Chiedilo all'avvocato

È responsabile l’infermiere che non monitora il paziente anche se in codice verde?

È responsabile l’infermiere che non monitora il paziente anche se in codice verde?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'Avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica assai delicata della responsabilità medica soprattutto in sede di primo intervento. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Macerata, che chiede: "È responsabile l’infermiere che non monitora il paziente anche se in codice verde?" Il caso di specie ci offre la possibilità di approfondire la tematica delle pratiche mediche in sede di primo intervento. Tale circostanza è stata recentemente affrontata dalla Suprema Corte in una vicenda in cui a seguito di un’erronea valutazione della crisi respiratoria di un paziente asmatico gli assegnava il codice verde; questi però, decedeva per arresto cardiaco a causa dell'intervento medico tardivo dovuto proprio all’attribuzione di un codice errato. L’infermiere inoltre, ometteva di svolgere gli accertamenti richiesti nei casi di soggetto asmatico. I giudici hanno ritenuto che l'infermiere avesse violato le linee guida per il triage stabilite dalla conferenza Stato-Regioni del 25 ottobre 2021. In particolare, è emerso che non aveva monitorato l'evoluzione dei sintomi durante la permanenza del paziente nel pronto soccorso, né successivamente ai primi controlli effettuati all'arrivo in ospedale. Nel caso di specie, l'intervento medico veniva ritardato di oltre 45 minuti a causa di un'altra visita. Il medico infatti, non veniva allertato della necessità di un intervento urgente poiché l'infermiere assegnava un codice verde basandosi solo sulla saturazione dell'ossigeno, che rientrava nei parametri al momento dell'arrivo in pronto soccorso, nonostante la respirazione affannosa e i sibili udibili. L'infermiere avrebbe potuto riconoscere l'aggravarsi dei sintomi respiratori del paziente, antecedenti alla crisi asmatica grave, se avesse monitorato attentamente i sintomi successivamente alla prima valutazione, senza fermarsi alla sola misurazione dei parametri vitali tanto da risultare responsabile per omicidio colposo. Infatti, secondo il Collegio, pur non essendo tenuto a formulare una diagnosi, il compito dell'infermiere durante il triage consiste nella valutazione dell'urgenza dell'intervento medico, prendendo in considerazione non solo i parametri vitali, ma anche le dichiarazioni del paziente o dei suoi accompagnatori, e, soprattutto, osservando costantemente le condizioni del paziente ai fini di una corretta attribuzione del codice di non urgenza. Pertanto, in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che, "l’infermiere è responsabile dell'accoglienza dei pazienti in pronto soccorso gravando sullo stesso un obbligo di assistenza effettiva e continuativa del soggetto ricoverato, atta a fornire tempestivamente al medico un quadro preciso delle condizioni cliniche ed orientarlo verso le più adeguate scelte terapeutiche. Il dovere di monitorare la stabilità delle condizioni dei pazienti presenti rientra, pertanto, tra gli obblighi specifici del personale infermieristico di pronto soccorso, il quale, nel caso in cui si verifichino particolari situazioni di emergenza peggiorative, idonee a pregiudicare la salvaguardia del bene tutelato, ha l'obbligo di allertare i sanitari in servizio, anche in altri reparti dell'ospedale, al fine di consentirne l'intervento, tenuto conto che il codice verde non lo esenta da responsabilità" (Cass. Pen., 12.02.2025 n. 15076). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.   (Foto di repertorio)                                                                                                                                                       

20/04/2025 09:40
È possibile richiedere un risarcimento danni per la procurata morte dell’animale di affezione?

È possibile richiedere un risarcimento danni per la procurata morte dell’animale di affezione?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'Avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica assai attuale del risarcimento danni e nello specifico a seguito della procurata morte di un nostro animale di affezione. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Macerata, che chiede: "È possibile richiedere un risarcimento danni per la procurata morte di un nostro animale di affezione?".  Il caso di specie ci offre la possibilità di approfondire la tematica risarcitoria del danno non patrimoniale per la sofferenza patita a seguito della procurata morte del nostro amato animale di affezione. Tale circostanza è stata recentemente statuita dal Tribunale di Prato proprio in occasione di una richiesta risarcitoria a seguito della procurata morte del cane di una giovane coppia che aveva affidato la propria cagnolina alle cure di una pensione per poi ritrovarla morta il giorno della riconsegna. Partendo dal consolidato principio giurisprudenziale secondo il quale "il danno non patrimoniale derivante dalla lesione dei diritti inviolabili della persona è risarcibile a condizione che l'interesse leso abbia rilevanza costituzionale, che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale, che il danno non sia futile, ovvero non consista in meri disagi o fastidi, ma anche che vi sia specifica allegazione del pregiudizio, non potendo assumersi la sussistenza del danno in re ipsa" (ex plurimis cfr. Cass. civ., sez. VI, 12 novembre 2019, n. 29206; Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 2024, n. 2203), il Tribunale di Prato, in accordo con il succitato principio di diritto ed in linea con la più recente giurisprudenza di merito, riguardo la “ lettura contemporanea delle abitudini sociali e dei relativi valori” (Trib. Pavia, sez. III civ., 16 settembre 2016, n. 1266; in senso analogo Trib. Vicenza, 3 gennaio 2017, n. 24; Trib. La Spezia sez. I, 31 dicembre 2020, n. 660), ha ritenuto che la perdita della cagnolina nel caso in questione potesse determinare la lesione di un interesse della persona alla conservazione della propria sfera relazionale-affettiva, costituzionalmente tutelata attraverso l'articolo 2 della Costituzione, in quanto "il rapporto tra padrone ed animale d'affezione costituisce occasione di completamento e sviluppo della personalità individuale". Considerato che il danno non patrimoniale non può essere identificato con lesione del diritto in sé; dunque, nel caso di specie, i giudici hanno verificato che i danneggiati avessero assolto l'onere di provare di avere subito un effettivo pregiudizio in termini di sofferenza patita per la perdita dell'animale e "le fotografie allegate alla citazione dimostrano che la cagnolina era considerata un membro della famiglia e come tale veniva trattata".  Pertanto, in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che "l'esistenza di questo forte legame sentimentale e le circostanze in cui la morte si è verificata, provano che da tale evento sia derivata a carico della famiglia proprietaria dell'animale una forte sofferenza interiore con lesione di un interesse della persona alla conservazione della propria sfera relazionale-affettiva, costituzionalmente tutelata attraverso l'art. 2 Cost. che deve essere risarcito quale danno non patrimoniale" (Tribunale di Prato, Sez. Civile, sentenza del 25.01.2025 n. 51). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                    

13/04/2025 12:20
L’uso del cellulare alla guida può essere prova della responsabilità del conducente coinvolto in un incidente?

L’uso del cellulare alla guida può essere prova della responsabilità del conducente coinvolto in un incidente?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'Avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica assai attuale della responsabilità nei sinistri stradali. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Tolentino, che chiede: "Può essere una prova della responsabilità in un sinistro stradale l’utilizzo del telefonino alla guida da parte del conducente?".  Il caso di specie ci offre la possibilità innanzitutto di ricordare la recente modifica al Codice della Strada riguardo l’utilizzo del cellulare o analoghi dispositivi durante la guida senza l’uso di apparecchi a viva voce o similari, e, precisamente l’articolo 173 prevede: "E' vietato al conducente di far uso durante la marcia di apparecchi radiotelefonici, smartphone, computer portatili, notebook, tablet e dispositivi analoghi che comportino anche solo temporaneamente l'allontanamento delle mani dal volante ovvero di usare cuffie sonore. E' consentito l'uso di apparecchi a vivavoce, o dotati di auricolare purché il conducente abbia adeguate capacità uditive ad entrambe le orecchie che non richiedono per il loro funzionamento l'uso delle mani". "Chiunque viola tali disposizioni è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 250 a euro 1.000 e alla sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da quindici giorni a due mesi - si legge ancora nell'articolo -. Qualora lo stesso soggetto compia un'ulteriore violazione nel corso di un biennio, si applicano la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 350 a euro 1.400 e la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a tre mesi". Queste sono le sanzioni previste dal Codice della Strada mentre per quanto riguarda l’utilizzo del cellulare in violazione dell’articolo 173 C.d.S. riferito all’evento di un incidente stradale quale fonte di prova di responsabilità del conducente, tale circostanza è stata recentemente affrontata dalla Suprema Corte proprio in un procedimento penale con imputazione di omicidio stradale da parte del conducente durante il quale veniva provato tramite una perizia sul suo cellulare che, durante la guida, l’uomo stava chattando con la fidanzata, avendo scambiato una decina di messaggi nell’arco temporale in cui si avveniva il tamponamento mortale, risultando per il Collegio giudicante prova determinate di responsabilità per una condotta di guida improntata all’imprudenza. Pertanto, in risposta alla domanda posta dalla nostra lettrice, risulta corretto affermare che "lo scambio dei messaggi tra l’uomo e la fidanzata è avvenuto nell’arco temporale in cui si è verificato l’incidente, ciò risultando dimostrativo, stante la prossimità temporale dell’ultimo messaggio rilevato rispetto al tamponamento, di una condotta di guida improntata alla imprudenza, e valutando la compatibilità del rilevamento del messaggio rispetto all’evento collisione porta alla responsabilità penale del conducente" (Cass. Pen., Sez. IV, sentenza del 12.02.2025 n. 12256).  Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                    

06/04/2025 10:19
È incostituzionale escludere i single dalle adozioni internazionali?

È incostituzionale escludere i single dalle adozioni internazionali?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'Avvocato".  In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica assai attuale relativa alle adozioni ed in particolare al diritto dei single di realizzarle. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Mogliano, che chiede: "È legittimo escludere i single dalle adozioni internazionali?".  Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una tematica estremamente attuale, risolta recentemente proprio dalla Corte Costituzionale, riguardo le disposizioni censurate dal Tribunale per i minorenni di Firenze quali gli artt. 29-bis, comma 1, e 30, comma 1, della legge n. 184 del 1983, che disciplinano l'avvio della procedura di adozione internazionale. L'art. 29-bis, comma 1, prevede che «le persone residenti in Italia, che si trovano nelle condizioni prescritte dall'articolo 6 e che intendono adottare un minore straniero residente all'estero, presentano dichiarazione di disponibilità al tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza e chiedono che lo stesso dichiari la loro idoneità all'adozione». In particolare, il citato art. 6 stabilisce, al comma 1, che «l'adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto». I successivi commi dell'art. 6 procedono poi a specificare il presupposto concernente il rapporto stabile e a indicare ulteriori requisiti relativi, in particolare, all'età degli adottanti, nonché all'idoneità affettiva e alla capacità di educare, istruire e mantenere i minori. Sempre l'art. 6 consente, infine, agli adottanti di effettuare più adozioni, anche con atti successivi, e regola le misure che possono essere disposte a sostegno di chi adotti minori di età superiore a dodici anni o con handicap accertato ai sensi dell'art. 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate). Ebbene, le censure del rimettente hanno mirato a rimuovere l'esclusione della persona singola dall'accesso al giudizio di idoneità a adottare finalizzato a conseguire il relativo decreto di idoneità che dà impulso alla procedura di adozione internazionale, e, pertanto, avverso al solo art. 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983. Evidenziato, dunque, come lo stesso legislatore, pur a fronte di una scelta di fondo che non include nel perimetro dei potenziali adottanti di minori le persone singole, abbia riconosciuto la loro idoneità ad assicurare un ambiente stabile e armonioso, si deve, a questo punto, verificare se la loro esclusione dall'accesso all'adozione internazionale vìoli il diritto al rispetto della vita privata, come previsto dall'art. 8 CEDU, in coordinamento con l'art. 2 Cost., anche in considerazione del principio di solidarietà ivi sancito. La disciplina censurata si riverbera sul diritto alla vita privata, inteso come libertà di autodeterminazione, che si declina, nel contesto in esame, quale interesse a poter realizzare la propria aspirazione alla genitorialità, rendendosi disponibile all'adozione di un minore straniero. Questo specifico interesse si coniuga, dunque, anche con una finalità di solidarietà sociale, in quanto rivolge le aspirazioni alla genitorialità a bambini o a ragazzi che già esistono e necessitano di protezione. Se scopo dell'adozione internazionale è quello di accogliere in Italia minori stranieri abbandonati, residenti all'estero, assicurando loro un ambiente stabile e armonioso, l'insuperabile divieto per le persone singole di accedere a tale adozione non risponde a una esigenza sociale pressante e configura – nell'attuale contesto giuridico-sociale – una interferenza non necessaria in una società democratica. Se, dunque, deve ritenersi che la persona singola è idonea a garantire al minore un ambiente stabile e armonioso, d'altro canto, l'esigenza, sottesa alla scelta del legislatore, di assicurare all'adottato «la presenza, sotto il profilo affettivo ed educativo, di entrambe le figure dei genitori» (sentenza n. 198 del 1986) non viene perseguita con un mezzo idoneo e proporzionato. Come si è già in passato rilevato (sentenza n. 183 del 1994), si tratta di una istanza che può giustificare «una indicazione di preferenza per l'adozione da parte di una coppia di coniugi», ma che non supporta la scelta di convertire tale modello di famiglia in una aprioristica esclusione delle persone singole dalla platea degli adottanti. In particolare, nel caso dell'adozione internazionale, allo Stato di accoglienza spetta solo il compito di regolare l'idoneità o meno a adottare, dopodiché l'abbinamento con il minore di chi ha ottenuto il decreto di idoneità è di competenza dello Stato d'origine del minore stesso. Pertanto, là dove la disciplina censurata crea nei confronti delle persone singole una barriera all'accesso all'adozione internazionale, essa determina un sacrificio dell'autodeterminazione orientata alla genitorialità, che – specie nell'attuale contesto giuridico-sociale – rischia di riverberarsi negativamente sulla stessa effettività del diritto del minore a essere accolto in un ambiente familiare stabile e armonioso. Alla luce di tali considerazioni la Corte Costituzionale va a concludere che, la scelta operata dal legislatore con l'art. 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983 risulta non necessaria in una società democratica, in quanto non conforme al principio di proporzionalità, e determina la lesione della vita privata e dell'autodeterminazione orientata a una genitorialità ispirata al principio di solidarietà. Pertanto, in risposta alla domanda posta dalla nostra lettrice, risulta corretto affermare che, "dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 29-bis, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, facendo rinvio all'art. 6, non include le persone singole residenti in Italia fra coloro che possono presentare dichiarazione di disponibilità a adottare un minore straniero residente all'estero, rimane, dunque, ferma la sola applicabilità alla persona singola delle restanti previsioni di cui all'art. 6 della legge n. 184 del 1983. In particolare, l'adottante persona singola deve rispondere agli altri requisiti, non incompatibili con il suo stato libero, che attengono all'età e al suo 'essere affettivamente idoneo e capace di educare, istruire e mantenere i minori che intenda adottare'» (Corte Costituzionale sentenza 21.03.2025 n. 33).  Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.              

30/03/2025 10:10
Anche nella Giunta dei piccoli comuni va garantita la presenza femminile?

Anche nella Giunta dei piccoli comuni va garantita la presenza femminile?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'Avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica assai attuale relativa alla parità di genere e nello specifico in politica. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Pieve Torina, che chiede: "Deve essere garantita la presenza femminile anche nella giunta di un piccolo comune?".  Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una tematica estremamente attuale, risolta recentemente dal Tar della Campania in merito ad un decreto di un primo cittadino di un piccolo comune campano che provvedeva la nomina della giunta comunale indicando solamente uomini, con la giustificazione del primo cittadino che «è stata riscontrata un’effettiva, oggettiva ed appurata impossibilità di assicurare, nella composizione della giunta comunale, la presenza dei due generi compatibilmente con la natura fiduciaria della carica di assessore», anche alla luce della «necessità di evitare la paralisi dell’azione amministrativa ed il pregiudizio per la realizzazione dell’interesse pubblico». Tale dichiarazione non è bastata ad una donna del posto, tra l’altro non eletta, la quale ha portato la questione dinanzi ai giudici del TAR Campania, lamentando «l’illegittimità del decreto di nomina della giunta, di composizione esclusivamente maschile, stante il mancato espletamento di un’accurata e comprovata istruttoria da svolgersi mediante avviso pubblico, volto ad acquisire formalmente la disponibilità a ricoprire l’incarico da parte delle concittadine, dovendo comunque escludersi che la natura fiduciaria dell’incarico sia di per sé idonea a limitare un eventuale interpello alle sole persone appartenenti alla stessa parte politica che ha espresso il sindaco».  E poi «le giustificazioni addotte dall’amministrazione comunale sono meramente formali ed elusive delle norme a presidio della parità di genere, non essendo sufficiente la menzione di quattro atti di indisponibilità ad assumere l’incarico, per di più nemmeno protocollati con data antecedente il decreto di nomina né allegati ad esso», aggiunge la donna. Prima di esaminare la questione, i magistrati amministrativi hanno fissato un punto fondamentale: «sia la nomina che la revoca di un assessore comunale sono atti amministrativi, non rientrando nel novero dei cosiddetti atti politici. Né il contenuto altamente discrezionale dell’atto di nomina di un assessore comunale – in ragione della natura fiduciaria e dettata da ragioni prevalentemente politiche del rapporto che s’instaura con il sindaco che lo sceglie – è in grado di sottrarlo al sindacato del giudice amministrativo». Valutabili, quindi, le obiezioni sollevate dalla donna e tese a denunciare l’illegittima compressione del diritto, garantito dalla Costituzione, alla rappresentanza di genere femminile nella compagine di governo locale e, pertanto, alla verifica di legittimità della composizione della giunta con riferimento al principio della parità di genere. Ciò alla luce del suo status di cittadina residente nel Comune, con annessa titolarità del correlativo diritto all’elettorato attivo, oltre della sua appartenenza al genere femminile sottorappresentato e dell’essere potenziale destinataria della nomina ad assessore comunale. Detto ciò, però, «la natura fiduciaria della carica assessorile non può giustificare la limitazione di un eventuale interpello alle sole persone appartenenti alla stessa lista o alla stessa coalizione di quella che ha espresso il sindaco. Ciò è tanto più vero in realtà locali non particolarmente estese», come quella del piccolo comune di una provincia campana, «nelle quali sia il limitato numero di soggetti in astratto idonei sia la natura delle relazioni interpersonali rendono non eccentrica una simile soluzione», osservano i magistrati. Di conseguenza, è legittima la contestazione mossa dalla donna al decreto di nomina della giunta adottato dal sindaco del piccolo comune. I principi costituzionali di eguaglianza formale e sostanziale e del libero accesso in condizioni di eguaglianza agli uffici pubblici ed alle cariche elettive trovano attuazione, in materia di composizione delle giunte degli enti locali, nelle disposizioni del "Testo unico degli enti locali". In particolare, «gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte. Il sindaco e il presidente della Provincia nominano, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della giunta». Per i giudici non ci sono dubbi: «la ratio sottostante le disposizioni legislative e statutarie è di garantire l’effettiva pari e reciproca opportunità, evitando che l’esercizio delle funzioni politico-amministrative sia precluso ad uno dei due generi, ed in questo modo assicurando anche il principio di uguaglianza predicato dalla Costituzione, con riferimento all’accesso alle cariche elettive. Peraltro, «la natura fiduciaria della carica assessorile non giustifica di per sé limitazioni soggettive di un eventuale interpello alle sole persone appartenenti alla stessa lista o coalizione di quella che ha sostenuto il sindaco», e ciò ancora di più «in realtà locali piccole». Pertanto, in risposta alla domanda posta dalla nostra lettrice, risulta corretto affermare che, "E’ illegittimo il decreto del sindaco riferito alla nomina di una giunta tutta al maschile per la violazione del principio di uguaglianza costituzionale anche in riferimento all’accesso alle cariche elettive elemento prioritario per garantire la pari opportunità tra donna e uomo anche nell’esercizio delle funzioni politico-amministrative” (Tar Campania, Sez. I, sentenza del 10.02.2025, n. 1087).  Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

23/03/2025 10:30
L’eccesivo spendere può giustificare la nomina di un amministratore di sostegno?

L’eccesivo spendere può giustificare la nomina di un amministratore di sostegno?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'Avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica assai attuale relativa all’istituto dell’amministratore di sostegno ed i suoi presupposti. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Macerata, che chiede: "Se il mio ex marito è divenuto eccessivamente prodigale nello spendere senza alcun motivo è possibile chiedere la nomina di un amministratore di sostegno?".  Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una tematica estremamente attuale, risolta recentemente dalla Suprema Corte a seguito di un giudizio proprio istaurato dall'ex moglie titolare di un assegno di mantenimento nei riguardi del proprio ex marito divenuto a suo dire "convulsivo nell’utilizzo dei soldi in spese inutili rischiando lo stato di indigenza". Il procedimento arrivato in Cassazione è stato risolto tenendo conto dei consolidati orientamenti giurisprudenziali del caso; va, quindi, precisato, per focalizzare l'attenzione sul caso di specie concernente una prospettata condizione di prodigalità, che, per giurisprudenza ormai consolidata (Cass. n. 5492/2018Cass. n. 20664/2017, Cass. n. 18171/2013), l'amministrazione di sostegno può pronunciarsi, nell'interesse del beneficiario (interesse reale e concreto, inerente alla persona e/o al suo patrimonio), anche in presenza dei presupposti di interdizione e inabilitazione, e dunque anche con riguardo alla prodigalità. La prodigalità è stata definita come un comportamento abituale caratterizzato da larghezza nello spendere, nel regalare o nel rischiare in maniera eccessiva ed esorbitante rispetto alle proprie condizioni socio-economiche ed al valore oggettivamente attribuibile al denaro che configura autonoma causa di inabilitazione, ai sensi dell'art. 415 c.c., comma 2, indipendentemente da una sua derivazione da specifica malattia o comunque infermità, e, quindi, anche quando si traduca in atteggiamenti lucidi, espressione di libera scelta di vita, purché sia ricollegabile a motivi futili (ad esempio, frivolezza, vanità, ostentazione del lusso, disprezzo per coloro che lavorano) (Cass. n. 786/2017). In questi sensi è stato ravvisato il presupposto per l'apertura dell'amministrazione di sostegno nel caso di una persona dedita in maniera continua al gioco, che destini ad esso tutti i suoi averi, contraendo anche plurimi prestiti per alimentare questa pregiudizievole inclinazione (Cass. 5492/2018); diversamente, sono stati ritenuti insussistenti gli estremi della prodigalità nella condotta di un soggetto che, con la redistribuzione della propria ricchezza a persone a lui vicine, anche se non parenti, intendeva dare una risposta positiva e costruttiva al naufragio della propria famiglia (Cass. n. 786/2017). Anche la Corte Europea dei diritti dell'Uomo, di recente, ha avuto modo di esaminare la disciplina italiana dell'amministrazione di sostegno proprio per un caso di prodigalità (Sentenza Corte Europea diritti dell'uomo Sez. I, Sent. (ud. 27/06/2023) 06/07/2023 - ricorso n. 46412/21); la Corte EDU (in particolare, v. par. 84-92) ha ricordato che la decisione di sottoporre una persona ad una misura di protezione giuridica può costituire un'ingerenza nella vita privata di tale persona ai sensi dell'art. 8, par. 1, della CEDU, anche quando quest'ultima è stata privata solo in parte della sua capacità giuridica, ed ha rammentato che una lesione del diritto di una persona al rispetto della sua vita privata viola l'art. 8, se non è "prevista dalla legge", se non persegue uno o più scopi legittimi ai sensi del paragrafo 2, o se non è "necessaria in una società democratica", nel senso che non è proporzionata agli scopi perseguiti. Quindi, passando ad esaminare il caso concreto, riguardante una persona sottoposta al regime di amministrazione di sostegno previsto dagli artt. 404 e 411 c.c., per prodigalità e, da una certa epoca in poi, anche per un indebolimento delle condizioni psicofisiche e mentali, la Corte EDU ha dichiarato di considerare che "l'ingerenza perseguisse lo "scopo legittimo", ai sensi del secondo paragrafo dell'art. 8, della protezione del secondo ricorrente contro, in un primo tempo, il rischio di indigenza e, a partire dal 2020, un indebolimento di ordine fisico e mentale", e ciò anche se la decisione di sottoporre la persona all'amministrazione di sostegno, privandola in parte, se del caso, della sua capacità giuridica, non era basata su una constatazione di un'alterazione delle sue facoltà mentali attestata da medici, ma su una eccessiva prodigalità che poteva porlo a rischio di indigenza, e sull'indebolimento fisico e psichico da lui dimostrato a partire da un dato periodo. Di seguito, la Corte Edu ha precisato che vi è necessità di perimetrare la concreta misura da applicare in termini di proporzionalità perché "privare una persona della sua capacità giuridica, anche in parte, è una misura molto grave che dovrebbe essere riservata a circostanze eccezionali. Tuttavia, deve essere lasciato inevitabilmente un margine di apprezzamento alle autorità nazionali che, a causa del loro contatto diretto e continuo con le forze vive del loro paese, si trovano in linea di principio in una posizione migliore rispetto a una giurisdizione internazionale per valutare i bisogni e le condizioni locali". "Come già evidenziato, la prodigalità di per sé non costituisce necessariamente espressione di una patologia psichica o psichiatrica e può non essere basata su una constatazione di alterazione delle facoltà mentali del beneficiando attestata da medici (come avvenuto anche nel caso esaminato dalla Corte EDU), ma su concrete condotte tali da porlo a rischio di indigenza. La prova della prodigalità può desumersi da presunzioni gravi, precise e concordanti, ricavate dal complesso degli indizi, da valutarsi, non atomisticamente, ma nel loro insieme e l'uno per mezzo degli altri, nel senso che ognuno di essi, quand'anche singolarmente sfornito di valenza indiziaria, può rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento" (Cass. n. 34950/2022; Cass. n. 9054 del 21/03/2022). Pertanto, in risposta alla domanda posta dalla nostra lettrice, risulta corretto affermare che, "la prodigalità di per sé non giustifica la nomina di un amministratore di sostegno salvo la presenza di prove gravi, precise e concordanti circa il ridursi nella condizione in cui necessita il ricorso agli strumenti di aiuto pubblico da richiedersi a dispetto delle proprie sostanze capacità di vita dignitosa, in quanto la collettività non può farsi carico dell'eccesso di prodigalità di una persona che con le sue sostanze ha di che vivere e dignitosamente" (Cass. Civ. Sez. I, Ordinanza del 28.12.2023, n. 36176). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

16/03/2025 10:50
Concessioni demaniali marittime: la proroga governativa è legittima?

Concessioni demaniali marittime: la proroga governativa è legittima?

Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al provvedimento adottato dal Governo circa la proroga delle concessioni demaniali marittime e la sua legittimità. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana ai numerosi titolari delle concessioni. La questione delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative è particolarmente complessa a causa degli elevati interessi economici coinvolti. Se da un lato il legislatore ha disposto proroghe ex lege, la giurisprudenza, al contrario, ha ritenuto necessario disapplicare tali proroghe, considerandole in contrasto con la normativa europea. Nel caso specifico, il Tar Liguria ha escluso che la proroga al 2027 possa essere accolta, ritenendo che ogni estensione delle concessioni demaniali marittime oltre il 31 dicembre 2023 (secondo quanto previsto dalla l.n. 118/2022) sia manifestamente contraria al diritto dell'Unione europea, come chiarito dalla CGUE in diverse sentenze, ad esempio nelle cause C-458/14 e C-67/15. Per questo motivo, le norme nazionali che prevedono tale proroga devono essere disapplicate. In merito alla validità della proroga disposta dal d.l.131/2024, la sentenza chiarisce che, nonostante il comunicato della Commissione Europea avesse espresso un parere favorevole, la proroga non può essere considerata legittima, in quanto in contrasto con il principio della concorrenza e della trasparenza sancito dal diritto UE (come sottolineato dalla Curia europea). Inoltre, il Tar Liguria ha rigettato la richiesta di indennizzo avanzata dai ricorrenti, poiché solo la normativa contenuta nel d.l.131/2024 prevede la possibilità di riconoscere un risarcimento per gli investimenti non ancora ammortizzati al 31 dicembre 2023, ma solo in presenza di una valutazione peritale. In riferimento alla questione dei manufatti inamovibili, il Tribunale ha ribadito che, in base alla normativa europea, le opere non amovibili costruite su terreno demaniale devono essere cedute senza alcun indennizzo alla scadenza della concessione. Pertanto, in risposta ai nostri numerosi lettori titolari delle concessioni demaniali marittime risulta corretto affermare che "le amministrazioni hanno l'obbligo di rispettare le normative europee in materia di concorrenza, ritenendo illegittime le proroghe delle concessioni demaniali marittime oltre il 31 dicembre 2023 e respingendo le richieste di indennizzo per le opere realizzate sui terreni demaniali" (Tar Liguria, Sez. I, sentenza 19.02.2025, n. 183). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                                                                                                                                                                                                            

09/03/2025 10:20
Installa uno spy-software nel cellulare della moglie per monitorare le sue chiamate: condannato

Installa uno spy-software nel cellulare della moglie per monitorare le sue chiamate: condannato

Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana "Chiedilo all'Avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate, hanno interessato principalmente la tematica relativa alla violazione della segretezza delle conversazioni telematiche altrui, attraverso l’utilizzo di strumenti informatici. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Tolentino che chiede: "E’ penalmente sanzionabile chi installa un programma informatico per intercettare le comunicazioni telefoniche di un altro soggetto, anche se poi non sono stati utilizzati?".  Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente attuale, su cui ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15071 del 2019, affermando la responsabilità penale di un marito, che aveva collegato il cellulare della moglie ad uno "Spy-Software" per monitorarle le chiamate, punendolo pertanto ai sensi dell'ex art. 617-bis del codice penale, il quale stabilisce espressamente: "Chiunque, fuori dei casi consentiti dalla legge installa apparati, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche tra altre persone è punito con la reclusione da uno a quattro anni". Difatti, nel caso in esame, la Suprema Corte ha valutato la punibilità dell’uomo, sulla base di un’autorevole interpretazione del diritto vivente, fornita proprio dalle Sezioni Unite, con sentenza n.26889 del 2016, la quale ha permesso di includere i programmi informatici denominati "Spy-Software", nella categoria degli apparati indicati espressamente dalla norma del codice penale appena citata, chiarendo che "l’evoluzione tecnologica ha consentito di apportare strumenti informatici del tipo software, solitamente installati in modo occulto su un telefono cellulare, un tablet o un PC, che consentono di captare tutto il traffico dei dati in arrivo o in partenza dal dispositivo e, quindi, anche le conversazioni telefoniche" (Cass. Pen.; Sez. Un.; Sentenza n. 26889 del 28/04/2016). Si è, dunque, evidenziata una categoria aperta e dinamica, suscettibile di essere implementata per effetto delle innovazioni tecnologiche che nel tempo, consentono di realizzare scopi vietati dalla legge. Inoltre, secondo la ricostruzione operata dalla Corte di legittimità chiamata a pronunciarsi sull’obiezione sollevata dall’uomo, in relazione alla circostanza che la moglie fosse stata di fatto avvertita dal figlio, circa l’installazione di tale programma sul suo cellulare, senza però smettere mai di usarlo, si è rilevato che il riferimento alla norma penale di cui all’art. 617-bis c.p., ha lo scopo di anticipare la tutela alla riservatezza e libertà delle comunicazioni, attraverso la sanzione dei fatti prodromici all’effettiva lesione del bene, non essendo dunque necessaria alcuna condotta ulteriore. Pertanto, in adesione a tale autorevole orientamento della Suprema Corte e in risposta alla domanda della nostra lettrice, è da intendersi che: "Ai fini della configurabilità del reato in esame deve aversi riguardo alla sola attività di installazione e non a quella successiva dell'intercettazione o impedimento delle altrui comunicazioni, che rileva solo come fine della condotta, con la conseguenza che il reato si consuma anche se gli apparecchi installati non abbiano funzionato o non siano stati attivati" (Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza del 05.04.2019, n. 1507). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.      

02/03/2025 10:45
Messaggi telefonici per convincere l’ex compagna e riprendere la relazione: scatta la condanna

Messaggi telefonici per convincere l’ex compagna e riprendere la relazione: scatta la condanna

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti sentimentali che spesso e volentieri vanno a terminare. Di seguito la domanda di una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "A quale responsabilità può andare incontro l’ex compagno che invia messaggi telefonici per riprendere una relazione sentimentale che sa di essere definitivamente terminata?".  A tal proposito è utile ricordare che con il reato di molestia o disturbo alle persone il legislatore ha inteso tutelare la tranquillità pubblica per l'incidenza che il suo turbamento ha sull'ordine pubblico, data l'astratta possibilità di reazione. L'interesse privato individuale riceve una protezione soltanto riflessa e la tutela penale è accordata anche senza e pur contro la volontà delle persone molestate o disturbate, dal momento che ciò che viene in rilievo è la tutela della tranquillità pubblica per i potenziali riflessi sull'ordine pubblico di quei comportamenti idonei a suscitare nel destinatario reazioni violente o moti di ribellione. L'elemento materiale della molestia è costituito dall'interferenza non accettata che altera fastidiosamente o in modo inopportuno, immediato o mediato, lo stato psichico di una persona (Sez. 1, n. 19718 del 24/03/2005) e l'atto per essere molesto deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma deve essere anche ispirato da biasimevole, ossia riprovevole motivo o rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire nella sfera privata di altri attraverso una condotta fastidiosamente insistente e invadente (Sez. 1, Sentenza n. 6064 del 06/12/2017). Inoltre si rileva come il reato di molestia non ha natura necessariamente abituale e richiede necessariamente una reiterazione di comportamenti intrusivi e sgraditi nella vita altrui, sicché può essere realizzato anche con una sola azione purché particolarmente sintomatica dei motivi specifici che l'hanno ispirata.  L'elemento soggettivo del reato invece consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l'eventuale convinzione dell'agente di operare per un fine non biasimevole o addirittura per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto (Sez. 1, n. 50381 del 07/06/2018). Con riferimento all'intento della condotta costituito da biasimevole motivo, è sufficiente anche il compimento di un unico gesto, come nel caso di una sola telefonata effettuata con modalità rivelatrici dell'intrusione nella sfera privata del destinatario (Sez. 1, n. 3758 del 07/11/2013). Quanto alla possibilità che il reato sia integrato mediante l'invio di sms e messaggi WhatsApp, secondo quanto condivisibilmente affermato di recente dalla Suprema Corte, ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola "è il carattere invasivo della comunicazione non vocale, rappresentato dalla percezione immediata da parte del destinatario dell'avvertimento acustico che indica l'arrivo del messaggio, ma anche - va soggiunto - dalla percezione immediata e diretta del suo contenuto o di parte di esso, attraverso l'anteprima di testo che compare sulla schermata di blocco", realizzandosi in tal modo in concreto una diretta e immediata intrusione del mittente nella sfera delle attività del ricevente (Sez. 1, n. 37974 del 18/03/2021). Si è altresì ritenuto che il carattere invasivo della messaggistica telematica non può essere escluso per il fatto che il destinatario di messaggi non desiderati, inviati da un determinato utente (sgradito), possa evitarne agevolmente la ricezione, senza compromettere in alcun modo la propria libertà di comunicazione, semplicemente escludendo o bloccando il contatto indesiderato (in tal senso, Sez. 1, n. 24670 del 07/06/2012).  In realtà, tenuto conto che il reato di cui all'articolo 660 del codice penale mira a tutelare, non già la libertà di comunicazione del destinatario dell'atto molesto, ma a prevenire il turbamento della tranquillità pubblica, e considerato altresì che anche le telefonate sgradite, persino su apparato fisso, possono attualmente essere "bloccate" attraverso la apposita funzionalità, ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola, "è l'invasività in sé del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario, non la possibilità per quest'ultimo di interrompere l'azione perturbatrice, già subita e avvertita come tale, ovvero di prevenirne la reiterazione, escludendo il contatto o l'utenza sgradita senza nocumento della propria libertà di comunicazione" (Sez. 1, n. 37974 del 18/03/2021). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che "integra il reato di molestie la condotta dell'uomo che non riesce ad accettare la rottura della relazione con la compagna e prova a convincerla a riprendere il rapporto inviandole ripetuti messaggi telefonici nonostante poi la stessa lo abbia bloccato" (Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 34821/22). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                          

23/02/2025 10:30
Minorenne che utilizza Whatsapp: dovere di vigilanza e controllo da parte del genitore

Minorenne che utilizza Whatsapp: dovere di vigilanza e controllo da parte del genitore

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’utilizzo incauto da parte del minore dei social, circostanza questa che potrebbe risultare dannosa. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Morrovalle che chiede: "Quali sono i doveri e/o responsabilità del genitore del minore che utilizza impropriamente internet?".  Si deve anzitutto dare atto che oggi è sempre più frequente l'utilizzo da parte dei minori di internet e in generale degli strumenti di comunicazione telematica, al fine di acquisire notizie e di esprimere le proprie opinioni, diritti questi tutelati dalla nostra Costituzione oltreché dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Tale diritto trova tuttavia un limite nella tutela della dignità della persona specie se minore di età: i minori sono infatti soggetti deboli e, in quanto tali, necessitano di apposita tutela, non avendo ancora raggiunto un’adeguata maturità ed essendo ancora in corso il processo relativo alla loro formazione. A questo proposito la Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2006, n. 19069) ha affermato la necessità di tutela del minore nell’ambito del mondo della comunicazione, facendo riferimento in particolare all’art. 16 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989, che sancisce il diritto di ogni minore a non subire interferenze arbitrarie o illegali con riferimento alla vita privata, alla sua corrispondenza o al suo domicilio. È altresì riconosciuto il diritto del minore a non subire lesioni alla sua reputazione e al suo onore. L'articolo 3 della medesima Convenzione prevede che in ogni procedimento davanti al giudice che coinvolga un minore, l’interesse superiore di quest’ultimo deve essere senz’altro considerato preminente. Tale preminenza ha quindi luogo anche nel giudizio di bilanciamento con eventuali e diversi valori costituzionali, quali il diritto all’informazione e la libertà di espressione degli altri individui; inoltre, è bene anche ricordare che l’art. 17 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo attribuisce agli Stati parti il dovere di riconoscere l’importanza della funzione esercitata dai mass-media, in quanto mezzi idonei a garantire una sana crescita e una corretta formazione del minore stesso.  I pericoli ai quali il minore è esposto nell'uso della rete telematica rendono quindi necessaria una tutela degli stessi, indipendentemente poi dalle competenze digitali da loro maturate. E’ bene porre in evidenza che gli obblighi inerenti la responsabilità genitoriale impongono non solo il dovere di impartire al minore una adeguata educazione all’utilizzo dei mezzi di comunicazione ma anche di compiere un’attività vigilanza sul minore per quanto concerne il suddetto utilizzo.  L’educazione si pone, infatti, in funzione strumentale rispetto alla tutela dei minori al fine di prevenire che questi ultimi siano vittime dell'abuso di internet da parte di terzi. L’educazione deve essere, inoltre, finalizzata a evitare che i minori cagionino danni a terzi o a sé stessi mediante gli strumenti di comunicazione telematica. Sotto tale profilo si deve osservare che l’anomalo utilizzo da parte del minore dei mezzi offerti dalla moderna tecnologia tale da lederne la dignità cagionando un serio pericolo per il sano sviluppo psicofisico dello stesso, può essere sintomatico di una scarsa educazione e vigilanza da parte dei genitori. Riguardo all’uso della rete telematica l’adempimento del dovere di vigilanza dei genitori è, inoltre, strettamente connesso all'estrema pericolosità di quel sistema e di quella potenziale esondazione incontrollabile dei contenuti. Al riguardo la giurisprudenza di merito ha affermato che “il dovere di vigilanza dei genitori deve sostanziarsi in una limitazione sia quantitativa che qualitativa di quell'accesso, al fine di evitare che quel potente mezzo fortemente relazionale e divulgativo possa essere utilizzato in modo non adeguato da parte dei minori e fonte, pertanto, di  responsabilità civile dei genitori ai sensi dell’art. 2048 c.c.” (Trib. Teramo,16.01.2012). Per tali ragioni in risposta alla nostra lettrice è corretto affermare che: "Oltre a possibili responsabilità civili e penali dei genitori, gli stessi sono comunque tenuti ad educare i minori al corretto utilizzo di tali mezzi di comunicazione mediante una limitazione sia quantitativa che qualitativa all’accesso e condivisione di contenuti. Pertanto, l’anomalo utilizzo degli strumenti telematici potrebbe essere sintomatico di una scarsa vigilanza ed educazione da parte dei genitori, i quali, sono tenuti a garantire un’educazione consona alle proprie condizioni socio-economiche e, ad adempiere un’attività di verifica e controllo sul sano sviluppo psicofisico del minore, tanto da rendersi necessaria un’attività di monitoraggio e supporto da parte di professionisti nei riguardi del minore e dei genitori al fine di verificare le effettive capacità educative e di vigilanza degli stessi" (Tribunale di Caltanissetta, sentenza depositata l’8 ottobre 2019). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

16/02/2025 11:00
Genitore "no vax" rifiuta le cure necessarie per il figlio malato: cosa dice la legge

Genitore "no vax" rifiuta le cure necessarie per il figlio malato: cosa dice la legge

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le cure mediche in generale ed in particolare il consenso informato ed il rifiuto alle stesse. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: "Se il genitore 'no vax' rifiuta le cure necessarie per il figlio minore ammalato, a chi spetta la decisione?".  Il caso di specie ci porta ad affrontare una tematica molto sensibile ma allo stesso tempo importante in quanto riguarda la salute degli individui. A tal proposito di recente la Suprema Corte ha affrontato una vicenda nella quale i genitori di un bambino per il quale era stato programmato un intervento chirurgico con elevata probabilità di trasfusione rappresentavano ai sanitari un consenso condizionato alla trasfusione, ponendo ad essa delle condizioni fondate essenzialmente su convinzioni di natura religiosa e su infondati convincimenti scientifici, smentiti dalla letteratura scientifica. L'azienda ospedaliera, dopo aver rappresentato ai genitori che non era possibile garantire che i donatori non avessero ricevuto i vaccini Covid-19, né aderire alla richiesta di ricorrere a donatori non vaccinati, aderendo essa a protocolli conformi alle linee guida dettate dalle raccomandazioni del Consiglio d'Europa sulla donazione periodica anonima, propose ricorso al Giudice Tutelare chiedendo di autorizzare con urgenza la prestazione del consenso all'intervento e all'eventuale trasfusione, proponendo la nomina di un curatore speciale nella persona del direttore. Il Giudice Tutelare, rilevando che il consenso condizionato è un "non consenso", nominò il direttore generale dell'ospedale curatore. Il provvedimento tutelare venne reclamato dinanzi al Tribunale dei Minorenni, che lo respinse dando atto di essere intervenuto nel frattempo sulla stessa linea con un provvedimento di sospensione della responsabilità genitoriale, che fu poi revocato. I ricorrenti quindi adirono la Corte di Cassazione, la quale rigettò il ricorso presentato dai genitori ritenendo che il provvedimento impugnato non fosse privo di motivazione e che l'unione degli atti - ovvero quelli del Giudice Tutelare con quelli relativi alla sospensione o limitazione della potestà genitoriale avanti al Tribunale dei Minorenni - non avesse comportato per le parti alcun pregiudizio difensivo. Tutto ciò tenendo in considerazione che, la legge Dat (Direttive Anticipate di Trattamento) è diretta a tutelare, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2,13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1,2 e 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona. Stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge. Il consenso informato deve essere inteso come espressione della consapevole adesione del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico e si configura come un vero e proprio diritto della persona. Nel consenso informato si incontrano quindi l'autonomia decisionale del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la responsabilità del medico. Nell'ambito di questa responsabilità rientra il dovere del medico di indirizzare il paziente verso il trattamento sanitario adeguato alle sue condizioni. Nei trattamenti sanitari della persona minorenne, il consenso informato è espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore, tenendo conto della volontà del minore in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, avendo come scopo la tutela della salute psicofisica della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità. La legge Dat prevede che nel caso in cui il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione venga rimessa al Giudice Tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti indicati negli articoli 406 e seguenti del codice civile o dal medico o dal rappresentante legale della struttura sanitaria. La legge Dat stabilisce quindi una procedimentalizzazione per la formazione e manifestazione del consenso riferibile ai minori e agli altri soggetti deboli e pone anche un rimedio nell'ipotesi in cui queste regole procedimentali vengano disattese, prevedendo un meccanismo di controllo che opera in relazione al determinato compito genitoriale presumibilmente non adeguatamente assolto. La norma consente infatti al Giudice Tutelare, adito dai medici o dagli altri soggetti indicati dalla norma, di decidere se un certo intervento o trattamento possa avere luogo anche senza il consenso dei genitori, comprimendo così il diritto di costoro di autodeterminarsi in merito alle scelte da fare nella cura dei figli minori e di provvedere direttamente in tal senso in un settore dove le scelte comportano effetti potenzialmente irreversibili nella vita del minore. Tale intervento del Giudice Tutelare, tuttavia, non incide - come accadeva prima dell'entrata in vigore della DAT - sulla responsabilità genitoriale sospendendola o limitandola temporaneamente; si riferisce solo alla specifica situazione relativa al mancato consenso al trattamento sanitario ritenuto necessario e finalizzato al best interest del minore. Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che "la DAT regolamenta il conflitto tra il rappresentante legale dell'incapace e il medico in relazione alle cure proposte da quest'ultimo. Pertanto, se il paziente ha un legale rappresentante, la legge - pur disponendo che sia quest'ultimo ad esprimere o negare il consenso - impone una procedimentalizzazione nella formazione del consenso stesso, dando ampio spazio al parere dei sanitari e rimettendo alla coscienza e alla responsabilità del medico che ritenga le cure appropriate e necessarie la scelta di sollecitare la verifica giudiziale in merito". "L'iter stabilito dalla legge prevede di: (a) tenere conto della volontà del minore; b) avere come scopo la tutela della sua salute psicofisica; da cui ne consegue anche che occorre considerare il parere oggettivo medico volto ad assicurare che la soluzione scelta sia quella che realizzi il miglior interesse dell'incapace. Il rispetto di questo iter pone quindi dei limiti al potere di rappresentanza dei genitori in questa materia e rende altresì evidente che il rimedio giudiziale costruito dalla norma - ovvero il ricorso al Giudice Tutelare - non ha più nulla a che vedere con il controllo sul corretto esercizio della responsabilità genitoriale; ma si tratta piuttosto di valutare nel conflitto tra il parere medico e la volontà dei genitori quale sia la soluzione che meglio tutela la persona interessata" (Cass. Civ., Sez. I, Ordinanza del 03.02.2025, n. 2549). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                    

09/02/2025 10:10
Sottrae il cellulare della compagna per vedere i messaggi: un atto di gelosia che configura il reato di rapina

Sottrae il cellulare della compagna per vedere i messaggi: un atto di gelosia che configura il reato di rapina

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti tra la coppia e nello specifico dell’utilizzo del telefonino. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Recanati che chiede: "Appropriarsi del cellulare della propria compagna comporta un reato?".  Il caso di specie ci porta ad affrontare una condotta sempre più presente all’interno delle coppie soprattutto per gelosia o per altri residuali scopi. A tal proposito ci è utile riportare un caso giudiziario nel quale l’imputato aveva sottratto con prepotenza alla ex fidanzata il telefono cellulare, al fine di rivelare al padre della donna, la relazione sentimentale che questa aveva instaurato con un altro uomo.  La Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente il dolo specifico richiesto quale elemento soggettivo del reato di rapina, in quanto il profitto richiesto può concretarsi in ogni utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene. Alla luce di ciò, ha statuito il seguente principio di diritto "nel diritto di rapina sussiste l'ingiustizia del profitto quando l'agente, impossessandosi della cosa altrui (nella specie un telefono cellulare), persegua esclusivamente un'utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da un altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell'autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane" (Cass. pen., Sez. II, 10 marzo 2015, n. 11467; Cass. pen., Sez. II, 10 giugno 2016, n. 24297). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che "sottrarre di prepotenza lo smartphone della propria compagna per poter dare un'occhiata a rubrica telefonica e messaggi comporta la commissione del reato di rapina in quanto l’ingiusto profitto richiesto può consistere anche in un vantaggio di natura morale o sentimentale" (Cass. Pen, Sez. II, 10 dicembre 2021, n. 45557). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.          

02/02/2025 10:30
"Metto in atto il metodo Montessori", ma per il giudice sono maltrattamenti: maestra condannata

"Metto in atto il metodo Montessori", ma per il giudice sono maltrattamenti: maestra condannata

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica estremamente delicata, relativa alle condotte violente o da considerarle tali poste in essere da soggetti esercenti il ruolo di educatore o docente, nei confronti dei propri allievi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata, che chiede: "Quali comportamenti, se tenuti da insegnanti nello svolgimento della propria professione, possono condurre ad una condanna penale per maltrattamenti?" Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata e attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la stessa Corte di Cassazione, con una sentenza di condanna, la n.5205/2019, nei confronti di una maestra d’asilo, per il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 del codice penale.  L'articolo punisce espressamente "chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte".  Tale delitto, si caratterizza infatti, per l’elemento soggettivo del dolo generico, inteso come volontarietà dell’azione, nonché come consapevolezza di porre in essere un comportamento oppressivo, ed è integrato da condotte di lesione o messa in pericolo dell'incolumità fisica o psicologica, nell'ambito di rapporti interpersonali che dovrebbero favorire la personalità degli specifici soggetti, e non danneggiarla. Inoltre, elemento costitutivo di tale delitto, è l’abitualità dell’azione, ovvero la circostanza che tali condotte lesive siano reiterate e perpetrate ai danni delle vittime.  Proprio questo ultimo requisito, distingue tale delitto di maltrattamenti, quale reato abituale, dal delitto meno afflittivo di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, previsto ai sensi dell’art. 571 del codice penale, il quale punisce espressamente: "Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte". Difatti, nella sentenza citata emessa nei confronti della maestra d’asilo, la quale, nel tentativo di giustificare i propri metodi, li qualificava come "di vecchio stampo in armonia con il metodo Montessori", la Suprema Corte ha ritenuto, "integrato il delitto di maltrattamenti in considerazione della reiterazione delle condotte violente perpetrate ai danni degli alunni, tutti minorenni, del carattere sistematico del ricorso alla violenza fisica e morale, non suscettibile di essere inquadrata in alcun metodo educativo, scolastico, o di insegnamento, tenuto anche conto della tenera età dei bambini maltrattati". (Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 5205 del 01.02.2019). Pertanto, alla luce di quanto affermato ed in risposta alla domanda della nostra lettrice, "sul piano della qualificazione giuridica dei fatti si deve ribadire che integra il reato di maltrattamenti e non quello di abuso di mezzi di correzione, la reiterazione di atti di violenza fisica e morale, l’uso sistematico di comportamenti violenti, obiettivamente non leciti, insuscettibili di essere qualificati come espressivi di metodi educativi: schiaffi ripetuti, tirate di orecchio e capelli, sottoposizione a vessazioni morali e fisiche consistenti nell’apostrofare i bambini in malo modo, nello strappare loro i disegni, nel sottrarre loro l’acqua, allontanarli dagli spazi di condivisione per lasciarli da soli in bagno ovvero in una stanza poco illuminata “per riflettere”, inadeguatezza delle espressioni verbali utilizzate, ancorché sostenute da animus corrigendi”(Cass. Pen., Sez. VI, n. 53425/ del 22.10.2014). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

26/01/2025 10:17
L'ambiente di lavoro è troppo stressante per la dipendente: il datore la dovrà risarcire

L'ambiente di lavoro è troppo stressante per la dipendente: il datore la dovrà risarcire

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla salubrità dell’ambiente di lavoro legato alla salute dei dipendenti. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana in merito alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “In caso di danno alla salute del dipendente da ambiente lavorativo stressogeno può essere risarcito dal datore di lavoro?” La conflittualità delle relazioni personali esistenti all'interno di un ambiente di lavoro sono sempre più frequenti e ciò va a minare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, oltre a creare possibili danni alla salute stessa del dipendente. Di recente la Suprema Corte ha affrontato il caso di una lavoratrice che lamentava di essere stata vittima di condotte avversative da parte del direttore generale della ASL presso cui era impiegata, la quale replicava alle stesse fino a creare un circolo vizioso senza termine, laddove invece sin da subito il datore di lavoro avrebbe dovuto ristabilire l'ordine anche con provvedimenti disciplinari. A tal proposito la Cassazione coglie l'occasione per ricordare la piena autonomia della responsabilità per straining del datore di lavoro, configurabile anche in assenza di mobbing, per l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli della salute e del benessere psicofisico del lavoratore. La responsabilità per straining può derivare anche da una condotta omissiva del datore di lavoro, che non può e non deve tollerare il perpetrarsi di condotte avversative nei confronti di un dipendente e deve del pari vigilare sulla serenità dell'ambiente lavorativo, al fine di evitare che lo stesso diventi fonte di disagi o stress. Un ambiente lavorativo stressogeno è infatti, configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre al riesame di condotte datoriali apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell'art. 2087 c.c.. Per tale ragione il datore di lavoro può essere responsabile di straining, quale forma attenuata di mobbing per comportamenti stressogeni, anche se manca la pluralità di azioni vessatorie ma si producono comunque effetti dannosi rispetto all'interessato. Pertanto in risposta anche alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, “in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni di salute del dipendente, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta anche colposamente il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere dei comportamenti anche in sé non illegittimi ma tali da poter indurre dei disagi o stress che si manifestino isolatamente o si connettano ad altri comportamenti inadempienti contribuendo ad inasprire gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (Cass. Civ. Sez. Lav. Ord. 04.01.2025 n. 123). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

19/01/2025 09:50
In caso di incidente è responsabile il gestore della pista di sci o lo sciatore?

In caso di incidente è responsabile il gestore della pista di sci o lo sciatore?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla pratica dello sci sempre più attuale, e non solo per il periodo dell’anno, e alle relative responsabilità del gestore dell’impianto o dello sciatore in caso di caduta o per altre problematiche. Ecco l’analisi dell’avv. Oberdan Pantana in merito alla domanda posta da una lettrice di Sarnano che chiede: "Quando una pista da sci può essere considerata sicura e quali sono le responsabilità del gestore o dello sciatore?".  Le piste da sci ogni anno sono i luoghi in cui si verificano episodi lesivi, anche gravi, che traggono origine dall'interazione tra il gestore dell'area sciabile e gli utenti e/o tra gli utenti stessi (gli scontri ne rappresentano l'esempio per antonomasia). Il Legislatore ha riformato la disciplina, entrata in vigore nel 2022, con l'intento di revisionare e adeguare il previgente sistema normativo (legge n. 363/2003) alla luce degli insegnamenti ricavabili dai molteplici principi di diritto espressi in sede nomofilattica, nati su impulso della moltitudine di processi civili e penali che oramai sono sempre più presenti nella cronaca giudiziaria. Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che il gestore dell'area sciabile e lo sciatore sono i protagonisti del concetto di sicurezza del tracciato, in quanto il gestore ha l'obbligo di assicurare agli utenti la pratica delle attività sportive e ricreative in condizioni di sicurezza, provvedendo - per l'appunto - alla messa in sicurezza dei tracciati, al contempo, lo sciatore assume un ruolo coessenziale al concetto astratto di «sicurezza delle piste», poiché l'ordinamento pretende che quest'ultimo osservi e mantenga, in ogni fase della fruizione dell'area sciabile, una condotta improntata a scrupolosa diligenza e rispetto delle regole di prudenza. Nella fase patologica del rapporto, quando il sinistro sciistico si è ormai verificato, la natura relazionale del rapporto fra gestore e sciatore finisce per rilevarsi cruciale: l'analisi (giocoforza postuma) del comportamento tenuto da ciascuna delle parti in gioco (gestore e sciatore), alla luce di tutti gli elementi di fatto disponibili al giudizio, deve tendere a identificare l'effettivo livello di esigibilità di interventi correttivi destinati a correggere o a integrare l'attività precauzionale dell'altra parte.  Nello specifico, il Capo III del d.lgs. n. 40/2021 enuclea le regole per il gestore dell'area sciabile agli artt. 4-16. Il gestore dell'area sciabile attrezzata è tenuto ad assicurare agli utenti la pratica delle attività sportive e ricreative in condizioni di sicurezza e deve, parimenti, proteggere gli utenti da ostacoli presenti lungo le piste. Grava su di esso l'obbligo di segnalare eventuali situazioni di pericolo atipico: il termine così coniato è di matrice giurisprudenziale e la riforma ha colto l'opportunità (finalmente!) di attribuirgli un nomen iuris, ora previsto dall'art. 2, comma 1, lett. d), intendendosi il «pericolo difficilmente evitabile anche per uno sciatore o sciatrice responsabile lungo il tracciato sciistico». Tra le regole più incisive, si segnala l'obbligo, in difetto del quale scatterà un’importante sanzione amministrativa oltre ad una responsabilità civile o addirittura penale in caso di sinistro: - di apporre, in prossimità delle biglietterie e dei punti di accesso agli impianti di arroccamento al comprensorio, una mappa delle piste di sci alpino, di fondo e degli altri sport sulla neve, con indicazione del loro percorso e del relativo grado di difficoltà; in più, alla partenza di ogni impianto deve indicare il colore delle piste servite (art. 5); - di delimitare le piste da discesa, le piste da fondo e le altre piste (artt. 6 e 7); per le prime la delimitazione avviene mediante una palinatura deve avere il colore corrispondente alla difficoltà della pista e che sia intervallata, almeno ogni 200 metri, con un segnale che indica la denominazione oppure la numerazione della pista; - di manutenzionare adeguatamente la pista: qualora la pista presenti condizioni di innevamento insufficienti, il suo stato deve essere segnalato in modo ben visibile al pubblico, all'inizio della pista stessa, nonché presso le stazioni a valle degli impianti di trasporto a fune. Qualora le condizioni presentino pericoli oggettivi dipendenti dalle condizioni di innevamento del fondo o altri pericoli atipici, il gestore dell'impianto deve provvedere alla loro rimozione o alla loro neutralizzazione mediante segnalazione o altri dispositivi di delimitazione e protezione. L'obbligo di chiusura del tracciato scatta laddove sussista un pericolo atipico non rimosso, non neutralizzato o in assenza di agibilità (art. 12); - di garantire il primo soccorso agli sciatori (art. 14). L'utente della neve, invece, quale protagonista della sicurezza sui tracciati, è tenuto a osservare delle specifiche regole presidiate, tra l'altro, da una sanzione amministrativa, oltre ad una sua responsabilità civile o in alcune circostanze anche penale in occasione di sinistro. Di indubbio interesse la regola dettata dall'art. 27 d.lgs. n. 40/2021 che impone all'utente di praticare le piste scegliendo esclusivamente quelle aventi un grado di difficoltà rapportato alle relative capacità fisiche e tecniche. Inoltre, in seno all'art. 18 d.lgs. n. 40/2021, lo sciatore, confermando ciò che è già desumibile dall'art. 27, è responsabile della condotta tenuta sulle piste da sci: infatti, il Legislatore ha aggiunto un nuovo obbligo di comportamento con un termine sconosciuto assente nella precedente legge: "la prudenza".  Ogni sciatore deve tenere una velocità e un comportamento di prudenza, diligenza e attenzione adeguati alla propria capacità, alla segnaletica e alle prescrizioni di sicurezza esistenti, nonché alle condizioni generali della pista stessa, alla libera visuale, alle condizioni meteorologiche e all'intensità del traffico. Lo sciatore deve adeguare la propria andatura alle condizioni dell'attrezzatura utilizzata, alle caratteristiche tecniche della pista e alle condizioni di affollamento della medesima. L'autoresponsabilità esige che lo sciatore, prima di intraprendere la pista, sappia: - di essere in grado di scendere da quella pista (art. 27); - conoscere e rispettare le regole della pista (che devono essere messe a disposizione del gestore dell'area sciabile) (art. 18, comma 1); - tenere una condotta che, in relazione alle proprie capacità tecniche, alle caratteristiche della pista e alla situazione ambientale, non costituisca pericolo per l'incolumità propria e altrui (art. 18, comma 2).  In caso di sorpasso, l'utente (responsabile) deve assicurarsi di disporre di uno spazio sufficiente allo scopo e di avere sufficiente visibilità; la manovra può essere effettuata sia a monte sia a valle, sulla destra o sulla sinistra, a una distanza tale da evitare intralci allo sciatore sorpassato (art. 20); nel caso di scontro tra sciatori, si presume, fino a prova contraria, che ciascuno di essi abbia concorso ugualmente a produrre i danni eventualmente occorsi (art. 28). Pertanto, nel consigliarvi di divertirvi pur seguendo tali regole fondamentali, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

12/01/2025 10:04
Copyright © 2020 Picchio News s.r.l.s | P.IVA 01914260433
Registrazione al Tribunale di Macerata n. 4235/2019 R.G.N.C. - n. 642/2020 Reg. Pubbl. - n. 91 Cron.