
Chiedilo all'avvocato

Minore utilizza Whatsapp in modo incauto: quali sono le responsabilità del genitore?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’utilizzo incauto da parte del minore dei social, circostanza questa che potrebbe risultare dannosa. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Morrovalle che chiede: “Quali sono i doveri e/o responsabilità del genitore del minore che utilizza impropriamente internet?” Si deve anzitutto dare atto che oggi è sempre più frequente l'utilizzo da parte dei minori di internet e in generale degli strumenti di comunicazione telematica, al fine di acquisire notizie e di esprimere le proprie opinioni, diritti questi tutelati dalla nostra Costituzione oltreché dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Tale diritto trova tuttavia un limite nella tutela della dignità della persona specie se minore di età: i minori sono infatti soggetti deboli e, in quanto tali, necessitano di apposita tutela, non avendo ancora raggiunto un’adeguata maturità ed essendo ancora in corso il processo relativo alla loro formazione. A questo proposito la Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2006, n. 19069) ha affermato la necessità di tutela del minore nell’ambito del mondo della comunicazione, facendo riferimento in particolare all’art. 16 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989, che sancisce il diritto di ogni minore a non subire interferenze arbitrarie o illegali con riferimento alla vita privata, alla sua corrispondenza o al suo domicilio È altresì riconosciuto il diritto del minore a non subire lesioni alla sua reputazione e al suo onore; l’art. 3 della medesima Convenzione prevede che in ogni procedimento davanti al giudice che coinvolga un minore, l’interesse superiore di quest’ultimo deve essere senz’altro considerato preminente. Tale preminenza ha quindi luogo anche nel giudizio di bilanciamento con eventuali e diversi valori costituzionali, quali il diritto all’informazione e la libertà di espressione degli altri individui; inoltre, è bene anche ricordare che l’art. 17 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo attribuisce agli Stati parti il dovere di riconoscere l’importanza della funzione esercitata dai mass-media, in quanto mezzi idonei a garantire una sana crescita e una corretta formazione del minore stesso. I pericoli ai quali il minore è esposto nell'uso della rete telematica rendono quindi necessaria una tutela degli stessi, indipendentemente poi dalle competenze digitali da loro maturate. E’ bene porre in evidenza che gli obblighi inerenti la responsabilità genitoriale impongono non solo il dovere di impartire al minore una adeguata educazione all’utilizzo dei mezzi di comunicazione ma anche di compiere un’attività vigilanza sul minore per quanto concerne il suddetto utilizzo. L’educazione si pone, infatti, in funzione strumentale rispetto alla tutela dei minori al fine di prevenire che questi ultimi siano vittime dell'abuso di internet da parte di terzi. L’educazione deve essere, inoltre, finalizzata a evitare che i minori cagionino danni a terzi o a sé stessi mediante gli strumenti di comunicazione telematica. Sotto tale profilo si deve osservare che l’anomalo utilizzo da parte del minore dei mezzi offerti dalla moderna tecnologia tale da lederne la dignità cagionando un serio pericolo per il sano sviluppo psicofisico dello stesso, può essere sintomatico di una scarsa educazione e vigilanza da parte dei genitori. Riguardo all’uso della rete telematica l’adempimento del dovere di vigilanza dei genitori è, inoltre, strettamente connesso all'estrema pericolosità di quel sistema e di quella potenziale esondazione incontrollabile dei contenuti; al riguardo la giurisprudenza di merito ha affermato che “il dovere di vigilanza dei genitori deve sostanziarsi in una limitazione sia quantitativa che qualitativa di quell'accesso, al fine di evitare che quel potente mezzo fortemente relazionale e divulgativo possa essere utilizzato in modo non adeguato da parte dei minori e fonte, pertanto, di responsabilità civile dei genitori ai sensi dell’art. 2048 c.c.” (Trib. Teramo,16.01.2012). Per tali ragioni in risposta alla nostra lettrice è corretto affermare che: “Oltre a possibili responsabilità civili e penali dei genitori, gli stessi sono comunque tenuti ad educare i minori al corretto utilizzo di tali mezzi di comunicazione mediante una limitazione sia quantitativa che qualitativa all’accesso e condivisione di contenuti". "Pertantov - si aggiunge -, l’anomalo utilizzo degli strumenti telematici potrebbe essere sintomatico di una scarsa vigilanza ed educazione da parte dei genitori, i quali, sono tenuti a garantire un'educazione consona alle proprie condizioni socio-economiche e, ad adempiere un’attività di verifica e controllo sul sano sviluppo psicofisico del minore, tanto da rendersi necessaria un’attività di monitoraggio e supporto da parte di professionisti nei riguardi del minore e dei genitori al fine di verificare le effettive capacità educative e di vigilanza degli stessi” (Tribunale di Caltanissetta, sentenza depositata l’8 ottobre 2019). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

Difensore provoca all'attaccante frattura della tibia: normale fallo di gioco o responsabilità penale?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante alle possibili responsabilità penali di un atleta nella pratica dello sport e nello specifico nel gioco del calcio. Ecco l’analisi dell’avv. Oberdan Pantana: "Con grande piacere che mi accingo ad affrontare il seguente argomento sollecitato dalle mail dei lettori e nel farlo utilizzerò dei casi pratici che spesso e volentieri avvengono durante una competizione calcistica. Ultimissimi minuti del match. Risultato – importantissimo – ancora in bilico. Contropiede fulmineo della squadra ospite. L’attaccante, palla al piede, si dirige verso l’area avversaria, quando irrompe il difensore che, pur volendo colpire la sfera, centra in pieno la gamba sinistra del ‘numero 9’. Grave infortunio per l’attaccante: frattura della tibia. In primo e in secondo grado, viene confermata la condanna per il difensore locale per il reato di lesioni colpose di cui all’art. 590 c.p.; in Cassazione, invece, viene assolto con formula piena, per l’assenza di tale tipologia di responsabilità. Smentita la visione tracciata dai giudici del Tribunale prima e da quelli della Corte d’appello poi: decisiva l’applicazione del cosiddetto "rischio consentito", con riferimento ad «eventi lesivi causati nel corso di incontri sportivi». Nessun dubbio sulla dinamica del rilevante scontro di gioco, verificatosi durante tale partita; evidente, infatti, la condotta scorretta del difensore della squadra di casa, evento, però, frutto di un eccessivo «agonismo» e di un errore nel calcolo della «tempistica dell’intervento di gioco»: egli, infatti, ha mirato «il pallone», ma ha «finito per colpire la gamba dell’attaccante, che, in anticipo, già aveva allungato la sfera in avanti. Rilevante il contesto: «l’infortunio maturò in un frangente particolarmente intenso», cioè «gli ultimi minuti dell’incontro», e durante «una azione di gioco decisiva» per un match «rilevante per il campionato». Significativo anche il fatto che l’azione del difensore, pur in trance agonistica, «era manifestamente indirizzata a interrompere l’azione di contropiede, mediante il tentativo di impossessarsi regolarmente del pallone», sottraendolo all’attaccante. Tutto ciò, spiegano correttamente i magistrati della Cassazione, consente di ritenere meritevole di censura il gesto compiuto dal difensore, però solo nell’ambito dell’«ordinamento sportivo». Va esclusa, quindi, la «antigiuridicità» a livello penale del «fallo» compiuto sul campo da calcio. Evidente la colpa del difensore, sanzionabile, però, solo in ambito sportivo, non certo in quello penale (Cassazione, sentenza n. 9559/2016, Sezione Quarta Penale). Così come: "derby infuocato", il difensore colpisce l’avversario con un pugno con l’azione di gioco distante da tale evento: in tal caso la Suprema Corte ha giustamente confermato la sentenza di condanna dell’imputato/difensore locale, “trattandosi di un’aggressione fisica intenzionale, per ragioni avulse dalla dinamica sportiva”. Il Collegio di legittimità, ritenendo corretta la valutazione svolta dalla Corte territoriale, afferma che «in tema di competizioni sportive, non è applicabile la “scriminante atipica” del rischio consentito, qualora nel corso di un incontro di calcio, l’imputato colpisca l’avversario con un pugno al di fuori di un’azione ordinaria di gioco, trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva». Il catalogo piuttosto ristretto delle scriminanti “codificate” non fa espressa menzione dell'esimente sportiva, che appartiene – per dottrina e giurisprudenza ormai ben consolidate – al novero delle esimenti non espressamente contemplate nel codice, ma di fatto esistenti. Queste ultime sono figlie dell'evoluzione naturale del diritto penale, che, nel suo adeguarsi alla realtà sociale in cui si applica, deve necessariamente calibrare la risposta punitiva alle infinite, lecite, ma talvolta rischiose, forme in cui può esprimersi la condotta umana. Lo sport è una di esse: chi lo pratica – non importa se professionalmente o per diletto - mette in conto di poter subire anche conseguenze pregiudizievoli per la propria integrità fisica: il rischio che ogni sportivo accetta è, appunto, un rischio consentito. Qual è, a questo punto, il limite che non deve essere oltrepassato per sconfinare nell'illecito penale? Il consenso che – tacitamente – si esprime prendendo parte ad una competizione sportiva, implica, come già detto, l'accettazione di un rischio, più o meno calcolato. Questo calcolo si basa, evidentemente, anche sull'affidamento che tutti i partecipanti alla competizione conoscano e si conformino alle regole della disciplina sportiva praticata. Secondo la giurisprudenza, che dimostra di non ignorare la “realtà naturale” dell'agonismo, l'involontario travalicamento delle regole di gioco non è sufficiente per aprire le porte alla responsabilità penale nel caso in cui dovessero verificarsi conseguenze lesive per alcuno degli atleti. Il discorso cambia del tutto nell'ipotesi in cui l'incontro sportivo diventi un pretesto per dare sfogo a gesti gratuitamente violenti, o che comunque non sono giustificabili con il gesto atletico richiesto dal gioco del calcio. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

"Crisi coniugale" e trasferimento immobiliare: gli effetti dell'accordo
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla natura e agli effetti dell’atto di trasferimento della proprietà posto in essere in sede di separazione dei coniugi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "La proprietà di un immobile trasferito da un ex coniuge in favore dell’altro può essere soggetto ad aggressione da parte dei creditori del primo?" Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente delicata, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.27409/2019, affermando testualmente quanto segue: “Gli accordi di separazione personale, contenenti attribuzioni patrimoniali relative a beni mobili o immobili, rispondono ad uno specifico spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento della separazione, il quale sfugge alle connotazioni classiche sia dell’atto di donazione sia dell’atto di vendita e svela una sua tipicità propria, la quale poi, di volta in volta, può colorarsi dei tratti dell’obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità. La necessità di accertare la natura onerosa o meno dell’atto rileva ai fini della disciplina di cui all’art. 2901 c.c." (Cass. Civ.; Sez. II; Ord. n. 27409/2019 del 25.10.2019). Difatti, l’art. 2901 del codice civile citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a termine, può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio coi quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni […]”, disciplina l’istituto dell’azione revocatoria, la quale favorisce il creditore permettendogli di ottenere la dichiarazione di inefficacia, nei suoi confronti, degli atti di disposizione del patrimonio con cui il debitore abbia arrecato pregiudizio alle sue ragioni, ad esempio ponendo in essere un atto di trasferimento di proprietà a titolo gratuito e perciò, diminuendo in modo consistente il proprio patrimonio, a discapito del suddetto creditore. A tal proposito occorre rilevare, che il problema principale sotteso a tale questione, attiene al profilo solutorio o meno dell'atto traslativo, dal momento che, essendo l'atto di adempimento di un'obbligazione notoriamente sottratto a siffatta azione revocatoria, la qualificazione dei negozi traslativi in esame, come negozi a carattere solutorio, fornirebbe un ostacolo insuperabile avverso le pretese dei creditori in sede di azione individuale ex art. 2901 c.c.. Per tali ragioni la giurisprudenza di legittimità si è dovuta occupare più volte della questione di come qualificare sotto il profilo causale le attribuzioni patrimoniali traslative che accompagnano la sistemazione dei rapporti economici tra ex marito e moglie, affermando al riguardo come non sia possibile una definizione aprioristica circa la natura di tali trasferimenti, dovendosi valutare caso per caso, a che titolo essi vengano disposti. Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice e in linea con l’unanime orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, si può affermare che: "Gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell'uno nei confronti dell'altro e concernenti beni mobili o immobili, non risultano collegati necessariamente alla presenza di uno specifico corrispettivo o di uno specifico riferimento ai tratti propri della donazione (dato il contesto come quello della separazione personale, caratterizzato proprio dalla dissoluzione delle ragioni dell'affettività), tanto più, che per quanto può interessare ai fini di una eventuale loro assoggettabilità all'actio revocatoria di cui all'art. 2901 c.c. rispondono, di norma, ad un più specifico e proprio originario spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell'evento di separazione consensuale, il quale, sfuggendo, in quanto tale, anche dalle connotazioni classiche dell'atto di vendita (attesa oltretutto l'assenza di un prezzo corrisposto), svela, di norma, una sua "tipicità" propria la quale poi, volta a volta, può, ai fini della disciplina di cui all'art. 2901 c.c., colorarsi dei tratti dell'obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità, in ragione dell'eventuale ricorrenza o meno, nel concreto, dei connotati di una sistemazione "solutorio-compensativa" più ampia e complessiva, di tutta quell'ampia serie di possibili rapporti patrimoniali maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale" (Cass. Civ.; Sez.III; Sent. n. 10443 dep. 15.04.2019). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

Medico del Pronto Soccorso non approfondisce le condizioni del paziente: condannato per omicidio colposo
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla responsabilità medica; ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “E’ responsabile il medico del Pronto Soccorso che non approfondisce le condizioni del paziente che successivamente muore?”. Ci è utile riguardo il caso di specie approfondire una recente vicenda nella quale un medico di pronto soccorso è stato condannato di omicidio colposo per avere, con condotte omissive e per colpa, cagionato la morte di un paziente, non essendo stato sottoposto ad ulteriori esami diagnostici che avrebbero potuto rilevare la sua patologia ischemica e sottoporlo a defibrillazione. A tal proposito la Suprema Corte ha confermato quanto precedentemente provato sia in I° che in II° grado e precisamente che, “ove i necessari esami diagnostici fossero stati eseguiti dal medico nella prospettiva di una diagnosi differenziale, l'episodio infartuale acuto in corso sul paziente sarebbe stato immediatamente accertato, e lo stesso sarebbe stato immediatamente avviato all'unità di terapia intensiva coronarica, ove gli sarebbe stata praticata la defibrillazione e, con elevato grado di probabilità logica, il paziente stesso si sarebbe salvato”. Riguardo alla natura colposa della condotta causante tenuta dal medico del Pronto Soccorso, la Cassazione osserva che, “vi erano tutte le condizioni che suggerivano, ed anzi imponevano al medico di turno di esperire accertamenti onde pervenire a una diagnosi differenziale, ossia di considerare l'ipotesi tutt'altro che remota che i sintomi presentati dal paziente potessero essere correlati a episodio di cardiopatia ischemica acuta e che si dovesse pertanto procedere ad accertamenti in tale direzione, i quali avrebbero nella specie dato conferma dell'evento”, tenuto infine conto che, “nel caso di specie il dolore ad ambedue le braccia, associato ad episodio emetico, avrebbe imposto un accertamento circa la possibile riferibilità del quadro clinico a patologia ischemica ciò che il dott. omise di fare”. L’obbligo di garanzia del medico di Pronto Soccorso è definito dalle specifiche competenze che sono proprie di quella branca della medicina d’emergenza (o d’urgenza). Vi rientrano l’esecuzione di alcuni accertamenti clinici, la decisione circa le cure da prestare e l’individuazione delle prestazioni specialistiche eventualmente necessarie, nonché la decisione inerente al ricovero del paziente e alla scelta del reparto reputato più idoneo. A fronte di una diagnosi differenziale non ancora risolta, il medico deve compiere gli accertamenti diagnostici necessari per accertare quale sia la patologia effettivamente patita e adeguare le cure a queste possibilità. Pertanto, l’esclusione di ulteriori accertamenti può essere giustificata solo dalla raggiunta certezza che una di queste patologie possa essere esclusa. Fino a quando il dubbio diagnostico non sia stato risolto, invece, il medico non deve accontentarsi del raggiunto convincimento di aver individuato la patologia esistente quando non sia in grado di escludere patologie alternative. Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, “In tema di responsabilità medica, risponde di omicidio colposo il medico di pronto soccorso che ha cagionato la morte di un paziente per non aver disposto indagini diagnostiche atte ad effettuare la diagnosi differenziale e limitandosi a un esame superficiale” (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 1665/2023) Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

Pacchetto vacanza “tutto compreso”, ma gastroenterite nel villaggio turistico: scatta risarcimento
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento danni per fatti accorsi durante il viaggio o vacanza. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "Sono responsabili l’agenzia viaggi e il tour operator se dopo aver acquistato un pacchetto vacanza 'tutto compreso' scoppia un caso gastroenterite tra i turisti del villaggio?". Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte, riguardo una vicenda in cui una famiglia aveva acquistato un pacchetto turistico "all inclusive" per il soggiorno in un villaggio turistico, ma dopo due giorni dall'arrivo, prima un figlio, poi l'altro e infine la moglie venivano colpiti da gastroenterite e ricoverati nell'ospedale locale. Rimane accertato che anche altri 20 ospiti del medesimo villaggio erano stati ricoverati per i medesimi disturbi intestinali, causati da cibi o bevande consumati nel villaggio. A tal proposito risulta utile precisare che il contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" si distingue dal contratto di intermediazione di viaggio di cui alla Convenzione di Bruxelles del 1970 (resa esecutiva in Italia con l. n. 1084/1977), in quanto spicca la finalità turistica, che ne permea e connota la causa concreta (Cassazione civile sez. III, 02/03/2012, n.3256; Cassazione civile sez. III, 24/04/2008, n.10651). Il contratto di viaggio tutto compreso (pacchetto turistico o package) è diretto a realizzare l'interesse del turista-consumatore al compimento di un viaggio con finalità turistica o a scopo di piacere, sicché tutte le attività e i servizi strumentali alla realizzazione dello scopo vacanziero sono essenziali e qualificano la causa e il contratto stesso. Quindi l'organizzatore e il venditore devono operare con la diligenza professionale qualificata dalla specifica attività esercitata, per soddisfare l'interesse creditorio dell'acquirente il pacchetto. Così si evidenzia la differenza dal contratto di organizzazione o di intermediazione di viaggio, in base al quale un operatore turistico professionale si obbliga verso corrispettivo a procurare uno o più servizi di base (trasporto, albergo, etc.) per l'effettuazione di un viaggio o di un soggiorno. Rispetto a quest'ultimo, le prestazioni e i servizi si profilano come separati e vengono in rilievo diversi tipi di rapporto, prevalendo gli aspetti dell'organizzazione e dell'intermediazione con applicazione in particolare della disciplina del trasporto ovvero - in difetto di diretta assunzione da parte dell'organizzatore dell'obbligo di trasporto del cliente - del mandato senza rappresentanza o dell'appalto di servizi. Nel contratto di viaggio vacanza tutto compreso, invece, la pluralità di servizi ed accessori connota proprio la finalità turistica del contratto nella loro unitarietà funzionale. Si tratta di un'obbligazione di risultato nell'ambito del rischio di impresa (e nel rischio connaturato nell'avvalersi di terzi) nei confronti dell'acquirente e, pertanto, sussiste la responsabilità solidale (Cass. Civ., Sez. III, Ord. n. 1417/2023). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di merito e di legittimità si può affermare che: "Il tour operator risponde dell'inadempimento del contratto di vendita di pacchetto turistico - con conseguente obbligo di risarcire i danni al turista a causa di disservizi o carenze nelle prestazioni promesse e poi concretamente fornite -, sia quando l'inadempimento sia imputabile direttamente al proprio operato o al fatto dei propri ausiliari, sia quando ascrivibile a terzi fornitori di servizi inclusi nel pacchetto turistico dei quali il tour operator si è servito per l'esecuzione dell'obbligazione (Trib. Torino, Sez. III, sentenza n. 3882/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

Cambia la serratura di casa per non far entrare comproprietario: condannato
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra comproprietari di beni immobili e relative problematiche. Il caso di specie scelto è di un lettore di Morrovalle che chiede: "A quali responsabilità può andare incontro chi da proprietario al 50% di un immobile cambia la serratura della porta d’ingresso negando così l’entrata all’altro comproprietario?" Il caso di specie ci porta ad analizzare il reato di cui all’art. 610 c.p. secondo il quale, “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni". Difatti, come da orientamento giurisprudenziale consolidato di legittimità, "si ravvisa il delitto di violenza privata anche nella condotta di chi impedisce l’esercizio dell’altrui diritto di accedere ad un locale o ad una delle stanze di un’abitazione, chiudendone a chiave la serratura o cambiandola senza il consenso e la relativa consegna delle nuove chiavi" (Cass., Pen., Sez. V, n. 4284 del 29.9.2015). A tal proposito, si evidenzia che, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il delitto di cui all’art 610 c.p. si qualifica come reato d’evento e a forma vincolata: il fatto tipico consiste, infatti, nel costringere altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, mediante l’impiego di violenza o di minaccia. Quanto al concetto di violenza rilevante - che è quello che in questa sede interessa - esso è costituito dall’esplicarsi di una qualsiasi energia fisica da cui derivi una coazione personale; non rileva, né la qualità dei mezzi adoperati, né che essi siano diretti o indiretti, di carattere materiale o psicologico, occorrendo solo l’idoneità di essi al raggiungimento dello scopo che è quello di costringere altri a fare, tollerare od omettere qualcosa. Si parla di violenza in due diverse accezioni: violenza propria e violenza impropria; la prima deve intendersi quella fisica che si esplica direttamente sulla vittima, mentre quella “impropria”, si esplica attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, configurabili anche laddove essa non si indirizzi contro l’altrui persona, ma sulle cose, alla sola condizione che dispieghi un’effettiva incidenza costrittiva sulla volontà della vittima. Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “Integra il reato di violenza privata ex art. 610 c.p. impedire l'esercizio dell'altrui diritto di accedere ad una stanza di un'abitazione o di un locale chiudendola a chiave o cambiandone la serratura” (Cass. Pen.; sentenza n. 38910/2018). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

Gioca a carte e perde oltre mille euro a Natale: la moglie chiede separazione
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato diversi argomenti a carattere natalizio e, data la diffusa atmosfera di festa, nonché la singolare curiosità espressa dai molteplici lettori per circostanze che riguardano direttamente e indirettamente le festività natalizie, si riportano di seguito le risposte dell’avv. Oberdan Pantana riguardo le seguenti situazioni: - Di seguito la risposta alla domanda di un lettore di Civitanova che chiede: "Se durante il cenone della vigilia, nello stappare lo spumante colpisco con il tappo uno dei presenti, in quali responsabilità posso incorrere?" Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, il riferimento a quanto accaduto al titolare di un ristorante che, preso dall’euforia dei festeggiamenti, finiva per ferire all’occhio una cliente che sedeva poco distante, con il tappo dello spumante appena aperto. La Suprema Corte pronunciatasi sulla vicenda, ravvisava nella condotta dell’euforico ristoratore, il reato di lesioni colpose, a causa della mancata adozione delle idonee cautele del caso, condannandolo alla pena prevista dall’art. 590 c.p. che stabilisce testualmente: “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a 309 euro”. (Cass. Pen., Sez. IV, n.32548 del 12.07.2016) - In risposta alla domanda di un lettore di Porto Recanati che chiede: "Se a causa di un ritardo del volo prenotato, ci viene impedito di trascorrere le festività con i nostri cari, può essere richiesto il risarcimento del danno subito?" Riportiamo la sentenza del Giudice di Pace di Cagliari (n. 571/2012) che, pronunciatosi su un caso molto simile, aveva condannato la compagnia aerea a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali ad un passeggero che era stato costretto a trascorrere la vigilia di Natale in aeroporto, consumando il “cenone” in solitaria con del cibo acquistato presso un bar poco distante dal gate. L'uomo difatti, oltre al risarcimento per il danno esistenziale subito, era stato ristorato anche dei danni patrimoniali comprese le spese per comprare i due "tristi" panini del “cenone natalizio”! -Di seguito la risposta ad un lettore di Tolentino che ci chiede: "E’ legittimo il licenziamento di un dipendente che, in occasione delle festività natalizie, decide in piena autonomia di concedersi delle ferie per stare con la propria famiglia?" Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica molto importante sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20461 del 30.09.2010 in riferimento alla condotta posta in essere da un dipendente che, nonostante il rifiuto della richiesta da parte del datore di lavoro, decideva di non presentarsi comunque al lavoro, rimanendo a casa da Natale a Capodanno. La Suprema Corte chiamata a pronunciarsi, aveva rilevato che “considerata la mancata prova delle circostanze che potevano rilevare nel rendere più lieve l'infrazione e quindi eccessiva la sanzione del licenziamento, ai fini del giudizio di necessaria proporzionalità, l'allontanamento arbitrario dal posto di lavoro dal 24 al 31 dicembre, malgrado il rifiuto dell'azienda datrice, costituiva giusta causa di recesso, conformemente peraltro a quanto previsto dall'art. 151 del CCNL”, che disciplina i tempi, le circostanze e le modalità con cui il lavoratore può legittimamente richiede un periodo di aspettativa al proprio datore di lavoro; circostanze non rispettate nel caso di specie. Con tali motivazioni dunque, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso formulato dal lavoratore e dichiarava la legittimità del licenziamento posto in essere dal datore di lavoro. - In risposta alla domanda posta da un lettore di Montegranaro che chiede: "Essere un giocatore di carte soprattutto nel periodo natalizio può comportare ripercussioni in sede di separazione?" Riportiamo la decisione assunta dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.5395/2014, che, chiamata a pronunciarsi in merito ad un caso di separazione giudiziale dei coniugi, aveva stabilito l’addebito della separazione in capo al marito, il quale era solito spendere molto denaro nel gioco e che, solo nel periodo natalizio, aveva sperperato oltre 1.000 euro giocando a carte. La Suprema Corte adita aveva infatti chiarito che “anche il gioco d'azzardo, ripetuto ed eccessivo, viola in modo grave gli obblighi matrimoniali sino a rendere la convivenza intollerabile e a far scaturire separazione e consequenziale addebito". Difatti, il discutibile vizio che impegnava il marito della coppia per diverse ore al giorno, assentandosi quasi totalmente nel periodo natalizio oltre a rappresentare una cattiva abitudine, lo portava a stare spesso, e senza alcun giustificato motivo, fuori casa, non ottemperando ai propri doveri di marito e padre, per di più sottraendo grosse somme di denaro alla cura e al sostentamento della propria famiglia. - In risposta alla domanda di un lettore di Corridonia che chiede: "È penalmente sanzionabile un soggetto che invia infausti auguri di Natale?" Riportiamo la pronuncia del Tribunale di Bari, che con sentenza depositata il 25 febbraio 2015, ha condannato per estorsione un uomo che si era rivolto più volte alla sua vittima minacciandola ripetutamente del fatto che, se non gli avesse dato i soldi richiesti, la madre avrebbe passato “un brutto Natale”. Difatti l’art. 629 c.p. punendo “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno” intende scongiurare che la prospettazione di un evento dannoso per l'incolumità fisica della vittima o di una persona ad essa molto vicina, spingano la stessa a gesti disperati o comunque non voluti. Il Tribunale adito, specificava inoltre che “In tema di estorsione, la violenza o la minaccia può essere manifestata in modi e forme differenti, purché venga a crearsi la condizione di costrizione psichica della vittima volta, ad ottenere un profitto ingiusto per sé o per altri, con danno altrui". Cari lettori, nel rimanere in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, colgo l’occasione per porgerVi i miei migliori auguri di Buone Feste!

Maestra adotta metodi d’insegnamento eccessivi: a quali responsabilità va incontro?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai metodi d’insegnamento degli insegnanti ed il rapporto con i loro alunni. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “A quali responsabilità va incontro la maestra che adotta metodi d’insegnamento anche violenti? Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui ha avuto modo recentemente di pronunciarsi la Corte di Cassazione, rappresentando, riguardo alle condotte contornate da qualsiasi utilizzo della violenza poste in essere da una maestra, che, Ipotizzare un mero abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il quale «consiste nell'uso non appropriato di metodi, strumenti e, comunque, comportamenti correttivi o educativi, in via ordinaria consentiti dalla disciplina generale e di settore nonché dalla scienza pedagogica, quali, a mero titolo esemplificativo, l'esclusione temporanea dalle attività ludiche o didattiche, l'obbligo di condotte riparatorie, forme di rimprovero non riservate». Su questo fronte i giudici chiariscono che l'uso di determinati metodi poco ortodossi «deve ritenersi appropriato, quando ricorrano la necessità dell'intervento correttivo, in conseguenza dell'inosservanza, da parte dell'alunno, dei doveri di comportamento su di lui gravanti, e la proporzione tra tale violazione e l'intervento correttivo adottato, sotto il profilo del bene-interesse del destinatario su cui esso incide e della compressione che ne determina». Di conseguenza, «qualsiasi forma di violenza, invece, sia essa fisica che psicologica, non costituisce mezzo di correzione o di disciplina, neanche se posta in essere a scopo educativo. E qualora di essa si faccia uso sistematico, quale ordinario trattamento del minore affidato, la condotta non rientra nella fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, bensì in quella di maltrattamenti». Tirando le somme, «l'abuso di mezzi di correzione o di disciplina, qualora sistematico e tale da determinare all'interno della classe un regime di abituale prevaricazione in danno degli alunni e di una loro afflizione, integra il più grave delitto di maltrattamenti»; e per escludere l'abuso dei mezzi di correzione in luogo del più grave reato di maltrattamenti è sufficiente rilevare la commissione di vari e reiterati episodi da parte della maestra verso i suoi alunni condotte caratterizzate da violenza fisica, ingiurie e minacce, che come non possono mai annoverarsi tra i mezzi di correzione consentiti e, in ipotesi, suscettibili di un uso inappropriato». Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità e in risposta alla domanda della nostra lettrice, si può affermare che: “Commette il reato più grave di maltrattamenti invece di quello di abuso dei mezzi di correzione la maestra che reitera condotte violente siano esse fisiche sia verbali quali minacce e ingiurie in quanto non possono mai annoverarsi tra i mezzi di correzione consentiti” (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 46924 del 12.10.2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

Medico di guardia non va dalla paziente: a quali responsabilità va incontro?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alle cure mediche e nello specifico al rapporto medico-paziente. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "A quali responsabilità va incontro il medico di guardia che, contattato telefonicamente, non si reca a prestare l’assistenza medica domiciliare?" Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui ha avuto modo recentemente di pronunciarsi la Corte di Cassazione, secondo la quale: “Vero è che l'art. 13, comma 3, dell'accordo collettivo nazionale per la regolamentazione dei rapporti con i medici addetti al servizio di guardia medica ed emergenza territoriale, reso esecutivo (ai sensi dell'art. 48 legge 23 dicembre 1978, n. 833) con D.P.R. 25 gennaio 1941, n. 41, postula un apparente automatismo ove stabilisce che il medico di continuità assistenziale «è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che siano chiesti direttamente dall'utente [...] entro la fine del turno al quale è preposto»". Tuttavia, altre fonti normative, rilevanti nel caso concreto, puntualizzano che, come d'altronde logico, il medico «deve valutare, sotto la propria responsabilità, l'opportunità di fornire un consiglio telefonico, recarsi al domicilio per una visita, invitare l'assistito in ambulatorio». Nel caso di specie, si configuravano, pertanto, tre opzioni al cui interno il medico imputato era chiamato a scegliere, in base al suo apprezzamento della situazione concreta. Ebbene, posto che la terza possibilità era fuori discussione a causa dell'età e delle condizioni della paziente (la signora per la quale era richiesto l'intervento era molto anziana ed ammalata e non era dunque nelle condizioni di recarsi a una visita ambulatoriale), dai fatti emerge come il medico non si fosse nemmeno prestato ad un consulto telefonico: «neppure ha rivolto consigli terapeutici puntuali, tale non potendo ritenersi l'alternativa di chiedere l'intervento di un'ambulanza ovvero, se la situazione fosse rimasta stazionaria, rivolgersi, il giorno dopo, al medico di base». Deve ribadirsi che la necessità e l'urgenza di effettuare una visita domiciliare, in virtù di quanto previsto dal citato l'articolo 13 dell'accordo collettivo nazionale, è rimessa alla valutazione discrezionale del sanitario di guardia, sulla base della propria esperienza, ma tale valutazione sommaria non può prescindere dalla conoscenza del quadro clinico del paziente, acquisita dal medico attraverso la richiesta di indicazioni precise circa l'entità della patologia dichiarata (Sez. 6, n. 34047 del 14/01/2003, Miraglia, Rv. 226594): richiesta che, nel caso di specie, non risulta essere stata formulata. Pertanto, l'unica opzione residua era, dunque, la visita domiciliare, in relazione alla cui mancata esecuzione l'imputato non ha addotto alcun legittimo impedimento. Anche la censura della mancanza del requisito dell'urgenza, insito nella necessità - secondo il dettato dell'art. 328 cod. pen. - che l'atto vada «compiuto senza ritardo», sul punto, la giurisprudenza di legittimità riconosce pacificamente la connotazione discrezionale della valutazione del medico, riservando tuttavia al giudice il potere di sindacarla quando emergano elementi che evidenzino l'evidente erroneità di quest'ultima (in tal senso: Sez. 6, n. 23817 del 30/10/2012,dep.2013,Tomas,Rv, 255715;Sez. 6, n. 12143 del 11/02/2009, Bruno, Rv. 242922; Sez. 6, n. 34047 del 14/01/2003, Miraglia, cit.). Si rileva che nel giudizio in esame, «È evidente che, nel caso di specie, il quadro clinico descritto dall'utente avrebbe imposto di recarsi immediatamente al domicilio della malata, affetta da difficoltà respiratorie in un contesto di età avanzata»; dunque, premesso che l'omissione di atti d'ufficio ha natura di reato di pericolo, sulla base della ricostruzione del fatto tale pericolo (nel caso di specie, per la salute dell'assistito) sussisteva al momento della realizzazione della condotta omissiva. Per la stessa ragione risulta impossibile negare la sussistenza del dolo, poiché l'imputato non si sarebbe rappresentato la necessità di compiere l'atto senza ritardo, non avendo egli ritenuto urgente la condizione clinica della donna. Infatti, in base alla ricostruzione operata dai giudici di merito, l'indifferibilità dell'atto dell'ufficio era ragionevolmente ipotizzabile al momento della telefonata, alla luce delle circostanze del fatto (quali le condizioni e l'età della donna, nonché la tipologia di sintomi riferita dal figlio), con la conseguenza che il soggetto agente non poteva che essersela rappresentata. Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità e in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: "Commette il reato di omissione d’atti d’ufficio il medico che non va dalla paziente nell’impossibilità a muoversi data dall’età della stessa e soprattutto dalle gravi difficoltà respiratorie" (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 44057 del 28.10.2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

Riconsegna della casa in affitto danneggiata: l’inquilino paga il canone per il periodo dei lavori
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento dei danni dovuti dall’affittuario a seguito di un contratto di locazione immobiliare. Ecco la risposta del legal Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “A quali responsabilità va incontro l’inquilino, che alla scadenza di un contratto di locazione ad uso abitativo, riconsegna l’immobile danneggiato?” Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui spesso ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, sancendo il generale principio giuridico secondo il quale: “Qualora, in violazione dell'art. 1590 c.c., al momento della riconsegna la cosa locata presenti danni eccedenti il degrado dovuto al normale uso della stessa, incombe al conduttore l'obbligo di risarcire tali danni; pertanto, il locatore può addebitare al conduttore la somma necessaria al ripristino del bene nelle stesse condizioni in cui era all'inizio della locazione, dedotto il deterioramento derivante dall'uso conforme al contratto” (Cass. Civ.; Sez. III; sentenza n.23721del 16/09/2008) . Infatti l’art. 1590 c.c. al comma 1°, escludendo la naturale alterazione dello stato dell’immobile, conseguente all’utilizzo prolungato dello stesso, fissa in capo all’affittuario l’obbligo di riconsegnare in buone condizioni la cosa locata, stabilendo testualmente: “Il conduttore deve restituire la cosa al locatore nello stato medesimo in cui l'ha ricevuta, in conformità della descrizione che ne sia stata fatta dalle parti, salvo il deterioramento o il consumo risultante dall'uso della cosa in conformità del contratto”. In aggiunta, con la recentissima Ordinanza n. 6596/2019, la Suprema Corte chiamata a pronunciarsi sulla colpevolezza del conduttore di un immobile riconsegnato con danni di gran lunga eccedenti il normale utilizzo, ha valutato la circostanza relativa alla gravosità della messa in ripristino dell’appartamento, estendendo la sua responsabilità, oltre che al risarcimento del costo dei lavori di ristrutturazione occorrenti, anche al pagamento dei canoni d’affitto per il periodo necessario alle riparazioni effettuate dal locatore, non potendo quest’ultimo disporre in nessun modo del proprio immobile, né dunque, trarne alcun vantaggio. Difatti, la Corte adita, ha fatto proprio il principio giuridico secondo il quale, qualora a causa della condotta posta in essere dal conduttore, sia preclusa al locatore la diretta disponibilità dell’immobile, quest’ultimo conservi in ogni caso, il diritto a conseguire il corrispettivo convenuto, equiparando il periodo necessario per i lavori di restauro, alla ritardata restituzione dell’immobile, disciplinata dall’art. 1591 c.c., il quale prevede espressamente che: “Il conduttore in mora a restituire la cosa, è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno”. Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità ed in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: “Qualora, in violazione dell’art. 1590 c.c., al momento della riconsegna l’immobile locato presenti danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, incombe al conduttore l’obbligo di risarcire tali danni, consistenti non solo nel costo delle opere necessarie per la rimessione in pristino, ma anche nel canone altrimenti dovuto per tutto il periodo necessario per l’esecuzione e il completamento di tali lavori, senza che, a quest’ultimo riguardo, il locatore sia tenuto a provare anche di aver ricevuto – da parte di terzi – richieste per la locazione, non soddisfatte a causa dei lavori” (Cass. Civ. ; Sez. III; Ord. n. 6596 del 07/03/2019). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

Sostituzione di persona: utilizza l’identità digitale di un altro per il proprio vantaggio
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avv. Oberdan Pantana,“Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili alla condotta di chi utilizza l’identità digitale di un altro soggetto, sostituendosi a questo per la generalità degli utenti in connessione, nel porre in essere le più disparate attività. Di seguito la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche, che chiede: a quali responsabilità si va incontro qualora venga creato un account con le generalità di una persona terza, per il compimento di acquisti online? Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica estremamente attuale sulla quale si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 42572/2018, affermando la responsabilità penale del soggetto ai sensi dell’art. 494 c.p., la cui norma sancisce espressamente: “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino a un anno”. Difatti, la Suprema Corte adita ha statuito quanto segue: “Integra il reato di sostituzione di persona, ex art. 494 c.p. , la condotta di colui che crei ed utilizzi un account ed una casella di posta elettronica nonché proceda all’iscrizione su un sito e-commerce, servendosi dei dati anagrafici di un soggetto diverso e inconsapevole, con il fine di far ricadere su quest'ultimo l'inadempimento delle obbligazioni conseguente all'avvenuto acquisto di beni mediante la partecipazione ad aste in rete o ad altri strumenti contrattuali. Tanto in quanto porre in essere una condotta con siffatta modalità è prova che l’agente abbia volontariamente sostituito, per la generalità degli utenti in connessione, alla propria identità quella di altri, a prescindere dalla propalazione all'esterno delle diverse generalità utilizzate” (Cass. Pen., Sez. V, n. 42572/2018, dep. il 27/09/2018). Pertanto, nell’analizzare le ripercussioni giuridiche che tali condotte possono avere, è necessario considerare che in una realtà come quella contemporanea, nella quale si fa un uso sempre maggiore dei sistemi telematici per il compimento di una varietà in crescendo di attività, le credenziali adoperate per l’utilizzo delle varie piattaforme, rappresentano il soggetto agente tanto da costituire un vero e proprio surrogato della persona fisica; dunque, la tutela offerta dal legislatore, è intesa a garantire la pubblica fede ed evitare che l’utilizzo di raggiri e artifizi, nel contesto di una società in continua evoluzione, possano trarre in inganno quanti operano in tali settori. Alla luce di tali considerazioni, e in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che, “chiunque in modo volontario e al fine specifico di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, utilizzi l’identità digitale di un soggetto terzo ignaro e inconsapevole, è punito ai sensi dell’art. 494 c.p. con la reclusione fino ad un anno” (Cass. Pen., Sez. V, n. 42572/2018). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

Successione ereditaria: quando il coerede può usucapire l’immobile ereditato
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti tra coeredi riguardo ad immobili oggetto di successione ereditaria. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Quando il coerede può usucapire l’immobile oggetto dell’eredità?” Il caso di specie ci porta ad una vicenda recentemente risolta dalla Suprema Corte nella quale una coerede affermava l’avvenuta usucapione dell’immobile oggetto dell’eredità poiché già in possesso da tempo di tale bene per aver coabitato con l’oramai “de cuius” tanto da usucapire la quota degli altri eredi prima della divisione ereditaria. La Cassazione nell’applicare il consolidato principio secondo il quale, “il coerede che, dopo la morte del "de cuius", sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso. A tal fine, però, egli, che già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", risultando a tal fine insufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune” (Cass. Civ. Sez.II, 22.1.2019, n. 1642), rappresentava che la Corte d'appello nel giudizio di 2° grado, pur avendo richiamato la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non ne ha fatto corretta applicazione in quanto ha ritenuto sufficienti le dichiarazioni dei testi che avevano riferito dell'esercizio del possesso di tale coerede uti dominus su tutti i beni ereditari sin dalla morte dei genitori, senza chiarire se il godimento dei beni sia stato esclusivo, non essendo sufficiente che vi sia stata l'astensione degli altri partecipanti all'uso della cosa comune; ed inoltre aggiunge, “ si esclude che la coabitazione con il de cuius e la disponibilità delle chiavi sia indice del possesso esclusivo dell'immobile”(Cassazione civile sez. II, 08/04/2021, n. 9359). Pertanto, in risposta al nostro lettore si ritiene corretto affermare che, “Il coerede che, dopo la morte del "de cuius", sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, però, egli, che già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", risultando a tal fine insufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune o il fatto di aver coabitato con il de cuius ed aver avuto la disponibilità delle chiavi” (Cass. Civ. Sez. VI, Ordinanza del 03.11.2022 n. 32413). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

Stacca luce e gas alla ex moglie e ai figli per mancata voltura: quale reato e condanna prevista?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all’Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti in sede di separazione tra gli ex coniugi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Monte San Giusto che chiede: “A quali responsabilità va incontro l’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie?” Tale circostanza ci porta subito ad applicare il principio giuridico oramai divenuto consolidato espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 13407/2019, secondo il quale: “Sussiste il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni laddove il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice a fronte della contestazione o dell’ostacolo posto da terzi, come nel caso di un ex marito che, a seguito della mancata voltura delle utenze domestiche dell’abitazione familiare assegnata all’ex moglie, aveva provveduto personalmente a staccare i contatori”. Difatti, proprio in riferimento ad un caso simile a quello prospettato dalla nostra lettrice, nel quale l’ex marito, dopo aver intimato più volte all’ex moglie di procedere alla voltura delle forniture di energia elettrica e gas dell’abitazione familiare a lei assegnata in sede di separazione, aveva provveduto personalmente al distacco in quanto le spese in questione erano state accollate all’ex moglie in sede di separazione, costringendo la donna e i figli a stare nell’appartamento senza poter usufruire di tali servizi, la Corte di Cassazione ha confermato la configurabilità in capo all’imputato del reato di cui all’art. 393 c.p., in quanto, il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice di fronte alla contestazione o all’ostacolo posto da terzi; a tal proposito, la Suprema Corte aggiunge che, “non è consentito legittimare l’autosoddisfazione per il superamento degli ostacoli che si frappongono al concreto esercizio del diritto”. Viene, infine, precisato che, “si ritiene legittima la violenza sulle cose solo quando sia esercitata al fine di difendere il diritto di possesso in presenza di un atto di turbativa nel godimento della res, sempre che l’azione reattiva avvenga nell’immediatezza di quella lesiva del diritto, non si tratti di compossesso e sia impossibile il ricorso immediato al giudice, sussistendo la necessità impellente di ripristinare il possesso perduto o il pacifico esercizio del diritto di godimento del bene”. Pertanto, in risposta alla nostra lettrice si ritiene corretto affermare che, “Nel caso dell’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie, lo stesso commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto e punito ai sensi dell’art. 393 c.p., in quanto tale diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso all’Autorità Giudiziaria”(Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 13407/19; depositata il 27 marzo). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

Abitazione costruita in comunione legale sopra il suolo di proprietà di uno dei coniugi: chi ne è proprietario?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le controversie in materia di diritti reali e nello specifico quelle poste in essere dai coniugi in comunione legale. Ecco la risposta del legale Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “Quali sono i diritti del coniuge non proprietario del suolo in cui è stata costruita l’abitazione in presenza di comunione legale?” Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una fattispecie molto dibattuta nelle aule dei Tribunali in occasione delle separazioni dei coniugi o cessazioni degli effetti civili del matrimonio. Nello specifico, ai sensi dell’art. 934 c.c. il proprietario del suolo acquista, a titolo originario, qualunque piantagione, costruzione od opera insistente sopra o sotto il medesimo suolo. Si tratta, ad onor del vero, di una forma di espansione automatica del diritto di proprietà. Questo automatismo nell’acquisto avviene, è bene ribadirlo, a titolo originario e non derivativo, e può essere escluso soltanto se il titolo o la legge prevedono diversamente. Suddetto principio è valevole ancorché la costruzione sia stata realizzata in costanza di matrimonio e nella vigenza del regime patrimoniale della comunione legale. L’acquisto della proprietà per accessione, infatti, avviene a titolo originario senza la necessità di apposita manifestazione di volontà. Ciò significa che il principio in forza del quale il proprietario del suolo acquista ipso iure al momento dell'incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata non è derogato dalla disciplina della comunione legale tra coniugi. Mentre, l’art. 177 c.c. sancisce che costituiscono oggetto della comunione legali gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali; i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione; i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati e le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio. Nel dettaglio, la disposizione de qua prevede al n.1, la contitolarità al 50% dei beni provenienti dagli acquisti compiuti dai coniugi anche separatamente, in costanza di matrimonio quali acquisti aventi carattere derivativo. Occorre ora comprendere come si coniugano il principio di accessione ex art. 934 c.c. e il regime della comunione legale ex art. 177, comma 1, c.c. È principio acquisito e costante nella giurisprudenza che, «quando per effetto del principio enunciato dall'art. 934 c.c. il coniuge proprietario esclusivo del suolo acquisti la proprietà dell'immobile realizzato su di esso in regime di comunione legale, la tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non sul piano del diritto reale, nel senso che in mancanza di un titolo o di una norma non può vantare alcun diritto di comproprietà, anche superficiaria, sulla costruzione, ma sul piano obbligatorio, nel senso che a costui compete un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione» (ex multis Cass. n. 28258/19). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: “La tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non sul piano reale bensì su quello meramente obbligatorio, rimanendo a carico della ricorrente l’onere di fornire la prova della provenienza del denaro o dei beni utilizzati per la costruzione del fabbricato sul suolo di proprietà esclusiva dell’altro coniuge. È quindi onere del coniuge non proprietario del suolo dimostrare che le somme di denaro e i materiali utilizzati per la realizzazione del fabbricato siano di sua provenienza o provengano dalla comunione legale, non potendosi in alcun modo presumere tale provenienza (Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 4794/20).Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

Il marito si lamenta: “Mia moglie non cucina": la separazione è addebitabile alla coniuge?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avv. Oberdan Pantana,“Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al rapporto tra moglie e marito e nello specifico le cause che possono portare all’addebito della separazione dei coniugi. Di seguito la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Se mia moglie non cucina posso chiedere la separazione con addebito?” Il caso di specie ci rimanda ad una vicenda recentemente definita giudizialmente, nella quale il coniuge si è lamentato dinanzi al giudice, spiegando che «la moglie ha mostrato negli anni un contegno di disinteresse e di indifferenza per il partner, contegno teso a violare gli obblighi coniugali della collaborazione e della contribuzione nell’interesse della famiglia» nonché a far mancare «l’assistenza materiale e morale»; in particolare, l’uomo parla di «comportamenti manifestati nel rifiuto» della moglie «di predisporre piatti caldi, piuttosto che lavare gli indumenti personali», e aggiunge, in sostanza, di avere spesso «provveduto a fare la spesa» e di essersi spesso recato «a consumare la colazione a casa della madre», la quale poi provvedeva «a lavargli gli abiti da lavoro». A tal proposito risulta utile ricordare che, «a seguito del matrimonio i coniugi assumono gli stessi diritti e gli stessi doveri, sono tenuti all’obbligo reciproco di fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia ed alla coabitazione»; insomma, moglie e marito «sono posti su un piano del tutto paritario», e di conseguenza, «non è previsto che su un coniuge siano addossati tutti i compiti di cura della casa e della prole, poiché entrambi i coniugi sono tenuti a svolgere le stesse mansioni, e ciò anche nell’ipotesi in cui uno solo di essi lavori, poiché non sarebbe ammissibile una situazione di sottomissione dell’altro partner a svolgere lavori di mera cura dell’ordine domestico, al quale sono peraltro tenuti anche i figli, nell’ottica di una educazione responsabile». Alla luce di tali considerazioni, ed in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che, “Moglie e marito pari sono. Anche nella suddivisione dei compiti per portare avanti materialmente ogni giorno la famiglia, come, ad esempio, cucinare, fare la spesa e lavare i panni. Ciò comporta che l’uomo non può addebitare la crisi della coppia alla consorte che non si comporta da casalinga provetta e in servizio permanente” (Tribunale di Foggia, sentenza n. 1092/21, Sez. I Civile, depositata il 05.05.2021). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.