che nessuno aveva fatto in diciassette anni di processi.
A causa delle false accuse di un suo conoscente con cui aveva litigato, un uomo è stato costretto a 202 giorni di ingiusta detenzione come sospettato di essere l’autore di una rapina. Una donna è finita in carcere con l'accusa di detenzione di cocaina: l’avrebbe inchiodata una conversazione tra due uomini che parlano di qualcuno che ha il suo stesso nome. 270 giorni di carcere. Ma è un'altra persona.
Un cittadino innocente è rimasto per 463 giorni in ingiusta detenzione, per la falsa denuncia di estorsione fatta da un ex amico, prima che un processo ne proclamasse l’assoluta estraneità ai fatti che gli venivano contestati. Oggi dichiara: «Quello che mi ha colpito è la velocità con cui sono stato fermato e immediatamente condotto in carcere. La galera ti segna. I ricordi non mi lasceranno mai».
Dal 2017 al 2020 sono costati quasi 180 milioni di euro i risarcimenti pagati dallo Stato come equa riparazione di errori giudiziari e detenzioni ingiuste. A fronte di questi dati, non sono invece molte le azioni disciplinari avviate nei confronti dei magistrati. Riporta il Sole 24 ore che la Corte dei Conti cita 13 azioni promosse nel 2017, 16 nel 2018 e 24 nel 2019.
Torna l'appuntamento con la rubrica settimanale "La Strada delle Vittime", nella quale si affronta l'analisi della casistica criminale con approccio vittimologico. Di seguito proponiamo il caso di questa puntata.
“Lo so che fa schifo uccidere il proprio figlio” confessava Davide Paitoni al padre in un messaggio vocale, mentre uccideva suo figlio di 7 anni. Prima il quarantenne, che conviveva con il padre dopo la sua separazione, ha chiesto al genitore di andare a vedere la tv in un’altra stanza e di aspettare una sorpresa, un disegno dal nipotino; poi con la scusa di una merendina ha fatto sedere il piccolo Daniele su una sedia in cucina.
I risultati dell’autopsia hanno svelato alcuni dettagli della tragica fine del piccolo: il papà gli ha infilato uno straccio in bocca. Quindi gliel’ha tappata con un nastro adesivo per evitare di farlo urlare. Infine lo ha accoltellato alla gola. Crudeltà, efferatezza, premeditazione, lucida determinazione a togliere la vita al suo bambino la cui angoscia per quanto gli stava per accadere è quasi tangibile leggendo questi ultimi suoi attimi di vita.
Il gip che ha disposto la misura cautelare del carcere, nell'ordinanza di convalida del fermo ha indicato anche il movente per il quale Paitoni avrebbe ucciso il figlio: avrebbe agito per punire la moglie. È lo stesso assassino ad aver affidato tale confessione ad alcune lettere manoscritte in cui rivela di aver compiuto il gesto “per far soffrire la donna che ho amato veramente”.
La freddezza omicida del padre è a dir poco impressionante. Dopo aver consumato il delitto, l’uomo ha preso il corpicino oramai privo di vita del figlio per nasconderlo dentro ad un armadio della cucina, insieme ad alcuni aeroplanini di carta costruiti da Daniele con frasi tenere ed affettuose per il suo papà, edun bigliettino scritto dal piccolo: “Papà e Daniele sempre insieme”.
Proprio il luogo dove il bambino dovrebbe essere più sicuro, protetto e circondato dall’amore dei genitori diventa in questo, e in altri casi simili, luogo violento e pericoloso. Il bambino viene visto dal padre come un’arma da utilizzare contro la coniuge, per l’incapacità da parte dell’uomo di affrontare la fine di una relazione, la disgregazione familiare.
Può anche accadere che sia la madre a commettere il figlicido. Analizzando le statistiche le madri rappresentano il 59% dei genitori che commettono un figlicidio, mentre i padri rappresentano il 41%. Tuttavia c’è da segnalare che, mentre nel 76% dei casi le madri sono considerate non in grado di intendere e volere, i padri solo nel 18% dei casi vengono giudicati incapaci di intendere e di volere; gli uomini che si macchiano di questi orrendi crimini sono spesso sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e hanno uno storico di condotte violente.
E proprio questa era la vita di Davide Paitoni, fatta di droga (era consumatore abituale di cocaina), alcool e violenze: già ai domiciliari per tentato omicidio nei confronti di un collega (gli aveva sferrato diverse coltellate alla schiena), era stato segnalato anche per lesioni e minacce alla moglie.
Nonostante tali precedenti, in base al provvedimento di separazione era tuttavia stato concesso a Paitone di continuare a vedere suo figlio anche senza la presenza della madre. La violenza di questo padre era così imprevedibile?
Roberto Straccia il 28 dicembre del 2021 avrebbe compiuto 34 anni. “Avrebbe” perché il ragazzo di Moresco, che il 14 dicembre di 10 anni fa scomparve da Pescara dove frequentava l’Università, è stato ritrovato privo di vita in Puglia, sugli scogli del litorale di Bari il 7 gennaio successivo.
La famiglia del 24enne, brillante studente in lingue, sportivo, forte, amante dei viaggi, non si è mai arresa, ha strenuamente lottato per la verità; molteplici in questi 10 anni i provvedimenti di archiviazione ai quali i genitori si sono opposti, contestando la tesi della Procura secondo la quale la morte del giovane era da imputare a cause naturali o alla stessa volontà di Roberto di togliersi la vita.
Il padre di Roberto ha sempre ritenuto impensabile il suicidio del figlio sostenendo che, tra le altre evidenze, “una persona che esce di casa per farla finita, senza un motivo, non indossa l’equipaggiamento adatto a una lunga corsa, con indumenti termici per difendersi dal freddo”.
La testimonianza che avvalora la tesi della famiglia, che non crede al suicidio, è arrivata da un pentito di mafia in carcere: un ex boss legato alla ndrangheta, registrato a colloquio con la sua fidanzata, avrebbe parlato del caso di Roberto.
La fidanzata dell’ex boss, appena uscita dal carcere, ha chiamato la sorella del detenuto, e , intercettata nell’ambito di un’ inchiesta per traffico di armi e droga, in cui nulla centra Roberto, dice: “Questa cosa verrà fatta, non lo so meglio che si faccia” “Si deve fare lo stesso perchè..è meglio se si fa così senti a me” “Lui ha detto si deve fare”.
Per gli operatori che ascoltavano l’intercettazione, il riferimento è a Roberto Straccia, che in quel momento poteva essere ancora vivo. Per questo la telefonata è stata immediatamente inviata alla Procura di Pescara, ma qui rimase per molto tempo nel dimenticatoio: è il 30 dicembre 2011, 16 giorni dopo la scomparsa di Roberto, quando ancora si sta cercando vivo. Ci si è accorti dello scambio di persona, ma oramai Roberto ha visto in volto i suoi rapitori e non può essere lasciato in vita? Roberto è stato tenuto in prigionia? Si sarebbe potuto salvare?
Il 30 dicembre era ancora vivo? Stando all’autopsia, la risposta verosimilmente è “si”. Il corpo di Roberto, ritrovato il 7 gennaio, non presentava i segni che avrebbe dovuto riportare se la morte fosse sopraggiunta 24 giorni prima. “Perché dopo dieci anni vengo a sapere che mio figlio è stato tenuto prigioniero per giorni mentre l’Italia intera parlava di lui ed è morto, quando poteva essere salvato?” Si chiede con profondo dolore il padre di Roberto?
Tutti insieme ai genitori di Roberto si augurano che la macchina della giustizia si metta doverosamente in moto ed il caso venga riaperto.
Dopo aver reso pubblica la truffa della falsa fidanzata di Roberto Cazzaniga, che è costata al pallavolista 13 anni di raggiri e 700.000 euro andati in fumo, una storia simile è stata denunciata alla trasmissione "Le Iene", e ha coinvolto un imprenditore sessantenne di Montelupone, proprietario di una ditta di trasporti, Fabrizio Cesini.
Nel luglio del 2019 ha conosciuto in chat una ragazza rumena che abita in un piccolo paesino agricolo vicino a Timisoara, 40enne e single. Fabrizio, che viveva da solo e stava cercando una donna che si occupasse della sua casa, le ha proposto di andare a vivere da lui. La donna ha accettato immediatamente l’offerta, chiedendo però di inviarle 180 euro per il biglietto aereo. I primi di una cifra molto più importante: 139 mila euro, che Fabrizio in due anni ha spedito in Romania.
Arriva il giorno della partenza: ma qualcosa va storto. La donna chiama Fabrizio, informandolo di essere partita in autobus , ma di essere stata fermata alla frontiera in Ungheria. Non l’hanno lasciata passare a causa di una vecchia storia. Ancuta, questo il suo nome, racconta di aver avuto in passato un incidente per guida in stato di ebbrezza, e di aver sfasciato l’auto dell’altro conducente. Non avendo ottemperato all’obbligo di risarcirlo di 4.500 euro, non le avrebbero permesso di lasciare il paese.
Contestualmente alla richiesta di denaro, Ancuta invia a Fabrizio messsaggi audio affettuosi: “Io tengo tanto tanto a te, tu lo sai che in Romania io non ho nessuno, ho solo te”; sino a giungere a dichiararsi: “ io ti amo e ti voglio bene”. Oltre ai messaggi audio, invia foto molto esplicite. Tutto ciò manda Fabrizio totalmente in tilt.
Nemmeno a dirlo, da questo momento il signor Fabrizio è un burattino nelle mani della donna, perdendo ogni capacità critica e di discernimento, nonostante persone fidate vicino a lui, come la sua segretaria, informate di quanto stava avvenendo lo mettessero in guardia. Ma l’uomo, manipolato e sicuramente desideroso di affetto e di interrompere il suo stato di solitudine, ha voluto credere sino all’ultimo agli artifizi e raggiri messi in atto dalla 40enne.
Sino alla messa in onda della trasmissione "Le Iene", Fabrizio non aveva ancora preso coscienza di essere una vittima. Per accettare questa realtà lo staff delle Iene lo ha portato fisicamente in Romania, nel paesino dove viveva Ancuta, alla ricerca della donna. Solo così l’imprenditore è riuscito ad affrontare e accettare la realtà.
Ancuta altri non era se non una donna con una grave dipendenza dal gioco che, una volta scoperta, non ha fatto nulla per nascondere le proprie responsabilità, svelando di fronte allo sguardo attonito di Fabrizio una dopo l’altra ogni sua messa in scena: trascorreva la maggior parte del suo tempo di fronte alle slot machine nel bar del paese, ed è proprio li che è stata ritrovata per il tramite del marito, che intercettato dalle telecamere della trasmissione ha creato il contatto.
Gli artifizi e i raggiri utilizzati per trarre in inganno Fabrizio, con il fine di procurarsi un ingiusto profitto a suo danno, integrano il reato di truffa, ex art. 640 codice penale. Le condotte poste in essere dalla donna sono state ideate così abilmente da essere idonee ad indurre in errore la vittima. Ad ogni inganno inscenato per chiedere l’intervento economico di Fabrizio, Ancuta inviava a Fabrizio documentazione fotografica e di ogni altro tipo, per dare prova della “verità” delle disgrazie che si abbattevano su di lei e sulle persone a lei care.
Un piccolo e limitato elenco delle spese ci può far rendere conto della fantasiosa regia della donna rumena:
- 1500 euro per il funerale del padre di Ancuta;
- 1500 euro per il funerle della nonna di Ancuta;
- 1500 euro per il funerale della mamma di Ancuta;
- cifra indefinita per cibo, beni di prima necessità, arredamento, per un’amica bisognosa di Ancuta, Anna Negrè, che vista la serie di lutti che aveva colpito Ancuta, è subentrata a lei nel progetto di occuparsi della casa di Fabrizio in italia;
- 1500 euro per il funerale di uno dei quattro figli di Anna Negrè. Il ragazzo di 16 anni telefonava sistematicamente a Fabrizio chiamandolo “papa’”
- 1500 euro per il funerale di Anna Negrè, che è morta di covid in 48 ore proprio mentre era in viaggio per raggiungere Fabrizio in Italia con i suoi figli;
Molti altri sono stati i soldi inviati da Fabrizio in Romania, e molti altri gli “attori” che hanno avuto un ruolo in questa truffa. Tanto più deprecabile perchè questo tipo di reato fa leva sull’emotività di un uomo, su sentimenti nobili come la generosità, la compassione, l’altruismo, e sulla fragilità creata dalla solitudine che spesso viene nascosta alle persone che fanno parte del proprio quotidiano, lasciando così spazio a chi, senza scrupoli, ne approfitta.
Per i dettagli è possibile rivedere il video de "Le Iene" cliccando il seguente link: clicca qui
È di ieri la notizia di un musicista 49enne, incensurato, arrestato per pedopornografia ad Ancona (leggi qui). La segnalazione giunta da un Organismo Internazionale ha allertato la Polizia Postale anconetana che, nel corso di una perquisizione locale e informatica coordinata dal Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni, Centro Nazionale per il Contrasto alla Pedopornografia online, ha scoperto un milione tra foto e video con minori tra i 6 ed i 13 anni coinvolti in atti sessuali con adulti, raccolte in vent’anni dal musicista. Immediato l’arresto in flagranza per l’uomo che in passato pare abbia dato lezioni di musica anche a ragazzi minori.
Internet e il dark web hanno portato ad un aumento esponenziale dei reati legati allo sfruttamento sessuale e mercificazione dei minori. Si sente parlare di pedopornografia online, ma dobbiamo ricordare che le immagini di abusi su minori scambiate nel web non sono virtuali: sono bambini veri vittime di violenza reale che vivranno con conseguenze psicopatologiche dell’abuso spesso devastanti e irreversibili .
I dati più recenti riportati dalla Polizia Postale sono di maggio 2021: nel 2020 c’è stato un incremento del 77% dei casi di reati online a danno di bambini e ragazzi. Nel primo quadrimestre del 2021 si sono verificati incrementi pari al 70% dei reati connessi con la pedopornografia e l’adescamento online rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. I minori, bambini piccolissimi sino a 9 anni, sono stati agganciati sui social e sulle app di gioco da adulti senza scrupoli.
È importante accorgersi tempestivamente se il proprio figlio è vittima di un adescamento. Alcuni segnali:
- Spesso le vittime utilizzano smartphone e pc in modo compulsivo, anche fino a tarda notte.
- I minori diventano aggressivi e nervosi se viene loro vietato l’utilizzo del loro supporto informatico, più invogliati a rimanere a casa che a frequentare gli amici o spazi aperti.
- Le vittime appariranno iper sessualizzate, rispetto alla loro età, accentuando la loro sessualità nell’abbigliamento, nel linguaggio o nel comportamento che si farà improvvisamente più disinibito.
- Potranno ricevere regali anche importanti da soggetti esterni al proprio ambito familiare.
Ancora una volta è necessario ribadire l’importanza della presenza attiva dei genitori o dei caregivers di riferimento del minore, specie nel monitoraggio dell’utilizzo di internet.
La Polizia Postale consiglia di intervenire al fianco dei propri figli attuando alcune precauzioni, tra le quali spiegare loro l’importanza di non fornire in rete l’identità, controllare i siti maggiormente frequentati, collocare il computer in una zona centrale della casa piuttosto che nella loro stanza, controllare periodicamente la cronologia e il contenuto dell’ hard disk del computer. L’elenco dettagliato e completo alla pagina seguente: clicca qui.
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“La truffa della falsa fidanzata di Roberto Cazzaniga: 13 anni e 700.000 euro in fumo”. Questi ed altri simili sono i titoli che in questi giorni hanno riportato il caso di cui è stato vittima il pallavolista azzurro Roberto Cazzaniga, che per ben 13 anni è stato plagiato, convinto di essere fidanzato con una ragazza che in realtà non esiste.
Come lui molti altri, anche nomi dello spettacolo come Flavia Vento, che ha creduto per mesi di chattare con Tom Cruise. In inglese si parla di “catfishing”: è un “catfish” letteralmente in italiano “pesce gatto” l’utente social che crea un account falso con l’unico scopo di raggirare e truffare gli altri utenti. Questo termine viene utilizato soprattuto nelle truffe romantiche. E’ a questo punto, quando si parla di truffe romatiche che si leva il coro di “ bisogna essere dei cretini io non ci cascherei mai”. Niente di più falso.
Il truffatore adesca la sua vittima ed inizia il corteggiamento con un vero e proprio “love bombing”, “bombardamento d’amore”: frasi seduttive, totalizzanti, che fanno sentire la vittima desiderata come mai prima. Una vera e propria manipolazione emotiva, attuata sulla base di dinamiche psicosociali, per entrare in intimità con la vittima sino a renderla dipendente. Questo “corteggiamento può durare anche settimane o mesi”. Ottenuta la totale fiducia della vittima, giungono puntuali le richieste di denaro.
Accade infatti che le vittime iniziano a chiedere un incontro con il loro amato/a che, fatalità, si troverà sempre nell’impossibilità di soddisfare questo desiderio: gravi malattie, proprie o dei familiari, gli /le impediranno qualsiasi spostamento. E proprio queste saranno le motivazioni poste alla base delle richieste economiche: la necessità di affrontare costosi interventi chirurgici salvavita, o la necessità di iniziare costosissime cure mediche.
La lontananza in questo tipo di reati gioca un ruolo fondamentale perchè favorisce l’inibizione e l’idealizzazione dell’altro da parte della vittima manipolata che in una misisone salvifica del suo amore “mai come prima”, si sentirà impegnata non solo moralmente, ma anche economicamente, come accade in una coppia vera e consolidata, al fianco del/della presunto/a partner.
Il fenomeno sta destando preoccupazione non solo in Italia ma anche a livello mondiale ormai da qualche anno. La Corte di Cassazione già nel 2019 ha condannato il comportomento di chi finge provare sentimenti per una persona per fini economici, riconoscendo così la truffa sentimentale perseguibile ai sensi dell'ex articolo 640 del codice penale. A livello mondiale organismi come l’FBI hanno istituito apposite unità anticrimine per il perseguimento di tali reati.
La truffa amorosa online è un crimine che sempre più sta diventando appannaggio della criminalità organizzzata e del terrorismo: organizzazioni capillari e strutturate che selezionano le vittime con l’obiettivo di farsi inviare denaro. Come difendersi? Innanzitutto non minimizzando questi episodi. Bisogna chiamarli con il loro nome: reati. Così come bisogna dare il nome corretto ai soggetti coinvolti: vittime e criminali. Può essere importante anche verificare le foto che vengono inviate, inserendole nel motore di ricerca Google per vedere se sono state prese dal web.
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Scrivere “ordinaria violenza” non è un refuso; e non si tratta solo di violenza di genere, di quella agita dagli uomini contro le donne, solo perchè donne. Un ragazzino di 15 anni è stato arrestato dai Carabinieri di Polignano a Mare per tentato omicidio ai danni di un coetaneo, “colpevole” di aver instaurato una relazione con una ragazzina che l’aggressore riteneva destinata a lui.
Il giovane aveva già aggredito il ragazzo con calci e pugni, dopo averlo minacciato di morte in almeno un altro paio di occasioni, sino a giungere al 23 novembre quando l’escalation criminale ha toccato l’apice: l’aggressore 15enne originario di Monopoli, in provincia di Bari, ha raggiunto Polignano, dove, intercettato il rivale seduto su una panchina, al termine di una violenta lite l’ha aggredito con un coltello a serramanico sferrando un fendente allo sterno.
Conclusa l’azione, avrebbe leccato l’arma ancora sporca di sangue, per vantarsene poi sui social. Sul profilo Instagram dell’aggressore i Carabinieri hanno accertato anche la presenza di immagini in cui simulava uno sgozzamento e foto raffiguranti un soggetto armato di coltello. Elementi questi che hanno confermato la pericolosità del soggetto tanto da chiederne l’arresto.
Parlare del problema dell’aggressività e della violenza negli adolescenti non aiuta a risolverlo. Per prevenire e arginare il fenomeno è oramai unanimemente riconosciuto come fondamentale il ruolo delle famiglie. In primis è necessaria la presa di coscienza da parte dei genitori, non così scontata, che gli episodi di violenza, di bullismo, che i figli adolescenti usano nei confronti dei coetanei non sono “ragazzate” o “goliardate”: e di ciò è necessario prendere atto, ben prima di giungere ad episodi di sangue come quelli raccontati dalla cronaca nera.
Certamente per fare ciò è necessaria una costante e attiva presenza da parte dei genitori: l’attenzione a cogliere i primi atti violenti deve essere massima. Se da un lato può essere normale che nel periodo adolescenziale si manifestino scontri in famiglia nella ricerca e definizione della propria individualità, è altrettanto vero che gli adulti dovrebbero imparare a comunicare e condividere pensieri ed emozioni con i figli, di più e più spesso, per entrare nel loro mondo e nel loro vissuto interiore in un periodo così carico di mutamenti fisici, emotivi, relazionali e sociali.
Altrettanto importante è trasmettere ai figli sin da piccoli la capacità di tollerare le frustrazioni: in tal senso non assecondare immediatamente le richieste di un bambino, ma insegnargli a ricevere dei “no” porrà le basi per un adulto resiliente. Spesso la violenza e la rabbia sono generate dall’incapacità di affrontare il rifiuto.
Certamente poi, l’esperienza comunicativa che un adolescente avrà fatto in casa con la sua famiglia, sarà per lui modello relazionale da ripetere al di fuori con i suoi coetanei: quindi se il comportamento aggressivo viene percepito già in famiglia come una norma, certamente sarà molto più difficile combatterlo.
Prepotenza, in vocabolario Treccani: “carattere, atteggiamento di chi è prepotente, di chi, in modo del tutto arbitrario, vuole imporre la sua volontà, anche ricorrendo a coercizioni e soprusi”. Chi di noi almeno una volta nella vita, non si è imbattuto in soggetti prepotenti? Tra i conoscenti, gli amici, i colleghi, in famiglia. La prepotenza, sinonimo di aggressività, arroganza, prevaricazione, sopraffazione, è il comportamento di quei soggetti che pretendono di avere sempre ragione, anche di fronte all’evidenza contraria, e utilizzano, sfruttano, strumentalizzano chiunque e qualsiasi situazione per ottenere il loro esclusivo interesse e tornaconto.
Questo atteggiamento viene utilizzato in ogni ambito ed è spesso erroneamente associato al concetto di forza. Gli esperti dicono al contrario che, con prepotenza, agiscono soggetti profondamente insicuri, incapaci di autocritica e di relazioni sane. I prepotenti provano piacere solo nel tiranneggiare l’altro. La prevaricazione è per loro linfa vitale: scorrettezza, manipolazione, menzogne sono gli strumenti che utilizzano per raggiungere questo loro agognato risultato finale.
Spesso si celano dietro parole di giustizia e si innalzano a “detentori di verità assolute” e, spesso, chi ha a che fare con loro, pur avendo un’onestà intellettuale sconosciuta a tali soggetti, si ritrova incapace di gestire emotivamente e lucidamente la “relazione patologica” che propongono tali individui. Esiste un modo corretto per reagire ai prepotenti? Il primo, il più efficace è stare lontani il più possibile da questa categoria di persone.
Non sempre tuttavia ciò è possibile: il prepotente potrebbe essere un membro della famiglia, un collega di lavoro dal quale non è possibile allontanarsi. In questi casi imparare a reagire nel modo corretto è di vitale importanza per non farsi intossicare la vita. Gli esperti consigliano di rispondere alla prepotenza con:
- Una reazione calma e lucida: questi soggetti mirano a far perdere il controllo all’altro, per sentirsi legittimati a rispondere a tono. Non cadere nel loro gioco è il primo passo fondamentale. Mantenere la calma e non cedere alle provocazioni create ad hoc. Ciò non significa non reagire, sarebbe dannoso; ma farlo comunicando la propria posizione con assertività.
- Autostima: non dimenticare e non rinunciare mai ai propri diritti per paura di peggiorare la situazione. Il prepotente non cambierà mai atteggiamento se viene assecondato nelle sue illegittime pretese di potere, anzi vedrà nel suo interlocutore uno zerbino da continuare a calpestare.
- Ironia: usato in modo appropriato, l’umorismo trasmette sicurezza e padronanza della situazione e potrebbe contribuire a ripristinare l’equilibrio di ruoli tra le parti.
Torna l'appuntamento con la rubrica settimanale "La Strada delle Vittime", nella quale si affronta l'analisi della casistica criminale con approccio vittimologico. Di seguito proponiamo il caso di questa puntata.
Elisa Mulas, 43 anni di origine sarda, i suoi due figli Ismaele e Sami di 2 e 5 anni, la mamma di lei, Simonetta di 63 anni: tutti massacrati a coltellate da Nabil Dhari, 38 anni, padre dei due bambini ed ex compagno di Elisa. L’uomo prima di ammazzarsi, ha risparmiato solo il bisnonno 97enne, oggi unico testimone del massacro.
La notizia della tragedia si è immediatamente diffusa e moltissime persone si sono riversate incredule nella via dove si trova l’abitazione della famiglia. Tanti i gesti di amici e conoscenti per ricordare le povere vittime: messaggi, peluches, biglietti, fiori depositati fuori dalla casa dove è avvenuto il massacro parlano della solidarietà di un intero Comune sconvolto dall’accaduto.
Ed è così, in quella via Manin teatro della tragedia, che sono state raccolte le prime informazioni sulla vita che conduceva la giovane donna che ha strenuamente lottato per proteggere i figli senza riuscire a salvarli. "Ho incontrato Elisa due settimane fa, mi aveva detto di essere finalmente riuscita a lasciarlo, facedomi ascoltare un audio che lei stessa aveva registrato nel quale Nabil diceva di volerla uccidere" riferisce un’amica.
Minacce e vessazioni intollerabili, quelle subite da Elisa, da quando aveva deciso di porre fine alla relazione con l’uomo e di andare ad abitare, insieme ai figli, a casa della madre. Elisa è stata una delle tante donne che scelgono di sopportare in silenzio, senza denunciare, senza rivolgersi ad un centro anti violenza. I dati Istat dicono che in Italia una donna su tre è stata vittima della violenza di uomo almeno una volta nella vita e che, nella maggior parte dei casi, queste violenze non sono state denunciate.
I centri antiviolenza ci dicono che le donne non denunciano i loro aggressori, se non dopo aver trascorso molti anni in una relazione violenta sino ad esserne logorate fisicamente e psichicamente. La causa della non denuncia delle donne sta nella violenza psicologica che sopportano. Questa forma di violenza facilmente sfocia in quella fisica; mira a distruggere l’emotività della vittima, a indebolirla in modo da renderla facile alle manipolazioni.
Svalutazioni continue, colpevolizzazioni, minacce, intimidazioni, dipendenza economica, isolamento sociale sono alcuni dei volti della violenza psicologica, che trascinano la vittima in stati depressivi, attacchi di panico, scarsa autostima, disturbi dell’alimentazione. Uno stato di prostrazione tale da renderle sempre più impaurite e succubi del loro carnefice che in questo modo le controlla incutendo anche il terrore di sporgere denuncia per le ritorsioni che si troverebbero a sopportare.
Solitamente la maggior parte delle donne che subisce violenza e maltrattamenti in ambito domestico e che resta a lungo in questa situazione, si percepisce inferiore rispetto al suo aggressore, e tale senso di inferiorità corrisponde secondo gli esperti ad una percezione distorta dell’io e della propria immagine.
Era la notte del 18 novembre 1989 quando Denis Bergamini, 27 anni, centrocampista del Cosenza, alla vigilia della sfida contro il Messina venne ritrovato senza vita lungo la strada 106 Jonica. Il caso venne archiviato frettolosamente come suicidio: venne dato credito alla testimonianza dell’ex fidanzata Isabella Internò che sostenne sin dall’inizio questa tesi. Per le ricostruzioni dell’epoca quindi il calciatore si sarebbe buttato sotto un camion e sarebbe stato trascinato per 60 metri.
Il caso venne riaperto nel 2011 dalla Procura di Castrovillari grazie alla famiglia, alla tenacia della sorella gemella di Denis in particolare, che non aveva mai creduto alla tesi del suicidio: Denis stava bene, la sua brillante carriera lo stava portando a fare il grande salto in serie A, con probabile destinazione Fiorentina di Roberto Baggio. Secondo la nuova ricostruzione sul caso riaperto vent’anni dopo, attraverso la riesumazione del corpo, l’autopsia e le indagini scientifiche disposte nel 2017, è emerso che Denis sarebbe stato narcotizzato o asfissiato; il suo corpo successivamente spostato sulla strada per inscenare un incidente stradale.
Ad oggi proprio l’ex fidanzata di Bergamini, Isabella Internò, 19 anni all’epoca dei fatti, resta l’unica indagata con l’accusa di omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi: avrebbe ucciso Bergamini attirandolo con una trappola, per poi inscenare il suicidio con l’aiuto di altre persone. Il movente sarebbe stato l’incapacità della Internò di accettare la volontà del ragazzo di interrompere la relazione con lei. Ad aprile di quest’anno la Procura di Castrovillari ha chiesto il rinvio a giudizio per la Internò. La prima udienza si è tenuta il 25 ottobre. La seconda si terrà il 25 novembre prossimo, quando verranno ascoltati oltre 220 testimoni.
Microsoft lancia la piattaforma 3D per riunioni virtuali, che sarà disponibile dal 2022, dopo che Mark Zuckerberg ha ribattezzato “Meta” la sua compagnia. Metaverso, avatar 3D, ambienti virtuali: l’appuntamento non sarà più in sala riunioni, ma le persone si incontreranno in spazi virtuali.
Il Metaverso è un universo virtuale in cui sono presenti quasi tutte le attività giornaliere di un essere umano: riunioni, sport, pranzi, concerti, giochi, tutto in versione 3D e tutto alla portata di tutti con un click e una serie di strumenti fondamentali per vivere questa “realtà”. Per immergersi in questi spazi, sarà possibile creare un avatar virtuale con le “stesse caratteristiche di movimento e gestualità dell'utente”. L'avatar sarà disponibile nelle riunioni online anche quando la fotocamera è spenta.
Nicole Herskowitz, direttore generale di Microsoft Teams, spiega: “ Siamo stati colpiti dalla fatica nel mondo virtuale, dopo 30 o 40 minuti al massimo in una riunione, è molto difficile rimanere coinvolti e concentrati". Accanto a chi è in trepidante attesa di affollare questi nuovi spazi, ci sono anche i molti preoccupati per il futuro della nostra società.
Tra questi l’ex CEO di Google, Eric Schmidt, che dopo la presentazione del Metaverso di Facebook, in un colloquio con il New York Times ha affermato: "Tutte le persone che parlano di metaversi parlano di mondi che sono più soddisfacenti del mondo attuale: sei più ricco, più bello, più interessante, più potente, più veloce. Quindi, in alcuni anni, le persone sceglieranno di trascorrere più tempo con gli occhiali nel metaverso. E chi deciderà le regole? Il mondo diventerà più digitale che fisico. E questa non è necessariamente la cosa migliore per la società umana".
Fare la spesa al supermercato o andare a fare shopping nei negozi, andare in palestra o al cinema, tutto avverrà senza alzarsi dalla sedia, senza uscire di casa: nel metaverso si potranno anche comprare oggetti virtuali da indossare “in rete” con gli amici o da utilizzare nella quotidianità. Un avatar diventerà la nuova identità dell’essere umano, allontanandolo ancora di più dalla realtà e dal mondo delle sensazioni e delle percezioni che si possono sviluppare solo nel sociale, nell’incontro e nel confronto con l’altro. Quali relazioni ci prepariamo a creare con il “prossimo”? Quali nuove forme di patologie mentali dovremo affrontare?
Torna l'appuntamento con la rubrica settimanale "La Strada delle Vittime", nella quale si affronta l'analisi della casistica criminale con approccio vittimologico. Di seguito proponiamo il caso di questa puntata.
“Scusate vi voglio bene a tutti mi manca la mia famiglia sono sola questo essere mi ha portato all’esasperazione la polizia e carabinieri di trapani sembrano ke vadano d accordo con lui stasera farò qualcosa ke non avrei mai pensato vi amo xdonatemi”. Queste le parole postate su Facebook da Vanda Grignani, la donna di 45 anni che nella notte tra il 30 ed il 31 ottobre ha ucciso con una coltellata il convivente Cristian Favara, nell’appartamento in cui vivevano insieme, in pieno centro storico a Trapani, alle spalle della Cattedrale.
Ascoltata dal Pm, la donna ha raccontato di una storia malata, fatta di abusi, tossicodipendenza e violenze mai denunciate. "Mi picchiava continuamente, ormai la mia vita era diventata impossibile" sono le parole pronunciate subito dopo l’arresto.
Quella sera, all’ennesima litigata, la 45enne, nel tentativo di allontanare l’uomo che la stava aggredendo con una sedia, gli avrebbe sferrato un colpo all’addome con un coltello da cucina; ha poi chiamato i Carabinieri dichiarando di aver colpito per difendersi.
Durante l’interrogatorio la donna, ora in carcere dopo che il GIP ha convalidato l’arresto disponendo la misura cautelare, avrebbe raccontato che "nelle ultime settimane la relazione era diventata assai difficile al punto da chiedere più volte aiuto alla polizia". Effettivamente è stato accertato che già diverse volte, almeno sette, le Forze dell’Ordine erano intervenute per sedare le violente liti della coppia, e ogni volta era stata sempre la donna a telefonare.
Cristian Favara stava scontando una condanna per omicidio colposo, per aver ceduto una dose letale di droga ad una giovane, morta di overdose nel 2016. Era agli arresti domiciliari, con il permesso di uscire solo per il lavoro.
Lui, un uomo violento, con problemi di droga, già condannato per omicidio colposo, agli arresti domiciliari. Lei, una donna che dice di essere giunta all’esasperazione, che non ha mai denunciato la relazione malata e violenta che si trova a vivere.
Gli amici, i parenti i conoscenti di Vanda, informati di una situazione così tesa nella casa della coppia, quando si sparge la notizia del delitto di Trapani, nell’immediatezza addirittura alcuni di loro scrivono sul profilo messaggi e commenti pensando che la vittima sia lei e non il convivente.
Disagio, solitudine, violenza, isolamento, disattenzione, paura, fanno parte del microsistema della coppia e del macrosistema in cui è inserita; anche da ciò sono partite le dinamiche che hanno condotto all’atto criminoso: un tragico epilogo in cui la vittima si confonde con il carnefice e viceversa. Un ‘altra triste storia dalla fine (forse?) preannunciata...
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Una famiglia dell’alta borghesia romana nel 2002 è stata distrutta da un atroce delitto. Elena e Gaspare Gabriele, docente in pensione lei, commercialista lui, avevano cresciuto con amore ed estrema cura e dedizione i loro due figli: Laila, la maggiore, che già da tempo viveva a Milano con il marito, ed Aral, 27 anni al tempo dei fatti, sul quale si concentravano le attenzioni della coppia.
Aral, laureando in legge all’Università di Camerino, volontario per il servizio civile presso un centro per disabili, veniva descritto da tutti come un ragazzo gentile e sensibile.
Il 22 marzo del 2002 il ragazzo, che abitava nell’appartamento al piano superiore del lussuoso edificio in cui vivevano i genitori, preoccupato perchè non li vedeva da due giorni, è sceso a cercarli: terribile, a suo dire, la scoperta che ha fatto varcando la soglia della loro camera da letto: due sacchi neri ai piedi del letto, con la forma inequivocabile di corpi umani, a terra. Una telefonata alla sorella: "Papà e mamma sono nei sacchi”.
Gli inquirenti si misero subito al lavoro: nessun segno di effrazione nell’appartamento, tutto era perfettamente in ordine, nulla era stato rubato o spostato. Nessun segno di colluttazione. Nessun elemento ha parlato della presenza di un terzo estraneo nell’abitazione.
Le analisi svelarono che marito e moglie erano stati narcotizzati con un potente sonnifero e avevano trovato la morte per soffocamento in quei sacchi di plastica della spazzatura.
Intercettate le conversazioni tra Aral e la sorella, fu proprio da esse che emerse l’elemento chiave, quello che per gli investigatori e per la pubblica accusa era stato il movente: Aral aveva raccontato una menzogna ai suoi genitori, era sul punto di laurearsi. Ma la realtà era diversa: tutti quegli esami conclusi brillantemente a Camerino non erano davvero mai stati sostenuti e la richiesta di tesi non era quindi mai avvenuta.
Aral aveva alterato il libretto universitario mentre il padre, pieno di aspettative per quell’evento, sulla sua agenda già da tempo trascriveva i presunti successi del figlio.
Un’impronta rinvenuta all’interno di uno dei due sacchi neri contenenti i corpi, che si è accertata essere stata lasciata da una scarpa di Aral, ha confermato i sospetti degli inquirenti ed ha aperto le porte del carcere al ragazzo che, nel 2005, è stato condannato a 28 anni per l’omicidio premeditato dei genitori. Ad oggi dal carcere Aral continua a professarsi innocente.
La risposta al perché di un atto così estremo risiede nella storia personale di ogni figlio assassino. Non bisogna necessariamente andare alla ricerca di un evento traumatico.
“La violenza generalmente è l’atto finale di qualcosa che non ha funzionato nello sviluppo relazionale” spiega una neuropsichiatra infantile. Un figlio che non ha il coraggio di affrontare le conseguenze delle sue mancanze, delle sue bugie, scegliendo di eliminare invece i genitori, è un figlio che preferisce eliminare i testimoni della sua debolezza e fragilità, quasi a tentare di negarle anche a se stesso.
Vittima di una truffa un ottantenne affetto da deficit cognitivo, e per questo facilmente raggirato e truffato dalla badante e dal compagno di lei.
La donna si è appropriata di un appartamento e di 200 mila euro, approfittando dello stato dell’anziano, vedovo e senza figli. Avrebbe raggirato il pensionato riuscendo a farsi firmare le carte del matrimonio, visto che risultava con lui coniugata in regime di comunione di beni dal febbraio 2020.
Le indagini che hanno portato all’arresto della donna e del suo compagno sono partite grazie alla denuncia di una nipote dell’uomo cui la badante, nel tempo, era giunta a vietare l’accesso in casa dello zio e che era stata bloccata sul telefono di lui, tanto da non riuscire più nemmeno a mettersi in contatto telefonico con il parente.
In tutta Italia sono ormai attive campagne di prevenzione per il contrasto alle truffe agli anziani visto il dilagare del fenomeno, e anche nel nostro territorio sono state già numerose le iniziative adottate a tutela degli anziani, spesso soli e vittime di truffe: anche i Carabinieri dei diversi Comuni del Maceratese si sono spesi per sensibilizzare la popolazione in diverse occasioni, anche intervenendo nelle Parrocchie al termine delle messe domenicali, per arginare la piaga delle truffe ai nostri cari più deboli e per questo più facilmente raggirabili (leggi qui).
E’ necessario inoltre ricordare che l’anziano, anche laddove realizzi di essere stato raggirato, potrebbe per pudore o timore non parlarne con i propri congiunti. L’Italia è un Paese in cui l’età media è in continuo aumento e un numero sempre più importante di soggetti si trova in condizione di vulnerabilità e quindi di maggior rischio truffe.
I militari dell’Arma nel caso di deficit cognitivi degli anziani consigliano “di fare periodicamente visita agli stessi, e controllarne periodicamente gli estratti conto. Prelievi anomali o eccessivamente frequenti, in assenza di spese documentate, sono un campanello di allarme.”
“Il supporto psicologico è di fondamentale importanza per un anziano che ha subito una truffa”, riflette il Prof. Antonino Giorgi, psicologo psicoterapeuta e vittimologo, docente all’Università Cattolica di Brescia che tra le altre specializzazioni ha quella in psicogeriatria.
“L’anziano, soprattutto se isolato, è più fragile e meno resiliente: dopo un evento del genere è difficile reagisca in maniera proattiva. La sofferenza psicologica che ne deriva potrebbe sfociare in un disturbo post traumatico da stress, in un disturbo d’ansia, in un disturbo del ciclo sonno-veglia o in uno stato depressivo, solo per citarne alcuni” chiarisce il Prof. Giorgi.
È perciò importante tutelare i nostri anziani, prestare loro ascolto e farli sentire liberi di narrare i loro malesseri o le loro difficoltà senza che si sentano giudicati come “inadeguati”.
Torna l'appuntamento con la rubrica settimanale "La Strada delle Vittime", nella quale si affronta l'analisi della casistica criminale con approccio vittimologico. Di seguito proponiamo il caso di questa puntata.
“Sua madre si tirava i pugni in pancia quando era incinta. Ha minacciato di dargli fuoco. Solo per questo avrebbero già dovuto toglierlo a lei”. Queste sono le accuse mosse alla ex compagna dal papà di Alex, un bellissimo bambino di due anni, ucciso a Città della Pieve lo scorso 1 ottobre.
Il primo ottobre la madre del piccolo è entrata in un supermercato della zona ed ha messo il corpicino già privo di vita del figlio sul nastro trasportatore della cassa. Un corpicino straziato da 7 coltellate.
Gli inquirenti hanno ritenuto ci fossero gravi indizi per affermare la colpevolezza della donna. La 44enne di origini ungheresi si trova oggi in carcere con l’accusa di omicidio, mentre lei continua a proclamare la sua innocenza.
Dopo la morte del piccolo, Katalina, questo il nome della madre, avrebbe inviato tramite un social, la foto del cadavere del piccolo al padre in Ungheria, che alla vista di quell'immagine ha allertato tutte le autorità competenti.
Gli inquirenti ipotizzano che dietro la morte del piccolo ci sia una vendetta tra ex coniugi: l’autorità giudiziaria ungherese aveva revocato alla madre la custodia del figlio, stabilendo che la donna potesse incontrarlo solamente per 6 ore al mese, ma con la presenza di assistenti sociali. Katalina sarebbe per questo scappata in Italia e il padre Norbert Juhasz ha chiesto aiuto alla polizia ungherese, denunciando la scomparsa.
Il padre di Alex afferma: “Ha rapito il mio Alex il giorno in cui avrebbe dovuto consegnarmelo perché il tribunale lo aveva affidato a me, è scappata in Italia e lo ha ucciso e poi ha confessato di averlo ammazzato in un messaggio a un amico. Lui mi ha chiamato ed è andato subito alla polizia ungherese, ma era già troppo tardi. Katalina gli ha anche mandato una foto del bimbo pieno di sangue e ha scritto 'adesso non sarà più di nessuno".
Non è il primo caso di cronaca in cui una madre viene ritenuta colpevole di aver ucciso il proprio figlio: pensiamo al primo caso mediatico del genere, il delitto di Cogne, per il quale venne accusata di omicidio volontario la madre del piccolo Samuele, Annamaria Franzoni. A 19 anni dal terribile delitto la donna, che dopo anni di detenzione è ritornata in famiglia, non ha mai confessato la sua colpevolezza mentre gli esperti, nel giugno del 2006, conclusero che la Franzoni avrebbe sofferto di un grave disturbo di personalità e avrebbe compiuto il delitto in uno “stato crepuscolare” per cui può aver ucciso il suo bambino ma l’avrebbe rimosso.
Pensiamo al caso di Loris Stival, strangolato con delle fascette di plastica dalla madre Veronica Panerello per la quale la Cassazione, nel 2019, ha confermato la condanna a 30 anni di carcere.
Perchè le madri uccidono i figli?
Ragioni molteplici legate a fattori personologici, culturali, o psicopatologici. Se il fattore psicopatologico è la motivazione più “rassicurante” per l’opinione pubblica, perchè “giustifica” con la malattia mentale un gesto che altrimenti non può essere tollerato in alcun modo, non si può nascondere che esistano anche madri spinte da motivazioni razionali, come la vendetta per punire il partner che le ha tradite o abbandonate.
Ciò non significa che queste donne siano perfettamente lucide nel momento in cui tolgono la vita al proprio figlio. Entrano piuttosto in uno stato dissociativo in cui l’emozione che le guida è totalizzante e distruttiva.
Un’emozione devastante che, spesso, prende forma da relazioni familiari irrisolte, e anzi gravemente compromesse. “E' difficile, prendersi cura di qualcuno, se ancora hai bisogno che qualcuno si prenda cura di te.”
Roma: Traffico della droga dello stupro, arrestate sei persone: spacciavano in monopattino anche medici e professori universitari. Consegnata direttamente in abitazioni nel centro di Roma, in palazzi signorili fra piazza Navona e piazza Venezia, tra i clienti principali c’erano anche accademici dottori ballerini e sportivi.
Torino: Polizia sequestra ad una coppia di spacciatori un quantitativo di "droga dello stupro “sufficiente per il confezionamento di 900 dosi. Due italiani, un uomo e una donna di 34 anni, sono stati arrestati per detenzione ai fini di spaccio di circa 600 grammi di Gbl. Era in vendita su un sito di e-commerce come "detergente liquido”.
Genova: stava per imbarcarsi a bordo di un maxi yacht ormeggiato a Genova in partenza per una crociera, con due litri di droga dello stupro. In manette un ingegnere di 44 anni che faceva parte dell’equipaggio come addetto alla gestione della strumentazione tecnologica.
Prato: esplode lo scandalo del prete che ha acquistato litri di droga dello stupro con i soldi dei fedeli per utilizzarla nei suoi festini hard.
Questo il bilancio degli ultimi 10 giorni che fa comprendere l’estensione del fenomeno.
Di cosa stiamo parlando? Della droga composta dall’acido gamma-idrossibutirrico o GHB, o di quella composta da GBL (gamma-butirrolattone), che viene utilizzato ancora più spesso nella commissione di reati sessuali.
Queste sostanze sono inodori, incolori, idrosolubili e per questo facilmente diluibili in acqua e bevande. Gli effetti intervengono dopo i primi 5 /10 minuti dall’assunzione e possono durare da 1 a 3 ore. Dosi elevate provocano stordimento, forte sonnolenza, difficoltà di coordinazione dei movimenti; nei casi più gravi convulsioni, collasso, coma. Può mettere chi la assume totalmente in balia degli altri, fa perdere i freni inibitori, per questo viene usata per adulterare le bevande e poi violentare le vittime che spesso il giorno successivo non ricordano quanto accaduto. Proprio per questo, molte di queste violenze possono essere scoperte e perseguite solo in presenza di segni evidenti, come lividi sul corpo, biancheria o vestiti strappati, dolori persistenti anche il giorno successivo, proprio perché le vittime non ricordano nulla: nel caso si visualizzassero video di sicurezza, le vittime potrebbero sembrare addirittura consenzienti: lo stordimento provato è solo mentale; mentre il fisico risponde, è il cervello ad essere “spento”.
Gli ingenti quantitativi che circolano anche in Italia di queste droghe, finalizzati alla commissione di crimini, il loro basso costo sul mercato e la facilità con cui vengono reperiti anche dai più giovani rendono necessaria una capillare, esplicita e oggettiva informazione, su rischi e pericoli che queste sostanze procurano.
“Cosa sta accadendo con tutte queste tragedie?” si chiedeva una lettrice, alla notizia della donna che ieri mattina è precipitata da una struttura del cimitero di Macerata, parrebbe per un gesto volontario.
Ad oggi non conosciamo molto della vita di questa donna, ma inevitabilmente il pensiero va alle tante vittime di suicidio degli ultimi tempi, e alle loro storie, emerse a posteriori. Storie che spesso parlano di solitudine. Abbiamo affrontato più volte questo argomento: il dramma della solitudine.
E molti sono stati i commenti: alcuni, anche attraverso il racconto di esperienze dirette, hanno confermato quanto l’isolamento sociale, anche tra gli stessi vicini di casa, stia diventando un fenomeno dolorosamente diffuso; altri commenti hanno invece focalizzato l’attenzione sul fatto che l’incapacità di chiedere aiuto sia un limite personale da superare.
Rispettando qualsiasi veduta e posizione, desideriamo dare atto però dei dati oggettivi, purtroppo drammatici, e delle interpretazioni che ne danno gli esperti: potrebbe servire per riscoprirci capaci di quello “sguardo sull’altro”, fondamentale per salvargli la vita. Ciò non significa “colpevolizzarci” ma “responsabilizzarci”, riconoscendo il problema, parlandone.
Telefono Amico Italia è un’organizzazione di volontariato che dal 1967 “dà ascolto a chiunque provi solitudine, angoscia, tristezza, sconforto, rabbia, disagio e senta il bisogno di condividere queste emozioni con una voce amica.”
Il 10 settembre è stata la giornata Mondiale per la prevenzione del suicidio. I dati raccolti e pubblicati in quest’occasione da Telefono Amico ci dicono che “confrontando il primo semestre del 2020 e quello del 2021 emerge, infatti, un aumento percentuale delle segnalazioni legate al suicidio di oltre il 50%”.
Nella prima metà del 2021 sono state quasi tremila le persone che si sono rivolte all’organizzazione perché attraversate dal pensiero del suicidio o preoccupate per il possibile suicidio di un proprio caro, quasi il triplo rispetto alle segnalazioni del periodo pre Covid. Secondo i dati raccolti dall'organizzazione, il 51,2% delle richieste d'aiuto arriva da donne, seguite da giovani tra i 19 e 25 anni (21,3%) e tra i 26 e i 35 (19,6%).
Ed è la professoressa Gatta, Direttrice dell’Unità Operativa di Neuropsichiatra Infantile dell’Azienda Ospedale-Università di Padova ad aver contribuito a chiarire questi dati: “Se si pensa che ai fini della salute mentale hanno rilievo vari fattori – tra i quali, le relazioni sociali, la partecipazione all'ambiente collettivo e l’adattamento alle condizioni esterne, una percezione positiva di sé, un equilibrio del mondo interno e la consapevolezza di proprie emozioni, sentimenti e modalità relazionali – è facilmente comprensibile come la pandemia da Covid-19, che ha comportato stress e incertezze per il futuro, solitudine, isolamento sociale, cambiamento delle abitudini e delle routine con perdita dei riferimenti, riduzione delle interazioni e delle attività, possa aver impattato negativamente sulla salute mentale delle persone negli ultimi 18 mesi, specie coloro con meno risorse interne ed esterne».
La giornata mondiale del 10 settembre è legata proprio alla prevenzione del suicidio. Ed in questa ricorrenza la Professoressa ha spiegato quali siano i segnali cui prestare attenzione.
«I segnali a cui prestare attenzione sono quelli che ci dicono che la persona soffre psicologicamente in modo intollerabile e insopportabile e si sente senza soluzioni e senza possibilità di aiuto, quindi, ad esempio, cambiamenti affettivo-comportamentali, soprattutto chiusura e ritiro; verbalizzazioni di autosvalutazione e negativismo estremi; demotivazione e disinvestimento da attività, oggetti, persone; autolesionismo».
«È importante parlarne, evitare che la persona si senta sola, ed eventualmente attivare un percorso di valutazione psicologico-psichiatrica» conclude la professoressa.
Una bimba di tre anni, si chiama Sara e ha un tumore raro: un neuroblastoma maligno al quarto stadio, che colpisce i bambini sotto i 5 anni. Possibilità di guarigione al 50%. Il papà segue ovunque la sua piccola, che da maggio entra ed esce dall’ospedale. Per questo è rimasto senza lavoro.
“Io e la mia compagna”, racconta papà Mattia ad un giornale locale della sua città, Faenza "lavoravamo come driver, facevamo le consegne per un fast food di Faenza. In due riuscivamo a portare a casa circa 800 euro, e avendo un affitto di 450 euro al mese da pagare e un altro figlio di 11 anni già così arrancavamo; per fortuna le nostre famiglie ci hanno sempre aiutato anche se nemmeno loro navigavano nell’oro".
"Ora però io devo continuare a portare Sara a Rimini per fare le sedute di chemioterapia e le trasfusioni, che a volte durano anche 48 ore. La mia compagna deve seguire l’altro figlio che ora ha iniziato la scuola, per cui lavora meno e se a fine mese riesce a portare a casa 200 o 300 euro è già molto. Abbiamo esaurito i risparmi, qualche parente ci ha dato una mano, ma per noi è difficile anche solo affrontare un viaggio da casa all’ospedale” ha aggiunto Mattia.
Leggi l'intervista integrale su “Ravenna Today".
Chiunque volesse aiutare Mattia e la sua famiglia può visitare la pagina Facebook “La piccola Sara”.
Manca un mese per l’inizio dei lavori del Sinodo dei Vescovi, voluto da Papa Francesco, ed è uscito il documento preparatorio della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
Si legge nel testo del documento: “Non possiamo nasconderci che la Chiesa stessa deve affrontare la mancanza di fede e la corruzione anche al suo interno. In particolare non possiamo dimenticare la sofferenza vissuta da minori e persone vulnerabili a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate”.
Nel 2002, grazie al quotidiano “The Boston Globe”,è emerso lo scandalo che ha travolto l’arcidiocesi di Boston, città simbolo del cattolicesimo americano, con l’accusa di pedofilia nei confronti di 78 preti, oltre al Cardinale Bernard Law che li ha protetti. Il caso è diventato un film nel 2015 “Il caso Spotlight”. Meritatamente il Globe conquistò il Premio Pulizer di pubblico servizio nel 2003 e aprì a numerose indagini sui casi di pedofilia all’interno della Chiesa cattolica.
In Italia negli ultimi quindici anni tra condanne passate in giudicato e procedimenti ancora aperti il numero è 298. Di questi 144 sono quelli che hanno già confessato o sono stati già giudicati colpevoli nei tribunali.
A denunciarlo è Francesco Zanardi, fondatore e presidente della Rete Abuso che, attraverso un blog seguitissimo, denuncia gli abusi compiuti dai sacerdoti.
Su oltre 50.000 prelati italiani, il numero dei pedofili varierebbe tra i 1000 ai 4000.
Spesso i reati subiti dai minori, vengono denunciati a grande distanza di tempo dalla loro consumazione, e per questo, secondo la legge Italiana, cadono in prescrizione.
Ciò significa che i Tribunali possono riconoscere colpevoli i preti pedofili; le violenze possono essere provate in sede processuale, così come possono essere provati i danni psichici causati dai continui abusi.
Tuttavia i rei non sconteranno nemmeno un giorno della loro pena, proprio per l’istituto della prescrizione che estingue il reato: in pratica l’illecito non può più essere punito perchè è trascorso un certo periodo di tempo, previsto dalla legge, per cui lo Stato esaurisce la propria pretesa a perseguirlo.
Uno su tutti il caso messo in luce da Fanpage nel 2017, sugli abusi cui sono stati sottoposti alcuni bambini sordi ex allievi dell’Istituto Provolo di Verona, una struttura religiosa per sordomuti.
Nel 2009 tutti gli abusati, ormai adulti, hanno sporto denuncia per violenze e molestie sessuali perpetrate dai preti quando erano bambini.
La magistratura italiana ha considerato tutti i reati come prescritti e non ha mai aperto un’inchiesta, mentre oggi, oramai adulti, “quei bambini” raccontano delle brutali violenze cui venivano sottoposti all’età di 6 anni, quando la loro disabilità impediva anche di raccontare. “Non ho mai urlato” dice un ragazzo, “essendo sordo non riuscivo neanche a parlare” . E’ grazie ad apparecchi acustici di ultima generazione che oggi possono raccontare.
Ingestibile lo sgomento che si prova ascoltando la confessione di uno degli autori delle brutali molestie, che intervistato ammette: “abusavamo dei bambini sordi, eravamo almeno in dieci”.
E’ ormai risaputo, scientificamente accertato che un bambino abusato dovrà affrontare conseguenze devastanti, uno shock psicologico tremendo tanto più perchè incapace di comprendere ciò che sta accadendo. Dall’altra parte, nelle confessioni del carnefice, non un minimo di rammarico, di ravvedimento, di assunzione di responsabilità per le atrocità commesse.
E’ questo uno di quei casi in cui viene spontaneo chiedersi... esiste davvero la giustizia?
Il 13 Settembre ricorre una data importante nella storia della lotta alla mafia.
È la data dell’approvazione in Parlamento della legge 109/1082 La Torre- Rognoni, avvenuta il 13 Settembre 1982. La legge introdusse per la prima volta il reato di associazione mafiosa, art 416 bis c.p. punendola molto più severamente della “semplice associazione a delinquere” e la conseguente previsione di misure patrimoniali che consentirono di togliere ogni profitto derivante da azioni illecite a chi era indiziato di appartenere ad associazioni criminali di stampo mafioso.
L’Onorevole Pio La Torre, sindacalista prima, politico poi, originario di Palermo, era fortemente impegnato nella lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso.
Attraverso il suo impegno politico in Parlamento, La Torre presentò una proposta normativa che, oltre ad aver permesso di istruire tutti i più importanti processi di mafia, ha consentito l’introduzione delle misure di prevenzione patrimoniali: di fatto attraverso il sequestro provvisorio e cautelare, emesso dal Tribunale inaudita altera parte in vista della eventuale confisca, si evitava e si evita tutt’oggi che durante l’iter procedimentale il bene potesse essere disperso o alienato.
Così scriveva l’Onorevole La Torre, in un quotidiano del 1980, all’interno di una articolo dal titolo “Il legame tra mafia e potere” : “bisogna essere consapevoli che un'azione su tutto il fronte contro le moderne forme di criminalizzazione della vita economica e dei rapporti tra pubblica amministrazione e attività private, comporta non solo un grande rigore sul piano della prevenzione e della repressione penale ma un'opera profonda di bonifica politica e morale: una bonifica capace di rimuovere quell’ intreccio tra potere mafioso e gruppi dirigenti che e’ aspetto non secondario del blocco sociale elettorale conservatore".
Pio La Trorre, durante la sua esperienza di Parlamentare e di componente della commissione antimafia, aveva compreso che le speculazioni edilizie a Palermo e i traffici di droga smerciati in America erano le due facce della stessa medaglia Cosa Nostra. Fu anche per questo che, secondo quanto rivelato dal pentito mafioso Leonardo Messina, nel 1992, il 30 aprile, prima che la legge fosse definitivamente approvata, fu ucciso su ordine di Totò Riina, proprio a causa della sua proposta di legge riguardante i patrimoni dei mafiosi.
“Era il lunedì di Pasquetta”, ricorda il figlio Franco in una video intervista “papà era a Roma, ed erano andati a pranzo mamma e papà insieme a Emanuele Macaluso (politico, sindacalista, giornalista italiano n.d.r.). Passeggiando sul Lungo Tevere di Roma papà gli disse “Emanuele questa volta tocca a noi”.
Il 30 aprile due moto affiancarono l’auto su cui La Torre si trovava insieme all’amico Rosario Di Salvo. Uomini con il casco, armati di pistole e mitragliette, fecero fuoco sui due. La Torre fu colto di sorpresa e morì all’istante mentre il suo amico ebbe appena il tempo di estrarre la pistola e sparare alcuni colpi.
“Lui non era un incosciente, sapeva benissimo che correva un rischio e a correrlo" afferma il figlio.
“La morte di Pio La Torre fu solo mafia?” Chiede il giornalista di Repubblica al figlio nella video intervista?
“Fu il suo impegno pacifista e quindi la minaccia agli equilibri geopolitici in quel momento in atto in Europa. Fu la sua azione costante di denuncia, una sua interpellanza pochi mesi prima di morire ad alcune esercitazioni comuni di carattere militare alle quali lui chiedeva se fosse vero che avessero partecipato anche i c.d. corpi di Gladio; è difficile pensare che il mandante sia solo ed esclusivamente di carattere mafioso, inteso componente criminale, intesa la cupola di Cosa Nostra dell’epoca che sicuramente ha armato i sicari e ha ordinato di uccidere; ma sono poi questi stessi che poco tempo dopo si interrogano sull’effettiva efficacia dell’omicidio visto che come la storia sa , grazie ad un ulteriore contributo di sangue, quello di Domenico Russo, di Emanuela Setti Carrari, di Carlo Alberto Dalla Chiesa uccisi a Palermo il 3 settembre , poi il Parlamento approverà la legge. Gli stessi mafiosi si interrogano: “ma se era per quello che lo abbiamo ucciso come mai, forse non ce l’hanno raccontata giusta”.
Il giorno dopo l'uccisione di Pio La Torre, arriva a Palermo il generale Dalla Chiesa. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde Dalla Chiesa.