Chiedilo all'avvocato
Costringe la compagna a non interrompere la relazione: vale una condanna
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema dei rapporti di coppia e le loro evoluzioni. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: "Costringere la propria compagna a non interrompere la relazione può comportare delle responsabilità penali?". A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda risolta poi in Cassazione dopo che i giudici di merito hanno ritenuto palese l'inaccettabile condotta aggressiva tenuta da un uomo nei confronti della compagna, condotta mirata a «non farsi lasciare dalla donna». Per i giudici di primo e di secondo grado infatti è logico catalogare i comportamenti dell'uomo come vera e propria violenza privata nei confronti della donna. Dalla Cassazione ribadiscono richiamando il principio secondo cui «l'elemento oggettivo del reato di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare, od omettere una determinata cosa». Ciò significa anche che «la condotta violenta o minacciosa deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore», ossia, come detto, «la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa». Per quanto concerne la vicenda, i Giudici della Cassazione condividono in pieno le valutazioni compiute in appello: in sostanza, è evidente «il comportamento intimidatorio» dell'uomo che ha tenuto una condotta concretizzatasi nella «minaccia, anche di morte, rivolta alla compagna se quest'ultima avesse interrotto la loro relazione». Per l’appunto, è logico catalogare come «violenza privata» il modus agendi dell'uomo, diretto «ad imporre un comportamento determinato alla compagna», ossia la prosecuzione della relazione e della convivenza. Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: “È violenza privata non accettare la decisione della compagna di interrompere il loro legame e pretendere attraverso una condotta aggressiva che il partner porti avanti per forza la relazione e non vada via di casa” (Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 20346/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Donna cade col motorino a causa di una buca: quali sono le responsabilità del Comune?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al risarcimento danni, soprattutto quelli dovuti alle cadute causa le buche sempre più presenti nei marciapiedi e strade cittadine. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata, che chiede: "In caso di caduta rovinosa a terra con il proprio motorino a seguito delle buche presenti su di una strada comunale con relativi danni fisici: a quali responsabilità va incontro il Comune?". Il caso di specie ci porta a quanto già consolidato dalla Cassazione a Sezioni Unite, da ultimo, con la sentenza 20943 del 2022 che "la responsabilità di cui all'articolo 2051 del codice civile ha carattere oggettivo, e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell'attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l'onere della prova liberatoria del caso fortuito, rappresentato da un fatto naturale o del danneggiato o di un terzo, connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, dal punto di vista oggettivo e della regolarità o adeguatezza causale, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode". La responsabilità ex art. 2051 del codice civile ha natura oggettiva e discende dall'accertamento del rapporto causale fra la cosa in custodia e il danno, salva la possibilità per il custode di fornire la prova liberatoria del caso fortuito, ossia di un elemento esterno che valga ad elidere il nesso causale e che può essere costituito da un fatto naturale e dal fatto di un terzo o della stessa vittima. Tale essendo la struttura della responsabilità ex art. 2051 c.c., l'onere probatorio gravante sul danneggiato si sostanzia nella duplice dimostrazione dell'esistenza (ed entità) del danno e della sua derivazione causale dalla cosa, residuando, a carico del custode - come detto- l'onere di dimostrare la ricorrenza del fortuito. Nell'ottica della previsione dell'art. 2051 c.c., tutto si gioca dunque sul piano di un accertamento di tipo causale (della derivazione del danno dalla cosa e dell'eventuale interruzione di tale nesso per effetto del fortuito), senza che rilevino altri elementi, quali il fatto che la cosa avesse o meno natura "insidiosa" o la circostanza che l'insidia fosse o meno percepibile ed evitabile da parte del danneggiato (trattandosi di elementi consentanei ad una diversa costruzione della responsabilità, condotta alla luce del paradigma dell'art. 2043 c.c.). Al cospetto dell'art. 2051 c.c., la condotta del danneggiato può rilevare unicamente nella misura in cui valga ad integrare il caso fortuito, ossia presenti caratteri tali da sovrapporsi al modo di essere della cosa e da porsi essa stessa all'origine del danno. Al riguardo, deve pertanto ritenersi che, ove il danno consegua all'interazione fra il modo di essere della cosa in custodia e l'agire umano, non basti a escludere il nesso causale fra la cosa e il danno la condotta colposa del danneggiato, richiedendosi anche che la stessa si connoti per oggettive caratteristiche di imprevedibilità ed imprevenibilità che valgano a determinare una definitiva cesura nella serie causale riconducibile alla cosa. Giova richiamare, al riguardo, le lucide considerazioni svolte da Cass. n. 25837 del 2017 (già recepite, fra le altre, da Cass. n. 26524 del 2020 e da Cass. n. 4035 del 2021), secondo cui "la eterogeneità tra i concetti di "negligenza della vittima" e di "imprevedibilità" della sua condotta da parte del custode ha per conseguenza che, una volta accertata una condotta negligente, distratta, imperita, imprudente, della vittima del danno da cose in custodia, ciò non basta di per sé ad escludere la responsabilità del custode. L'esclusione della responsabilità del custode, pertanto, quando viene eccepita dal custode la colpa della vittima, esige un duplice accertamento: (a) che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; (b) che quella condotta non fosse prevedibile. "(...) La condotta della vittima d'un danno da cosa in custodia può dirsi imprevedibile quando sia stata eccezionale, inconsueta, mai avvenuta prima, inattesa da una persona sensata. Stabilire se una certa condotta della vittima d'un danno arrecato da cose affidate alla custodia altrui fosse prevedibile o imprevedibile è un giudizio di fatto, come tale riservato al giudice di merito: ma il giudice di merito non può astenersi dal compierlo, limitandosi a prendere in esame soltanto la natura colposa della condotta della vittima". Nel caso specifico della caduta dal motorino in corrispondenza di una buca stradale, non può evidentemente sostenersi che la stessa sia imprevedibile (rientrando nel notorio che la sconnessione possa determinare la caduta del passante) e imprevenibile (sussistendo, di norma, la possibilità di rimuovere il dislivello o, almeno, di segnalarlo adeguatamente); deve allora ritenersi che il mero rilievo di una condotta colposa del danneggiato non sia idoneo a interrompere il nesso causale, che è manifestamente insito nel fatto stesso che la caduta sia originata dalla (prevedibile e prevenibile) interazione fra la condizione pericolosa della cosa e l'agire umano. Pertanto in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: "La caduta dal motorino dovuta ad una buca stradale non può essere catalogata come caso fortuito idoneo a rescindere il nesso causale tra la cosa in custodia al Comune ed il danno subito che dovrà pertanto essere risarcito dall’Ente stesso (Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 4051/2023)". Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Decreto anti-violenza contro i sanitari: a quali responsabilità si va incontro?
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente tematiche riferibili alle indiscriminate violenze fisiche a cui stanno andando incontro le figure professionali sanitarie. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata: "Cosa prevede il decreto anti-violenza ai sanitari e a quali responsabilità va incontro oggi chi fa violenza a tali professionisti?". Il caso di specie cui offre la possibilità di approfondire il recente decreto legge del 1° ottobre 2024 n. 137 pubblicato in Gazzetta Ufficiale pari data recante le “Misure urgenti per contrastare i fenomeni di violenza nei confronti dei professionisti sanitari, socio-sanitari, ausiliari e di assistenza e cura nell’esercizio delle loro funzioni nonché di danneggiamento dei beni destinati all’assistenza sanitaria”. Il decreto introduce il «reato di danneggiamento commesso all’interno o nelle pertinenze di strutture sanitarie o socio-sanitarie residenziali o semiresidenziali, pubbliche o private, con violenza alla persona o con minaccia o nell’atto del compimento del reato di lesioni personali ad un esercente la professione sanitaria o socio-sanitaria e a chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali». Per chi commette tale reato, sono previste la pena della reclusione da uno a cinque anni e la multa fino a 10.000 euro, oltre all’arresto obbligatorio in flagranza. Allo stesso modo, l’arresto in flagranza viene esteso a chi commette il reato di lesioni personali a personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria ed a chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali. Infine, si prevede l’arresto in flagranza differita per i) i delitti non colposi per i quali è previsto l’arresto in flagranza, commessi all’interno o nelle pertinenze delle strutture sanitarie o socio-sanitarie residenziali o semiresidenziali, pubbliche o private, in danno di persone esercenti una professione sanitaria o socio-sanitaria e ad esse ausiliarie nell’esercizio o a causa delle funzioni o del servizio; ii) i delitti commessi su cose destinate al servizio sanitario o socio-sanitario o presenti nelle suddette strutture. Ai fini dell’arresto “in flagranza differita”, è necessario che sia attestata, in modo inequivocabile, la realizzazione della condotta criminosa e che l’arresto sia compiuto non oltre il tempo necessario all'iidentificazione del soggetto e, comunque, entro le quarantotto ore dalla commissione del fatto. Pertanto, anche in risposta alla nostra lettrice, si tratta di un «provvedimento che va in due direzioni: la prima è sostanziale, aumentando la pena per il danneggiamento aggravato sulle pertinenze di strutture sanitarie e non solo fino a 5 anni, che viene coniugato con l’elemento procedurale che impone l’arresto obbligatorio nella flagranza di reato quando sono commesse lesioni, minacce aggravate o danneggiamento nell’ambito delle strutture sanitarie; il secondo aspetto riguarda la flagranza di reato che, in questo caso, è estesa nell’ambito delle 48 ore successive. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Buca sul campo in erba sintetica, il calciatore si infortuna: la società nei guai
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente tematiche riferibili alle responsabilità in generale e nello specifico a quella dovuta da infortunio di un calciatore nell’utilizzo di una struttura sportiva. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata: "A quali responsabilità va incontro il gestore di un impianto sportivo a seguito di un infortunio di un calciatore per cattiva manutenzione del terreno di gioco?". Il caso di specie cui offre la possibilità di far chiarezza in merito a delle cattive abitudini adottate dai gestori di impianti sportivi dovute all’incurata manutenzione, situazione affrontata dalla Suprema Corte proprio in merito ad un fattaccio verificatosi durante una partita di calcio nella quale un atleta viene tradito da «un avvallamento occultato da una pozzanghera», riportando serie lesioni fisiche. A finire sotto accusa sono le condizioni del campo in erba sintetica: in particolare emerge che «si erano formate pozzanghere, caratterizzate da infiltrazioni d’acqua sotto la moquette presenti sul terreno da gioco», e diversi testimoni raccontano che "nelle pozze presenti il terreno affondava". A fronte di tale quadro probatorio, la responsabilità per il brutto incidente viene attribuita al presidente della società calcistica che utilizza abitualmente il campo, quale «gestore dell’impianto sportivo», tanto da venire condannato per il reato di «lesioni colpose» di cui all’art. 590 del codice penale, oltre a dover risarcire la parte offesa. Difatti, i Giudici della Suprema Corte sottolineano, innanzitutto, che, a fronte di «lesioni colpose patite da un calciatore», «il gestore di un centro sportivo è titolare di una posizione di garanzia, che gli impone di adottare le necessarie cautele per preservare l’incolumità fisica degli utilizzatori, provvedendo alla manutenzione delle infrastrutture e delle attrezzature». Spiegano, infine, i Giudici che è sempre il gestore dell’impianto a «dover governare i rischi connessi alle caratteristiche del campo sportivo» e a «dover impedire che esso presenti problematiche nell’utilizzo anche in condizioni meteorologiche avverse». In particolare, il presidente della società calcistica «ben poteva rappresentarsi che sul campo si potessero formare pozzanghere d’acqua, e quindi era tenuto ad impedire» che si verificasse tale situazione, in quanto lo stesso risulta titolare di una posizione di garanzia, ai sensi dell’articolo 40 comma 2 del codice penale ed è tenuto anche per il disposto di cui all’art. 2051 del codice civile, a garantire l’incolumità fisica degli utenti e ad adottare quelle cautele idonee ad impedire il superamento dei limiti di rischio connaturati alla normale pratica sportiva. Ciò con la conseguente affermazione del nesso di causalità tra l’omessa adozione di dette cautele e l’evento lesivo accorso ad un utente dell’impianto sportivo (Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza n. 9160/18; depositata il 28 febbraio 2018). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Infortunio sul lavoro del dipendente: quando l'azienda è responsabile, cosa dice la legge
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante l’infortunio sul lavoro del dipendente e la responsabilità di tale evento. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di San Severino Marche che chiede: "In caso di infortunio sul lavoro del dipendente quando l’azienda risulta responsabile?". Bisogna innanzitutto far chiarezza sul fatto che, la vittima di un infortunio sul lavoro risulta esclusivamente responsabile solamente in una circostanza, ovvero, quando abbia tenuto un "contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute" (così, tra le altre, Cass. Civ. Sentenza n. 19494 del 10/09/2009). Questo secondo il principio che vede il datore di lavoro rispondere dei rischi professionali propri (vale a dire insiti nello svolgimento dell’attività lavorativa) e di quelli impropri (cioè derivanti da attività connesse a quella lavorativa), ma non di quelli totalmente scollegati dalla prestazione che il lavoratore rende in quanto tale (cd. rischio elettivo). Perché sussista il rischio elettivo, dunque, occorrono tre elementi concorrenti: 1) un atto del lavoratore volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; 2) la direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; 3) la mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa. Difatti, la norma di riferimento è evidentemente l’articolo 1227, comma 1, del codice civile, secondo la quale, "se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate", che peraltro va bilanciata, in ambito giuslavoristico, con il potere di direzione e controllo del datore di lavoro, unitamente al dovere di salvaguardare l’incolumità dei lavoratori. Conseguentemente, anche in ipotesi di condotta imprudente del lavoratore va escluso il concorso di colpa a carico dello stesso in tre ipotesi: a) se l’infortunio sia stato causato dalla puntuale esecuzione degli ordini ricevuti dal datore di lavoro (in questo caso l’imprudenza del lavoratore degrada a mera “occasione” dell’infortunio); b) se l’infortunio sia avvenuto a causa della organizzazione stessa del ciclo lavorativo, impostata con modalità contrarie alle norme finalizzate alla prevenzione degli infortuni, o comunque contraria ad elementari regole di prudenza; c) se l’infortunio sia avvenuto a causa di una carenza di formazione od informazione del lavoratore, ascrivibile al datore di lavoro. Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che, "nel caso di infortunio sul lavoro, è responsabile l’azienda, tanto da escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell’art 1227, comma 1, c.c., quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza; oppure abbia egli stesso impartito l’ordine, nell’esecuzione puntuale del quale si sia verificato l’infortunio; o ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi, ricorrendo, in tali ipotesi, l’eventuale condotta imprudente della vittima degradata a mera occasione dell’infortunio, ed è perciò giuridicamente irrilevante (Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 8988/20; depositata il 15 maggio). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
L’ex marito può staccare le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie?
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti in sede di separazione tra gli ex coniugi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “A quali responsabilità va incontro l’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie?” Tale circostanza ci porta subito ad applicare il principio giuridico, oramai divenuto consolidato, espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 13407/2019, secondo il quale: “Sussiste il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni laddove il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice a fronte della contestazione o dell’ostacolo posto da terzi, come nel caso di un ex marito che, a seguito della mancata voltura delle utenze domestiche dell’abitazione familiare assegnata all’ex moglie, aveva provveduto personalmente a staccare i contatori”. Difatti, un caso simile è quello prospettato dalla nostra lettrice, nel quale l’ex marito, dopo aver intimato più volte all’ex moglie di procedere alla voltura delle forniture di energia elettrica e gas dell’abitazione familiare a lei assegnata in sede di separazione, aveva provveduto personalmente al distacco, costringendo la donna e i figli a stare nell’appartamento senza poter usufruire di tali servizi. La Corte di Cassazione ha confermato la configurabilità in capo all’imputato del reato di cui all’art. 393 c.p., in quanto, il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice di fronte alla contestazione o all’ostacolo posto da terzi; a tal proposito, la Suprema Corte aggiunge che, “non è consentito legittimare l’autosoddisfazione per il superamento degli ostacoli che si frappongono al concreto esercizio del diritto”. Viene, infine, precisato che, “si ritiene legittima la violenza sulle cose solo quando sia esercitata al fine di difendere il diritto di possesso in presenza di un atto di turbativa nel godimento della res, sempre che l’azione reattiva avvenga nell’immediatezza di quella lesiva del diritto, non si tratti di compossesso e sia impossibile il ricorso immediato al giudice, sussistendo la necessità impellente di ripristinare il possesso perduto o il pacifico esercizio del diritto di godimento del bene”.Pertanto, in risposta alla nostra lettrice si ritiene corretto affermare che, “Nel caso dell’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie, lo stesso commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto e punito ai sensi dell’art. 393 c.p., in quanto tale diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso all’Autorità Giudiziaria”(Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 13407/19; depositata il 27 marzo). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Prescrizione delle bollette: quando è applicabile il termine dei 2 o dei 5 anni?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica sulla prescrizione dei pagamenti in generale e, in particolare, quella riferita alle bollette delle utenze. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: "Quando è applicabile il termine di prescrizione dei 2 anni in luogo dei 5 in riferimento alle fatture di fornitura?" Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto dibattuta, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi recentemente anche la Corte di Cassazione riguardo ad una controversia riferita ad un contratto di somministrazione di acqua ed avente ad oggetto la prescrizione di pagamenti di fatture relative a consumi idrici. La Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sull'interpretazione dell'articolo 1, comma 4, della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio 2018) che ha ridotto da 5 a 2 anni il termine di prescrizione per i pagamenti relativi alle forniture di energia elettrica, gas e acqua. La questione sottoposta all'attenzione della Cassazione riguardava la possibilità di applicare il nuovo termine di prescrizione ridotto anche ai consumi effettuati negli anni precedenti all'entrata in vigore della legge. La Suprema Corte afferma che il nuovo termine di prescrizione può essere applicato anche a fatture per consumi relativi ad anni precedenti all'entrata in vigore della norma, se la scadenza del pagamento sia successiva al 1° gennaio 2020, in questo caso per l’idrico, mentre 1° marzo 2018 per l’elettrico e 1° gennaio 2019 per il gas (come previsto dalla norma transitoria di cui all'art. 1, comma 10, della legge n. 205 del 2017). Ai fini della determinazione dell'ambito d'applicazione della norma ciò che conta non è né la data di emissione della fattura né l'annualità in cui sono stati erogati o effettuati i consumi quanto piuttosto la data di scadenza del pagamento. A tal proposito la Suprema Corte ricorda che, il dies a quo della prescrizione «coincide con la scadenza dei termini di pagamento indicati nelle fatture di cui si tratta, atteso che solo da tale momento i crediti divengono esigibili» (si cita Cass., n. 23789 del 17/9/2008). Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice, si può affermare che, “Il termine di prescrizione ridotto a 2 anni dall’art. 1, comma 4, L. n. 205/2017 è applicabile anche ai pagamenti relativi a forniture precedenti con scadenza di pagamento delle fatture successive al 1° marzo 2018 per l’elettrico, 1° gennaio 2019 per il gas ed al 1° gennaio 2020 per l’idrico” (Cass. Civ., Ord. n. 15102/2024). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Danni causati dai temporali: responsabilità del Comune per il risarcimento danni
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente gli ultimi eventi temporaleschi accorsi nella nostra provincia e nello specifico riguardo alla tematica sulla responsabilità degli enti locali per i danni causati dalla caduta di alberi o rami, ecc, in occasione di temporali. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “E’ possibile ottenere il risarcimento dei danni riportati dalla propria autovettura a seguito della caduta di un albero causata da un forte temporale?” Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente sensibile, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi il Tribunale di Cagliari, con una pronuncia che ha posto le basi all’unanime orientamento della Corte di Cassazione, secondo il quale: “È configurabile la responsabilità del Comune a norma dell’art. 2051 c.c. per il danno cagionato al privato da un bene demaniale, atteso che questo si trova nella custodia della amministrazione medesima e quindi rientra nel suo potere di amministrazione e custodia”, ed ancora: “ La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, può essere esclusa solo se si provi il caso fortuito, consistente in un evento imprevedibile ed eccezionale. Non può quindi ritenersi caso fortuito interruttivo del nesso di causalità, un temporale, seppur caratterizzato da forti raffiche di vento e caduta di grandine” (Trib. Cagliari; Sent. del 06.12.1995). Difatti il richiamato art. 2051 del codice civile, prevedendo espressamente che: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”, disciplina l’istituto della responsabilità della cosa in custodia, la quale assume carattere oggettivo, dal momento che prescinde dall’effettivo coinvolgimento del custode della cosa nell’evento lesivo provocato da quest’ultima, introducendo, nel caso che ci occupa, la questione della diretta riconducibilità del danneggiamento riportato dal veicolo, agli enti amministrativi, quali Comune, Provincia, Regione, tenuti alla sicurezza e alla manutenzione delle strade, urbane nel primo caso, extraurbane negli altri due, nonché delle relative pertinenze, come marciapiedi e alberi, riconducibilità superabile solo con la prova dell’accadimento di un caso fortuito, inteso quale elemento estraneo alla sfera soggettiva del custode, del tutto autonomo, imprevedibile nonché di assoluta eccezionalità, tale da interrompere il nesso di causalità e risultare idoneo a rappresentare l’esclusiva causa del danno. A tal proposito, con riferimento ai danni cagionati da precipitazioni atmosferiche, la Suprema Corte più volte chiamata a pronunciarsi su tale questione, è stata chiara nell’escludere l’ipotesi di caso fortuito o della forza maggiore in presenza di fenomeni metereologici anche di particolare forza e intensità, se questi rientrano comunque, per quanto rari e sporadici, nella normale prevedibilità, arrivando inoltre a stabilire con una recentissima sentenza che: “In tema di responsabilità ex art. 2051 c.c., la riconducibilità degli eventi atmosferici alla nozione di "caso fortuito" è condizionata alla presenza dei requisiti dell'eccezionalità e dell'imprevedibilità, i quali non possono ritenersi provati neanche per il fatto che sia stato dichiarato lo stato di emergenza sulla base di valutazioni operate dalla protezione civile, poiché la "calamità naturale", che determina lo stato d'emergenza, non costituisce di per sé un evento eccezionale e imprevedibile, pur potendo essere determinata anche da eventi di tal natura, le cui caratteristiche devono essere accertate sulla base di elementi di prova concreti e specifici”. ( Cass. Civ.; Sez. III; Sent. n. 14861; dep. 31.05.2019). Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare la legittimità della richiesta di risarcimento avanzata nei confronti dell’Ente per i danni causati dai beni sui quali quest’ultimo svolge la propria attività custodiale, di gestione e manutenzione. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Il condomino in regola con i pagamenti può opporsi al precetto per la preventiva escussione dei condomini morosi?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato".Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti condominiali in presenza di mancati pagamenti. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Porto Recanati che chiede: "Il condomino in regola con i pagamenti può opporsi al precetto per la preventiva escussione dei condomini morosi?". Tale circostanza ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo ad una fattispecie molto dibattuta nelle aule di Tribunale, ed a tal proposito, la Suprema Corte recentemente ha avuto modo di pronunciarsi in una vicenda i cui protagonisti sono stati due condomini in regola con i pagamenti contro gli atti di precetto notificati da un creditore del condominio in forza di una sentenza divenuta esecutiva: i due condomini contestavano la propria regolare posizione con i pagamenti pro rata dovuti, invocando dunque la preventiva escussione dei condomini morosi, mentre il creditore soccombente ha proposto ricorso in Cassazione. Il Collegio sottolinea come la sentenza impugnata abbia fatto corretta applicazione dell'articolo 63 disp. att. c.c., come modificato dalla legge n. 220/2012. Il comma 1 dispone infatti che l'amministratore «è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi», mentre il comma 2 stabilisce che « i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini». In capo ai condomini che abbiano regolarmente pagato la propria quota viene dunque a crearsi un'obbligazione sussidiaria ed eventuale, favorita dal "beneficium excussionis" avente ad oggetto non l'intera prestazione imputabile al condominio, quanto unicamente le somme dovute dai morosi. La pronuncia afferma infatti il principio secondo cui «il condomino in regola coi pagamenti, al quale sia intimato precetto da un creditore sulla base di un titolo esecutivo giudiziale formatosi nei confronti del Condominio, può proporre opposizione a norma dell'art. 615 c.p.c. per far valere il beneficio di preventiva escussione dei condomini morosi che condiziona l'obbligo sussidiario di garanzia di cui all'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., ciò attenendo ad una condizione dell'azione esecutiva nei confronti del condomino non moroso, e, quindi, al diritto del creditore di agire esecutivamente ai danni di quest'ultimo». Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità ed in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: "Il creditore del Condominio avente un titolo esecutivo deve chiedere il pagamento prima ai condomini morosi e solo successivamente potrà rivolgersi ai condomini che risultano già in regola con i propri pagamenti pro rata, tenuto conto che l’amministratore è obbligato a comunicare al creditore le generalità dei condomini morosi delineando un obbligo legale di cooperazione dell’amministratore con il terzo creditore nel rendere noti i nominativi dei condomini non in regola con il pagamento delle somme dovute e delle rispettive quote millesimali" (Cass. Civ., Sez. II, Ordinanza del 17.02.2023, n. 5043). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Schiamazzi notturni in un pub del centro storico: al gestore vale una condanna?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante gli schiamazzi notturni oltre ai disturbati rapporti di vicinato in genere. Ecco la risposta dell'avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "Il titolare di un pub potrebbe andare incontro ad una responsabilità penale a causa degli schiamazzi notturni dei propri clienti?". Tale circostanza ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo a una fattispecie molto dibattuta nei rapporti di vicinato soprattutto nelle città in tale periodo vacanziero, e a tal proposito, la Suprema Corte recentemente ha avuto modo di pronunciarsi in una vicenda i cui protagonisti sono stati il titolare di un pub imputato del reato di cui all'articolo 659 del codice penale (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle parsone) ed alcuni vicini quali parti civili costituite. La Corte di Cassazione ha subito evidenziato come, nel caso di esercizi commerciali aperti al pubblico, debba essere riconosciuto in capo al titolare l'esistenza di una "posizione di garanzia", cui è correlato l'obbligo giuridico di impedire gli schiamazzi o comunque i rumori prodotti in maniera eccessiva dalla propria clientela (Cassazione, n. 22142 del 08/05/2017). Tale obbligo, che si sostanzia nel doveroso esercizio di un potere di controllo, è configurabile rispetto alle condotte poste in essere da parte dei clienti sia che si trovino all'interno del locale, sia per gli schiamazzi e i rumori dagli stessi prodotti all'esterno del locale: la veste di titolare della gestione dell'esercizio pubblico, infatti, comporta l'assunzione dell'obbligo giuridico di controllare, con possibile ricorso ai vari mezzi offerti dall'ordinamento, come l'attuazione dello "ius excludendi" e il ricorso all'Autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica. Infine, i giudici precisano che la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, «sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo a essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluni se ne possano lamentare» (Cass., n. 2258 del 17/11/2020): in altre parole, non è necessario che tutti i residenti sulla via limitrofa al locale percepiscano il rumore come superante la soglia di normale tollerabilità, essendo sufficiente che solo alcuni di essi ne abbiano subito turbamento nelle occupazioni e nel riposo e che altri potrebbero subirne altrettanto. Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità ed in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: "Integra il delitto di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, di cui all'articolo 659 del codice penale, la condotta del gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati dagli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne, essendogli imposto l'obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso all'autorità o allo "ius excludendi" che la frequentazione del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme di tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica”(Cass. Pen., sentenza n. 24397/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Bagaglio perso durante il viaggio, l'incubo di ogni viaggiatore: chi deve risarcire? La casistica
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato eventi che potrebbero accadere in occasione delle imminenti ferie estive e nello specifico la "responsabilità dovuta dalla perdita del bagaglio" in capo agli organizzatori della vacanza o comunque del vettore che ha effettuato il viaggio. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "In caso di viaggio con pacchetto turistico 'tutto compreso' giunta a destinazione davanti al nastro trasportatore dell’aeroporto si concretizza il fatto della perdita del proprio bagaglio. Chi deve risarcire?" Sapere come comportarsi in questi casi e conoscere la corretta procedura da seguire, aiuta a recuperare la calma dopo l'iniziale momento di sconcerto e rabbia e, magari, anche le valigie o comunque il risarcimento danni. Innanzitutto, giova ricordare che in caso di smarrimento, distruzione, deterioramento o ritardo nella consegna dei bagagli, la tutela dei viaggiatori, per le compagnie aeree comunitarie e quelle registrate nei Paesi che vi aderiscono, è assicurata dalla Convenzione di Montreal del 1999, nonché dal Regolamento 889/2002/CE, che stabilisce all’art. 22 la responsabilità del vettore, prevedendo un risarcimento danni fino a 1.000 DSP (Diritti speciali di prelievo) per passeggero, pari a circa 1.134,71 euro. Mentre, per le compagnie aeree che non aderiscono a tale convenzione, è previsto un risarcimento pari a 20 euro per Kg sino al raggiungimento del peso massimo ammesso al trasporto in stiva senza pagamenti aggiuntivi. Sulla base della normativa, pertanto, i passaggi da seguire per ottenere un equo ristoro per il danno subito sono i seguenti: innanzitutto, recarsi all’ufficio oggetti smarriti (Lost and found) dell’aeroporto e compilare l’apposito modulo Pir (Property irregurarity report), descrivendo la valigia ed il suo contenuto; poi, se trascorse le prime 24 ore, il bagaglio non è stato ancora rintracciato, alcune compagnie provvedono il rimborso di una somma per l’acquisto degli articoli di prima necessità, per le quali è quindi necessario conservare scontrini e ricevute. Qualora il bagaglio non venga restituito, il proprietario è tenuto ad inoltrare reclamo alla compagnia aerea entro 21 giorni dallo smarrimento; in caso, invece, di danneggiamento, la richiesta di rimborso deve essere inviata alla compagnia entro 7 giorni. Per i bagagli contenenti oggetti di valore come gioielli, pc portatili o denaro contante è sempre consigliabile dichiararne il contenuto al momento del check-in, chiedendo di poter usufruire della "dichiarazione di valore" che permette di elevare il limite di responsabilità del bagaglio registrato, oppure optare preventivamente per la stipula di una polizza assicurativa che, a fronte di un esiguo premio, consente di avere indennizzi superiori a quelli offerti dalle compagnie in caso di furto o perdita. Ad ogni modo, anche in risposta alla nostra lettrice, nel caso in cui tale vicenda non venga risolta in via stragiudiziale, allora sarà possibile ottenere giudizialmente, previa dimostrazione del pregiudizio subito, il risarcimento di tutti i danni subiti, sia patrimoniali, sia non patrimoniali quali anche il danno morale considerato come "danno da vacanza rovinata". Difatti, è oramai consolidato l’orientamento della Corte di Cassazione, secondo il quale, "il danno non patrimoniale da vacanza rovinata è un pregiudizio risarcibile, costituendo uno dei casi previsti dall’art. 2059 c.c., e spetta al giudice di merito valutare la domanda di risarcimento e prendere una decisione fondata sul bilanciamento del principio di tolleranza delle lesioni minime e della condizione concreta delle parti (Corte di Cassazione, Sez. III Civile, sentenza n. 17724/18, depositata il 06.07.2018)". Inoltre, sempre nella medesima sentenza, la Suprema Corte, individua quali soggetti obbligati a risarcire il proprietario del bagaglio perduto, oltre al vettore, anche il venditore od organizzatore del pacchetto turistico, in virtù dell’assunzione legale del rischio per i danni del viaggiatore, salvo comunque la possibilità, da parte di quest’ultimi, di rivalersi nei confronti della compagnia aerea. E precisamente: "Il venditore o organizzatore di un pacchetto turistico, in virtù dell’assunzione legale del rischio per i danni che possa subire il viaggiatore, è responsabile del risarcimento patito per fatto illecito commesso da un terzo, salvo la possibilità di rivalersi nei confronti di quest’ultimo". Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Attenzione alle case fantasma: la truffa che rovina le vacanze estive
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate, hanno interessato principalmente una tematica tipica della stagione estiva e relativa alla responsabilità da vacanza rovinata. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Tolentino che chiede: “A cosa va incontro chi mette un annuncio online per l’affitto estivo di una casa vacanza che poi si rivela inesistente?” Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale si è pronunciato recentemente il Tribunale di Avellino, con sentenza n. 1064/2018, nei confronti di un uomo che aveva raggirato una giovane coppia, fingendo di essere proprietario di una bellissima casa a Posillipo, posta in affitto per il periodo estivo su alcuni siti online, per poi sparire dopo aver ricevuto una consistente caparra, e condannandolo per il delitto di truffa c.d. contrattuale ex art. 640 del codice penale. Difatti, il Giudice chiamato a pronunciarsi sulla questione, in attenta valutazione delle circostanze del caso di specie, aveva statuito che: “La condotta tenuta dall’imputato, ed in tali termini acclarata, lungi dall'esaurirsi in un mero inadempimento civilistico, finisce senz'altro con l'integrare il reato di truffa, ricorrente ogniqualvolta l'agente abbia posto in essere artifici e raggiri al momento della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo, indotto pertanto a prestare un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato”. A tal proposito, occorre osservare che, in aggiunta al danno economico sofferto dalla coppia, nell’irrogare l’adeguata sanzione penale, il Giudice di merito, in senso conforme alla più consolidata giurisprudenza di legittimità, operava un’attenta valutazione anche dell’entità danno non patrimoniale patito dalle parti offese, e relativo alla vacanza rovinata, intesa come pregiudizio al benessere psichico e materiale sofferto dai malcapitati per non aver potuto godere della vacanza quale occasione di piacere, svago e riposo. Difatti, come pure sancito dalla Suprema Corte: "Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata, secondo quanto espressamente previsto in attuazione della Direttiva n. 90/314/CEE, costituisce uno dei "casi previsti dalla legge" nei quali, il pregiudizio non patrimoniale è risarcibile ai sensi dell'art. 2059 c.c., e si concreta in una tipologia di danno costituito da disagio e sofferenze per il presumibile stravolgimento delle aspettative con riguardo alla qualità e serenità della vacanza”(Cassazione civile; Sez. III, Sent. n. 17724 del 06/07/2018). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice e in linea con la più autorevole giurisprudenza sia di merito, sia di legittimità, si può affermare che: “Il soggetto che pone in essere una condotta fraudolenta con artifici e raggiri consistiti nel proporre in affitto un appartamento per le vacanze ed inducendo in errore le vittime sulla reale esistenza dello stesso, nonché procurandosi un ingiusto profitto, va condannato per il delitto di truffa ex art. 640 c.p., oltre al risarcimento di tutti i danni derivati dalla stessa condotta acclarata, la cui liquidazione non può prescindere dal danno emergente corrispondente all'importo inutilmente corrisposto in anticipo, oltreché al danno da vacanza rovinata subito dalle parti offese” (Tribunale sez. I , - Avellino, 04/06/2018, n. 1064 ). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Bocciatura illegittima con ritardo nell’accesso alla professione: vale risarcimento danni?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente tematiche scolastiche quali le possibili bocciature ingiuste. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Recanati che chiede: “È possibile chiedere un risarcimento danni in caso di bocciatura illegittima?” Utile a tal proposito la recente sentenza del Tar Liguria con la quale è stata risolta una vicenda giudiziaria nella quale una studentessa è “stata costretta a ripetere il terzo anno della scuola media superiore, ritardando il percorso scolastico ed accademico, nonché, conseguentemente, l'accesso al mercato del lavoro nello specifico come architetto”; dettagliata anche la pretesa economica avanzata nei confronti della scuola e del Ministero: «il danno morale per il turbamento emotivo interiore sofferto» e «il danno patrimoniale per il mancato guadagno per un anno di prestazioni professionali come architetto o la perdita della chance di ottenere quel reddito». Per i giudici del Tar Liguria è palese «l'illegittimità degli atti adottati dall'istituto scolastico», anche perché sono stati, non a caso, «annullati gli atti concernenti la bocciatura comminata nel 2011 alla studentessa». Nello specifico, «gli atti dell'amministrazione scolastica – vale a dire il verbale di scrutinio finale nel giugno del 2011 ed il provvedimento di sospensione del giudizio di ammissione nelle materie di Matematica e Fisica, i verbali di verifica finale delle prove di matematica e fisica svolte alla fine di agosto del 2011, il verbale di integrazione dello scrutinio finale, sempre alla fine di agosto del 2011, ed il provvedimento di non ammissione al quarto anno del corso di studio – sono stati giudicati affetti da plurime illegittimità». «Il consiglio di classe non aveva valutato la preparazione complessiva dell'allieva, né nello scrutinio di giugno, né in sede di esami di riparazione ad agosto, mentre l'apprezzamento del rendimento generale sarebbe stato necessario sia alla luce dei buoni voti da lei conseguiti nelle altre materie (per le quali aveva riportato una media di 7,4/10), sia per via del conclamato conflitto insorto tra l'allieva (e altre compagne) e la professoressa di Matematica, sia in ragione del fatto che i metodi didattici dell'insegnante erano stati oggetto di dubbi e contestazioni; i voti negativi in Matematica e Fisica attribuiti alla studentessa nello scrutinio di giugno non erano presenti sul registro dell'insegnante; la professoressa aveva utilizzato per la ragazza un metro valutativo molto più rigoroso rispetto a quello applicato ai suoi compagni, come provato da apposita perizia di parte in cui la consulente aveva evidenziato che, per compiti in classe svolti in modo pressoché identico a quelli di altri alunni, alla allieva erano stati assegnati voti più bassi, con palese disparità di trattamento; due esercizi della prova di recupero di Fisica presupponevano la conoscenza di elementi di trigonometria, argomento estraneo al programma trattato durante l'anno scolastico». Conseguente, quindi, la colpa dell'amministrazione scolastica per aver emanato gli atti relativi alla bocciatura della studentessa, poiché, osservano i giudici, «le illegittimità riscontrate appaiono infatti rimproverabili e non scusabili, sia per la loro numerosità, sia per la sussistenza (anche) del vizio di disparità di trattamento, particolarmente stigmatizzabile per il suo carattere odioso, tanto più in quanto inficiante l'attività valutativa condotta nell'ambito del sistema pubblico di istruzione e nei confronti di una ragazza minorenne». Tutto ciò ha leso l'interesse della studentessa a essere ammessa alla classe quarta. E, peraltro, «se l'azione amministrativa non fosse stata inficiata da molteplici vizi, la studentessa avrebbe potuto ottenere l'agognata promozione», osservano i giudici. Invece, «in conseguenza della bocciatura, ella ha dovuto rifrequentare la classe terza, rallentando il suo percorso di istruzione ed il suo ingresso nel mondo del lavoro»: difatti tutto ciò ha differito di un anno gli studi universitari e l'inizio dell'attività professionale», studi che le hanno consentito di ottenere la laurea magistrale in Architettura con il voto di 110/110 e lode, poi il superamento dell'esame di abilitazione per diventare architetto, con la possibilità di esercitare la professione e di ottenere i primi guadagni nell'agosto del 2021. Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: “Alla professionista bocciata ingiustamente in terza superiore deve essere riconosciuto dall’istituto scolastico e dal Ministero dell’Istruzione il risarcimento sia per il danno morale subito da tale illegittimo evento sia quello per il diminuito utile causato dal ritardo di un anno nella chiusura del percorso di studi” (Tar Liguria, sentenza del 05.10.2022, n. 834). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Abbandona il proprio cane: arriva la condanna penale per il padrone
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato" Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema della tutela degli animali e nello specifico il caso in cui gli amici a quattro zampe vengano abbandonati dai propri padroni, orrenda circostanza questa spesso posta in essere proprio in questo periodo in quanto a ridosso delle ferie estive. Il caso in parola ci offre la possibilità di esaminare giuridicamente tale deplorevole condotta penalmente rilevante. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “Il proprietario di un cane abbandona l’animale proprio prima di partire per le proprie ferie estive senza essere visto da alcuna persona che potrebbe denunciare immediatamente tale fatto alla Polizia Giudiziaria. L’animale viene poi salvato da un passante che denuncia tale ritrovamento all’Autorità Pubblica: quali le responsabilità in capo al proprietario dell’animale?”. Il caso di specie ci porta ad analizzare il reato di “Abbandono di Animali”, previsto e disciplinato dall’art. 727 del codice penale, secondo il quale: “Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l'arresto fino a un anno o con l'ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze”. A tal proposito, il concetto di abbandono va ricondotto alla trascuratezza o al disinteresse verso l’animale e non invece all’incrudelimento nei suoi confronti o all’inflizione di sofferenze gratuite, atteggiamenti questi rientranti, di fatto, nel reato di “Maltrattamento di animali” previsto e punito dall’art. 544- ter del codice penale con la pena alla reclusione da 3 a 18 mesi. L’abbandono, in ogni caso, non va individuato nella sola precisa volontà di abbandonare l’animale, ma nell’intento più generale di non prendersene più cura nella consapevolezza dell’incapacità dell’animale di provvedere autonomamente a sé stesso. Pertanto, nel caso che ci occupa, risulta evidente l’applicazione dell’art. 727 c.p. nei confronti del proprietario del cane abbandonato, il quale, pur non essendo stato visto da alcuna persona, non ha tenuto conto della presenza del microchip addosso all’animale; per tali ragioni, sarà poi agevole per il servizio veterinario, poter risalire al proprietario del cane abbandonato per poi denunciarlo all’Autorità Giudiziaria per il reato di abbandono di animali. Difatti, la stessa Corte di Cassazione specifica che la nozione di abbandono di animali è da intendersi non solo come precisa volontà di abbandonare definitivamente l'animale, ma anche come il non prendersene più cura, "ben consapevoli dell'incapacità dell'animale di non poter più provvedere a sé stesso come quando era affidato alle cure del proprio padrone". Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, "Il concetto di abbandono, come delineato dall'art. 727 c.p., implica semplicemente quella trascuratezza o disinteresse che rappresentano una delle variabili possibili in aggiunta a chi addirittura abbandona il proprio cane ai bordi di una strada circostanza questa che va a palesare ancor più la commissione del reato di abbandono di animali (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 18892/11). Nel consigliare a tutti di denunciare prontamente tali spregevoli comportamenti penalmente rilevanti, come sempre rimango in attesa delle vostre richieste via mail dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Cedere i dati del cliente al nuovo gestore senza il suo espresso consenso è legittimo?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie riguardanti il trattamento dei dati personali anche riguardo l’attivazione dei contratti di fornitura delle utenze. Di seguito la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Civitanova Marche che chiede: “È legittimo l’utilizzo dei dati personali dei clienti tra gestori senza l’avvenuto consenso esplicito?” Il caso di specie ci porta ad esaminare una vicenda molto attuale affrontata dalla CEDU (ric. 23215/21 del 25 giugno) tenuto conto che con la fine del mercato tutelato se una persona non ha scelto un nuovo gestore verrà passata automaticamente al nuovo scelto da Arera. Orbene la CEDU «ribadisce che il diritto alla protezione dei dati personali è garantito dal diritto al rispetto della vita privata ai sensi dell'articolo 8. L'articolo 8 prevede quindi il diritto a una forma di autodeterminazione informativa, che consente alle persone fisiche di far valere il loro diritto alla vita privata per quanto riguarda i dati che, sebbene neutrali, sono raccolti, trattati e diffusi collettivamente e in una forma o in un modo tale che i loro diritti di cui all'articolo 8 possano essere esercitati. Nel determinare se le informazioni personali conservate dalle autorità riguardassero aspetti di vita privata, essa ha tenuto debitamente conto del contesto specifico in cui le informazioni di cui trattasi sono state registrate e conservate, della natura delle registrazioni, del modo in cui tali registrazioni sono utilizzate e trattate e dei risultati che possono essere ottenuti» (L.B. c. Ungheria [GC] del 9/3/23 per le norme internazionali sul tema). È irrilevante che i dati in questione (dati dell'appartamento, metratura, indirizzo, nome del proprietario messo come intestatario dell'utenza “fantasma” etc.) fossero contenuti nei pubblici registri del catasto, non fossero stati ceduti da B. a terzi ma usati solo per la fatturazione delle utenze: il ricorrente non aveva prestato nessun consenso consapevole, libero e informato al loro uso e non si capisce come entrambi i gestori che si sono succeduti ne siano entrati in possesso. La prassi recente e costante della CEDU sulla materia, in linea con quella della CGUE, è molto chiara nel considerare trattamenti illeciti tutti quelli eseguiti senza il consenso informato dell'interessato: deve essere espresso, perciò le telefonate, suonare il campanello, con la scusa che i dati sono pubblici (citofono, elenchi telefonici, dati in ogni caso accessibili etc.), inserire nei siti web diciture “ se consulti il nostro sito automaticamente presti il consenso all'uso dei tuoi dati” o simili non costituiscono autorizzazioni valide al loro impiego se non fornite espressamente, in modo consapevole ed informato, dagli interessati (Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy c. Finlandia [GC] del 27/6/23). Pertanto, anche in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare quanto segue: “Cedere i dati del cliente al nuovo gestore senza il suo espresso e consapevole consenso è una violazione della sua privacy ex art.8 Cedu con relativo risarcimento del danno subito” (CEDU decisione del 25.06.2024). Rimango come sempre in attesa delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.