Chiedilo all'avvocato

Infortunio sul lavoro del dipendente: in quali casi l'azienda è responsabile?

Infortunio sul lavoro del dipendente: in quali casi l'azienda è responsabile?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante l’infortunio sul lavoro del dipendente e la responsabilità di tale evento. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Treia che chiede: "In caso di infortunio sul lavoro del dipendente quando l’azienda risulta responsabile?".  Bisogna innanzitutto far chiarezza sul fatto che, la vittima di un infortunio sul lavoro risulta esclusivamente responsabile solamente in una circostanza, ovvero, quando abbia tenuto un "contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute" (così, tra le altre, Cass. Civ. Sentenza n. 19494 del 10/09/2009), secondo il principio che il datore di lavoro risponde dei rischi professionali propri (vale a dire insiti nello svolgimento dell’attività lavorativa) e di quelli impropri (cioè derivanti da attività connesse a quella lavorativa), ma non di quelli totalmente scollegati dalla prestazione che il lavoratore rende in quanto tale (cd. rischio elettivo). Perché sussista il rischio elettivo, dunque, occorrono tre elementi concorrenti: 1) un atto del lavoratore volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; 2) la direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; 3) la mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa. Difatti, la norma di riferimento è evidentemente l’articolo 1227, comma 1, del codice civile, secondo la quale, "se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate", che peraltro va bilanciata, in ambito giuslavoristico, con il potere di direzione e controllo del datore di lavoro, unitamente al dovere di salvaguardare l’incolumità dei lavoratori. Conseguentemente, anche in ipotesi di condotta imprudente del lavoratore va escluso il concorso di colpa a carico dello stesso in tre ipotesi: a) se l’infortunio sia stato causato dalla puntuale esecuzione degli ordini ricevuti dal datore di lavoro (in questo caso l’imprudenza del lavoratore degrada a mera “occasione” dell’infortunio); b) se l’infortunio sia avvenuto a causa della organizzazione stessa del ciclo lavorativo, impostata con modalità contrarie alle norme finalizzate alla prevenzione degli infortuni, o comunque contraria ad elementari regole di prudenza; c) se l’infortunio sia avvenuto a causa di una carenza di formazione o informazione del lavoratore, ascrivibile al datore di lavoro. Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore si può affermare che, "nel caso di infortunio sul lavoro, è responsabile l’azienda, tanto da escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell’art 1227, comma 1, c.c., quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza; oppure abbia egli stesso impartito l’ordine, nell’esecuzione puntuale del quale si sia verificato l’infortunio; o ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi, ricorrendo, in tali ipotesi, l’eventuale condotta imprudente della vittima degradata a mera occasione dell’infortunio, ed è perciò giuridicamente irrilevante" (Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 8988/20).   Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                    

26/05/2024 09:30
Pacchetto vacanza "tutto compreso", famiglia finisce in ospedale per gastroenterite: guai per il tour operator

Pacchetto vacanza "tutto compreso", famiglia finisce in ospedale per gastroenterite: guai per il tour operator

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento danni per fatti accorsi durante il viaggio o vacanza. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "Sono responsabili l’agenzia viaggi e il tour operator se dopo aver acquistato un pacchetto vacanza “tutto compreso” scoppia un caso gastroenterite tra i turisti del villaggio?" Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte, riguardo una vicenda in cui una famiglia aveva acquistato un pacchetto turistico "all inclusive" per il soggiorno in un villaggio turistico. Dopo due giorni dall'arrivo, prima un figlio, poi l'altro e infine la moglie venivano colpiti da gastroenterite e ricoverati nell'ospedale locale; rimane accertato che anche altri 20 ospiti del medesimo villaggio erano stati ricoverati per i medesimi disturbi intestinali, causati da cibi o bevande consumati nel villaggio. A tal proposito risulta utile precisare che il contratto di viaggio vacanza “tutto compreso” si distingue dal contratto di intermediazione di viaggio di cui alla Convenzione di Bruxelles del 1970 (resa esecutiva in Italia con l. n. 1084/1977), in quanto spicca la finalità turistica, che ne permea e connota la causa concreta (Cassazione civile sez. III, 02/03/2012, n.3256; Cassazione civile sez. III, 24/04/2008, n.10651). Il contratto di viaggio tutto compreso (pacchetto turistico o package) è diretto a realizzare l'interesse del turista-consumatore al compimento di un viaggio con finalità turistica o a scopo di piacere, sicché tutte le attività e i servizi strumentali alla realizzazione dello scopo vacanziero sono essenziali e qualificano la causa e il contratto stesso. Quindi l'organizzatore e il venditore devono operare con la diligenza professionale qualificata dalla specifica attività esercitata, per soddisfare l'interesse creditorio dell'acquirente il pacchetto. Così si evidenzia la differenza dal contratto di organizzazione o di intermediazione di viaggio, in base al quale un operatore turistico professionale si obbliga verso corrispettivo a procurare uno o più servizi di base (trasporto, albergo, etc.) per l'effettuazione di un viaggio o di un soggiorno. Rispetto a quest'ultimo, le prestazioni ed i servizi si profilano come separati e vengono in rilievo diversi tipi di rapporto, prevalendo gli aspetti dell'organizzazione e dell'intermediazione con applicazione in particolare della disciplina del trasporto ovvero - in difetto di diretta assunzione da parte dell'organizzatore dell'obbligo di trasporto del cliente - del mandato senza rappresentanza o dell'appalto di servizi. Nel contratto di viaggio vacanza tutto compreso, invece, la pluralità di servizi ed accessori connota proprio la finalità turistica del contratto nella loro unitarietà funzionale. Si tratta di un'obbligazione di risultato nell'ambito del rischio di impresa (e nel rischio connaturato nell'avvalersi di terzi) nei confronti dell'acquirente e, pertanto, sussiste la responsabilità solidale (Cass. Civ., Sez. III, Ord. n. 1417/2023). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di merito e di legittimità si può affermare che: "Il tour operator risponde dell'inadempimento del contratto di vendita di pacchetto turistico - con conseguente obbligo di risarcire i danni al turista a causa di disservizi o carenze nelle prestazioni promesse e poi concretamente fornite -, sia quando l'inadempimento sia imputabile direttamente al proprio operato o al fatto dei propri ausiliari, sia quando ascrivibile a terzi fornitori di servizi inclusi nel pacchetto turistico dei quali il tour operator si è servito per l'esecuzione dell'obbligazione (Trib. Torino, Sez. III, sentenza n. 3882/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

19/05/2024 10:24
Tirate d'orecchio e alunni spediti da soli in bagno per punizione: condanna penale per maestra d'asilo

Tirate d'orecchio e alunni spediti da soli in bagno per punizione: condanna penale per maestra d'asilo

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica estremamente delicata, relativa alle condotte violente o da considerare tali poste in essere da soggetti esercenti il ruolo di educatore o docente, nei confronti dei propri allievi. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata, che chiede: "Quali comportamenti, se tenuti da insegnanti nello svolgimento della propria professione, possono condurre ad una condanna penale per maltrattamenti?" Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata e attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la stessa Corte di Cassazione, con una sentenza di condanna, la n.5205/2019, nei confronti di una maestra d’asilo, per il reato di maltrattamenti di cui all’articolo 572 del codice penale. Articolo che punische espressamente "chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte". Tale delitto, si caratterizza infatti, per l'elemento soggettivo del dolo generico, inteso come volontarietà dell’azione, nonché come consapevolezza di porre in essere un comportamento oppressivo, ed è integrato da condotte di lesione o messa in pericolo dell'incolumità fisica o psicologica, nell'ambito di rapporti interpersonali che dovrebbero favorire la personalità degli specifici soggetti, e non danneggiarla. Inoltre, elemento costitutivo di tale delitto, è l’abitualità dell’azione, ovvero la circostanza che tali condotte lesive siano reiterate e perpetrate ai danni delle vittime.  Proprio questo ultimo requisito, distingue tale delitto di maltrattamenti, quale reato abituale, dal delitto meno afflittivo di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, previsto ai sensi dell’articolo 571 del codice penale, il quale punisce espressamente: "Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte". Difatti, nella sentenza citata emessa nei confronti della maestra d’asilo, la quale, nel tentativo di giustificare i propri metodi, li qualificava come "di vecchio stampo in armonia con il metodo Montessori", la Suprema Corte ha ritenuto, "integrato il delitto di maltrattamenti in considerazione della reiterazione delle condotte violente perpetrate ai danni degli alunni, tutti minorenni, del carattere sistematico del ricorso alla violenza fisica e morale, non suscettibile di essere inquadrata in alcun metodo educativo, scolastico, o di insegnamento, tenuto anche conto della tenera età dei bambini maltrattati". (Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 5205 del 01.02.2019). Pertanto, alla luce di quanto affermato e in risposta alla domanda della nostra lettrice, "sul piano della qualificazione giuridica dei fatti si deve ribadire che integra il reato di maltrattamenti e non quello di abuso di mezzi di correzione, la reiterazione di atti di violenza fisica e morale, l’uso sistematico di comportamenti violenti, obiettivamente non leciti, insuscettibili di essere qualificati come espressivi di metodi educativi: schiaffi ripetuti, tirate di orecchio e capelli, sottoposizione a vessazioni morali e fisiche consistenti nell’apostrofare i bambini in malo modo, nello strappare loro i disegni, nel sottrarre loro l’acqua, allontanarli dagli spazi di condivisione per lasciarli da soli in bagno ovvero in una stanza poco illuminata 'per riflettere', inadeguatezza delle espressioni verbali utilizzate, ancorché sostenute da animus corrigendi" (Cass. Pen., Sez. VI, n. 53425/ del 22.10.2014). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

12/05/2024 11:07
Fine della convivenza: quali diritti per l’ex convivente che ha contribuito all’acquisto dell’immobile?

Fine della convivenza: quali diritti per l’ex convivente che ha contribuito all’acquisto dell’immobile?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al diritto riconosciuto all’ex convivente della ripetizione di specifiche somme corrisposte al partner durante il periodo di convivenza. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Camerino che chiede: “Terminata la convivenza si può ottenere la restituzione di quanto pagato per la costruzione di quella che sarebbe dovuta essere la casa familiare senza esserne il proprietario?” Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.24721/2019, in accoglimento del ricorso posto in essere dall’ex convivente, affermando testualmente quanto segue: “L’accertamento in fatto che la dazione di denaro era rivolta al solo scopo di realizzare la casa familiare, destinata, nelle previsioni della ricorrente, a divenire comune, giustifica, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il rimborso delle somme versate a titolo di concorso nelle spese di costruzione del manufatto rimasto in proprietà esclusiva dell’altro ex convivente, risultando tale contribuzione a tutti gli effetti, indebita” (Cass. Civ.; Sez. II; Sent. n. 2973/2016). Difatti, l’art. 2033 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto, ha diritto di ripetere ciò che ha pagato […]”, disciplina l’istituto della ripetizione dell’indebito avente come suo fondamento, l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una clausola risolutiva espressa. A tal proposito, occorre rilevare che, sebbene la convivenza di fatto rappresenti ormai a tutti gli effetti una formazione sociale riconosciuta e tutelata dal nostro ordinamento giuridico, con la quale sorgono doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, per cui eventuali contribuzioni e prestazioni economiche eseguite durante il periodo di convivenza vengono sussunte, dalla coscienza sociale, fra i doveri connessi ad un consolidato rapporto affettivo, essendo generalmente ricondotte nell’alveo delle obbligazioni naturali ex art. 2034 c.c., è tuttavia necessario che tali prestazioni rese, trovino giustificazione nella solidarietà e nella reciproca assistenza fra i conviventi, sussistendo al contrario, un’inconciliabilità logico-giuridica fra convivenza more uxorio e arricchimento ingiustificato, il quale necessariamente investe le circostanze relative all’effettuazione di prestazioni di tipo economico, derivanti da un presunto vincolo obbligatorio, ma che risultino a posteriori non dovute, così giustificando la tutela giuridica e patrimoniale del soggetto leso, in presenza di atti dispositivi posti in essere a vantaggio di uno dei conviventi esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza. Pertanto, in risposta alla domanda dalla nostra lettrice e in linea con la più autorevole e consolidata giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: “Le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente “more uxorio”; effettuate nel corso del rapporto configurano l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza; in caso di attribuzioni economico patrimoniali eseguite in corso di convivenza, a titolo di concorso alle spese di costruzione della casa familiare, si ha diritto al rimborso delle somme date se, terminata la convivenza, il conferimento non si concretizza nell’acquisto della proprietà del bene, esulando tale prestazione, dal mero adempimento di suddette obbligazioni” (Cassazione civile sez. VI, 15/02/2019, n.4659).

05/05/2024 10:09
Oggetto idoneo all’offesa in auto senza giustificato motivo: c'è responsabilità penale?

Oggetto idoneo all’offesa in auto senza giustificato motivo: c'è responsabilità penale?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al porto di oggetti qualificabili dalla legge come armi o strumenti atti ad offendere, senza giustificato motivo. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Trodica che chiede: “Si può andare incontro ad una responsabilità penale se si trasposta in automobile una mazza da baseball?” Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con la sentenza di condanna n. 55037/18 emessa nei confronti di un automobilista al quale era stata sequestrata una mazza da baseball a seguito di un controllo su strada eseguito dal comando locale dei Carabinieri, affermando testualmente quanto segue: “Questa Corte con indirizzo qui condiviso ha già affermato che, in assenza di giustificata e adeguata motivazione, al fine di qualificare l’oggetto sequestrato come offensivo, assumono rilievo le sue caratteristiche oggettive, considerate in relazione alle dimensioni ed alla consistenza, che lo rendano idoneo ad offendere, nonché la potenzialità dell’uso dannoso, come è reso evidente dall’ art. 4, della L. n. 110 del 1975”(Cass. Pen.; sez. I; Sent. n. 55037/18). Difatti, l’art. 4 della citata legge n. 110/1975, al comma 2° prevede espressamente che: “Senza giustificato motivo, non possono portarsi, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche, nonché qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona”, concedendo alla più autorevole giurisprudenza l’onere di fornire l’esatta definizione di “giustificato motivo” il quale “ricorre solo quando particolari esigenze dell’agente siano perfettamente corrispondenti a regole comportamentali lecite, relazionate alla natura dell’oggetto, alla modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell’accadimento e alla normale funzione del bene” (Cass.Pen.; Sez. I; Sent. n. 18925/2013). Pertanto, in risposta al nostro lettore ed in linea con l’unanime orientamento giurisprudenziale di legittimità, si può affermare che: “Il porto, senza giustificato motivo e a fronte di ragioni non plausibili ed astratte, fuori dalla propria abitazione, di una mazza da baseball, da ritenersi arma impropria, costituisce reato in ragione della sua chiara utilizzabilità, per dimensioni e consistenza al fine di arrecare offesa alla persona” (Cass. Pen.; Sez. I; Sent. n. 26161; dep. Il 13.06.2019).

28/04/2024 09:40
"Il vicino ostacola con la sua auto il mio ingresso in casa": condannato per violenza privata

"Il vicino ostacola con la sua auto il mio ingresso in casa": condannato per violenza privata

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente vicende riferite ai rapporti interpersonali tra i vicini che spesso degenerano con condotte penalmente rilevanti. Ecco la risposta dell'avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di San Severino Marche che chiede: "Chi ostacola l’ingresso del vicino di casa con l’auto può andare incontro a delle responsabilità penali?".  Il caso di specie ci porta ad analizzare una vicenda recentemente risolta in Cassazione che ha visto protagonista un vicino di casa che davanti al passo carrabile altrui aveva parcheggiato la propria auto impedendone così il passaggio. A tal proposito risulta utile ricordare l'articolo 610 del codice penale e precisamente il reato di violenza privata, secondo il quale, "chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare, od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni". Secondo la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza prevalente la violenza non si esaurisce nelle sole condotte consistenti nell'impiego di energia fisica nei confronti di una persona (cosiddetta violenza propria), ma si identifica con qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione l'offeso il quale sia pertanto costretto a fare tollerare od omettere qualche cosa contro la propria volontà (cosiddetta violenza impropria) anche per mezzo dell'utilizzo di mezzi particolarmente insidiosi quali la narcosi, l'ipnosi, i lacrimogeni, eccetera che comunque pongono la vittima in uno stato di incapacità di volere ed agire. Lo stesso consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene idonea ad integrare il reato di violenza la condotta di colui che parcheggi la propria autovettura in modo tale da bloccare il passaggio impedendo alla parte lesa di procedere, considerato che ai fini della configurabilità del delitto in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione (Cass. n. 21779/2006; Cass. n. 40983/2005; Cass. n. 8425/2014). Così come, integra il delitto di violenza privata la condotta di chi alla guida del proprio veicolo, compie deliberatamente manovre tali da interferire significativamente nella guida di altro utente della strada, costringendolo ad una condotta diversa da quella programmata (nella specie, l'imputato, con il proprio veicolo, aveva superato quello della persona offesa, per poi sbarrarle la strada ed impedirle di andare nella direzione desiderata).  Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, "il reato di violenza privata può essere commesso anche con l'auto, quando la stessa viene posta davanti al punto di ingresso e uscita di un edificio, impedendo così il passaggio, tanto più se in presenza di un passo carrabile" (Cass. Pen., sentenza n. 22594/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                                  

21/04/2024 10:00
La diagnosi arriva troppo tardi, il paziente muore: responsabilità medica e risarcimento del danno

La diagnosi arriva troppo tardi, il paziente muore: responsabilità medica e risarcimento del danno

Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana "Chiedilo all'Avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla responsabilità medica per danno da ritardata diagnosi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: "In quali circostanze è possibile richiede il risarcimento danni al medico che ha ritardato la valutazione diagnostica di una malattia?". Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente sensibile, su cui ha avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte con sentenza n. 8461/2019, in una causa che ha riguardato la morte di una paziente alla quale era stato diagnosticato tardivamente un male di natura maligna. In tale circostanza, nella valutazione circa l’eventuale responsabilità del medico che aveva eseguito la prima visita alla paziente, la Corte di Cassazione si è uniformata a quanto enunciato dalle Sezioni Unite nel 2008 con la sentenza n. 576, ovvero che: "In tema di responsabilità civile, il nesso causale tra la condotta o l'omissione illecita ed il danno ingiusto, inteso quale fatto materiale (c.d. "nesso di causalità materiale"), va accertato secondo le regole dettate dagli artt. 40 e 41 c.p., per effetto dei quali, tale nesso di causalità va escluso solo quando, al momento in cui è stata tenuta l'azione o l'omissione, l'evento di danno appariva assolutamente imprevedibile ed inverosimile, alla luce delle migliori conoscenze scientifiche del momento” (Cass. Civ. Sez. Un. Sent. n. 576/2008). Difatti, in base a tale orientamento, per un’idonea valutazione circa la responsabilità del soggetto autore dell’azione o dell’omissione, deve necessariamente sussistere un’indissolubile relazione la condotta omissiva e l’evento dannoso verificatosi, nel senso che se fosse possibile eliminare astrattamente la prima, ovvero l’azione o l’omissione, il danno non si sarebbe realizzato. Inoltre, nel caso che ci occupa, deve essere compiuta un’ulteriore valutazione, in relazione alla circostanza per la quale, anche nell’ipotesi in cui tale epilogo, ovvero l’evento dannoso, si sarebbe comunque verificato, se è dimostrato che la condotta attiva od omissiva del soggetto in questione ha in ogni caso aggravato o velocizzato il procedimento di accadimento di tale evento, è sempre ravvisabile una responsabilità in capo a quest’ultimo, risarcibile in ambito civile sia in termini di danno patrimoniale, sia in quelli di danno non patrimoniale. Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore e in adesione con il più autorevole orientamento della Suprema Corte, si può affermare che: "E’ configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente, qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi”. Aggiungiamo inoltre che, in tali circostanze, "si dovrà applicare la regola della preponderanza dell’evidenza o del 'più probabile che non' al nesso di causalità, fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite" ( Cass. Civ.; Sez. III, Sent. n. 8461/2019; dep. 27.03.2019). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

14/04/2024 10:20
Medico di guardia non va dalla paziente: scatta il reato

Medico di guardia non va dalla paziente: scatta il reato

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alle cure mediche e nello specifico al rapporto medico-paziente.  Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "A quali responsabilità va incontro il medico di guardia che, contattato telefonicamente, non si reca a prestare l’assistenza medica domiciliare?".  Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui ha avuto modo recentemente di pronunciarsi la Corte di Cassazione, secondo la quale vero è che l'articolo 13, comma 3, dell'accordo collettivo nazionale per la regolamentazione dei rapporti con i medici addetti al servizio di guardia medica ed emergenza territoriale, reso esecutivo (ai sensi dell'art. 48 legge 23 dicembre 1978, n. 833) con D.P.R. 25 gennaio 1941, n. 41, postula un apparente automatismo ove stabilisce che il medico di continuità assistenziale "è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che siano chiesti direttamente dall'utente [...] entro la fine del turno al quale è preposto". Tuttavia, altre fonti normative, rilevanti nel caso concreto, puntualizzano che, come d'altronde logico, il medico "deve valutare, sotto la propria responsabilità, l'opportunità di fornire un consiglio telefonico, recarsi al domicilio per una visita, invitare l'assistito in ambulatorio". Nel caso di specie, si configuravano, pertanto, tre opzioni al cui interno il medico imputato era chiamato a scegliere, in base al suo apprezzamento della situazione concreta. Ebbene, posto che la terza possibilità era fuori discussione a causa dell'età e delle condizioni della paziente (la signora per la quale era richiesto l'intervento era molto anziana ed ammalata e non era dunque nelle condizioni di recarsi a una visita ambulatoriale), dai fatti emerge come il medico non si fosse nemmeno prestato ad un consulto telefonico: «(omissis)  neppure ha rivolto consigli terapeutici puntuali, tale non potendo ritenersi l'alternativa di chiedere l'intervento di un'ambulanza ovvero, se la situazione fosse rimasta stazionaria, rivolgersi, il giorno dopo, al medico di base». Deve ribadirsi che la necessità e l'urgenza di effettuare una visita domiciliare, in virtù di quanto previsto dal citato l'articolo 13 dell'accordo collettivo nazionale, è rimessa alla valutazione discrezionale del sanitario di guardia, sulla base della propria esperienza, ma tale valutazione sommaria non può prescindere dalla conoscenza del quadro clinico del paziente, acquisita dal medico attraverso la richiesta di indicazioni precise circa l'entità della patologia dichiarata (Sez. 6, n. 34047 del 14/01/2003, Miraglia, Rv. 226594). Richiesta che, nel caso di specie, non risulta essere stata formulata; pertanto, l'unica opzione residua era, dunque, la visita domiciliare, in relazione alla cui mancata esecuzione l'imputato non ha addotto alcun legittimo impedimento. Anche la censura della mancanza del requisito dell'urgenza, insito nella necessità - secondo il dettato dell'articolo 328 del codice penale - che l'atto vada «compiuto senza ritardo», sul punto, la giurisprudenza di legittimità riconosce pacificamente la connotazione discrezionale della valutazione del medico, riservando tuttavia al giudice il potere di sindacarla quando emergano elementi che evidenzino l'evidente erroneità di quest'ultima (in tal senso: Sez. 6, n. 23817 del 30/10/2012,dep.2013,Tomas,Rv, 255715;Sez. 6, n. 12143 del 11/02/2009, Bruno, Rv. 242922; Sez. 6, n. 34047 del 14/01/2003, Miraglia, cit.). Si rileva che nel giudizio in esame, «è evidente che, nel caso di specie, il quadro clinico descritto dall'utente avrebbe imposto di recarsi immediatamente al domicilio della malata, affetta da difficoltà respiratorie in un contesto di età avanzata»; dunque, premesso che l'omissione di atti d'ufficio ha natura di reato di pericolo, sulla base della ricostruzione del fatto tale pericolo (nel caso di specie, per la salute dell'assistito) sussisteva al momento della realizzazione della condotta omissiva. Per la stessa ragione risulta impossibile negare la sussistenza del dolo, poiché l'imputato non si sarebbe rappresentato la necessità di compiere l'atto senza ritardo, non avendo egli ritenuto urgente la condizione clinica della donna. Infatti, in base alla ricostruzione operata dai giudici di merito, l'indifferibilità dell'atto dell'ufficio era ragionevolmente ipotizzabile al momento della telefonata, alla luce delle circostanze del fatto (quali le condizioni e l'età della donna, nonché la tipologia di sintomi riferita dal figlio), con la conseguenza che il soggetto agente non poteva che essersela rappresentata.  Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità ed in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: "Commette il reato di omissione d’atti d’ufficio il medico che non va dalla paziente nell’impossibilità a muoversi data dall’età della stessa e soprattutto dalle gravi difficoltà respiratorie" (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 44057 del 28.10.2022).  Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

31/03/2024 10:50
Tempestata di messaggi e chiamate dopo la fine della relazione: condannato l'ex compagno

Tempestata di messaggi e chiamate dopo la fine della relazione: condannato l'ex compagno

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti sentimentali che spesso e volentieri vanno a terminare. Di seguito la domanda di una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "A quale responsabilità può andare incontro l’ex compagno che invia messaggi telefonici per riprendere una relazione sentimentale che sa di essere definitivamente terminata?". A tal proposito è utile ricordare che con il reato di molestia o disturbo alle persone il legislatore ha inteso tutelare la tranquillità pubblica per l'incidenza che il suo turbamento ha sull'ordine pubblico, data l'astratta possibilità di reazione. L'interesse privato individuale riceve una protezione soltanto riflessa e la tutela penale è accordata anche senza e pur contro la volontà delle persone molestate o disturbate, dal momento che ciò che viene in rilievo è la tutela della tranquillità pubblica per i potenziali riflessi sull'ordine pubblico di quei comportamenti idonei a suscitare nel destinatario reazioni violente o moti di ribellione. L'elemento materiale della molestia è costituito "dall'interferenza non accettata che altera fastidiosamente o in modo inopportuno, immediato o mediato, lo stato psichico di una persona" (Sez. 1, n. 19718 del 24/03/2005) e l'atto per essere molesto deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma deve essere anche "ispirato da biasimevole, ossia riprovevole motivo o rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire nella sfera privata di altri attraverso una condotta fastidiosamente insistente e invadente" (Sez. 1, Sentenza n. 6064 del 06/12/2017). Inoltre si rileva come il reato di molestia non ha natura necessariamente abituale e richiede necessariamente una reiterazione di comportamenti intrusivi e sgraditi nella vita altrui, sicché può essere realizzato anche con una sola azione purché particolarmente sintomatica dei motivi specifici che l'hanno ispirata. L'elemento soggettivo del reato invece consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella "consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l'eventuale convinzione dell'agente di operare per un fine non biasimevole o addirittura per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto" (Sez. 1, n. 50381 del 07/06/2018). Con riferimento all'intento della condotta costituito da "biasimevole motivo", è sufficiente anche il compimento di un unico gesto, come nel caso di "una sola telefonata effettuata con modalità rivelatrici dell'intrusione nella sfera privata del destinatario" (Sez. 1, n. 3758 del 07/11/2013). Quanto alla possibilità che il reato sia integrato mediante l'invio di sms e messaggi WhatsApp, secondo quanto condivisibilmente affermato di recente dalla Suprema Corte, ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola "è il carattere invasivo della comunicazione non vocale, rappresentato dalla percezione immediata da parte del destinatario dell'avvertimento acustico che indica l'arrivo del messaggio, ma anche -va soggiunto-  dalla percezione immediata e diretta del suo contenuto o di parte di esso, attraverso l'anteprima di testo che compare sulla schermata di blocco", realizzandosi in tal modo in concreto una diretta e immediata intrusione del mittente nella sfera delle attività del ricevente (Sez. 1, n. 37974 del 18/03/2021). Si è altresì ritenuto che il carattere invasivo della messaggistica telematica non può essere escluso per il fatto che il destinatario di messaggi non desiderati, inviati da un determinato utente (sgradito), possa evitarne agevolmente la ricezione, senza compromettere in alcun modo la propria libertà di comunicazione, semplicemente escludendo o bloccando il contatto indesiderato (in tal senso, Sez. 1, n. 24670 del 07/06/2012).  In realtà, tenuto conto, che il reato di cui all'articolo 660 del codice penale mira a tutelare, non già la libertà di comunicazione del destinatario dell'atto molesto, ma a prevenire il turbamento della tranquillità pubblica, e considerato altresì che anche le telefonate sgradite, persino su apparato fisso, possono attualmente essere "bloccate" attraverso la apposita funzionalità, ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola, "è l'invasività in sé del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario, non la possibilità per quest'ultimo di interrompere l'azione perturbatrice, già subita e avvertita come tale, ovvero di prevenirne la reiterazione, escludendo il contatto o l'utenza sgradita senza nocumento della propria libertà di comunicazione" (Sez. 1, n. 37974 del 18/03/2021). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che: "Integra il reato di molestie la condotta dell’uomo che non riesce ad accettare la rottura della relazione con la compagna e prova a convincerla a riprendere il rapporto inviandole ripetuti messaggi telefonici nonostante poi la stessa lo abbia bloccato” (Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 34821/22). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                      

24/03/2024 10:04
"Anziano intesta l'abitazione alla badante avvenente": cos'è il vitalizio assistenziale e quando è valido

"Anziano intesta l'abitazione alla badante avvenente": cos'è il vitalizio assistenziale e quando è valido

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa agli anziani ed alla loro cura. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: "Un anziano assistito da un’avvenente badante può intestare alla stessa la propria abitazione?" IL CASO - Spesso gli anziani sono curati dalle badanti, anche per lungo tempo, cosicchè si instaura un rapporto di fiducia ed affetto per cui il soggetto assistito desidera intestare alla badante, in segno di riconoscenza, la propria abitazione. Passando all'esame del caso di specie, è accaduto in una recente vicenda giudiziaria che gli eredi di un'anziana donna, hanno impugnato il contratto stipulato dalla cara estinta con la badante e con il quale, conservando l'usufrutto dell'immobile di proprietà, ha ceduto la nuda proprietà alla persona che si occupava della sua cura, con l'obbligo da parte di quest'ultima di continuare ad assisterla fino alla morte. Contratto che il Tribunale ha definito "atto di trasferimento a titolo oneroso, qualificabile come un contratto di mantenimento vitalizio oneroso", stipulato dall'anziana donna bisognosa di cure, nel totale disinteresse dei parenti che hanno agito in giudizio, al fine di cristallizzare un rapporto che andava avanti da tempo e che si caratterizzava "da una parte il suo bisogno di cura della persona e di ogni altra esigenza quotidiana di vita materiale e anche di natura morale, dall'altra la disponibilità della badante a prendersi cura di ogni bisogno della anziana signora, dedizione di durata già quindicennale e promessa anche per il futuro fino a vita natural durante, ivi compresa quella di farle personalmente compagnia".  Difatti, la normativa vigente prevede il contratto di vitalizio assistenziale, detto anche rendita vitalizia, per il quale è possibile cedere la nuda proprietà dell'immobile ad un estraneo, con riserva del diritto di usufrutto per il proprietario, in cambio di assistenza morale e materiale sino alla morte.  In sostanza, a fronte della cessione della nuda proprietà si ha la controprestazione di assistenza materiale e morale. Affinchè tale tipologia contrattuale sia valida devono, però, ricorrere due condizioni: che l'anziano sia capace di intendere e di volere al momento del rogito, e che l'anziano non si trovi in condizioni di salute troppo precarie o, addirittura, in fase terminale. Dal punto di vista pratico per effetto del contratto di vitalizio, in pratica la badante si obbliga a fornire prestazioni di assistenza morale e materiale all'anziano, vita natural durante, in cambio del trasferimento dell'immobile al momento della morte; qualora la badante risulti inadempiente rispetto alle esigenze di salute dell'anziano non prestando assistenza, perderà la nuda proprietà e sarà chiamata, eventualmente, al risarcimento del danno. Cosicché i parenti dell'anziano possono senza dubbio impugnare il contratto di vitalizio, ma solo a certe condizioni, ossia se gli stessi sono in grado di dimostrare: che l'anziano, al momento della stipula del contratto era incapace di intendere e di volere, non è indispensabile essere stati dichiarati interdetti o inabilitati, e che al momento della stipula del contratto, l'anziano risultava gravemente malato e quasi prossimo al decesso. Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice ed in linea con la più autorevole giurisprudenza, si può affermare che "il contratto di vitalizio si caratterizza per essere atto di trasferimento a titolo oneroso, qualificabile come un contratto di mantenimento, pienamente legittimo se risponde ad interessi meritevoli di tutela. Esso si caratterizza per l'alea rappresentata dalla durata della vita del vitaliziato e dalla conseguente non prevedibilità delle obbligazioni assunte dall'obbligato alla cura” (Tribunale di Benevento, sentenza del 02.02.2022).  Ciò tenuto conto che "il contratto vitalizio assistenziale è nullo per mancanza di alea ove, al momento della sua conclusione, il beneficiario sia affetto da malattia che, per natura e gravità, renda estremamente probabile un esito letale e ne provochi la morte dopo breve tempo o abbia un'età talmente avanzata da non poter certamente sopravvivere oltre un arco di tempo determinabile" (Cass. Civ., sentenza n. 25624 del 2017). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

17/03/2024 10:15
Installa sul cellulare della moglie un software per "spiare" le chiamate ma non lo usa: vale la condanna?

Installa sul cellulare della moglie un software per "spiare" le chiamate ma non lo usa: vale la condanna?

Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana "Chiedilo all'Avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate, hanno interessato principalmente la tematica relativa alla violazione della segretezza delle conversazioni telematiche altrui, attraverso l’utilizzo di strumenti informatici. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Tolentino che chiede: "E’ penalmente sanzionabile chi installa un programma informatico per intercettare le comunicazioni telefoniche di un altro soggetto, anche se poi non è stato utilizzato?". Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente attuale, su cui ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15071 del 2019, affermando la responsabilità penale di un marito, che aveva collegato il cellulare della moglie ad uno "Spy-Software" per monitorarle le chiamate, punendolo secondo l'ex art. 617-bis del codice penale. Articolo che stabilisce espressamente: "Chiunque, fuori dei casi consentiti dalla legge installa apparati, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche tra altre persone è punito con la reclusione da uno a quattro anni". Difatti, nel caso in esame, la Suprema Corte ha valutato la punibilità dell’uomo, sulla base di un’autorevole interpretazione del diritto vivente, fornita proprio dalle Sezioni Unite, con sentenza n.26889/2016, la quale ha permesso di includere i programmi informatici denominati "Spy-Software", nella categoria degli apparati indicati espressamente dalla norma del codice penale appena citata, chiarendo che "l’evoluzione tecnologica ha consentito di apportare strumenti informatici del tipo software, solitamente installati in modo occulto su un telefono cellulare, un tablet o un PC, che consentono di captare tutto il traffico dei dati in arrivo o in partenza dal dispositivo e, quindi, anche le conversazioni telefoniche" (Cass. Pen.; Sez. Un.; Sentenza n. 26889 del 28/04/2016).  È stata evidenziata a tal proposito, una categoria aperta e dinamica, suscettibile di essere implementata per effetto delle innovazioni tecnologiche che nel tempo, consentono di realizzare scopi vietati dalla legge.  Inoltre, secondo la ricostruzione operata dalla Corte di legittimità chiamata a pronunciarsi sull’obiezione sollevata dall’uomo, in relazione alla circostanza che la moglie fosse stata di fatto avvertita dal figlio, circa l’installazione di tale programma sul suo cellulare, senza però smettere mai di usarlo, si è rilevato che il riferimento alla norma penale di cui all’art. 617-bis c.p., ha lo scopo di anticipare la tutela alla riservatezza e libertà delle comunicazioni, attraverso la sanzione dei fatti prodromici all’effettiva lesione del bene, non essendo dunque necessaria alcuna condotta ulteriore. Pertanto, in adesione a tale autorevole orientamento della Suprema Corte e in risposta alla domanda della nostra lettrice, è da intendersi che: "Ai fini della configurabilità del reato in esame deve aversi riguardo alla sola attività di installazione e non a quella successiva dell'intercettazione o impedimento delle altrui comunicazioni, che rileva solo come fine della condotta, con la conseguenza che il reato si consuma anche se gli apparecchi installati non abbiano funzionato o non siano stati attivati" (Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza del 05.04.2019, n. 1507). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.      

10/03/2024 10:00
Il marito si lamenta: "Mia moglie non cucina". E chiede la separazione con addebito

Il marito si lamenta: "Mia moglie non cucina". E chiede la separazione con addebito

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al rapporto tra moglie e marito e nello specifico le cause che possono portare all’addebito della separazione dei coniugi. Di seguito la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: "Se mia moglie non cucina posso chiedere la separazione con addebito?".  Il caso di specie ci rimanda ad una vicenda recentemente definita giudizialmente, nella quale il coniuge si è lamentato dinanzi al giudice, spiegando che «la moglie ha mostrato negli anni un contegno di disinteresse e di indifferenza per il partner, contegno teso a violare gli obblighi coniugali della collaborazione e della contribuzione nell’interesse della famiglia» nonché a far mancare «l’assistenza materiale e morale». In particolare, l’uomo parla di «comportamenti manifestati nel rifiuto» della moglie «di predisporre piatti caldi, piuttosto che lavare gli indumenti personali», e aggiunge, in sostanza, di avere spesso «provveduto a fare la spesa» e di essersi spesso recato «a consumare la colazione a casa della madre», la quale poi provvedeva «a lavargli gli abiti da lavoro». A tal proposito risulta utile ricordare che, «a seguito del matrimonio i coniugi assumono gli stessi diritti e gli stessi doveri, sono tenuti all’obbligo reciproco di fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia ed alla coabitazione»; insomma, moglie e marito «sono posti su un piano del tutto paritario». Di conseguenza, «non è previsto che su un coniuge siano addossati tutti i compiti di cura della casa e della prole, poiché entrambi i coniugi sono tenuti a svolgere le stesse mansioni, e ciò anche nell’ipotesi in cui uno solo di essi lavori, poiché non sarebbe ammissibile una situazione di sottomissione dell’altro partner a svolgere lavori di mera cura dell’ordine domestico, al quale sono peraltro tenuti anche i figli, nell’ottica di una educazione responsabile». Alla luce di tali considerazioni, e in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che, "moglie e marito pari sono. Anche nella suddivisione dei compiti per portare avanti materialmente ogni giorno la famiglia, come, ad esempio, cucinare, fare la spesa e lavare i panni. Ciò comporta che l’uomo non può addebitare la crisi della coppia alla consorte che non si comporta da casalinga provetta e in servizio permanente” (Tribunale di Foggia, sentenza n. 1092/21, Sez. I Civile, depositata il 05.05.2021). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                 

03/03/2024 09:40
Il marito la tradisce con la cognata, la moglie chiede la revoca degli immobili donati: è possibile?

Il marito la tradisce con la cognata, la moglie chiede la revoca degli immobili donati: è possibile?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti tra i coniugi oltre all’istituto della donazione. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Montegranaro che chiede: "È possibile revocare una donazione della moglie al marito che la tradisce?".  A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda risolta poi in Cassazione, che è stata chiamata a pronunciarsi sulla revoca di più donazioni indirette mobiliari ed immobiliari effettuate dalla moglie nei confronti del marito che nel frattempo la tradiva con la propria cognata (la moglie del fratello di lei) mettendo in crisi non solo la coppia ma le intere famiglie coinvolte ed infine anche l’azienda di famiglia della donna tradita all'interno della quale lavoravano tutti i protagonisti della vicenda adulterina. Nei primi due gradi di giudizio veniva confermata la revoca di tali donazioni fatte in quanto dall’istruttoria erano emersi comportamenti posti in essere dal donatario direttamente nei confronti della donante, che confermavano l’evidenza di un sentimento di disistima ed irrispettosità del marito nei confronti della moglie, tenuto conto del principio oramai consolidato giurisprudenziale. Principio secondo il quale, "l'ingiuria grave richiesta dall'articolo 801 del codice civile quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale la sua natura di offesa all'onore e al decoro della persona, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, dovrebbero invece improntarne l'atteggiamento, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatario" (Cass. civ., n.  20722/2018). Difatti tali comportamenti erano qualificabili, ai fini previsti dall'articolo 801 del codice civile, come una grave ingiuria, trattandosi di "una pluralità di comportamenti strettamente connessi e rivolti verso la persona della donante e tale non poter essere tollerati secondo un sentire ed una valutazione di normalità". In effetti, l'ingiuria grave richiesta dall'art. 801 c.c. quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatario (Cass. n. 22013 del 2016). Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: "La donazione va incontro alla revocabilità in presenza di una ingiuria grave del marito donatario consistente in un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e nell’irrispettosità della dignità della moglie donante se il marito tradisce la consorte addirittura con la cognata con relativa messa in crisi non solo della coppia ma anche delle famiglie coinvolte oltre all'azienda di famiglia” (Cass. Civ., Sez. III, Ordinanza del 20.06.2022, n. 19816). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.         

25/02/2024 11:00
Gli svuotano il conto corrente fingendosi l'istituto di credito: il risarcimento danni della banca è dovuto?

Gli svuotano il conto corrente fingendosi l'istituto di credito: il risarcimento danni della banca è dovuto?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all’avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente tematiche riferibili alle conseguenze del phishing, fenomeno finalizzato all’acquisizione, da parte di hacker, di dati personali e sensibili. Di seguito la risposta alla domanda posta da una lettrice di Monte San Giusto, che chiede: "È possibile ottenere un risarcimento dalla propria banca, qualora terzi si impossessino delle credenziali di accesso al servizio di home banking ed azzerino la giacenza sul conto corrente?".  Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo alla tematica, molto attuale, delle responsabilità derivanti dal phishing, fenomeno molto frequente online, che si verifica quando un soggetto si finge un ente affidabile, quale ad esempio un istituto di credito, e - attraverso varie modalità come l’invio di e-mail o il rimando dell’utente su un sito web creato ad hoc - acquisisce i dati finanziari o, comunque, le credenziali di accesso al conto corrente del titolare, allo scopo di utilizzarli per disporre della liquidità presente. A tal proposito, occorre considerare come il rischio che terzi estranei sottraggano i dati personali dei propri correntisti, il cui particolare trattamento da parte dell’istituto è soggetto alle disposizioni previste in materia dal Codice della Privacy e dal Regolamento Europeo n. 679/2016, sia considerato da giurisprudenza consolidata, un rischio tipico del prestatore dei servizi di pagamento, in quanto tale "prevedibile ed evitabile".  Sussiste dunque, innanzitutto, in capo all’istituto di credito, l’obbligo di operare con la diligenza qualificata di cui all’art. 1176 co.2 c.c., da valutare assumendo come parametro la figura dell'accorto banchiere', e dunque l’obbligo di garantire elevati standard di sicurezza nell’utilizzo dei propri sistemi di pagamento online, determinato con riferimento alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, in modo tale da evitare tali illegittime sottrazioni. Ad esempio, imponendo ai propri clienti l’uso delle O.T.P., One Time Password, o dei sistemi di autenticazione a due fattori.  Pertanto, in capo all’istituto di credito sussisterà l’obbligo di risarcire il danno, ex art. 2050 c.c., nel caso in cui avvengano episodi di accesso non autorizzato alle informazioni private dei propri clienti, sempre che questo non provi di avere adottato tutte le misure idonee a garantire la sicurezza del servizio e la riconducibilità dell'operazione al cliente.  Pertanto in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, "l’Istituto che svolga un’attività di tipo finanziario o in generale creditizio risponde, quale titolare del trattamento di dati personali, dei danni conseguenti al fatto di non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico del cliente mediante la captazione dei suoi codici di accesso e le conseguenti illegittime disposizioni di bonifico, se non prova l’adozione delle misure atte a garantire la sicurezza del medesimo servizio" (Cass. Civ., Sez. III, 12.02.2024, n. 3780). Nel consigliare, dunque, di porre particolare attenzione a mail o siti sospetti, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

18/02/2024 10:30
Festival di Sanremo, attenzione alla pubblicità occulta: multa per Amadeus e Chiara Ferragni

Festival di Sanremo, attenzione alla pubblicità occulta: multa per Amadeus e Chiara Ferragni

Torna come ogni domenica, la rubrica curata dall'Avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante il Festival di Sanremo e la possibilità o meno che si verifichi episodi di pubblicità occulta. Ecco la risposta dell'avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "È possibile che si verifichino delle situazioni di pubblicità occulta durante il Festival di Sanremo con possibili sanzioni a livello economico?".  La domanda della nostra lettrice è quanto mai attuale sia per la vissuta settimana con il Festival di Sanremo 2024 sia per l’intervenuta sentenza da parte del Tar Lazio proprio il 6 febbraio in concomitanza con l’inizio della kermesse canora con la quale è stata confermata la multa inflitta dall'autorità garante delle comunicazioni per pubblicità occulta realizzata in favore di Instagram durante la diretta televisiva del Festival di Sanremo del 2023.  Infatti, secondo quanto deciso dai magistrati, l'azienda di viale Mazzini dovrà pagare la cifra stabilita dall'Agcom, e precisamente la somma di 123.498 euro. Per inquadrare meglio il fronte giudiziario è necessario fare un passo indietro e risalire all'origine della vicenda, ossia ai ripetuti espliciti riferimenti ad Instagram durante le serate del Festival di Sanremo dello scorso anno, trasmesse in diretta televisiva dalla Rai. Quei momenti televisivi, accompagnati da eco sui media e, soprattutto, da un boom di contatti sul social network, richiamarono anche l'attenzione dell'Agcom, che ipotizzò una pubblicità occulta per Instagram. All'ipotesi seguì però anche una vera e propria indagine, culminata poi nella delibera, datata 15 giugno 2023, con cui l'Agcom mise nero su bianco che «è stato accertato e contestato che su ‘Rai 1', nel corso della trasmissione della puntata dei giorni 7, 8 e 9 febbraio 2023 dei programmi televisivi denominati ‘73° Festival della Canzone Italiana di Sanremo' e ‘Sanremo Start', le reiterate, insistite citazioni verbali e apparizioni visive del servizio e dello specifico profilo Instagram associato a un personaggio reale, conduttore del programma televisivo, hanno integrato la messa in onda di una vera e propria comunicazione commerciale audiovisiva occulta a favore del social network». Consequenziale per la Rai anche una multa da oltre 100mila euro. A confermare la decisione dall'Agcom hanno provveduto i magistrati del Tar Lazio, riconoscendo "la natura commerciale della comunicazione e, in specie, di telepromozione" degli espliciti riferimenti ad Instagram durante alcune serate del Festival di Sanremo trasmesse dalla Rai in diretta. Significativa, innanzitutto, la constatazione che "non è stato stipulato, in ordine allo svolgimento del Festival di Sanremo, alcun accordo commerciale tra la Rai e la società di gestione del social network Instagram; non è stato stipulato, in ordine allo svolgimento del Festival di Sanremo, alcun accordo commerciale tra Chiara Ferragni", conduttrice nel 2023 assieme ad Amadeus, "e la società di gestione del social network Instagram; non è stato stipulato, in ordine allo svolgimento del Festival di Sanremo, alcun accordo commerciale tra il conduttore Amadeus e la società di gestione del social network Instagram". Secondo la Rai, però, la scelta ricaduta su Instagram come social network esclusivo della trasmissione "ha risposto ad un obiettivo squisitamente editoriale, cioè l'ampliamento della platea degli spettatori, e privo di finalità, direttamente o indirettamente, commerciali". Di parere diverso, invece, i giudici, i quali spiegano che "la strategia editoriale rimarcata dalla Rai, diretta ad ampliare la platea dei telespettatori del programma televisivo del Festival di Sanremo anche all'ambiente digital e a quelle porzioni di pubblico che non fruiscono del mezzo televisivo con le modalità tradizionali (cosiddetto ‘target giovane') non può affatto ritenersi isolabile in un ambito editoriale e, quindi, disgiunta dall'effetto più immediato ed evidente che tale scelta ha, in effetti, determinato". Il riferimento è, nello specifico, "al notevole aumento degli ascolti, che nel caso del ‘73° Festival di Sanremo' hanno superato gli undici milioni con oltre il 66 per cento di share (ossia il rapporto percentuale tra i telespettatori di un canale televisivo e il totale dei telespettatori che stanno guardando un qualsiasi altro canale). Un successo di pubblico che ha contribuito a marcare una supremazia della rete pubblica sulle altre reti nazionali, ma soprattutto a favorire, in via riflessa, notevoli incrementi economici". Impossibile, quindi, ignorare, aggiungono i giudici, che "l'implementazione del bacino degli spettatori (dichiarato obiettivo di carattere editoriale)" ha assicurato "notevoli ricadute sia in favore dell'azienda pubblica, sia, ancora, della concessionaria ‘Rai Pubblicità', sia, infine, dello stesso social network Instagram". E se un vantaggio promozionale, foriero di varie e possibili utilità, è oggettivamente estrapolabile dalla strategia editoriale posta in essere dalla Rai in occasione del Festival di Sanremo dello scorso anno, deve concludersi, secondo i giudici, che "l'effetto pubblicitario per Instagram si sia appieno prodotto, sebbene occultamente, e, a monte, non potesse essere ignorato da un organismo (di diritto pubblico) - come la Rai - dotato di alte e strutturate competenze professionali nel settore audiovisivo". Di conseguenza, "la decisione di non stipulare - intenzionalmente - un accordo commerciale che avrebbe implicato la promozione di Instagram nelle (ordinarie) forme prescritte - ossia la scritta in sovrimpressione ‘messaggio promozionale' - si atteggia come l'espressione di una consapevole condotta professionale dei vertici aziendali, i quali hanno forse fidato che la strategia editoriale di conquista del pubblico più giovane avrebbe potuto giustificare o, addirittura, dissimulare il naturale ed inevitabile effetto pubblicitario collegato alla preferenza esclusiva accordata ad Instagram rispetto a tutti gli altri social network, ancor più cristallizzata dai ripetuti richiami alla popolarità di tale piattaforma". La valutazione del Tar Lazio è netta: "la realtà oggettivamente constatabile è che la Rai ha individuato sin dalla fase organizzativa della manifestazione canora una co-conduttrice", cioè l'influencer Chiara Ferragni, "che ha consolidato e che identifica la propria popolarità nel social network Instagram, e che, non secondariamente, ha incentrato parte delle proprie prestazioni professionali nel corso del ‘Festival' alla pianificata apertura (in diretta televisiva, anzi in mondovisione) del profilo Instagram del conduttore Amadeus". "In particolare, nel corso della prima serata del ‘Festival' l'influencer e co-conduttrice Chiara Ferragni ha aperto il profilo Instagram del conduttore Amadeus. Subito dopo l'apertura del profilo Instagram di Amadeus, si è verificata l'adesione di migliaia di followers fino a superare la soglia del milione. Inoltre, nel corso dell'evento sono state realizzate alcune dirette su Instagram: ad esempio l'ingresso sul palco nella terza serata o una gag dietro le quinte con i tre conduttori (compreso Gianni Morandi) - si legge ancora nella valutazione -. Non si è trattato, certamente, di improvvisazioni del momento, quanto, piuttosto, di una ragionata ed intenzionale condotta che ha costituito parte integrante dello spettacolo, e che, quindi, ha sì favorito il coinvolgimento del pubblico più giovane, ma ha parimenti determinato un effetto (occultamente) pubblicitario in favore del social network". Pertanto, in risposta alla nostra lettrice, così come deciso dal Tar Lazio, "è stata realizzata durante la diretta televisiva del Festival di Sanremo 2023 pubblicità occulta in favore di Instagram e pertanto viene confermata la multa dell'Agcom nei confronti della Rai" (Tar Lazio, Sez. IV, 06.02.2024, n. 2255). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

11/02/2024 10:40
"Tuo marito ti tradisce": l'amante confessa tutto alla moglie, ma commette reato

"Tuo marito ti tradisce": l'amante confessa tutto alla moglie, ma commette reato

Torna come ogni domenica, la rubrica curata dall'Avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti coniugali ed extraconiugali e le relative condotte poste in essere dagli stessi protagonisti con relative responsabilità. Ecco la risposta dell'avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "Commette reato l’amante che rivela alla moglie il tradimento del marito?".  L'amante, stanca di essere trattata come la seconda scelta, non ne può proprio più, decide così di rivelare il tradimento del fedifrago. In casi come questi commette un reato? Può cioè essere perseguibile penalmente per aver sbugiardato il coniuge traditore? Cerchiamo di capirlo insieme, premettendo che la tecnologia in questi casi, è uno strumento potentissimo. Non è infrequente, infatti, ai giorni nostri che i matrimoni finiscano per foto pubblicate sui social o messaggini inviati al coniuge tradito. In ogni caso è bene sapere che la giurisprudenza non ha mancato di punire, in certi casi, l'amante vendicativa. Vediamo in che modo e a che titolo. La Corte di Cassazione, ad esempio, con la sentenza n. 28852/2009 ha inquadrato la condotta dell'amante che, inviando alcuni messaggi in chat alla moglie tradita, l'ha informata del tradimento del marito, come molestia e disturbo alle persone. Illecito che le è costato le spese processuali e una multa di 1000 euro. A nulla sono valse le difese dell'amante, che in sua difesa ha affermato che il tradimento era già noto alla moglie e che comunque si è limitata a inviare solo qualche sms. Per gli Ermellini anche pochi messaggi possono ledere la dignità, il decoro e l'onore della persona offesa, soprattutto se gli stessi riportano anche espressioni di disprezzo dell'uomo verso la sua compagna di vita. Con la sentenza n. 28493/2015 la Cassazione è giunta alle stesse conclusioni, in relazione alle rivelazioni che la ex amante, per vendetta, ha comunicato alla moglie del traditore, in tre lunghe telefonate. Gli Ermellini non hanno tenuto conto del fatto che le conversazioni, a detta dell'amante, non sono state assillanti e che comunque era nell'interesse della moglie essere informata della condotta del coniuge. In un altro caso invece, sul quale la Cassazione si è pronunciata con la sentenza n. 29826/2015, ha commesso reato di atti persecutori (stalking) l'amante che ha rivelato al marito il tradimento della moglie, lo ha reso pubblico, ha inviando lettere al tradito sul luogo di lavoro e numerosi sms dal contenuto volgare e infine ha scritto frasi ingiuriose proprio sui muri della scuola frequentata dai figli della donna. Gli Ermellini hanno valorizzato ai fini del reato le svariate condotte persecutorie che hanno recato un indubbio danno alla riservatezza e all'intimità sessuale, provocando uno stato persistente di disagio e ansia a tutti i membri della famiglia, che hanno subito ripercussioni anche nell'ambiente lavorativo e scolastico. Diverse sentenze hanno condannato anche per diffamazione l'amante che ha rivelato la propria relazione con una persona sposata, pubblicando foto e messaggi espliciti della relazione sulla propria pagina Facebook o su altro social. Il reato si configura in questi casi perché la vita di relazione tra due coniugi non è un fatto d'interesse pubblico, per cui nel momento si rende noto a un numero indeterminato di soggetti il tradimento si lede il diritto alla riservatezza delle persone offese. È anche possibile che l'amante ferita si limiti anche solo a minacciare il coniuge di rivelare all'altro il tradimento; in questo caso, il soggetto a cui la minaccia è rivolta può denunciare l'amante gelosa e la stessa può andare incontro alla condanna per il reato di minacce di cui all'art. 612 del codice penali. Pertanto, in risposta al nostro lettore, la condotta dell’amante che rivela alla moglie il tradimento del marito può comportare, a seconda della modalità utilizzata, condotte penalmente rilevanti che vanno dalla molestia allo stalking. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

04/02/2024 10:20
Pedinamenti e insulti alla vicina di casa: scatta la condanna per stalking

Pedinamenti e insulti alla vicina di casa: scatta la condanna per stalking

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le vicende che possono insorgere tra condomini nei rapporti di vicinato. Di seguito la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Porto Potenza Picena, che chiede: "A quale responsabilità può andare incontro chi compie dispetti ed appostamenti nei confronti della propria vicina di casa?" Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ai controversi rapporti che possono insorgere tra condomini fino ad arrivare a causare quotidiane molestie in danno altrui. A tal proposito, risulta utile riportare una vicenda recentemente affrontata dalla Suprema Corte, nella quale una donna si ritrova a dover fare i conti con un vicino di casa che è un vero e proprio incubo: la pedina, le fa dispetti, la aggredisce verbalmente, la minaccia. A certificare la gravità della situazione è anche il fatto che la donna si sia decisa, alla fine, «ad installare una telecamera di sicurezza ed un piccolo cancello sulla rampa delle scale» così da poter evitare il contatto diretto col fastidioso vicino. A fronte degli elementi probatori raccolti, anche per la Corte di Cassazione la donna è stata vittima del reato di stalking; in particolare, i magistrati sottolineano «la ripetitività e la consistenza dei comportamenti» dell'uomo, comportamenti che «avevano destabilizzato la donna, costretta a ricorrere alle cure di uno specialista per il grave stato di ansia prodottosi» e decisasi, infine, «ad installare una telecamera di sicurezza ed un piccolo cancello sulla rampa delle scale» per provare a ridurre il potenziale pericolo di un contatto con lo sgradevole vicino di casa. Impossibile, quindi, ridimensionare tali episodi nel reato di molestie poiché le condotte da lui tenute hanno instillato un profondo timore nella vicina di casa, spingendola a «mutare le proprie abitudini di vita» e a «ricorrere a un sistema di videosorveglianza e di difesa della propria casa». Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che "il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di molestie, consiste nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie, sicché si configura il delitto di stalking di cui all'art. 612-bis c.p. solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l'alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato meno grave di molestie di cui all'art. 660 c.p. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (Sez. 5, n. 15625 del 09/02/2021 Rv. 281029). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana. 

28/01/2024 10:10
Sottrae il cellulare della compagna per spiare la chat Whatsapp: c'è la condanna per rapina

Sottrae il cellulare della compagna per spiare la chat Whatsapp: c'è la condanna per rapina

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti tra la coppia e nello specifico dell’utilizzo del telefonino. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "Appropriarsi del cellulare della propria compagna comporta un reato?". Il caso di specie ci porta ad affrontare una condotta sempre più presente all’interno delle coppie soprattutto per gelosia o per altri "residuali scopi". A tal proposito ci è utile riportare un caso giudiziario nel quale l’imputato aveva sottratto con prepotenza alla ex fidanzata il telefono cellulare, al fine di rivelare al padre della donna, la relazione sentimentale che questa aveva instaurato con un altro uomo. La Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente il dolo specifico richiesto quale elemento soggettivo del reato di rapina, in quanto "il profitto richiesto può concretarsi in ogni utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene". Alla luce di ciò, ha statuito il seguente principio di diritto «nel diritto di rapina sussiste l'ingiustizia del profitto quando l'agente, impossessandosi della cosa altrui (nella specie un telefono cellulare), persegua esclusivamente un'utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da un altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell'autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane» (Cass. pen., Sez. II, 10 marzo 2015, n. 11467; Cass. pen., Sez. II, 10 giugno 2016, n. 24297). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che "sottrarre di prepotenza lo smartphone della propria compagna per poter dare un'occhiata a rubrica telefonica e messaggi comporta la commissione del reato di rapina in quanto l’ingiusto profitto richiesto può consistere anche in un vantaggio di natura morale o sentimentale" (Cass. Pen, Sez. II, 10 dicembre 2021, n. 45557). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                                                                  

21/01/2024 10:30
"Il mio ex marito spende tutto nel gioco": scatta l'amministratore di sostegno

"Il mio ex marito spende tutto nel gioco": scatta l'amministratore di sostegno

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'Avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica assai attuale relativa all'istituto dell'amministratore di sostegno ed i suoi presupposti. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Macerata, che chiede: "Se il mio ex marito è divenuto eccessivamente prodigale nello spendere senza alcun motivo è possibile chiedere la nomina di un amministratore di sostegno?".  Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una tematica estremamente attuale, risolta recentemente dalla Suprema Corte a seguito di un giudizio proprio istaurato dall’ex moglie, titolare di un assegno di mantenimento, nei riguardi del proprio ex marito divenuto a suo dire "convulsivo nell’utilizzo dei soldi in spese inutili rischiando lo stato di indigenza". Il procedimento arrivato in Cassazione è stato risolto tenendo conto dei consolidati orientamenti giurisprudenziali del caso; va, quindi, precisato, per focalizzare l'attenzione sul caso di specie che, per giurisprudenza ormai consolidata (Cass. n. 5492/2018Cass. n. 20664/2017, Cass. n. 18171/2013), l'amministrazione di sostegno può pronunciarsi, nell'interesse del beneficiario (interesse reale e concreto, inerente alla persona e/o al suo patrimonio), anche in presenza dei presupposti di interdizione e inabilitazione, e dunque anche con riguardo alla prodigalità. La prodigalità è stata definita come un comportamento abituale caratterizzato da larghezza nello spendere, nel regalare o nel rischiare in maniera eccessiva ed esorbitante rispetto alle proprie condizioni socio-economiche e al valore oggettivamente attribuibile al denaro che configura autonoma causa di inabilitazione, ai sensi dell'art. 415 del codice civile, comma 2, indipendentemente da una sua derivazione da specifica malattia o comunque infermità, e, quindi, anche quando si traduca in atteggiamenti lucidi, espressione di libera scelta di vita, purché sia ricollegabile a motivi futili (ad esempio, frivolezza, vanità, ostentazione del lusso, disprezzo per coloro che lavorano) (Cass. n. 786/2017). In questi sensi è stato ravvisato il presupposto per l'apertura dell'amministrazione di sostegno nel caso di una persona dedita in maniera continua al gioco, che destini ad esso tutti i suoi averi, contraendo anche plurimi prestiti per alimentare questa pregiudizievole inclinazione (Cass. 5492/2018). Diversamente, sono stati ritenuti insussistenti gli estremi della prodigalità nella condotta di un soggetto che, con la redistribuzione della propria ricchezza a persone a lui vicine, anche se non parenti, intendeva dare una risposta positiva e costruttiva al naufragio della propria famiglia (Cass. n. 786/2017). Anche la Corte Europea dei diritti dell'Uomo, di recente, ha avuto modo di esaminare la disciplina italiana dell'amministrazione di sostegno proprio per un caso di prodigalità (Sentenza Corte Europea diritti dell'uomo Sez. I, Sent. (ud. 27/06/2023) 06/07/2023 - ricorso n. 46412/21). La Corte Edu (in particolare, v. par. 84-92) ha ricordato che la decisione di sottoporre una persona ad una misura di protezione giuridica può costituire un'ingerenza nella vita privata di tale persona (ai sensi dell'art. 8, par. 1, della CEDU), anche quando quest'ultima è stata privata solo in parte della sua capacità giuridica, ed ha rammentato che una lesione del diritto di una persona al rispetto della sua vita privata viola l'articolo 8, se non è "prevista dalla legge", se non persegue uno o più scopi legittimi ai sensi del paragrafo 2, o se non è "necessaria in una società democratica", nel senso che non è proporzionata agli scopi perseguiti. Quindi, passando ad esaminare il caso concreto, la Corte Edu ha dichiarato di considerare che "l'ingerenza perseguisse lo 'scopo legittimo', ai sensi del secondo paragrafo dell'articolo 8, della protezione del secondo ricorrente contro, in un primo tempo, il rischio di indigenza e, a partire dal 2020, un indebolimento di ordine fisico e mentale".  E ciò anche se la decisione di sottoporre la persona all'amministrazione di sostegno, privandola in parte della sua capacità giuridica, non era basata su una constatazione di un'alterazione delle sue facoltà mentali attestata da medici, ma su una eccessiva prodigalità che poteva porlo a rischio di indigenza, e sull'indebolimento fisico e psichico da lui dimostrato a partire da un dato periodo. Di seguito, la Corte Edu ha precisato che vi è necessità di perimetrare la concreta misura da applicare in termini di proporzionalità perché "privare una persona della sua capacità giuridica, anche in parte, è una misura molto grave che dovrebbe essere riservata a circostanze eccezionali. Tuttavia, deve essere lasciato inevitabilmente un margine di apprezzamento alle autorità nazionali che, a causa del loro contatto diretto e continuo con le forze vive del loro paese, si trovano in linea di principio in una posizione migliore rispetto a una giurisdizione internazionale per valutare i bisogni e le condizioni locali". Come già evidenziato, la prodigalità di per sé non costituisce necessariamente espressione di una patologia psichica o psichiatrica e può non essere basata su una constatazione di alterazione delle facoltà mentali del beneficiando attestata da medici (come avvenuto anche nel caso esaminato dalla Corte Edu), ma su concrete condotte tali da porlo a rischio di indigenza. La prova della prodigalità può desumersi da presunzioni gravi, precise e concordanti, ricavate dal complesso degli indizi, da valutarsi, non atomisticamente, ma nel loro insieme e l'uno per mezzo degli altri, nel senso che ognuno di essi, quand'anche singolarmente sfornito di valenza indiziaria, può rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento (Cass. n. 34950/2022; Cass. n. 9054 del 21/03/2022). Pertanto, in risposta alla domanda posta dalla nostra lettrice, risulta corretto affermare che "la prodigalità di per sé non giustifica la nomina di un amministratore di sostegno salvo la presenza di prove gravi, precise e concordanti circa il ridursi nella condizione in cui necessita il ricorso agli strumenti di aiuto pubblico da richiedersi a dispetto delle proprie sostanze capacità di vita dignitosa, in quanto la collettività non può farsi carico dell'eccesso di prodigalità di una persona che con le sue sostanze ha di che vivere e dignitosamente" (Cass. Civ. Sez. I, Ordinanza del 28.12.2023, n. 36176). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                

14/01/2024 10:00
Sciatore cade e urta contro la staccionata: condannato il gestore dell'impianto

Sciatore cade e urta contro la staccionata: condannato il gestore dell'impianto

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'Avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica assai attuale relativa al risarcimento dei danni e nello specifico quelli causati da incidente su pista da sci. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un nostro lettore di Macerata, che chiede: "Se durante la discesa da una pista da sci, si urta contro una staccionata di legno non segnalata e si subisce una lesione, è possibile richiedere il risarcimento del danno al gestore degli impianti sciistici?" Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una tematica estremamente attuale, relativa ad un’attività sportiva anche se non praticata a livello agonistico, interessando principalmente l’istituto della responsabilità del custode per i danni cagionati dalla cosa in custodia, disciplinato dall’art. 2051 del codice civile.  Articolo che stabilisce espressamente come "ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito", ovvero l’accadimento di una circostanza imprevedibile e fuori dall’ordinaria consuetudine. A tal proposito, così come affermato dalla Suprema Corte: "Nello schema legale della responsabilità oggettiva per danni derivati da cose in custodia dell'art. 2051 c.c., il limite oltre il quale cessa la relazione oggettiva tra colui (il custode) che dispone della cosa e l'evento pregiudizievole derivato al terzo "dalla cosa", debba rinvenirsi nell'intervento di una fattore estrinseco alla cosa stessa, qualificabile come "caso fortuito" che, per il suo carattere di imprevedibilità e di eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale. Tale ipotesi ricorre anche nel caso in cui l'evento imprevedibile ed eccezionale debba ravvisarsi nella condotta dello stesso danneggiato" (Cass. Civ.; sez. III, dep. 05/07/2017;  n.16509). Nel caso specifico, proprio tale pronuncia della Corte di Cassazione, evidenzia come il gestore dell’impianto sciistico sia responsabile per i danni accorsi allo sciatore durante la discesa proprio per il fatto di aver omesso la dovuta segnalazione in prossimità di una staccionata, elemento questo di pericolo che va ad escludere qualsiasi circostanza di caso fortuito. Inoltre, laddove il soggetto danneggiato dovesse evidenziare nei riguardi del gestore degli impianti comportamenti dolosi o colposi idonei ad integrare la responsabilità extracontrattuale disciplinata dall’art. 2043 del codice civile, anche il tale circostanza, il gestore sarebbe responsabile dei relativi danni avvenuti allo sciatore, così come affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 4018 del 2013. "Affinché si possa pervenire all'individuazione di un comportamento colposo in capo al gestore, ex art. 2043 c.c., con conseguente risarcimento del danno, è necessario, sulla base dei principi generali - si legge nella sentenza -, che il danneggiato provi l'esistenza di condizioni di pericolo della pista che rendano esigibile, sulla base della diligenza specifica richiesta, la protezione da possibili incidenti; condizioni in presenza delle quali è configurabile un comportamento colposo del gestore per la mancata predisposizione di segnalazioni" (Corte di Cass. Civ., Sez. III; 19/02/2013; n.4018). Pertanto, in risposta alla domanda posta dal nostro lettore, il gestore dell’impianto sciistico risulterebbe il responsabile a titolo di risarcimento dell’evento dannoso accorso allo sciatore, proprio perché avvenuto nonostante l’impiego dell’ordinaria diligenza e attenzione richieste da parte del danneggiato; al contrario, "ove tale condotta dovesse risultare imprudente o gravemente colposa, il nesso causale tra danno subito e fatto ingiusto altrui, risulterebbe irrimediabilmente interrotto", precludendo allo sciatore, il risarcimento del danno subito (Cass. Civ., sez. III , del 10/05/2018, n. 11274). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

07/01/2024 12:25
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