Chiedilo all'avvocato
Bullismo a scuola: quando il MIUR è responsabile del risarcimento danni
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al bullismo tra studenti all’interno del contesto scolastico. Di seguito la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “La scuola può essere condannata al risarcimento danni in caso di bullismo tra studenti all’interno dell’istituto?” Il caso di specie ci rimanda ad una vicenda recentemente definita giudizialmente in ambito civilistico, nella quale un genitore si è rivolto al Tribunale chiedendo la condanna del Ministero dell’Istruzione al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dal proprio figlio minore, vittima di atti di bullismo consumati durante l’orario scolastico, e più precisamente nel corso della ricreazione presso i bagni della scuola primaria, e che avevano visto come autore un altro allievo del medesimo istituto, coetaneo della vittima. A tal proposito risulta utile ricordare che, per giurisprudenza unanime e consolidata, nell’ambito dell’amministrazione statale scolastica, legittimato passivo per le azioni di responsabilità che originano da condotte di alunni e insegnanti poste in essere nel corso dell’orario scolastico risulta unicamente il Ministero, e non i circoli didattici o i singoli istituti, pur avendo quest’ultimi autonoma personalità giuridica. Per l’effetto tali amministrazioni scolastiche agiscono in veste di organi statali e non di soggetti distinti dallo Stato e, nelle liti afferenti agli illeciti di “culpa in vigilando”, pertanto, legittimato passivo risulta unicamente il Ministero e mai l’Istituto (ex multis, Corte di Cassazione n. 6372 del 2011). Inoltre, tenuto conto che i soprusi avvenuti all’interno dell’Istituto e durante l’orario scolastico sono riconducibili all’omesso controllo e sorveglianza da parte del personale docente e/o non docente addetto alla struttura scolastica, tanto da aver occasionato al bambino danni patrimoniali e non patrimoniali, tale fattispecie è sussumibile sotto la disciplina dell’art. 2048, comma 2, c.c. Comme che testualmente recita: «I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto». Incombe quindi all’amministrazione scolastica rispondere del fatto illecito posto in essere dagli allievi minori sottoposti alla sua vigilanza, e di tale responsabilità ex art. 2048, comma 3, c.c., si libera soltanto in presenza dell’inevitabilità del danno nonostante la predisposizione di tutte le cautele idonee ad evitare il fatto (ex multis, Corte di Cassazione, n. 8811 del 2020). Alla luce di tali considerazioni ed in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che: "Il MIUR è responsabile e pertanto è condannato a risarcire i danni patiti da uno studente rimasto vittima di atti di bullismo consumati nel corso della ricreazione presso i bagni della scuola primaria, ad opera di un altro allievo del medesimo istituto, coetaneo del bambino ferito, in quanto i soprusi hanno avuto luogo a causa dell’omesso controllo e sorveglianza da parte del personale docente e non docente addetto alla struttura scolastica (Trib. Potenza, Sez. Civile, sentenza n. 380/21; dep. il 12.04.21)". Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Nuova relazione della ex moglie: cosa succede all’assegno di mantenimento
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra ex coniugi con esplicito riferimento alla debenza o meno dell’assegno di mantenimento o divorzile alla ex in caso di una sua nuova relazione. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana ad un lettore di Tolentino che chiede: “Se la ex moglie ha una nuova relazione tale circostanza fa venire meno la debenza dell’assegno divorzile?” A tal proposito risulta utile portare il principio giuridico applicato dal Tribunale di Como con l’Ordinanza del 12.04.2018, con la quale è stato stabilito che, “Il marito non deve più corrispondere l’assegno di mantenimento alla moglie che ha intrapreso una nuova relazione sentimentale, anche se non convive con il nuovo partner ed è priva di attività lavorativa”. Così ha deciso il Presidente delegato del Tribunale di Como, in via provvisoria e urgente, a conclusione della primissima fase di un divorzio giudiziale – quando generalmente vengono confermate le condizioni della separazione – che ha sin da subito esonerato il marito dal dover corrispondere alla ex moglie, l’assegno stabilito in separazione. La donna in questione, già madre di due figli maggiorenni con lei conviventi, aveva avuto il terzo figlio dal nuovo partner con il quale non aveva instaurato alcuna convivenza. Fino a poco tempo fa, al fine di essere esonerati dal pagamento dell’assegno, era necessario che il coniuge obbligato dimostrasse in giudizio la creazione da parte dell’ex coniuge di una nuova famiglia di fatto, stabile e duratura, e che questa convivenza incidesse “realmente e concretamente sulla situazione economica dell’ex coniuge risolvendosi in una fonte effettiva di reddito”. Il Presidente del Tribunale di Como ha però ritenuto che le conseguenze economiche derivanti dalle scelte di vita della donna, nello specifico quella di intraprendere una nuova relazione sentimentale (seppur priva del requisito della convivenza) e quella di avere un figlio (scelta che aveva certamente inciso in termini di difficoltà di reperimento di una occupazione lavorativa), non potessero ricadere sul futuro dell’ex coniuge. Infatti, non è la mera coabitazione a provare la solidità del rapporto ma, al contrario, è l’esistenza effettiva di un nuovo legame, stabile e duraturo, a determinare la cessazione della corresponsione dell’assegno di mantenimento. Nello stesso senso, con decreto pubblicato il 21.05.2018, si è pronunciato anche il Tribunale di Ancona, il quale – in una causa di modifica delle condizioni di divorzio e sulla base delle stesse motivazioni del Tribunale di Como –, ha ritenuto di dover revocare l’assegno stabilito in favore della ex moglie. In questo caso, a fondare la decisione del Tribunale sono state le numerose foto depositate dal marito (tratte dai social network), che dimostravano l’inequivocabile intensità del rapporto tra la ex moglie e il nuovo partner, i periodi di vacanza trascorsi insieme “a nulla rilevando le modalità di ripartizione tra essi delle spese di vacanza”, e la relazione investigativa dalla quale emergeva l’assiduità della frequentazione (seppur priva del requisito della convivenza). Dunque, costruire una nuova famiglia – nell’accezione moderna del termine – non è un obbligo, ma una decisione libera e consapevole che ha risvolti pratici e conseguenze giuridiche ben precise. Ecco quindi che, anche in queste pronunce, i Tribunali – nel solco tracciato dalla Corte di Cassazione nella discussa sentenza Grilli del maggio 2017 sull’assegno divorzile – continuano a valorizzare il principio della autoresponsabilità economica dei coniugi: "La formazione di una famiglia di fatto costituisce espressione di una scelta di vita esistenziale e consapevole, con assunzione del rischio della cessazione del rapporto, rescindendo ogni collegamento con il tenore e il modello di vita legati al coniugio". Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: "La nuova relazione affettiva instaurata dall’ex coniuge fa venire meno l’obbligo di versare l’assegno divorzile mensile da parte dell’altro coniuge obbligato, purché la detta relazione sia connotata dai requisiti di stabilità e continuità” (Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 22604/20; depositata il 16 ottobre 2020)". Ed ancora: "Se durante lo stato di separazione il coniuge avente diritto all’assegno di mantenimento instaura un rapporto di fatto con un nuovo partner, che si traduce in una stabile e continuativa convivenza o, in difetto di coabitazione, in un comune progetto di vita caratterizzato da assistenza morale e materiale, viene meno l’obbligo di assistenza materiale da parte del coniuge separato e quindi il diritto all’assegno" (Cass. Civ., Sez. I, Ordinanza del 12.12.2023, n. 34728). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Perdita del bagaglio in viaggio: chi risarcisce e come agire secondo la legge
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato eventi che potrebbero accadere in occasione del ritorno dalle ferie estive e nello specifico la "responsabilità dovuta dalla perdita del bagaglio" in capo agli organizzatori della vacanza o comunque del vettore che ha effettuato il viaggio. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “In caso di viaggio con pacchetto turistico “tutto compreso” giunta a destinazione davanti al nastro trasportatore dell’aeroporto si concretizza il fatto della perdita del proprio bagaglio. Chi deve risarcire?” Sapere come comportarsi in questi casi e conoscere la corretta procedura da seguire, aiuta a recuperare la calma dopo l'iniziale momento di sconcerto e rabbia e, magari, anche le valigie o comunque il risarcimento danni. Innanzitutto, giova ricordare che in caso di smarrimento, distruzione, deterioramento o ritardo nella consegna dei bagagli, la tutela dei viaggiatori, per le compagnie aeree comunitarie e quelle registrate nei Paesi che vi aderiscono, è assicurata dalla Convenzione di Montreal del 1999, nonché dal Regolamento 889/2002/CE, che stabilisce all’art. 22 la responsabilità del vettore, prevedendo un risarcimento danni fino a 1.000 DSP (Diritti speciali di prelievo) per passeggero, pari a circa € 1.134,71; mentre, per le compagnie aeree che non aderiscono a tale convenzione, è previsto un risarcimento pari ad € 20,00 per Kg sino al raggiungimento del peso massimo ammesso al trasporto in stiva senza pagamenti aggiuntivi. Sulla base della normativa, pertanto, i passaggi da seguire per ottenere un equo ristoro per il danno subito sono i seguenti: innanzitutto, recarsi all’ufficio oggetti smarriti (Lost and found) dell’aeroporto e compilare l’apposito modulo Pir (Property Irregularity Report), descrivendo la valigia ed il suo contenuto; poi, se trascorse le prime 24 ore, il bagaglio non è stato ancora rintracciato, alcune compagnie provvedono il rimborso di una somma per l’acquisto degli articoli di prima necessità, per le quali è quindi necessario conservare scontrini e ricevute. Qualora il bagaglio non venga restituito, il proprietario è tenuto ad inoltrare reclamo alla compagnia aerea entro 21 giorni dallo smarrimento; in caso, invece, di danneggiamento, la richiesta di rimborso deve essere inviata entro 7 giorni. Per i bagagli contenenti oggetti di valore come gioielli, pc portatili, denaro contante, ecc., è sempre consigliabile dichiararne il contenuto al momento del check-in, chiedendo di poter usufruire della “Dichiarazione di valore”, che permette di elevare il limite di responsabilità del bagaglio registrato, oppure optare preventivamente per la stipula di una polizza assicurativa, che consente di avere indennizzi superiori a quelli offerti dalle compagnie in caso di furto o perdita. Ad ogni modo, anche in risposta alla nostra lettrice, nel caso in cui tale vicenda non venga risolta in via stragiudiziale, sarà possibile ottenere giudizialmente il risarcimento di tutti i danni subiti, sia patrimoniali, sia non patrimoniali, quali anche il danno morale considerato come “danno da vacanza rovinata”. Difatti, è oramai consolidato l’orientamento della Corte di Cassazione, secondo il quale: "Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata è un pregiudizio risarcibile, costituendo uno dei casi previsti dall’art. 2059 c.c., e spetta al giudice di merito valutare la domanda di risarcimento e prendere una decisione fondata sul bilanciamento del principio di tolleranza delle lesioni minime e della condizione concreta delle parti (Corte di Cassazione, Sez. III Civile, sentenza n. 17724/18, depositata il 06.07.2018)". Inoltre, sempre nella medesima sentenza, la Suprema Corte individua quali soggetti obbligati a risarcire il proprietario del bagaglio perduto, oltre al vettore, anche il venditore od organizzatore del pacchetto turistico, in virtù dell’assunzione legale del rischio per i danni del viaggiatore, salvo la possibilità, da parte di quest’ultimi, di rivalersi nei confronti della compagnia aerea, e precisamente: "Il venditore o organizzatore di un pacchetto turistico, in virtù dell’assunzione legale del rischio per i danni che possa subire il viaggiatore, è responsabile del risarcimento patito per fatto illecito commesso da un terzo, salvo la possibilità di rivalersi nei confronti di quest’ultimo". Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Facebook: è legale pubblicare foto altrui senza consenso? La guida dell'avvocato Pantana
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’utilizzo dei social network e nello specifico la pubblicazione di foto nel proprio profilo Facebook. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Corridonia che chiede: "È legittimo pubblicare foto altrui sul proprio profilo Facebook senza il consenso dell’interessato?". Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una pratica ormai quotidianamente utilizzata dai fruitori del social, le cui modalità non sempre risultano del tutto legittime. A tal proposito deve affermarsi in linea generale che la pubblicazione di una fotografia ritraente una persona umana è subordinata al consenso, esplicito o implicito, della persona ritratta. Tale condizione è prevista sia dalle disposizioni normative a tutela del diritto all’immagine (art. 10 c.c. e art. 96 L. n. 633/1941) sia da quelle a tutela del diritto alla riservatezza (art. 6 Regolamento UE 2016/679), poiché l’altrui pubblicazione di una propria immagine fotografica costituisce in ogni caso una forma di trattamento di un dato personale. Difatti, l’art. 96 L. n. 633/1941 esplicitamente vieta l’esposizione di un ritratto senza il consenso della persona ritratta; così come l’art. 6 del Regolamento UE dispone la liceità del trattamento solo se l’interessato ha espresso il proprio consenso; ed infine l’art. 10 c.c. stabilisce che, “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”. Per tali ragioni, in risposta alla nostra lettrice, è corretto affermare che: "La pubblicazione di una foto ritraente una persona è subordinata al consenso, esplicito o implicito, della persona ritratta. Questo sia per la tutela del diritto all’immagine, sia per la tutela del diritto alla riservatezza, visto che la pubblicazione di una foto altrui costituisce una forma di trattamento di un dato personale. Il trasgressore, pertanto, dovrà immediatamente rimuovere le fotografie illegittime dal proprio profilo Facebook, oltreché risarcire la persona ritratta" (Tribunale di Bari, sez. I Civile, ordinanza depositata il 6 novembre 2019). Rimango in attesa, come sempre, delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
“Suo marito l’ha tradita!”: investigatore privato rischia la condanna per diffamazione?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra ex coniugi con esplicito riferimento all’attribuzione per colpa della separazione. Il caso di specie scelto è di un lettore di Civitanova Marche che chiede: "A quali responsabilità può andare incontro l’investigatore privato assunto dalla moglie per provare il tradimento del proprio marito nel successivo giudizio di separazione con addebito di colpa?". A tal proposito risulta utile riportare il caso giuridico nel quale a finire sotto processo per diffamazione è il titolare dell’agenzia investigativa per aver consegnato alla cliente una nota investigativa redatta su carta intestata con cui veniva attribuita al marito una relazione sentimentale con una collega, relazione risalente a due anni e mezzo prima, quando il matrimonio era ancora solido e i coniugi erano lontanissimi dall’idea della separazione. Quel documento è stato poi utilizzato dalla donna, che ha commissionato l’attività investigativa, nel procedimento di separazione personale con addebito, proprio per tale “presunto” tradimento nel quale però veniva riscontrata l’assenza di effettivi elementi di riscontro in merito all’affermazione di tradimento contenuta nella stessa nota dell’investigatore. La vicenda arrivata in Appello vedeva il Giudicante dichiarare che la mail dell’investigatore privato inviata alla cliente, con cui si comunicava che “da indagini espletate emerge che il proprio marito ha una relazione sentimentale da due anni e mezzo circa con una sua collega”, tanto da attribuire esplicitamente una relazione clandestina, iniziata quando era ancora pienamente operante il dovere di fedeltà nascente dal matrimonio, ha un’oggettiva idoneità lesiva della reputazione del coniuge “traditore”, a fronte della clamorosa assenza di elementi di riscontro. Tirando le somme, “è munita di oggettiva idoneità lesiva della reputazione ed è obiettivamente pregiudizievole della reputazione della persona offesa l’attribuzione non veritiera di una relazione clandestina, in costanza di matrimonio, ad uno dei coniugi”. Ciò perché integra lesione della reputazione altrui non solo l’attribuzione di un fatto illecito, ma anche la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio. Di conseguenza, descrivere la persona come capace di tradire la fiducia del coniuge, allacciando una relazione sentimentale con un’altra donna, costituisce condotta idonea ad esporla al pubblico biasimo e, conseguentemente, a ledere la sua reputazione – chiosa il Giudicante. Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: "È diffamazione l’attribuzione non confermata da dati certi di una relazione clandestina in costanza di matrimonio da parte dell’investigatore privato, il quale non poteva ignorare che la cliente avrebbe fatto di quella notizia uso a proprio vantaggio, mettendone a parte terze persone, in quanto consapevole dello stato di coniuge separando della stessa e che quindi le avesse fornito la notizia della relazione extraconiugale del marito, con l’intento di farle conseguire un vantaggio nel giudizio di separazione” (Tribunale di Roma, 31 ottobre 2018). Rimango in attesa, come sempre, delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Violenza privata: quando costringere il partner a non lasciare la relazione è reato
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema dei rapporti di coppia e le loro evoluzioni. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: "Costringere la propria compagna a non interrompere la relazione può comportare delle responsabilità penali?". A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda risolta poi in Cassazione dopo che i giudici di merito hanno ritenuto palese l'inaccettabile condotta aggressiva tenuta da un uomo nei confronti della compagna, condotta mirata a «non farsi lasciare dalla donna». Per i giudici di primo e di secondo grado infatti è logico catalogare i comportamenti dell'uomo come vera e propria violenza privata nei confronti della donna. Dalla Cassazione ribadiscono richiamando il principio secondo cui «l'elemento oggettivo del reato di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare, od omettere una determinata cosa». Ciò significa anche che «la condotta violenta o minacciosa deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore», ossia, come detto, «la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa». Per quanto concerne la vicenda, i Giudici della Cassazione condividono in pieno le valutazioni compiute in appello: in sostanza, è evidente «il comportamento intimidatorio» dell'uomo che ha tenuto una condotta concretizzatasi nella «minaccia, anche di morte, rivolta alla compagna se quest'ultima avesse interrotto la loro relazione». Per l’appunto, è logico catalogare come «violenza privata» il modus agendi dell'uomo, diretto «ad imporre un comportamento determinato alla compagna», ossia la prosecuzione della relazione e della convivenza. Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: “È violenza privata non accettare la decisione della compagna di interrompere il loro legame e pretendere attraverso una condotta aggressiva che il partner porti avanti per forza la relazione e non vada via di casa” (Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 20346/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Reato di identità digitale: cosa rischia chi crea un account falso
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili alla condotta di chi utilizza l’identità digitale di un altro soggetto, sostituendosi a questo per la generalità degli utenti in connessione, nel porre in essere le più disparate attività. Di seguito la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche, che chiede: "a quali responsabilità si va incontro qualora venga creato un account con le generalità di una persona terza, per il compimento di acquisti online?" Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica estremamente attuale sulla quale si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 42572/2018, affermando la responsabilità penale del soggetto ai sensi dell’art. 494 c.p., la cui norma sancisce espressamente: "Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno". Difatti, la Suprema Corte adita ha statuito quanto segue: "Integra il reato di sostituzione di persona, ex art. 494 c.p. , la condotta di colui che crei ed utilizzi un account ed una casella di posta elettronica nonché proceda all’iscrizione su un sito e-commerce, servendosi dei dati anagrafici di un soggetto diverso ed inconsapevole, con il fine di far ricadere su quest'ultimo l'inadempimento delle obbligazioni conseguente all'avvenuto acquisto di beni mediante la partecipazione ad aste in rete o ad altri strumenti contrattuali. Tanto in quanto porre in essere una condotta con siffatta modalità è prova che l’agente abbia volontariamente sostituito, per la generalità degli utenti in connessione, alla propria identità quella di altri, a prescindere dalla propalazione all'esterno delle diverse generalità utilizzate" (Cass. Pen., Sez. V, n. 42572/2018, dep. il 27/09/2018). Pertanto, nell’analizzare le ripercussioni giuridiche che tali condotte possono avere, è necessario considerare che in una realtà come quella contemporanea, nella quale si fa un uso sempre maggiore dei sistemi telematici per il compimento di una varietà in crescendo di attività, le credenziali adoperate per l’utilizzo delle varie piattaforme, rappresentano il soggetto agente tanto da costituire un vero e proprio surrogato della persona fisica; dunque, la tutela offerta dal legislatore, è intesa a garantire la pubblica fede ed evitare che l’utilizzo di raggiri e artifizi, nel contesto di una società in continua evoluzione, possano trarre in inganno quanti operano in tali settori. Alla luce di tali considerazioni, ed in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che: "Chiunque in modo volontario e al fine specifico di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, utilizzi l’identità digitale di un soggetto terzo ignaro e inconsapevole, è punito ai sensi dell’art. 494 c.p. con la reclusione fino ad un anno" (Cass. Pen., Sez. V, n. 42572/2018). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Femminicidio: via libera del Senato al nuovo reato
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana "Chiedilo all'Avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla violenza di genere e specificatamente ai casi di femminicidio. Ecco l’analisi dell’avv. Oberdan Pantana, all’approvazione del disegno di legge che introduce il "reato di femminicidio". Il disegno di legge, approvato all'unanimità dal Senato con 161 voti favorevoli, introduce nel codice penale l'art.577-bis, tipizzando con precisione il nuovo reato di femminicidio per evitare incertezze applicative. La norma sancisce che commette femminicidio «chiunque cagiona la morte di una donna, quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o è conseguenza del rifiuto della stessa di stabilire o mantenere una relazione affettiva ovvero di subire una condizione di soggezione o comunque una limitazione delle sue libertà individuali, imposta o pretesa in ragione della sua condizione di donna, è punito con l'ergastolo». Il testo, frutto di una mediazione tra i gruppi parlamentari, si distingue per la chiarezza definitoria della fattispecie e si accompagna a una serie di misure collaterali di rilievo: l'estensione del reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi anche alle persone non più conviventi ma legate all'autore del delitto da vincoli di filiazione, e l'introduzione di una specifica aggravante che comporta un aumento di pena da un terzo alla metà se il reato viene commesso con le modalità proprie del femminicidio. Tale aggravante trova applicazione anche in relazione a delitti come lesioni gravi e gravissime, mutilazioni, deformazioni del viso, stalking e violenza sessuale, per i quali la persona offesa dovrà essere informata dell'eventuale richiesta di patteggiamento e potrà depositare memorie e deduzioni. Sul piano della prevenzione, il provvedimento rafforza l'utilizzo del braccialetto elettronico, incrementando la distanza minima dalla persona offesa da 500 a 1.000 metri, ed elimina ogni limitazione di durata alle intercettazioni nelle indagini relative a reati di femminicidio e violenza di genere. Centrale è anche l'impegno a potenziare la formazione degli operatori del settore e a rafforzare la protezione delle vittime, ponendo particolare attenzione sia al sostegno ai centri antiviolenza sia alla promozione di programmi di riabilitazione rivolti agli uomini maltrattanti. L'approvazione unanime del provvedimento rappresenta, in definitiva, non solo un salto di qualità nell'arsenale normativo contro la violenza di genere, ma anche un segnale culturale e istituzionale rilevante, che impegna il legislatore e la società civile in uno sforzo condiviso di prevenzione e tutela. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Convivenza di fatto: cosa prevede il contratto e quali sono i diritti riconosciuti ai conviventi
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana "Chiedilo all'Avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla convivenza e la sua regolamentazione giuridica. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Porto Recanati che chiede: "I conviventi di fatto possono regolare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune?". Il contratto di convivenza è un accordo grazie al quale una coppia di conviventi, che non sono uniti in matrimonio e che non formano un'unione civile, disciplinano gli aspetti patrimoniali del loro rapporto. I contratti di convivenza, in risposta alla nostra lettrice, sono possibili da quando, il 5 giugno 2016, sono entrate ufficialmente in vigore le nuove regole sulle unioni civili e le convivenze di fatto, introdotte nel nostro ordinamento dalla legge Cirinnà, n. 76/2016. Il comma 50 della legge menzionata dispone infatti che: "I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza." Un aspetto importante da segnalare riguarda la legge da applicare ai contratti di convivenza. La legge Cirinnà prevede infatti che agli stessi si applichi la legge nazionale comune dei conviventi, se però i conviventi hanno una diversa nazionalità, allora la legge da applicare è quella del luogo in cui la convivenza è localizzata in via prevalente. I contratti di convivenza consentono alle coppie conviventi di disciplinare, come abbiamo visto, gli aspetti patrimoniali del loro rapporto. I diritti che possono vantare i conviventi però non sono legati solo a quanto stabilito da detti contratti, ma anche dalla disciplina generale prevista per le coppie di fatto. Chi convive gode infatti di alcuni diritti: il diritto reciproco di visita del convivente, assistenza e accesso alle informazioni personali in caso di malattia o ricovero ospedaliero; i permessi lavorativi retribuiti se si assiste l'altro convivente; la designazione dell'altro convivente come proprio rappresentante per le decisioni sanitarie in caso di incapacità; il diritto di subentro nel contratto di locazione della casa di comune residenza intestato al convivente defunto; infine, il diritto agli alimenti nel caso in cui la convivenza venga a cessare. Con i contratti di convivenza le parti disciplinano principalmente il regime patrimoniale della coppia, che può essere di comunione legale, comunione convenzionale o separazione dei beni. I conviventi, come previsto dal comma 4, possono modificare il regime patrimoniale scelto in qualunque momento, purché la modifica rispetti la forma scritta e venga autenticata da avvocato o notaio, che provvederanno anche all’iscrizione all’anagrafe. Ci sono altri dati obbligatori da indicare nell'accordo. Il comma 53 stabilisce che, oltre al regime patrimoniale, il contratto debba contenere l’indicazione della residenza della coppia e le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in proporzione alle risorse e capacità lavorative di ciascun convivente. Con i contratti di convivenza inoltre si possono anche disporre trasferimenti immobiliari. Lo prevede il comma 60, secondo cui: "Resta in ogni caso ferma la competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza." I contratti, secondo il comma 51, devono essere redatti per iscritto, come atto pubblico o scrittura privata, anche per quanto riguarda modifiche o risoluzioni successive. Avvocati e notai hanno un ruolo molto importante in questi contratti. Sono i garanti della correttezza dell’accordo, in quanto ogni sottoscrizione, modifica o cessazione deve avvenire con la loro autenticazione delle firme. Una volta stipulato il contratto di convivenza, avvocati o notai sono tenuti a trasmetterne copia entro 10 giorni al Comune di residenza dei conviventi, per procedere all’iscrizione nell’anagrafe, rendendo così il contratto opponibile ai terzi. Come già ricordato, la forma scritta è essenziale: la mancata osservanza comporta la nullità del contratto. La nullità può verificarsi anche in altri casi: se il contratto è concluso da un minore, un interdetto o da chi è stato condannato per l’omicidio (anche tentato) del coniuge dell’altro convivente. Il contratto è nullo anche se stipulato tra non conviventi, oppure in presenza di un altro contratto di convivenza, un’unione civile o un vincolo matrimoniale. I contratti di convivenza si possono risolvere per accordo tra le parti, recesso unilaterale, matrimonio o unione civile tra i conviventi o con terzi, oppure per morte di uno dei due. Se la coppia ha adottato il regime di comunione legale, la risoluzione del contratto comporta lo scioglimento del regime e, se compatibili, si applicano le stesse regole previste per lo scioglimento della comunione legale nel matrimonio, come da codice civile, sezione III, capo VI, titolo VI del libro primo. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Medico che chiede soldi per il rilascio di un certificato di astensione dal lavoro: quali le responsabilità?
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al Servizio Sanitario Nazionale e nello specifico alla legittimità o meno di richiedere dei soldi da parte del medico ai propri pazienti per il rilascio di un certificato di esenzione dal lavoro. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “E’ legittima la condotta del medico di chiedere dei soldi per il rilascio di un certificato di esenzione dal lavoro?” Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19409/2025, che si va ad inserire nel solco giurisprudenziale volto a tutelare la legalità e la correttezza dell’azione amministrativa, anche nel settore sanitario, riaffermando il principio secondo cui le prestazioni rientranti nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) devono essere erogate gratuitamente e senza indebite sollecitazioni economiche. Nel caso di specie, un medico di medicina generale, convenzionato con il SSN, veniva rinviato a giudizio per aver richiesto ai propri assistiti somme di denaro (pari a 30 euro) in cambio del rilascio di certificazioni di astensione dal lavoro. Tali certificazioni, per legge, costituiscono prestazioni dovute nell’ambito del servizio pubblico e, pertanto, devono essere rilasciate gratuitamente. La vicenda arrivata in Cassazione, dove veniva risolta con la conferma della condanna del medico ai sensi dell’art. 322, comma 3, c.p., la cui norma punisce l’istigazione alla corruzione posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, tenendo conto dell’irrilevanza, ai fini della configurabilità del reato, del tono della richiesta o la modicità dell’importo richiesto, riguardo invece alla potenzialità dell’offerta a determinare una violazione dell’interesse pubblico tutelato dalla norma. La Corte ha altresì precisato che, per l’integrazione del reato, non è necessario che la condotta sia reiterata nel tempo: è sufficiente un singolo episodio se questo si pone in contrasto con i doveri d’ufficio e con i principi di imparzialità e correttezza che regolano l’azione del medico convenzionato con il SSN. Pertanto, in risposta alla domanda dalla nostra lettrice e in linea con la più autorevole e consolidata giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: “La condotta del medico del SSN che richiede soldi ai propri pazienti in cambio del rilascio del certificato di astensione dal lavoro configura il delitto di istigazione alla corruzione in quanto la sua lesività risiede nella potenzialità dell’offerta indebita indipendentemente dall’effettiva percezione di un’utilità economica o dalla reazione del paziente”(Cassazione Penale, Sez. VI, 28.02.2025, n. 19409). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Fine della convivenza: quali diritti per l’ex convivente che ha contribuito all’acquisto dell’immobile?
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al diritto riconosciuto all’ex convivente della ripetizione di specifiche somme corrisposte al partner durante il periodo di convivenza. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “Terminata la convivenza si può ottenere la restituzione di quanto pagato per la costruzione di quella che sarebbe dovuta essere la casa familiare senza esserne il proprietario?”. Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.24721/2019, in accoglimento del ricorso posto in essere dall’ex convivente, affermando testualmente quanto segue: “L’accertamento in fatto che la dazione di denaro era rivolta al solo scopo di realizzare la casa familiare, destinata, nelle previsioni della ricorrente, a divenire comune, giustifica, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il rimborso delle somme versate a titolo di concorso nelle spese di costruzione del manufatto rimasto in proprietà esclusiva dell’altro ex convivente, risultando tale contribuzione a tutti gli effetti, indebita”(Cass. Civ.; Sez. II; Sent. n. 2973/2016). Difatti, l’art. 2033 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto, ha diritto di ripetere ciò che ha pagato […]”, disciplina l’istituto della ripetizione dell’indebito avente come suo fondamento, l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una clausola risolutiva espressa. A tal proposito, occorre rilevare che sebbene la convivenza di fatto rappresenti ormai a tutti gli effetti una formazione sociale riconosciuta e tutelata dal nostro ordinamento giuridico, con la quale sorgono doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, per cui eventuali contribuzioni e prestazioni economiche eseguite durante il periodo di convivenza vengono sussunte, dalla coscienza sociale, fra i doveri connessi ad un consolidato rapporto affettivo, essendo generalmente ricondotte nell'alveo delle obbligazioni naturali ex art. 2034 c.c., è tuttavia necessario che tali prestazioni rese, trovino giustificazione nella solidarietà e nella reciproca assistenza fra i conviventi, sussistendo al contrario, un'inconciliabilità logico-giuridica fra convivenza more uxorio e arricchimento ingiustificato, il quale necessariamente investe le circostanze relative all’effettuazione di prestazioni di tipo economico, derivanti da un presunto vincolo obbligatorio, ma che risultino a posteriori non dovute, così giustificando la tutela giuridica e patrimoniale del soggetto leso, in presenza di atti dispositivi posti in essere a vantaggio di uno dei conviventi esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza. Pertanto, in risposta alla domanda dalla nostra lettrice e in linea con la più autorevole e consolidata giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: “Le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente 'more uxorio' effettuate nel corso del rapporto configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza; in caso di attribuzioni economico patrimoniali eseguite in corso di convivenza, a titolo di concorso alle spese di costruzione della casa familiare, si ha diritto al rimborso delle somme date se, terminata la convivenza, il conferimento non si concretizza nell’acquisto della proprietà del bene, esulando tale prestazione, dal mero adempimento di suddette obbligazioni” (Cassazione civile sez. VI, 15/02/2019, n.4659). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Rapporti condominiali: come difendersi dal precetto se hai pagato regolarmente
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti condominiali in presenza di mancati pagamenti. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: "Il condomino in regola con i pagamenti può opporsi al precetto per la preventiva escussione dei condomini morosi?". Tale circostanza ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo ad una fattispecie molto dibattuta nelle aule di Tribunale, ed a tal proposito, la Suprema Corte recentemente ha avuto modo di pronunciarsi in una vicenda i cui protagonisti sono stati due condomini in regola con i pagamenti contro gli atti di precetto notificati da un creditore del condominio in forza di una sentenza divenuta esecutiva: i due condomini contestavano la propria regolare posizione con i pagamenti pro rata dovuti, invocando dunque la preventiva escussione dei condomini morosi, mentre il creditore soccombente ha proposto ricorso in Cassazione. Il Collegio sottolinea come la sentenza impugnata abbia fatto corretta applicazione dell'art. 63 disp. att. c.c., come modificato dalla legge n. 220/2012. Il comma 1 dispone infatti che l'amministratore «è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi», mentre il comma 2 stabilisce che «i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini». In capo ai condomini che abbiano regolarmente pagato la propria quota viene dunque a crearsi un'obbligazione sussidiaria ed eventuale, favorita dal "beneficium excussionis" avente ad oggetto non l'intera prestazione imputabile al condominio, quanto unicamente le somme dovute dai morosi. La pronuncia afferma infatti il principio secondo cui «il condomino in regola coi pagamenti, al quale sia intimato precetto da un creditore sulla base di un titolo esecutivo giudiziale formatosi nei confronti del Condominio, può proporre opposizione a norma dell'art. 615 c.p.c. per far valere il beneficio di preventiva escussione dei condomini morosi che condiziona l'obbligo sussidiario di garanzia di cui all'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., ciò attenendo ad una condizione dell'azione esecutiva nei confronti del condomino non moroso, e, quindi, al diritto del creditore di agire esecutivamente ai danni di quest'ultimo». Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità ed in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: "Il creditore del Condominio avente un titolo esecutivo deve chiedere il pagamento prima ai condomini morosi e solo successivamente potrà rivolgersi ai condomini che risultano già in regola con i propri pagamenti pro rata, tenuto conto che l’amministratore è obbligato a comunicare al creditore le generalità dei condomini morosi delineando un obbligo legale di cooperazione dell’amministratore con il terzo creditore nel rendere noti i nominativi dei condomini non in regola con il pagamento delle somme dovute e delle rispettive quote millesimali" (Cass. Civ., Sez. II, Ordinanza del 17.02.2023, n. 5043). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
"Tradimento con la cognata? La moglie può revocare la donazione al marito"
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti tra i coniugi oltre all’istituto della donazione. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Montegranaro che chiede: "E’ possibile revocare una donazione della moglie al marito che la tradisce?". A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda risolta poi in Cassazione la quale è stata chiamata a pronunciarsi sulla revoca di più donazioni indirette mobiliari ed immobiliari effettuate dalla moglie nei confronti del marito che nel frattempo la tradiva con la propria cognata (la moglie del fratello di lei) mettendo in crisi non solo la coppia ma le intere famiglie coinvolte ed infine anche l’azienda di famiglia della donna tradita nella quale però lavorava tutti i protagonisti della vicenda adulterina. Nei primi due gradi di giudizio veniva confermata la revoca di tali donazioni fatte in quanto dall’istruttoria erano emersi comportamenti posti in essere dal donatario direttamente nei confronti della donante, che confermavano l’evidenza di un sentimento di disistima ed irrispettosità del marito nei confronti della moglie. Tenuto conto del principio oramai consolidato giurisprudenziale secondo il quale, «l'ingiuria grave richiesta dall'art. 801 c.c. quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale la sua natura di offesa all'onore ed al decoro della persona, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, dovrebbero invece improntarne l'atteggiamento, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatario» (Cass. civ., n. 20722/2018). Di fatti tali comportamenti erano qualificabili, ai fini previsti dall'art. 801 c.c., come una grave ingiuria, trattandosi, in effetti, di "una pluralità di comportamenti strettamente connessi e rivolti verso la persona della domante e tale non poter essere tollerati secondo un sentire ed una valutazione di normalità". In effetti, l'ingiuria grave richiesta dall'art. 801 del codice civile quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatore (Cass. n. 22013 del 2016). Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: "La donazione va incontro alla revocabilità in presenza di una ingiuria grave del marito donatario consistente in un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e nell’irrispettosità della dignità della moglie donante se il marito tradisce la consorte addirittura con la cognata con relativa messa in crisi non solo della coppia ma anche delle famiglie coinvolte oltre all'azienda di famiglia" (Cass. Civ., Sez. III, Ordinanza del 20.06.2022, n. 19816). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
In un condominio possono essere installate le tende parasole e pergotende retrattili sui balconi?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti condominiali e l’utilizzo dei propri spazi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: "Possono essere installate in un condominio le tende parasole e/o pergotende retrattili sui balconi?". Tale circostanza ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo ad una fattispecie che anima spesso i rapporti tra condomini, ed a tal proposito, il Tribunale di Pesaro recentemente ha avuto modo di pronunciarsi in una vicenda che ha visto contrapposti proprietari di unità immobiliari ricomprese in un edificio condominiale. Un condomino conveniva in giudizio il proprietario dell'alloggio sovrastante deducendo che aveva chiuso il balcone al primo piano mediante pannello con profilo di metallo e al piano secondo installato una tenda parasole con prolungamento della ringhiera del balcone sporgente rispetto al profilo dell'edificio, sostenendo che si trattava di opere illegittime dal punto di vista urbanistico perché realizzate senza permesso di costruire e tali da alterare il decoro architettonico del fabbricato, oltre ad essere causa di riduzione d’aria e luce, tanto da chiedere all'adìto Tribunale il ripristino mediante demolizione delle opere oltre al risarcimento del danno. Uno dei punti centrali della decisione riguarda l'invocata mancanza del titolo edilizio per l'installazione delle tende parasole; a tal proposito il giudicante ha forgiato la propria linea motiva richiamando un consolidato orientamento nomofilattico (da ultimo, per tutte, Cass. n. 29166/2021), secondo cui «la presenza o l'assenza di permesso di costruire rileva solo nei rapporti tra il privato e la Pubblica Amministrazione, non nei rapporti tra privati». Quale conseguenza? Anche se un'opera edilizia è priva di titolo abilitativo, non può automaticamente fondare una pretesa di rimozione tra vicini, a meno che non violi disposizioni codicistiche (come, ad esempio, immissioni, distanze, luci e vedute, etc.). Riguardo invece all’invocata lesione del decoro architettonico ex art. 1120 c.c., è stata fatta corretta applicazione dei princìpi elaborati dalla giurisprudenza; difatti, il decoro va valutato concretamente, tenendo conto dell'aspetto complessivo della facciata al momento dell'accertamento (Cass. n. 4679/2009). L'opera contestata (tende retrattili di colore bianco con supporti metallici leggeri e poco visibili) se non altera la linea architettonica dell'edificio e non turba l'armonia delle strutture esistenti, nulla può essere contestato, il tutto a prescindere se l'edificio abbia o meno valore storico o artistico; infatti, anche l'estetica di un fabbricato comune può essere tutelata, ma solo in presenza di effettiva alterazione percepibile. Infine, il condomino lamentava la riduzione d’aria e luce causate dalle tende solari, tuttavia, tale interferenza per essere lesiva deve essere presente in modo rilevante e costantemente circostanza non possibile se i manufatti sono rimovibili e non chiudono ermeticamente. Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità e in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: "Non costituiscono opere illegittime le tende parasole e le pergotende retrattili installate sui balconi di proprietà esclusiva quando siano realizzate con struttura leggere e rimovibili, conformi per colore e forma alla facciata dell’edificio e non determinino un’alterazione apprezzabile del decoro architettonico, né una lesione concreta dei diritti degli altri condomini all’aria, alla luce o all’integrità della proprietà" (Tribunale di Pesaro, sentenza 12.05.2025 n. 300). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Istituto scolastico posta video della festa degli studenti di fine anno: a quali responsabilità va incontro?
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alle problematiche relative alle riprese di minori poi postate sui social. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda posta di un lettore di Macerata che chiede: “È responsabile l’istituto scolastico che posta una ripresa video riguardo la festa degli studenti di fine anno?” Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale e delicata, spesso sottovalutata e posta in essere con estrema superficialità. Tale circostanza è stata affrontata recentemente dal Garante per la protezione dei dati personali riguardo ad un istituto scolastico che aveva pubblicato sul web un video riguardante una festa scolastica dove figuravano diversi minorenni. Al ricevimento del reclamo da parte di un genitore l'Autorità ha avviato un'istruttoria che si è conclusa con il relativo provvedimento che specifica: «La pubblicazione di immagini e video sul canale YouTube della scuola non costituisce attività strettamente funzionale alla gestione del rapporto scolastico o al perseguimento delle funzioni istituzionali dell'Istituto, né rientra tra gli obblighi imposti da norme di legge o di regolamento». L'istituto scolastico, secondo quanto accertato nel corso dell'istruttoria, aveva diffuso tramite il proprio canale pubblico un video che ritraeva in maniera riconoscibile alunni minorenni durante una manifestazione di fine anno. In assenza di un'idonea informativa sul trattamento dei dati e, soprattutto, del consenso espresso da parte di entrambi i genitori degli alunni coinvolti, il trattamento è stato ritenuto illecito. L'Autorità sottolinea che «il trattamento dei dati personali effettuato attraverso la pubblicazione del video, contenente l'immagine di un minore riconoscibile, è avvenuto in assenza di idonea informativa e di una valida base giuridica, non potendo ritenersi sufficiente la sola volontà espressa dal minore ultraquattordicenne». L'istituto scolastico, interpellato nel corso del procedimento, ha sostenuto che la pubblicazione era finalizzata a valorizzare le attività educative e didattiche e che alcuni studenti avevano fornito direttamente il proprio consenso. Tuttavia, il Garante ha chiarito che «l'espressione del consenso da parte del minore non può essere considerata valida ai fini del trattamento dei dati personali in un contesto scolastico, essendo comunque necessario acquisire il consenso di almeno uno dei titolari della responsabilità genitoriale». L'Autorità ha inoltre evidenziato che la pubblicazione sul canale ufficiale della scuola ha reso il contenuto accessibile a un pubblico indeterminato, senza alcuna forma di limitazione, aumentando così il potenziale pregiudizio derivante da un uso improprio delle immagini. Alla luce di tali violazioni, il Garante ha ordinato all'Istituto scolastico di rimuovere immediatamente il contenuto in questione e ha comminato una sanzione amministrativa pecuniaria. Il caso affrontato dal Garante assume rilevanza generale anche in vista del periodo di fine anno scolastico, quando le istituzioni educative organizzano cerimonie, spettacoli e attività celebrative, spesso accompagnate dalla registrazione e diffusione di immagini e video. Il provvedimento chiarisce che la documentazione e la diffusione di tali eventi non può avvenire sulla base di prassi informali o consensi verbali: è invece necessaria una puntuale raccolta del consenso informato, scritto e libero, da parte di chi esercita la potestà genitoriale. Pertanto in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che, “La divulgazione di immagini di minorenni sui social media o su piattaforme di condivisione video, da parte di soggetti pubblici, richiede una valutazione molto rigorosa della liceità e proporzionalità del trattamento, tenendo conto della vulnerabilità degli interessati e del contesto in cui avviene la raccolta dei dati, tanto da rendere necessaria la puntuale raccolta del consenso informato da parte di chi esercita la potestà genitoriale” (Garante della privacy, provv. del 13.03.2025 n. 134). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana

cielo coperto (MC)



