Chiedilo all'avvocato

Bagaglio perso durante il viaggio, l'incubo di ogni viaggiatore: chi deve risarcire? La casistica

Bagaglio perso durante il viaggio, l'incubo di ogni viaggiatore: chi deve risarcire? La casistica

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato eventi che potrebbero accadere in occasione delle imminenti ferie estive e nello specifico la "responsabilità dovuta dalla perdita del bagaglio" in capo agli organizzatori della vacanza o comunque del vettore che ha effettuato il viaggio. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "In caso di viaggio con pacchetto turistico 'tutto compreso' giunta a destinazione davanti al nastro trasportatore dell’aeroporto si concretizza il fatto della perdita del proprio bagaglio. Chi deve risarcire?" Sapere come comportarsi in questi casi e conoscere la corretta procedura da seguire, aiuta a recuperare la calma dopo l'iniziale momento di sconcerto e rabbia e, magari, anche le valigie o comunque il risarcimento danni. Innanzitutto, giova ricordare che in caso di smarrimento, distruzione, deterioramento o ritardo nella consegna dei bagagli, la tutela dei viaggiatori, per le compagnie aeree comunitarie e quelle registrate nei Paesi che vi aderiscono, è assicurata dalla Convenzione di Montreal del 1999, nonché dal Regolamento 889/2002/CE, che stabilisce all’art. 22 la responsabilità del vettore, prevedendo un risarcimento danni fino a 1.000 DSP (Diritti speciali di prelievo) per passeggero, pari a circa 1.134,71 euro. Mentre, per le compagnie aeree che non aderiscono a tale convenzione, è previsto un risarcimento pari a 20 euro per Kg sino al raggiungimento del peso massimo ammesso al trasporto in stiva senza pagamenti aggiuntivi. Sulla base della normativa, pertanto, i passaggi da seguire per ottenere un equo ristoro per il danno subito sono i seguenti: innanzitutto, recarsi all’ufficio oggetti smarriti (Lost and found) dell’aeroporto e compilare l’apposito modulo Pir (Property irregurarity report), descrivendo la valigia ed il suo contenuto; poi, se trascorse le prime 24 ore, il bagaglio non è stato ancora rintracciato, alcune compagnie provvedono il rimborso di una somma per l’acquisto degli articoli di prima necessità, per le quali è quindi necessario conservare scontrini e ricevute. Qualora il bagaglio non venga restituito, il proprietario è tenuto ad inoltrare reclamo alla compagnia aerea entro 21 giorni dallo smarrimento; in caso, invece, di danneggiamento, la richiesta di rimborso deve essere inviata alla compagnia entro 7 giorni. Per i bagagli contenenti oggetti di valore come gioielli, pc portatili o denaro contante è sempre consigliabile dichiararne il contenuto al momento del check-in, chiedendo di poter usufruire della "dichiarazione di valore" che permette di elevare il limite di responsabilità del bagaglio registrato, oppure optare preventivamente per la stipula di una polizza assicurativa che, a fronte di un esiguo premio, consente di avere indennizzi superiori a quelli offerti dalle compagnie in caso di furto o perdita. Ad ogni modo, anche in risposta alla nostra lettrice, nel caso in cui tale vicenda non venga risolta in via stragiudiziale, allora sarà possibile ottenere giudizialmente, previa dimostrazione del pregiudizio subito, il risarcimento di tutti i danni subiti, sia patrimoniali, sia non patrimoniali quali anche il danno morale considerato come "danno da vacanza rovinata". Difatti, è oramai consolidato l’orientamento della Corte di Cassazione, secondo il quale, "il danno non patrimoniale da vacanza rovinata è un pregiudizio risarcibile, costituendo uno dei casi previsti dall’art. 2059 c.c., e spetta al giudice di merito valutare la domanda di risarcimento e prendere una decisione fondata sul bilanciamento del principio di tolleranza delle lesioni minime e della condizione concreta delle parti (Corte di Cassazione, Sez. III Civile, sentenza n. 17724/18, depositata il 06.07.2018)". Inoltre, sempre nella medesima sentenza, la Suprema Corte, individua quali soggetti obbligati a risarcire il proprietario del bagaglio perduto, oltre al vettore, anche il venditore od organizzatore del pacchetto turistico, in virtù dell’assunzione legale del rischio per i danni del viaggiatore, salvo comunque la possibilità, da parte di quest’ultimi, di rivalersi nei confronti della compagnia aerea.  E precisamente: "Il venditore o organizzatore di un pacchetto turistico, in virtù dell’assunzione legale del rischio per i danni che possa subire il viaggiatore, è responsabile del risarcimento patito per fatto illecito commesso da un terzo, salvo la possibilità di rivalersi nei confronti di quest’ultimo". Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                                                                                                         

04/08/2024 09:30
Attenzione alle case fantasma: la truffa che rovina le vacanze estive

Attenzione alle case fantasma: la truffa che rovina le vacanze estive

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate, hanno interessato principalmente una tematica tipica della stagione estiva e relativa alla responsabilità da vacanza rovinata. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Tolentino che chiede: “A cosa va incontro chi mette un annuncio online per l’affitto estivo di una casa vacanza che poi si rivela inesistente?” Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale si è pronunciato recentemente il Tribunale di Avellino, con sentenza n. 1064/2018, nei confronti di un uomo che aveva raggirato una giovane coppia, fingendo di essere proprietario di una bellissima casa a Posillipo, posta in affitto per il periodo estivo su alcuni siti online, per poi sparire dopo aver ricevuto una consistente caparra, e condannandolo per il delitto di truffa c.d. contrattuale ex art. 640 del codice penale. Difatti, il Giudice chiamato a pronunciarsi sulla questione, in attenta valutazione delle circostanze del caso di specie, aveva statuito che: “La condotta tenuta dall’imputato, ed in tali termini acclarata, lungi dall'esaurirsi in un mero inadempimento civilistico, finisce senz'altro con l'integrare il reato di truffa, ricorrente ogniqualvolta l'agente abbia posto in essere artifici e raggiri al momento della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo, indotto pertanto a prestare un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato”. A tal proposito, occorre osservare che, in aggiunta al danno economico sofferto dalla coppia, nell’irrogare l’adeguata sanzione penale, il Giudice di merito, in senso conforme alla più consolidata giurisprudenza di legittimità, operava un’attenta valutazione anche dell’entità danno non patrimoniale patito dalle parti offese, e relativo alla vacanza rovinata, intesa come pregiudizio al benessere psichico e materiale sofferto dai malcapitati per non aver potuto godere della vacanza quale occasione di piacere, svago e riposo. Difatti, come pure sancito dalla Suprema Corte: "Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata, secondo quanto espressamente previsto in attuazione della Direttiva n. 90/314/CEE, costituisce uno dei "casi previsti dalla legge" nei quali, il pregiudizio non patrimoniale è risarcibile ai sensi dell'art. 2059 c.c., e si concreta in una tipologia di danno costituito da disagio e sofferenze per il presumibile stravolgimento delle aspettative con riguardo alla qualità e serenità della vacanza”(Cassazione civile; Sez. III, Sent. n. 17724 del  06/07/2018). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice e in linea con la più autorevole giurisprudenza sia di merito, sia di legittimità, si può affermare che: “Il soggetto che pone in essere una condotta fraudolenta con artifici  e  raggiri  consistiti  nel  proporre in affitto un appartamento per le vacanze ed inducendo  in  errore  le vittime sulla reale esistenza dello stesso, nonché procurandosi un ingiusto profitto, va condannato per il delitto di truffa ex art. 640 c.p., oltre al risarcimento di tutti i danni derivati dalla stessa condotta acclarata, la cui liquidazione non può prescindere dal danno emergente corrispondente all'importo inutilmente corrisposto in anticipo, oltreché al danno da vacanza rovinata subito dalle parti offese” (Tribunale sez. I , - Avellino, 04/06/2018, n. 1064 ). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

28/07/2024 09:44
Bocciatura illegittima con ritardo nell’accesso alla professione: vale risarcimento danni?

Bocciatura illegittima con ritardo nell’accesso alla professione: vale risarcimento danni?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente tematiche scolastiche quali le possibili bocciature ingiuste. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Recanati che chiede: “È possibile chiedere un risarcimento danni in caso di bocciatura illegittima?” Utile a tal proposito la recente sentenza del Tar Liguria con la quale è stata risolta una vicenda giudiziaria nella quale una studentessa è “stata costretta a ripetere il terzo anno della scuola media superiore, ritardando il percorso scolastico ed accademico, nonché, conseguentemente, l'accesso al mercato del lavoro nello specifico come architetto”; dettagliata anche la pretesa economica avanzata nei confronti della scuola e del Ministero: «il danno morale per il turbamento emotivo interiore sofferto» e «il danno patrimoniale per il mancato guadagno per un anno di prestazioni professionali come architetto o la perdita della chance di ottenere quel reddito». Per i giudici del Tar Liguria è palese «l'illegittimità degli atti adottati dall'istituto scolastico», anche perché sono stati, non a caso, «annullati gli atti concernenti la bocciatura comminata nel 2011 alla studentessa». Nello specifico, «gli atti dell'amministrazione scolastica – vale a dire il verbale di scrutinio finale nel giugno del 2011 ed il provvedimento di sospensione del giudizio di ammissione nelle materie di Matematica e Fisica, i verbali di verifica finale delle prove di matematica e fisica svolte alla fine di agosto del 2011, il verbale di integrazione dello scrutinio finale, sempre alla fine di agosto del 2011, ed il provvedimento di non ammissione al quarto anno del corso di studio – sono stati giudicati affetti da plurime illegittimità». «Il consiglio di classe non aveva valutato la preparazione complessiva dell'allieva, né nello scrutinio di giugno, né in sede di esami di riparazione ad agosto, mentre l'apprezzamento del rendimento generale sarebbe stato necessario sia alla luce dei buoni voti da lei conseguiti nelle altre materie (per le quali aveva riportato una media di 7,4/10), sia per via del conclamato conflitto insorto tra l'allieva (e altre compagne) e la professoressa di Matematica, sia in ragione del fatto che i metodi didattici dell'insegnante erano stati oggetto di dubbi e contestazioni; i voti negativi in Matematica e Fisica attribuiti alla studentessa nello scrutinio di giugno non erano presenti sul registro dell'insegnante; la professoressa aveva utilizzato per la ragazza un metro valutativo molto più rigoroso rispetto a quello applicato ai suoi compagni, come provato da apposita perizia di parte in cui la consulente aveva evidenziato che, per compiti in classe svolti in modo pressoché identico a quelli di altri alunni, alla allieva erano stati assegnati voti più bassi, con palese disparità di trattamento; due esercizi della prova di recupero di Fisica presupponevano la conoscenza di elementi di trigonometria, argomento estraneo al programma trattato durante l'anno scolastico». Conseguente, quindi, la colpa dell'amministrazione scolastica per aver emanato gli atti relativi alla bocciatura della studentessa, poiché, osservano i giudici, «le illegittimità riscontrate appaiono infatti rimproverabili e non scusabili, sia per la loro numerosità, sia per la sussistenza (anche) del vizio di disparità di trattamento, particolarmente stigmatizzabile per il suo carattere odioso, tanto più in quanto inficiante l'attività valutativa condotta nell'ambito del sistema pubblico di istruzione e nei confronti di una ragazza minorenne». Tutto ciò ha leso l'interesse della studentessa a essere ammessa alla classe quarta. E, peraltro, «se l'azione amministrativa non fosse stata inficiata da molteplici vizi, la studentessa avrebbe potuto ottenere l'agognata promozione», osservano i giudici. Invece, «in conseguenza della bocciatura, ella ha dovuto rifrequentare la classe terza, rallentando il suo percorso di istruzione ed il suo ingresso nel mondo del lavoro»: difatti tutto ciò ha differito di un anno gli studi universitari e l'inizio dell'attività professionale», studi che le hanno consentito di ottenere la laurea magistrale in Architettura con il voto di 110/110 e lode, poi il superamento dell'esame di abilitazione per diventare architetto, con la possibilità di esercitare la professione e di ottenere i primi guadagni nell'agosto del 2021. Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: “Alla professionista bocciata ingiustamente in terza superiore deve essere riconosciuto dall’istituto scolastico e dal Ministero dell’Istruzione il risarcimento sia per il danno morale subito da tale illegittimo evento sia quello per il diminuito utile causato dal ritardo di un anno nella chiusura del percorso di studi” (Tar Liguria, sentenza del 05.10.2022, n. 834). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

21/07/2024 09:32
Abbandona il proprio cane: arriva la condanna penale per il padrone

Abbandona il proprio cane: arriva la condanna penale per il padrone

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato" Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema della tutela degli animali e nello specifico il caso in cui gli amici a quattro zampe vengano abbandonati dai propri padroni, orrenda circostanza questa spesso posta in essere proprio in questo periodo in quanto a ridosso delle ferie estive. Il caso in parola ci offre la possibilità di esaminare giuridicamente tale deplorevole condotta penalmente rilevante. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “Il proprietario di un cane abbandona l’animale proprio prima di partire per le proprie ferie estive senza essere visto da alcuna persona che potrebbe denunciare immediatamente tale fatto alla Polizia Giudiziaria. L’animale viene poi salvato da un passante che denuncia tale ritrovamento all’Autorità Pubblica: quali le responsabilità in capo al proprietario dell’animale?”. Il caso di specie ci porta ad analizzare il reato di “Abbandono di Animali”, previsto e disciplinato dall’art. 727 del codice penale, secondo il quale: “Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l'arresto fino a un anno o con l'ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze”. A tal proposito, il concetto di abbandono va ricondotto alla trascuratezza o al disinteresse verso l’animale e non invece all’incrudelimento nei suoi confronti o all’inflizione di sofferenze gratuite, atteggiamenti questi rientranti, di fatto, nel reato di “Maltrattamento di animali” previsto e punito dall’art. 544- ter del codice penale con la pena alla reclusione da 3 a 18 mesi. L’abbandono, in ogni caso, non va individuato nella sola precisa volontà di abbandonare l’animale, ma nell’intento più generale di non prendersene più cura nella consapevolezza dell’incapacità dell’animale di provvedere autonomamente a sé stesso. Pertanto, nel caso che ci occupa, risulta evidente l’applicazione dell’art. 727 c.p. nei confronti del proprietario del cane abbandonato, il quale, pur non essendo stato visto da alcuna persona, non ha tenuto conto della presenza del microchip addosso all’animale; per tali ragioni, sarà poi agevole per il servizio veterinario, poter risalire al proprietario del cane abbandonato per poi denunciarlo all’Autorità Giudiziaria per il reato di abbandono di animali. Difatti, la stessa Corte di Cassazione specifica che la nozione di abbandono di animali è da intendersi non solo come precisa volontà di abbandonare definitivamente l'animale, ma anche come il non prendersene più cura, "ben consapevoli dell'incapacità dell'animale di non poter più provvedere a sé stesso come quando era affidato alle cure del proprio padrone". Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, "Il concetto di abbandono, come delineato dall'art. 727 c.p., implica semplicemente quella trascuratezza o disinteresse che rappresentano una delle variabili possibili in aggiunta a chi addirittura abbandona il proprio cane ai bordi di una strada circostanza questa che va a palesare ancor più la commissione del reato di abbandono di animali (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 18892/11). Nel consigliare a tutti di denunciare prontamente tali spregevoli comportamenti penalmente rilevanti, come sempre rimango in attesa delle vostre richieste via mail dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

14/07/2024 09:28
Cedere i dati del cliente al nuovo gestore senza il suo espresso consenso è legittimo?

Cedere i dati del cliente al nuovo gestore senza il suo espresso consenso è legittimo?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie riguardanti il trattamento dei dati personali anche riguardo l’attivazione dei contratti di fornitura delle utenze. Di seguito la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Civitanova Marche che chiede: “È legittimo l’utilizzo dei dati personali dei clienti tra gestori senza l’avvenuto consenso esplicito?” Il caso di specie ci porta ad esaminare una vicenda molto attuale affrontata dalla CEDU (ric. 23215/21 del 25 giugno) tenuto conto che con la fine del mercato tutelato se una persona non ha scelto un nuovo gestore verrà passata automaticamente al nuovo scelto da Arera. Orbene la CEDU «ribadisce che il diritto alla protezione dei dati personali è garantito dal diritto al rispetto della vita privata ai sensi dell'articolo 8. L'articolo 8 prevede quindi il diritto a una forma di autodeterminazione informativa, che consente alle persone fisiche di far valere il loro diritto alla vita privata per quanto riguarda i dati che, sebbene neutrali, sono raccolti, trattati e diffusi collettivamente e in una forma o in un modo tale che i loro diritti di cui all'articolo 8 possano essere esercitati. Nel determinare se le informazioni personali conservate dalle autorità riguardassero aspetti di vita privata, essa ha tenuto debitamente conto del contesto specifico in cui le informazioni di cui trattasi sono state registrate e conservate, della natura delle registrazioni, del modo in cui tali registrazioni sono utilizzate e trattate e dei risultati che possono essere ottenuti» (L.B. c. Ungheria [GC] del 9/3/23 per le norme internazionali sul tema). È irrilevante che i dati in questione (dati dell'appartamento, metratura, indirizzo, nome del proprietario messo come intestatario dell'utenza “fantasma” etc.) fossero contenuti nei pubblici registri del catasto, non fossero stati ceduti da B. a terzi ma usati solo per la fatturazione delle utenze: il ricorrente non aveva prestato nessun consenso consapevole, libero e informato al loro uso e non si capisce come entrambi i gestori che si sono succeduti ne siano entrati in possesso. La prassi recente e costante della CEDU sulla materia, in linea con quella della CGUE, è molto chiara nel considerare trattamenti illeciti tutti quelli eseguiti senza il consenso informato dell'interessato: deve essere espresso, perciò le telefonate, suonare il campanello, con la scusa che i dati sono pubblici (citofono, elenchi telefonici, dati in ogni caso accessibili etc.), inserire nei siti web diciture “ se consulti il nostro sito automaticamente presti il consenso all'uso dei tuoi dati” o simili non costituiscono autorizzazioni valide al loro impiego se non fornite espressamente, in modo consapevole ed informato, dagli interessati (Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy c. Finlandia [GC] del 27/6/23). Pertanto, anche in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare quanto segue: “Cedere i dati del cliente al nuovo gestore senza il suo espresso e consapevole consenso è una violazione della sua privacy ex art.8 Cedu con relativo risarcimento del danno subito” (CEDU decisione del 25.06.2024). Rimango come sempre in attesa delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

07/07/2024 09:50
Alunni con disabilità: l’assistenza può essere concessa solo per gli studenti con handicap grave?

Alunni con disabilità: l’assistenza può essere concessa solo per gli studenti con handicap grave?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie riguardanti la lesione dei diritti delle persone diversamente abili e nello specifico la tematica dell’assegnazione allo studente diversamente abile del sostegno scolastico necessario secondo le sue personali esigenze. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Macerata, che chiede: "L’assistenza scolastica può essere concessa solo agli alunni con handicap grave?".  Il caso di specie ci porta ad esaminare una tematica spesso non affrontata dalle istituzioni con la dovuta importanza, così come invece è avvenuto in un’aula di Tribunale della nostra regione a seguito di un verbale di accertamento emesso dalla Commissione medica della Asl regionale, con il quale veniva riconosciuto un minore invalido ai sensi della legge n. 104/1992 in quanto affetto da un ritardo mentale lieve e un deficit di apprendimento, diagnosi confermata anche con un successivo verbale medico. A fronte di tale disabilità i genitori del ragazzo avanzavano domanda per l'ammissione del minore al servizio gratuito di assistenza scolastica tuttavia, il comune marchigiano comunicava il diniego all'accesso al suddetto servizio. Ricevuto il diniego i genitori del ragazzo adivano il Tribunale depositando ricorso (ai termini dell'ex art. 281-octies c.p.c. in relazione agli artt. 28 d.lgs. n. 150/2011 e 3 l. n. 67/2006) e chiedendo la cessazione della condotta discriminatoria, oltre che la dichiarazione di illegittimità del Regolamento comunale nella parte in cui limitava la concessione dell'assistenza per l'autonomia e la comunicazione personale ai soli studenti portatori di handicap in situazione di gravità ai sensi della l. n. 104/1992.  Nel ricorso i genitori hanno, inoltre, richiesto la disapplicazione degli atti di diniego adottati dal medesimo comune nonché l'eventuale risarcimento del danno non patrimoniale subito dal minore per la mancata assegnazione dell'assistente. Costituendosi in giudizio il Comune chiedeva l'integrale rigetto del ricorso in quanto improponibile, inammissibile e infondato. L'Ente evidenziava infatti, che anche qualora il ricorso fosse stato ritenuto ammissibile, alcun comportamento discriminatorio era stato posto in essere in quanto la decisione di negare il servizio era stata presa sulla base del Regolamento vigente e della documentazione medica presentata dai genitori del minore. Il Tribunale, letti gli atti di causa, ricordando il principio secondo cui la necessità di assicurare il servizio a tutti gli studenti con disabilità discende direttamente dall'art. 13, comma 3, l. n. 104/1992 che riconosce "l'obbligo per gli enti locali di fornire assistenza per l'autonomia e la comunicazione personale degli alunni con handicap" e il diritto dello studente con disabilità alla relativa prestazione da parte dell'Ente Locale, che deve assicurargli una piena integrazione scolastica e sociale, evidenziava l'ammissibilità del ricorso in quanto la domanda di assistenza era stata respinta unicamente a causa della mancanza di gravità dell'handicap del minore. Sul punto il Tribunale sottolineava come la l. 104/1992, richiamata dallo stesso Regolamento comunale, in nessuna delle sue parti contempla una tale limitazione, che invece era stata aggiunta da tale Comune. Alla luce di quanto sopra il Tribunale, ritenendosi competente ai sensi dell'art. 28 d.lgs. 150/2011 a disapplicare in via incidentale gli atti amministrativi ritenuti illegittimi, evidenziava come non vi fosse dubbio che al minore dovesse essere riconosciuta l'assistenza richiesta, che aveva natura di mero supporto materiale allo studente e non natura didattica, nonché sottolineava che il presupposto per la concreta esigibilità del diritto è che la situazione di handicap, indipendentemente dalla sua gravità, sia stata accertata dalla competente Commissione medica come previsto dalla l. n. 104/1992, dichiarando così l'illegittimità e conseguentemente la disapplicazione degli atti di diniego adottati dal Comune ed il Regolamento Comunale approvato con la relativa delibera, condannando l’Ente a concedere al minore l'assistenza scolastica. Pertanto, anche in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare quanto segue: "Sono illegittimi e quindi da disapplicare gli atti di diniego adottati dall’Ente comunale e dal proprio Regolamento relativamente alla posizione del minore nelle parti in cui limita la concessione dell'assistenza per l'autonomia e la comunicazione personale ai soli alunni/studenti frequentanti le scuole di ogni ordine e grado portatori di handicap in situazione di gravità ai sensi dell'art. 3, comma 3, L. n. 104/1992”. Rimango come sempre in attesa delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                                                              

30/06/2024 10:21
Compra online con le credenziali di un'altra persona: scatta il reato penale

Compra online con le credenziali di un'altra persona: scatta il reato penale

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili alla condotta di chi utilizza l’identità digitale di un altro soggetto, sostituendosi a questo per la generalità degli utenti in connessione, nel porre in essere le più disparate attività. Di seguito la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche, che chiede: "A quali responsabilità si va incontro qualora venga creato un account con le generalità di una persona terza, per il compimento di acquisti online?" Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica estremamente attuale sulla quale si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 42572/2018, affermando la responsabilità penale del soggetto ai sensi dell’articolo 494 del codice penale.  Norma che stabilisce espressamente quanto segue: "Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno". Difatti, la Suprema Corte adita ha statuito come "integra il reato di sostituzione di persona, ex art. 494 c.p. , la condotta di colui che crei ed utilizzi un account ed una casella di posta elettronica nonché proceda all’iscrizione su un sito e-commerce, servendosi dei dati anagrafici di un soggetto diverso ed inconsapevole, con il fine di far ricadere su quest'ultimo l'inadempimento delle obbligazioni conseguente all'avvenuto acquisto di beni mediante la partecipazione ad aste in rete o ad altri strumenti contrattuali. Tanto in quanto porre in essere una condotta con siffatta modalità è prova che l’agente abbia volontariamente sostituito, per la generalità degli utenti in connessione, alla propria identità quella di altri, a prescindere dalla propalazione all'esterno delle diverse generalità utilizzate” (Cass. Pen., Sez. V, n. 42572/2018, dep. il 27/09/2018). Pertanto, nell’analizzare le ripercussioni giuridiche che tali condotte possono avere, è necessario considerare che in una realtà come quella contemporanea, nella quale si fa un uso sempre maggiore dei sistemi telematici per il compimento di una varietà in crescendo di attività, le credenziali adoperate per l’utilizzo delle varie piattaforme, rappresentano il soggetto agente tanto da costituire un vero e proprio surrogato della persona fisica. Dunque, la tutela offerta dal legislatore, è intesa a garantire la pubblica fede ed evitare che l’utilizzo di raggiri e artifizi, nel contesto di una società in continua evoluzione, possano trarre in inganno quanti operano in tali settori. Alla luce di tali considerazioni, ed in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che "chiunque in modo volontario e al fine specifico di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, utilizzi l’identità digitale di un soggetto terzo ignaro e inconsapevole, è punito ai sensi dell’art. 494 c.p. con la reclusione fino ad un anno" (Cass. Pen., Sez. V, n. 42572/2018).  Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                       

23/06/2024 09:30
Pubblica foto di un altro sul proprio profilo Facebook senza consenso, cosa rischia?

Pubblica foto di un altro sul proprio profilo Facebook senza consenso, cosa rischia?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’utilizzo dei “social network” e nello specifico la pubblicazione di foto nel proprio profilo Facebook. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Corridonia che chiede: “È legittimo pubblicare foto altrui sul proprio profilo Facebook senza il consenso dell’interessato?” Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo a una pratica oramai quotidianamente utilizzata dai fruitori del social Facebook, le cui modalità non sempre risultano del tutto legittime. A tal proposito deve affermarsi in linea generale che la pubblicazione di una fotografia ritraente una persona umana è subordinata alla manifestazione, esplicita o implicita, del consenso da parte della persona ritratta. Tale condizione è prevista sia dalle disposizioni normative a tutela del diritto all’immagine (art. 10 c.c. e art. 96 L. n. 633/1941) sia da quelle a tutela del diritto alla riservatezza (art. 6 Regolamento UE 2016/679) poiché l’altrui pubblicazione di una propria immagine fotografica costituisce in ogni caso (e a prescindere dall’applicabilità o meno della normativa di tutela di riferimento) una forma di trattamento di un dato personale. Difatti, l’art. 96 L. n. 633/1941 esplicitamente vieta l’esposizione di un ritratto senza il consenso della stessa persona, così come l’art. 6 del Regolamento UE dispone la liceità del trattamento solo se l’interessato ha espresso il proprio consenso, ed infine l’art. 10 c.c. prevede che, “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”. Per tali ragioni in risposta alla nostra lettrice è corretto affermare che: “La pubblicazione di una foto ritraente una persona è subordinata alla manifestazione, sia essa esplicita o implicita, del consenso da parte della persona ritratta; questo sia per la tutela del diritto all’immagine, sia per la tutela del diritto alla riservatezza, visto che la pubblicazione di una foto altrui costituisce una forma di trattamento di un dato personale. Il trasgressore, pertanto, dovrà immediatamente rimuovere le fotografie illegittime dal proprio profilo Facebook, oltreché risarcire la persona ritratta”(Tribunale di Bari, sez. I Civile, ordinanza depositata il 6 novembre 2019). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

16/06/2024 09:34
Controllo a distanza dei lavoratori: quando è legittima la videosorveglianza da parte del titolare

Controllo a distanza dei lavoratori: quando è legittima la videosorveglianza da parte del titolare

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’utilizzo della videosorveglianza anche in ambiente lavorativo. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: "A quale responsabilità va incontro il datore di lavoro che installa la videosorveglianza nel proprio ambiente lavorativo senza alcuna preventiva autorizzazione?" Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una pratica sempre più utilizzata dai datori di lavoro, ma in alcuni casi senza le dovute accortezze. Difatti, l’articolo 4 della L. n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) prevede nello specifico quanto segue: 1. È vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori 2. Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti Pertanto, la videosorveglianza nell’ambito dei luoghi di lavoro e più in generale l’utilizzo di strumenti dai quali consegua la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei prestatori di lavoro, può avvenire unicamente per esigenze di carattere organizzativo, produttivo, relativo alla sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale. All’installazione può procedersi solo previo accordo collettivo stipulato con la rappresentanza sindacale unitaria o aziendale ovvero dopo aver richiesto l’autorizzazione all’Ispettorato del lavoro, in difetto del quale scatteranno possibili sanzioni penali. A tal proposito, l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità riguardo tale fattispecie incriminatrice è integrata anche quando, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali e di provvedimento autorizzativo dell’autorità amministrativa, la stessa sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti. Infatti, il consenso del lavoratore all’installazione di un sistema di videosorveglianza, anche in forma scritta non vale a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato tale impianto in violazione delle prescrizioni dettate dalla normativa di riferimento. Per tali ragioni in risposta al nostro lettore è corretto affermare che: "L’installazione di apparecchiature, dalle quali derivi anche la possibilità di controllo dell’attività dei lavoratori, deve sempre essere preceduta da una forma di accordo tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori, con la conseguenza che se manca tale accordo il datore di lavoro deve far precedere l’installazione dalla richiesta di un provvedimento autorizzativo dell’autorità amministrativa senza il quale andrà incontro alla relativa sanzione penale" (Cass., Sez. III Penale, sentenza n. 1733/20). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

09/06/2024 09:36
Offese e atteggiamenti aggressivi da parte del condomino: si tratta di stalking o molestie?

Offese e atteggiamenti aggressivi da parte del condomino: si tratta di stalking o molestie?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra condomini che spesso e volentieri vanno a deteriorarsi per comportatemi incivili di alcuni nei confronti di altri. Il caso di specie scelto è di un lettore di Macerata che chiede: "A quale responsabilità può andare incontro il condomino che si atteggia amministratore ed arriva fino ad incutere terrore negli altri inquilini?".  A tal proposito risulta utile portare un caso giuridico giunto sino ai banchi della Cassazione che riguarda il caso tipico di "persecuzioni in ambito condominiale" contro alcuni condomini, definiti ripetutamente come "incivili" dall'autore delle molestie. Nello specifico, la Corte ha annullato la decisione del tribunale che, nel sottovalutare le prove raccolte, aveva derubricato il delitto di atti persecutori nella contravvenzione di cui all'articolo 660 del codice penale: per costante orientamento della Cassazione, infatti, il discrimen fra il delitto di cui all'articolo 612-bis del codice penale e il reato di molestie è costituito dal diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta, configurandosi il delitto di atti persecutori "qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l'alterazione delle proprie abitudini di vita".  Mentre sussiste il reato di cui all'articolo 660 del codice penale nel caso in cui le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (ex multis, Cass. n. 23375 del 10/07/2020; Cass. n. 15625 del 09/02/2021). A ciò si aggiunge il fatto che, nel caso di specie, alle "molestie" si sono affiancati altri comportamenti oppressivi, come i danneggiamenti, gli imbrattamenti e le minacce, tipicamente espressivi del delitto di cui all'articolo 612-bis del codice penale.  Inoltre, la contravvenzione di molestia o disturbo alle persone reca quale elemento costitutivo del reato la commissione del fatto "in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero col mezzo del telefono", circostanze insussistenti nel caso di specie, in cui il contegno invasivo e prevaricatore era riservato ai rapporti interpersonali nel contesto di un condominio privato. Insomma: non è possibile derubricare il delitto di stalking nella contravvenzione di molestie se la vittima entra in uno stato di perdurante ansia e modifica le proprie abitudini di vita a fronte delle condotte reiterate dell'imputato.  Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che, "le minacce o le molestie ripetute vanno punite come atti persecutori a norma dell'articolo 612-bis del codice penale quando creano uno stato di ansia che pervade la vita della persona posta nel mirino del molestatore, finanche arrivando al punto di modificarne le normali abitudini" (Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 21006/2024). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                          

02/06/2024 09:42
Infortunio sul lavoro del dipendente: in quali casi l'azienda è responsabile?

Infortunio sul lavoro del dipendente: in quali casi l'azienda è responsabile?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante l’infortunio sul lavoro del dipendente e la responsabilità di tale evento. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Treia che chiede: "In caso di infortunio sul lavoro del dipendente quando l’azienda risulta responsabile?".  Bisogna innanzitutto far chiarezza sul fatto che, la vittima di un infortunio sul lavoro risulta esclusivamente responsabile solamente in una circostanza, ovvero, quando abbia tenuto un "contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute" (così, tra le altre, Cass. Civ. Sentenza n. 19494 del 10/09/2009), secondo il principio che il datore di lavoro risponde dei rischi professionali propri (vale a dire insiti nello svolgimento dell’attività lavorativa) e di quelli impropri (cioè derivanti da attività connesse a quella lavorativa), ma non di quelli totalmente scollegati dalla prestazione che il lavoratore rende in quanto tale (cd. rischio elettivo). Perché sussista il rischio elettivo, dunque, occorrono tre elementi concorrenti: 1) un atto del lavoratore volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; 2) la direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; 3) la mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa. Difatti, la norma di riferimento è evidentemente l’articolo 1227, comma 1, del codice civile, secondo la quale, "se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate", che peraltro va bilanciata, in ambito giuslavoristico, con il potere di direzione e controllo del datore di lavoro, unitamente al dovere di salvaguardare l’incolumità dei lavoratori. Conseguentemente, anche in ipotesi di condotta imprudente del lavoratore va escluso il concorso di colpa a carico dello stesso in tre ipotesi: a) se l’infortunio sia stato causato dalla puntuale esecuzione degli ordini ricevuti dal datore di lavoro (in questo caso l’imprudenza del lavoratore degrada a mera “occasione” dell’infortunio); b) se l’infortunio sia avvenuto a causa della organizzazione stessa del ciclo lavorativo, impostata con modalità contrarie alle norme finalizzate alla prevenzione degli infortuni, o comunque contraria ad elementari regole di prudenza; c) se l’infortunio sia avvenuto a causa di una carenza di formazione o informazione del lavoratore, ascrivibile al datore di lavoro. Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore si può affermare che, "nel caso di infortunio sul lavoro, è responsabile l’azienda, tanto da escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell’art 1227, comma 1, c.c., quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza; oppure abbia egli stesso impartito l’ordine, nell’esecuzione puntuale del quale si sia verificato l’infortunio; o ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi, ricorrendo, in tali ipotesi, l’eventuale condotta imprudente della vittima degradata a mera occasione dell’infortunio, ed è perciò giuridicamente irrilevante" (Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 8988/20).   Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                    

26/05/2024 09:30
Pacchetto vacanza "tutto compreso", famiglia finisce in ospedale per gastroenterite: guai per il tour operator

Pacchetto vacanza "tutto compreso", famiglia finisce in ospedale per gastroenterite: guai per il tour operator

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento danni per fatti accorsi durante il viaggio o vacanza. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "Sono responsabili l’agenzia viaggi e il tour operator se dopo aver acquistato un pacchetto vacanza “tutto compreso” scoppia un caso gastroenterite tra i turisti del villaggio?" Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte, riguardo una vicenda in cui una famiglia aveva acquistato un pacchetto turistico "all inclusive" per il soggiorno in un villaggio turistico. Dopo due giorni dall'arrivo, prima un figlio, poi l'altro e infine la moglie venivano colpiti da gastroenterite e ricoverati nell'ospedale locale; rimane accertato che anche altri 20 ospiti del medesimo villaggio erano stati ricoverati per i medesimi disturbi intestinali, causati da cibi o bevande consumati nel villaggio. A tal proposito risulta utile precisare che il contratto di viaggio vacanza “tutto compreso” si distingue dal contratto di intermediazione di viaggio di cui alla Convenzione di Bruxelles del 1970 (resa esecutiva in Italia con l. n. 1084/1977), in quanto spicca la finalità turistica, che ne permea e connota la causa concreta (Cassazione civile sez. III, 02/03/2012, n.3256; Cassazione civile sez. III, 24/04/2008, n.10651). Il contratto di viaggio tutto compreso (pacchetto turistico o package) è diretto a realizzare l'interesse del turista-consumatore al compimento di un viaggio con finalità turistica o a scopo di piacere, sicché tutte le attività e i servizi strumentali alla realizzazione dello scopo vacanziero sono essenziali e qualificano la causa e il contratto stesso. Quindi l'organizzatore e il venditore devono operare con la diligenza professionale qualificata dalla specifica attività esercitata, per soddisfare l'interesse creditorio dell'acquirente il pacchetto. Così si evidenzia la differenza dal contratto di organizzazione o di intermediazione di viaggio, in base al quale un operatore turistico professionale si obbliga verso corrispettivo a procurare uno o più servizi di base (trasporto, albergo, etc.) per l'effettuazione di un viaggio o di un soggiorno. Rispetto a quest'ultimo, le prestazioni ed i servizi si profilano come separati e vengono in rilievo diversi tipi di rapporto, prevalendo gli aspetti dell'organizzazione e dell'intermediazione con applicazione in particolare della disciplina del trasporto ovvero - in difetto di diretta assunzione da parte dell'organizzatore dell'obbligo di trasporto del cliente - del mandato senza rappresentanza o dell'appalto di servizi. Nel contratto di viaggio vacanza tutto compreso, invece, la pluralità di servizi ed accessori connota proprio la finalità turistica del contratto nella loro unitarietà funzionale. Si tratta di un'obbligazione di risultato nell'ambito del rischio di impresa (e nel rischio connaturato nell'avvalersi di terzi) nei confronti dell'acquirente e, pertanto, sussiste la responsabilità solidale (Cass. Civ., Sez. III, Ord. n. 1417/2023). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di merito e di legittimità si può affermare che: "Il tour operator risponde dell'inadempimento del contratto di vendita di pacchetto turistico - con conseguente obbligo di risarcire i danni al turista a causa di disservizi o carenze nelle prestazioni promesse e poi concretamente fornite -, sia quando l'inadempimento sia imputabile direttamente al proprio operato o al fatto dei propri ausiliari, sia quando ascrivibile a terzi fornitori di servizi inclusi nel pacchetto turistico dei quali il tour operator si è servito per l'esecuzione dell'obbligazione (Trib. Torino, Sez. III, sentenza n. 3882/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

19/05/2024 10:24
Tirate d'orecchio e alunni spediti da soli in bagno per punizione: condanna penale per maestra d'asilo

Tirate d'orecchio e alunni spediti da soli in bagno per punizione: condanna penale per maestra d'asilo

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica estremamente delicata, relativa alle condotte violente o da considerare tali poste in essere da soggetti esercenti il ruolo di educatore o docente, nei confronti dei propri allievi. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata, che chiede: "Quali comportamenti, se tenuti da insegnanti nello svolgimento della propria professione, possono condurre ad una condanna penale per maltrattamenti?" Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata e attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la stessa Corte di Cassazione, con una sentenza di condanna, la n.5205/2019, nei confronti di una maestra d’asilo, per il reato di maltrattamenti di cui all’articolo 572 del codice penale. Articolo che punische espressamente "chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte". Tale delitto, si caratterizza infatti, per l'elemento soggettivo del dolo generico, inteso come volontarietà dell’azione, nonché come consapevolezza di porre in essere un comportamento oppressivo, ed è integrato da condotte di lesione o messa in pericolo dell'incolumità fisica o psicologica, nell'ambito di rapporti interpersonali che dovrebbero favorire la personalità degli specifici soggetti, e non danneggiarla. Inoltre, elemento costitutivo di tale delitto, è l’abitualità dell’azione, ovvero la circostanza che tali condotte lesive siano reiterate e perpetrate ai danni delle vittime.  Proprio questo ultimo requisito, distingue tale delitto di maltrattamenti, quale reato abituale, dal delitto meno afflittivo di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, previsto ai sensi dell’articolo 571 del codice penale, il quale punisce espressamente: "Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte". Difatti, nella sentenza citata emessa nei confronti della maestra d’asilo, la quale, nel tentativo di giustificare i propri metodi, li qualificava come "di vecchio stampo in armonia con il metodo Montessori", la Suprema Corte ha ritenuto, "integrato il delitto di maltrattamenti in considerazione della reiterazione delle condotte violente perpetrate ai danni degli alunni, tutti minorenni, del carattere sistematico del ricorso alla violenza fisica e morale, non suscettibile di essere inquadrata in alcun metodo educativo, scolastico, o di insegnamento, tenuto anche conto della tenera età dei bambini maltrattati". (Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 5205 del 01.02.2019). Pertanto, alla luce di quanto affermato e in risposta alla domanda della nostra lettrice, "sul piano della qualificazione giuridica dei fatti si deve ribadire che integra il reato di maltrattamenti e non quello di abuso di mezzi di correzione, la reiterazione di atti di violenza fisica e morale, l’uso sistematico di comportamenti violenti, obiettivamente non leciti, insuscettibili di essere qualificati come espressivi di metodi educativi: schiaffi ripetuti, tirate di orecchio e capelli, sottoposizione a vessazioni morali e fisiche consistenti nell’apostrofare i bambini in malo modo, nello strappare loro i disegni, nel sottrarre loro l’acqua, allontanarli dagli spazi di condivisione per lasciarli da soli in bagno ovvero in una stanza poco illuminata 'per riflettere', inadeguatezza delle espressioni verbali utilizzate, ancorché sostenute da animus corrigendi" (Cass. Pen., Sez. VI, n. 53425/ del 22.10.2014). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

12/05/2024 11:07
Fine della convivenza: quali diritti per l’ex convivente che ha contribuito all’acquisto dell’immobile?

Fine della convivenza: quali diritti per l’ex convivente che ha contribuito all’acquisto dell’immobile?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al diritto riconosciuto all’ex convivente della ripetizione di specifiche somme corrisposte al partner durante il periodo di convivenza. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Camerino che chiede: “Terminata la convivenza si può ottenere la restituzione di quanto pagato per la costruzione di quella che sarebbe dovuta essere la casa familiare senza esserne il proprietario?” Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.24721/2019, in accoglimento del ricorso posto in essere dall’ex convivente, affermando testualmente quanto segue: “L’accertamento in fatto che la dazione di denaro era rivolta al solo scopo di realizzare la casa familiare, destinata, nelle previsioni della ricorrente, a divenire comune, giustifica, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il rimborso delle somme versate a titolo di concorso nelle spese di costruzione del manufatto rimasto in proprietà esclusiva dell’altro ex convivente, risultando tale contribuzione a tutti gli effetti, indebita” (Cass. Civ.; Sez. II; Sent. n. 2973/2016). Difatti, l’art. 2033 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto, ha diritto di ripetere ciò che ha pagato […]”, disciplina l’istituto della ripetizione dell’indebito avente come suo fondamento, l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una clausola risolutiva espressa. A tal proposito, occorre rilevare che, sebbene la convivenza di fatto rappresenti ormai a tutti gli effetti una formazione sociale riconosciuta e tutelata dal nostro ordinamento giuridico, con la quale sorgono doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, per cui eventuali contribuzioni e prestazioni economiche eseguite durante il periodo di convivenza vengono sussunte, dalla coscienza sociale, fra i doveri connessi ad un consolidato rapporto affettivo, essendo generalmente ricondotte nell’alveo delle obbligazioni naturali ex art. 2034 c.c., è tuttavia necessario che tali prestazioni rese, trovino giustificazione nella solidarietà e nella reciproca assistenza fra i conviventi, sussistendo al contrario, un’inconciliabilità logico-giuridica fra convivenza more uxorio e arricchimento ingiustificato, il quale necessariamente investe le circostanze relative all’effettuazione di prestazioni di tipo economico, derivanti da un presunto vincolo obbligatorio, ma che risultino a posteriori non dovute, così giustificando la tutela giuridica e patrimoniale del soggetto leso, in presenza di atti dispositivi posti in essere a vantaggio di uno dei conviventi esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza. Pertanto, in risposta alla domanda dalla nostra lettrice e in linea con la più autorevole e consolidata giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: “Le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente “more uxorio”; effettuate nel corso del rapporto configurano l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza; in caso di attribuzioni economico patrimoniali eseguite in corso di convivenza, a titolo di concorso alle spese di costruzione della casa familiare, si ha diritto al rimborso delle somme date se, terminata la convivenza, il conferimento non si concretizza nell’acquisto della proprietà del bene, esulando tale prestazione, dal mero adempimento di suddette obbligazioni” (Cassazione civile sez. VI, 15/02/2019, n.4659).

05/05/2024 10:09
Oggetto idoneo all’offesa in auto senza giustificato motivo: c'è responsabilità penale?

Oggetto idoneo all’offesa in auto senza giustificato motivo: c'è responsabilità penale?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al porto di oggetti qualificabili dalla legge come armi o strumenti atti ad offendere, senza giustificato motivo. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Trodica che chiede: “Si può andare incontro ad una responsabilità penale se si trasposta in automobile una mazza da baseball?” Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con la sentenza di condanna n. 55037/18 emessa nei confronti di un automobilista al quale era stata sequestrata una mazza da baseball a seguito di un controllo su strada eseguito dal comando locale dei Carabinieri, affermando testualmente quanto segue: “Questa Corte con indirizzo qui condiviso ha già affermato che, in assenza di giustificata e adeguata motivazione, al fine di qualificare l’oggetto sequestrato come offensivo, assumono rilievo le sue caratteristiche oggettive, considerate in relazione alle dimensioni ed alla consistenza, che lo rendano idoneo ad offendere, nonché la potenzialità dell’uso dannoso, come è reso evidente dall’ art. 4, della L. n. 110 del 1975”(Cass. Pen.; sez. I; Sent. n. 55037/18). Difatti, l’art. 4 della citata legge n. 110/1975, al comma 2° prevede espressamente che: “Senza giustificato motivo, non possono portarsi, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche, nonché qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona”, concedendo alla più autorevole giurisprudenza l’onere di fornire l’esatta definizione di “giustificato motivo” il quale “ricorre solo quando particolari esigenze dell’agente siano perfettamente corrispondenti a regole comportamentali lecite, relazionate alla natura dell’oggetto, alla modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell’accadimento e alla normale funzione del bene” (Cass.Pen.; Sez. I; Sent. n. 18925/2013). Pertanto, in risposta al nostro lettore ed in linea con l’unanime orientamento giurisprudenziale di legittimità, si può affermare che: “Il porto, senza giustificato motivo e a fronte di ragioni non plausibili ed astratte, fuori dalla propria abitazione, di una mazza da baseball, da ritenersi arma impropria, costituisce reato in ragione della sua chiara utilizzabilità, per dimensioni e consistenza al fine di arrecare offesa alla persona” (Cass. Pen.; Sez. I; Sent. n. 26161; dep. Il 13.06.2019).

28/04/2024 09:40
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