L’ennesima storia di violenza, di gelosia patologica, di pedinamenti, di incapacità di accettare la fine di una relazione, che si è conclusa con l’infinito dolore di due famiglie: quella di Vanessa, Zappalà, 28 anni, che è stata uccisa dall’ ex fidanzato a colpi di pistola mentre stava passeggiando con gli amici sul lungomare di Acitrezza; ed il dolore della famiglia del giovane che, dopo poco tempo trascorso dall’omicidio, si è suicidato impiccandosi in un casolare in campagna.
Un padre, quello di Vanessa, che dopo aver rilasciato alcune dichiarazioni ad un cronista implora: “Ora, vi prego, non andate via. Non spegnete i riflettori su questa strage che sembra non avere fine. Dobbiamo fermarla, dobbiamo fare qualcosa. Vanessa non si è mai rassegnata. Neanche noi dobbiamo rassegnarci alla violenza''.
Ed è proprio questo l’intento, non spegnere i riflettori su queste stragi familiari, ed invece riflettere su quali siano le strategie più efficaci ad azione preventiva.
Attualmente in caso di denuncia per stalking, è prevista la possibilità che venga disposta dal giudice una misura cautelare temporanea che consiste nel “divieto di avvicinamento” da parte dell’indagato/imputato ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, e che viene applicata a procedimento penale ancora pendente; con essa si intende limitare la libertà di circolazione del destinatario della misura; ha lo scopo di tutelare le vittime per il periodo di tempo necessario a giungere ad una sentenza definitiva, dopo che hanno denunciato il loro stalker.
È indispensabile pertanto che la vittima abbia denunciato il suo stalker.
Importante strumento di controllo che possiede il giudice affinché tale misura venga rispettata è quello di prescrivere “procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, quando ne abbia accertato la disponibilità da parte della polizia giudiziaria”. Si tratta in sostanza di un braccialetto elettronico per controllare gli spostamenti del soggetto sottoposto alla misura cautelare, in base alla legge 69/2019, nota come Codice Rosso.
L’art. 282 ter comma 1 codice procedura penale, così come modificato dalla legge 69/2019, recita: “Con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prescrive all'imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa, anche disponendo l'applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’art. 275 bis”. Le modalità di controllo previste dal 275 bis cpp sono appunto quelle dell’applicazione del braccialetto elettronico, previsto, prima della modifica legislativa, solamente in caso di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari.
L’assassino di Vanessa era sottoposto a divieto di avvicinamento, ma non era dotato di braccialetto elettronico. Perché?
(Foto tratta da "La Repubblica")
Il ritorno violento al potere dei talebani in Afghanistan ha creato una vera e propria crisi umanitaria.
Ci arrivano immagini strazianti negli ulitmi giorni da Kabul di uomini e donne che in ogni modo cercano di salvare la propria vita e quella dei loro figli anche lanciandoli nelle braccia dei militari in partenza.
Donne che dopo tanti sforzi per giungere all’emancipazione vedono in imminente pericolo la loro libertà e dignità di esseri umani per la stretta applicazione della legge islamica, la sharia, che in arabo significa “ retta via”. Un insieme di precetti etici e morali che per i musulmani sono immutabili.
Le donne non potranno più uscire di casa, andare a scuola, vestirsi all'occidentale. Nessun dirittto al lavoro, alla parola.
Mentre i Talebani dicono, burlandosi del mondo per ottenere l’accettazione dell’opinione pubblica, che le donne vivranno normalmente anche sotto di loro, la realtà a Kabul è già insostenibile.
"Donne medico, giornaliste, attiviste, artiste, sono in grave pericolo. Sono in corso rastrellamenti porta a porta, bisogna fare subito”. Riferisce in un’intervista Simona Cataldi, rappresentante del Cisda (Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane) con sede a Milano.
Due giornaliste afghane hanno già denunciato di essere state respinte in ufficio: i Talebani hanno nominato un nuovo direttore della Radio Televisione Afghana ed è stato loro impedito di entare a lavoro.
Donne senza futuro, su di loro incombe il divieto di lavorare di studiare di uscire di casa, come fare quindi a fuggire?
Se già l’Afghanistan era tra i peggiori luogi al mondo da vivere per una donna (secondo Human Rights Watch l’87% delle donne afgane ha subìto violenza fisica o sessuale almeno una volta nella vita), oggi la situazione sta precipiando. La sharia le vuole segregate, rinchiuse, ignoranti, invisibili nel loro burqua di cui il regime impone l’obbligo.
Divieto di guidare, di utilizzare cosmetici (ci sono stati casi di donne a cui sono state amputate le dita per averlo fatto), gioielli, di entrare in contatto con qualsiasi uomo che non sia il marito o un parente. Ed ancora altre regole che le donne afghane temono siano loro nuovamente imposte:
Coprirsi il volto in pubblico
Essere accompagnate da un uomo se vogliono uscire di casa
Non possono ridere in pubblico
Non possono mostrare le caviglie
Non possono apparire in nessun media
Non possono fare sport
Scrive su Twitter la fotografa afghana Rada Akbar: “Le città collassano, i corpi umani collassano, la storia e il futuro collassa, la vita e la bellezza collassa, il nostro mondo collassa. Vi prego, qualcuno fermi tutto questo”.
Nella maggior parte dei casi gli incendi estivi sono dolosi e vengono appiccati per interessi economici. Quali le dinamiche sottese?
Solo una minima parte dei soggetti coinvolti sono affetti da patologia psichiatrica, i veri e propri piromani; la stragrande maggioranza sono incendiari mossi dalla volontà di recare danno all’ambiente, dediti quindi al delitto di incendio doloso o colposo previsto dal codice penale (artt. 423 e segg. c.p.)
La difficoltà nell’individuare questi criminali sta nel fatto che la scena del delitto, il bosco, è molto vasta e spesso non è possibile, o grandemente difficoltoso, analizzare la scena.
Il dolo ed il disprezzo per la Terra sono alla base dell’Italia che brucia. Poi complici certamente il vento e le alte temperature, si scatena l’indomabile inferno di fuoco.
Secondo i dati dell’European forest fire information system, l’Italia è prima in Europa per numero di incendi: in questa prima metà dell’anno sono bruciati 102.933 ettari di terreno.
Secondo il WWF nel 75% dei casi gli incendi sono provocati dalle azioni dell’uomo. La situazione è critica soprattutto in Calabria e in Sicilia. I Vigili del Fuoco sono impegnati in turni masssacranti tra sforzi e rischi per la loro stessa vita, nel tentativo di domare le fiamme.
La legge 353/2000 e ss. m.i. vieta “il cambio di destinazione d’uso di boschi e pascoli percorsi dal fuoco per 15 anni, vieta la trasformazione edilizia per 10 anni, vieta il pascolo e la caccia per 10 anni, vieta il rimboschimento con fondi pubblici per 5 anni.”
Un altro importante contributo nella lotta agli incendi dolosi è stata data dalla legge 68/2015 che ha introdotto i c.d. “ecoreati” nel codice penale. Infatti, oltre al delitto di incendio doloso, nei casi più gravi, si può configurare il delitto di disastro ambientale, che prevede fino a 15 anni di reclusione più le aggravanti”.
Quali i fini degli incendiari dunque, visto che è legislativamente previsto la non sfruttabilità dei terreni oggetto di incendi dolosi? Secondo le ricerche degli ultimi anni, risulterebbe che i fini sono speculativi: la ripartenza del pascolo, ripicche tra privati o verso la pubblica amministrazione, quando non vere e proprie vendette private.
L'Unione fa la sicurezza. È questo il titolo della Campagna informativa avviata da Polizia di Stato e Autostrade per l’Italia che in questi giorni vuole sensibilizzare ad una guida corretta e più sicura.
L’obiettivo è quello di sensibilizzare gli utenti della strada a una guida più prudente perché, eccesso di velocità, cinture di sicurezza non allacciate, assunzione di alcool e droghe e uso scorretto dello smartphone, secondo le più recenti statistiche sono tra i principali comportamenti pericolosi alla guida che causano il maggior numero di incidenti su strade e autostrade.
In un periodo come questo estivo, proprio nei giorni di maggior transito incrementato dagli spostamenti del periodo vacanziero, l’obiettivo è quello di ricordare agli automobilisti in viaggio i rischi in cui è possibile incorrere. Le comunicazioni di sensibilizzazione vengono trasmesse attraverso le principali emittenti radiofoniche, web e social, oltre che con assistenza e informazione agli utenti lungo la rete autostradale.
Anche nella nostra provincia di Macerata è stato impressionante il numero di incidenti stradali nell’ultimo mese, molti dei quali hanno coinvolto motociclisti: moto da strada, scooter: due solo nella giornata del 29 luglio, 15 dall’inizio del mese. Incidenti quelli che hanno coinvolto le due ruote, che quasi sempre hanno richiesto l’intervento dell’eliambulanza per la loro gravità da codice rosso; 5 purtroppo i motociclisti che non ce l hanno fatta, e non sono sopravvissuti.
Non è da sottovalutare, come potrebbe invece accadere, tra le cause di incidenti stradali, lo stato psico-fisico del conducente. Ciò è valido per gli automobilisti ma anche e soprattutto per i motociclisti. La guida, che spesso dopo tanti anni di esperienza si affronta quasi meccanicamente, sulle 4 come sulle 2 ruote, necessita invece di particolare concentrazione: ad esempio durante i sorpassi per valutare velocità e distanza degli altri veicoli, per essere preparati ad affrontare un eventuale fondo stradale dissestato o ostacoli imprevisti sulla carreggiata, quando non anche per porre rimedio ad eventuali manovre imprudenti degli altri.
Secondo il Rapporto ACI-ISTAT sull'incidentalità stradale, la distrazione resta la causa principale degli incidenti mortali, il 15,7% del totale.
Segue il mancato rispetto di precedenza o del semaforo (il 14,5% del totale); velocità troppo elevata (10% del totale).
Altre cause di incidente che si ripetono in modo significativo sono il mancato rispetto della distanza di sicurezza (8,7% del totale ) e le manovre irregolari, come la retromarcia, l' inversione, l'invasione di corsia, le manovre irregolari per sostare o attraversare la carreggiata. (l'8,7% del totale).
La mancata precedenza al pedone e il comportamento scorretto del pedone rappresentano, infine, il 3,2% e il 2,8% di tutte le cause di cause di incidente.
Siamo abituati a sentire parlare del narcisita per la frequenza con cui questi soggetti sono coinvolti in relazioni fatte di violenza psicologica e/o fisica, ma altrettanto importante è provare a capire quali sono le caratteristiche della vittima potenziale di questi soggetti.
Ricordiamo brevemente che il narcisista , secondo il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) , è caratterizzato da manie di grandezza, necessità di essere adulato secondo la percezione che ha di sé stesso, e soprattutto mancanza di empatia.
I soggetti con disturbo narcisistico di personalità tendono a svalutare le altre persone in modo da poter prevaricare ed affermare il loro senso di superirotà.
L’autostima di questi soggetti dipende dalla considerazione positiva degli altri che lui ricerca in modo ossessivo, ed è quindi, proprio per questo, molto fragile.
Sono infastiditi dalle critiche degli altri e non tollerano il fallimento che li fa sentire così frustrati da generare in loro vere e proprie esplosioni di rabbia.
Ma chi è la potenziale vittima di questi soggetti? La “preda” preferita è solitamente una persona, diremmo, empatica, all’opposto del narcisista. Ma è necessario fare alcune precisazioni.
Se è vero che l’empatia è la capacità di porsi nello stato d’animo dell’altro, una cosa diversa è l’eccesso di empatia: quest’ultima caratteristica fa perdere di vista la propria individualità. Il proprio valore personale, i propri bisogni, desideri e necessità cedono di fronte a quelli dell’altro. Ed è proprio questa la caratteristica di molte vittime del narcisista.
In una relazione con un narcisita, queste tendenze porteranno la sua vittima a cercare di trovare sempre un senso e una giustificazione anche agli atti più turpi e violenti.
Di fatto molto spesso la vittima non si rende conto di essere tale e di venire lentamente distrutta, ma pensa di essere lei quella inadeguata ad un rapporto con un soggetto di siffatta “pseudo-grandezza”.
Giunge a mettere in dubbio le proprie percezioni, fino a convincersi che le continue svalutazioni subite siano fondate, con enormi sensi di colpa.
Per questo continua a restare nella relazione, anche quando il narcisista diventa scostante, svalutante, fino ad accettare ogni tipo di sopraffazione, di violenza, e ad annullare completamente sé stessa e la sua stessa vita.
Di fatto la vittima non è tale in senso totalmente passivo.
La sua insicurezza, la sua dipendenza emotiva, causate da pregresse situazioni traumatiche, creano un gancio al narcisista. E’ una sofferenza intollerabile per la vittima pensare di essere abbandonata, e ciò le fa giustificare e accettare anche che è inaccettabile. Confonde con l’amore la figura di chi la sta invece lentamente distruggendo. Tutto ciò non ha invece nulla a che vedere con una relazione sana nè tantomento con il sentimento di amore.
La criminologia non si occupa solamente di crimini violenti. Esiste un’area criminale di cui forse non si parla molto, ed è quella in cui operano professionisti e uomini d’affari. Di cosa si tratta? Sono violazioni del codice penale: falsità di rendicontazione finanziaria nelle società (falso in bilancio), crimini societari, truffa, corruzione, frode, insolvenza fraudolenta, turbativa d’asta etc. Altre volte si tratta di operazioni complesse, si dice “di confine” perché non esplicitamente reati ma manipolazioni del diritto, e di conseguenza del tessuto sociale.
Sono crimini che possono essere messi in atto solo da chi possiede determinate competenze o qualifiche. I reati di questa specie sono commessi con dolo, ossia con coscienza e volontà della condotta che si pone in essere per un preciso scopo, lo scopo di lucro, il denaro.
Il primo studio su questo tipo di crimini si deve al criminologo statunitense Sutherland che nel suo libro del 1949 in “White Collar Criminality” definisce i crimini dei colletti bianchi come quelli commessi “da una persona rispettabile, o almeno rispettata, appartenente alla classe superiore, che commette un reato nel corso dell’attività professionale, violando la fiducia formalmente o implicitamente attribuitagli”.
Sino a quel momento gli studi criminologici partivano dal presupposto che il comportamento criminale fosse molto più frequente nelle classi inferiori e nelle persone disagiate.
Gli studi di Sutherland hanno invece messo in luce come la devianza fosse riscontrabile anche tra soggetti in possesso di un elevato status sociale, e, parlando di “colletti bianchi” dimostrò che si trattava di autori di reati che avevano ricevuto l’educazione migliore, ed avevano beneficiato di privilegi e ricchezza.
Da allora i reati dei colletti bianchi cominciarono ad essere oggetto di studi sociologici e criminologici: quando oggi parliamo di “colletti bianchi” ci si riferisce non solo a professionisti collusi con la mafia, a nomi legati a grandi scandali economici di risonanza internazionale, ma anche a professionisti di provincia che mantengono un basso profilo per gestire al meglio i loro “affari” o che fungono da “facilitatori” per i criminali, aiutandoli a nascondere la loro identità e attività attraverso società di comodo e transazioni finanziarie di varia natura.
L’ex Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, il magistrato Raffaele Cantone precedentemente in servizio presso la D.D.A. di Napoli, dov’era impegnato nella lotta contro la camorra, in particolare combattendo il clan dei “casalesi”, ha commentato, durante un incontro sulla corruzione organizzato presso l’università LUISS di Roma agli inizi dell’anno, di “rispettare” più i “casalesi” che i “colletti bianchi” poiché “mentre gli uni possono essere guardati frontalmente – ed è quindi relativamente facile catalogarli come nemici – non è possibile fare altrettanto con gli altri”.
L’episodio di violenza contro il rider di Cagliari, malmenato da un gruppo di ragazzi mentre stava facendo consegne in città la sera della finale italia Inghilterra non è stato un episodio isolato.
Un episodio analogo si è verificato a San Donà, in provincia di Venezia.A denunciarlo è un pensionato di settant’anni, pestato da dieci ventenni davanti casa: “una furia mai vista, potevano uccidermi”.” Mi hanno aspettato in branco quando sono sceso dall’auto”.
L’uomo, per anni autista di ambulanze al pronto soccorso dell’ospedale, è stato malmenato dopo una discussione per un parcheggio. Stava entrando nella sua abitazione con l’auto in sosta per aprire il cancello. Qualcuno gli ha urlato di spostarsi. Sceso dicendo che doveva rientrare in casa si è consumato il pestaggio. “Ero a terra, ma continuavano a picchiarmi”.
Spesso leggiamo che la causa scatenante dell’aggressività giovanile di cui sempre più spesso si sente parlare è la pandemia, che avrebbe slatentizzato un disagio che si manifesta con aggressività e violenza.
Il disagio emotivo, la frustrazione della propria libertà, lo stress avrebbero innescato reazioni violente come “valvola di sfogo”.
Eppure ormai da anni, molto prima della pandemia, è ad esempio in voga tra i giovanissimi il “Knockout game” , un “gioco” come definito da molti, ma che gioco non è, che prevede di colpire a caso i passanti sconosciuti con un pugno in pieno volto.
Far filmare l’accaduto dagli amici bulli per postare il video su youtube o su altri social e allontanarsi come se nulla fosse, è il fine di questo delirante comportamento. Da Milano, Venezia, Brescia a Roma, Palermo, Napoli, questo trionfo di demenza è giunto in Italia già dal 2014, quando si sono verificati i primi episodi.
Se è vero che nel particolare e difficile periodo di cambiamenti che è l’adolescenza, il confronto con l’altro è di vitale importanza per la formazione e crescita, per la costruzione dell’identità di un ragazzo, è fuorviante imputare ai lockdown vissuti a causa della pandemia “sic et simpliciter” il fenomeno dell’aggressività giovanile.
E’ forse più realistica la considerazione, frutto di studi di ricerca sui comportamenti devianti e criminali giovanili, che l’aggressività ed il comportamento antisociale hanno una loro genesi raramente riconducibile ad un’unica causa.
I fattori di rischio, utili da conoscere per prevenire il consolidamento di una carriera criminale non conseguenti a disturbi psichiatrici acuti e cronici, vanno da una carenza educativa da parte dei genitori (abusi o trascuratezza), all’appartanenza ad una cerchia di amicizie che promuovono la violenza, all’assenteismo scolastico in giovane età, all’uso abuso di droghe, allo stile violento appreso nella comunità e all’immediata fruizione di contenuti violenti nei mass media.
La prevenzione secondo gli studi specialistici è affidata ad una precoce educazione emotiva:il controllo del comportamento dei figli ed una migliore comunicazione affettiva possono aiutare a prevenire l’aggressività scaturente dall’incapacità di affrontare adeguatamente i problemi, dalla poca tolleranza alla frustrazione, dai problemi familiari.
Sara Pedri è una ginecologa 31enne di Forlì, innamorata della sua professione, in servizio all’ospedale di Trento, dove arriva a metà novembre dello scorso anno dopo aver vinto il concorso, e dopo aver concluso brillantemente la laurea specialistica a Catanzaro.
In pochi mesi la sua passione per il lavoro si trasforma in un incubo: il suo sguardo si spegne, la sua voce squillante si affievolisce, il suo sorriso sparisce, smette di mangiare. Quando si reca a Forlì a trovare i suoi genitori, la trovano deperita in modo preoccupante. La situazione nell’ambiente lavorativo per Sara era diventata insostenibile, non ne fa mistero: le vessazioni sul lavoro le tolgono “linfa vitale” ma lei resiste: “ non mollo” scriveva alle amiche ed al fidanzato.
A marzo Sara sparisce, dopo aver dato le dimissioni dall’ospedale in cui aveva preso servizio pochi mesi prima
Solo dopo la sua sparizione si è sgretolato il muro di omertà ed anche le sue colleghe cominciano a denunciare che la dottoressa è stata vittima di gravi persecuzioni professionali sul posto di lavoro: i racconti e le denunce fatti sui frequenti episodi di mobbing, a quanto pare all’ordine del giorno in quel reparto di ginecologia, giungono però quando oramai si teme il peggio: il ritrovamento della sua auto abbandonata nei pressi di un ponte a 40 Km da Trento ed il riconoscimento di tracce di Sara da parte dei cani molecolari nei pressi di un dirupo a ridosso del lago di Santa Giustina, non lontano da dove è stata rinvenuta la macchina, hanno fatto pensare al gesto estremo.
La Procura ha aperto un fascicolo e l’Azienda sanitaria ha avviato un indagine interna, mentre il Ministero della Salute ha inviato ispettori ministeriali che parleranno con le altre dipendenti, acquisiranno materiale, raccoglieranno ogni informazione utile per comprendere cosa accade nel reparto dove in due anni si sono già dimesse 11 persone.
I dipendenti del reparto hanno parlato di “abusi di potere, minacce continue e umiliazioni”. In altre parole di mobbing.
Il mobbing si concretizza in una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro esercitata da parte di un superiore gerarchico (cd. bossing o mobbing verticale) o dai colleghi (cd. mobbing orizzontale): questi con intento persecutorio, ripetutamente, per un lasso di tempo significativo, vessano con denigrazioni, messaggi ostili ed ogni altra azione moralmente scorretta il lavoratore preso di mira.
Tali comportamenti protratti nel tempo, quotidianamente, comportano gravi danni per la salute del dipendente: gli esperti dichiarano accertate importanti patologie derivanti dal mobbing: stress, ansia, depressione, aritmie, malattie dell’apparato cardio circolatorio, malattie legate al sistema immunitario, gastriti.
Il disagio psico fisico, quello procurato dal mobbing, può far entrare la vittima già prostrata dalle vessazioni, e quindi fragile, in una spirale che può condurre al suicidio.
Quanto alla denuncia di queste situazioni, la maggiore criticità sta nel fatto che per dimostrare la condotta lesiva perpetrata ai danni della vittima di mobbing servono i testimoni. Ed i testimoni sono i colleghi di lavoro, raramente disposti a testimoniare, soprattutto quando il mobbing è attuato dal datore di lavoro, poichè temono ripercussioni personali.
Consapevole di questa difficoltà la vittima si sente sempre più isolata ed impotente ed è questa la fase più pericolosa in cui si possono aggravare i disturbi psico fisici.
In una società civile come dovrebbe essere la nostra, lo spirito di colleganza, di solidarietà, potrebbero essere i più validi e concreti aiuti per evitare l’isolamento e la disperazione di queste vittime: quando ciò non accade, o accade “troppo tardi” l’individualismo, l’egoismo utilitaristico avranno vinto. Il resto saranno solo vuote parole di circostanza.
(Foto Ansa)
Fermiamoci un attimo. Questi episodi non possono restare solamente “una lettura di un fatto di cronaca”, uno dei tanti, che poi si scordano dopo qualche giorno, quando non se ne parla più.
Chiara Gualzetti, una ragazza di soli 16 anni che viveva con i suoi genitori in provincia di Bologna, intorno alle 10 della mattina di domenica 27 giugno è stata "colpita ripetutamente" da un coetaneo con una serie di fendenti con un coltello da cucina, secondo la ricostruzione della Procura per i minorenni di Bologna. Secondo l’accusa il delitto è stato commesso con l’aggravante della premeditazione.
L’assassino è un sedicenne descritto dal Gip del tribunale per i Minorenni di Bologna, nell'ordinanza con cui ha convalidato il fermo e disposto la custodia in carcere, come un ragazzo "al momento capace di intendere e di volere", soprattutto rispetto "a un reato il cui concetto illecito è di immediata percezione. E ciò anche nel caso di eventuali problemi psicologici, quali in effetti e precedentemente ai fatti già occasionalmente emersi".
Il giudice parla di "vita regolare costantemente condotta" di "ambiente familiare sostanzialmente adeguato", "studi positivamente frequentati" e dei "lucidi e freddi tentativi di nascondere le tracce del delitto e di negare le responsabilità".
Davanti al Gip il sedicenne ha ribadito le dichiarazioni fatte nell'interrogatorio davanti agli inquirenti, nelle quali aveva confessato il delitto “Ricordo che non moriva e mi sono stupito di quanto fosse resistente il corpo umano” avrebbe detto il 16enne.
La misura cautelare della custodia in carcere si è resa necessaria per il pericolo di reiterazione del reato . “La estrema violenza e la determinazione dimostrate durante tutto il corso dell'aggressione, che ha avuto una durata significativa, e soprattutto l'incapacità di autocontrollo rende particolarmente elevata la pericolosità attinente al rischio di reiterazione del reato" dichiara il gip .
Un omicidio espressione di una patologia psichiatrica?
Ammettiamo anche per un momento che, disposta la perizia psichiatrica, questa rilevi gravi patologie mentali tali da scemare grandemente o escludere la capacità di intendere e di volere al momento del fatto: una eventuale patologia poteva essere riconosciuta precocemente e trattata sul nascere, prima che portasse a conseguenze irreparabili?
Se invece il ragazzo risulta capace di intendere e di volere al momento del fatto, e si escludono quindi forme patologiche psichiatriche gravi, viene spontaneo chiedersi se si poteva prevenire tale esplosione incontenibile di violenza e ferocia. Aveva già manifestato in passato violenza ed aggressività quali campanelli d’allarme di un disturbo nella regolazione delle emozioni? Perchè violenza è sinonimo di fallimento della propria capacità di gestire frustrazioni, della capacità di gestire le emozioni.
Forse, nonostante si cerchi di parlarne molto, la nostra società non è abbastanza attenta alla sfera psichica ed emotiva.
L’età critica per l’insorgere dei disturbi psicologici, psichiatrici, è quella compresa tra i 15 ed i 25 anni di età.
Frequenti in questa fascia d’età anche le diagnosi di disturbo della condotta “un grave problema neuropsichiatrico caratterizzato ad esempio da estrema aggressività, uso ripetuto di armi e droghe e comportamenti menzogneri e fraudolenti.” È emerso da una ricerca internazionale condotta in collaborazione da l’Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ e il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) che questo disturbo non è “semplicemente” una forma di esagerata ribellione alle regole della società, ma un problema cerebrale: il cervello degli adolescenti con gravi comportamenti antisociali è molto differente dal punto di vista anatomico rispetto a quello degli adolescenti che non mostrano tali comportamenti.
L’ importanza della prevenzione per la diagnosi precoce nel caso di un tumore è oramai nota a tutti; forse non è così nota a tutti l’importanza della diagnosi precoce dei disturbi che riguardano la sfera emotiva e psichica dei ragazzi: ciò richiede certamente un’attenzione maggiore agli aspetti della personalità che troppo spesso vengono sottovalutati. Un’attenzione empatica e non giudicante da parte in primis della famiglia e poi della scuola, una presenza vigile per monitorare i segnali e saper distinguere precocemente un comportamento insolito occasionale da un disagio che bisogna cercare di capire e approfondire con l’aiuto ed il sostegno degli esperti, per poterlo affrontare e superare.
Saman Abbas è una ragazza di 18 anni di origine pakistana scomparsa da quasi un mese e mezzo da Novellara, nella Bassa Reggiana.
A ottobre del 2020 fuggì dal matrimonio combinato con un suo cugino connazionale in Pakistan, suscitando l’indignazione della famiglia pakistana, come raccontò un testimone riferendo le parole che avrebbe detto la madre: “Come facciamo a spiegarlo in Pakistan? È un disonore, una vergogna per la nostra famiglia”.
Saman aveva denunciato gli abusi da parte della famiglia già nel 2020. Era stata ospitata in una casa famiglia per minorenni, ma una volta raggiunta la maggiore età era tornata a casa per riprendere i documenti che il padre invece continuava a negarle e chissà, forse anche credendo nel bene della sua mamma che tramite messaggio, invitandola a rientrare a casa, le scriveva : “Ti prego fatti sentire, torna a casa. Stiamo morendo. Torna, faremo come ci dirai tu”. Una trappola per un omicidio già premeditato? Era il 22 aprile.
Saman temeva per la sua vita: “Ho sentito che dicono uccidiamola, una cosa del genere. L’ho sentito con le mie orecchie, ti giuro che stavano parlando di me, non sono fiduciosa, se non mi faccio sentire per due giorni allerta le Forze dell’ordine” questo un messaggio che la ragazza aveva inviato al fidanzato prima di sparire da casa sua; fidanzato anche lui pakistano ma residente in Italia, di cui Saman era molto innamorata e con il quale avrebbe trascorso qualche giorno a Roma tra l’11 ed il 22 aprile, prima di rientrare a casa a recuperare i documenti. Verosimilmente anche questa fuga d’amore può aver avuto un peso decisivo come movente del delitto.
I Carabinieri il 5 maggio erano andati a casa di Saman per concordare una nuova sistemazione per lei, con i servizi sociali, senza però trovare nessuno. Saman era già sparita . Subito i sospetti si concentrarono sulla famiglia che nel frattempo, aveva fatto in gran fretta rientro in Pakistan. Le indagini, anche sulla base di un video indiziario recuperato da una telecamera nei pressi della loro casa, si concentrano su cinque persone: i genitori, uno zio e i due cugini.
Il testimone minorenne che con le sue dichiarazioni aveva sin da subito rafforzato i sospetti degli inquirenti è il fratello sedicenne della ragazza scomparsa. "Mio zio Danish ha ucciso Saman, ho paura di lui, perché mi ha detto che se io avessi rivelato ai carabinieri quanto successo, mi avrebbe ammazzato".
La conferma è arrivata durante l’incidente probatorio la mattina di venerdì 18 giugno, al tribunale a Reggio Emilia, disposto dopo che il fratello di Saman, testimone chiave, aveva tentato di fuggire dal centro protetto dove era ospite .Fuga forse sollecitata da qualche telefonata visto che già il primo maggio una vocale inviato su whatsapp, forse dalla madre, lo ammoniva“ Figlio mio, se ti chiedono qualcosa di lei tu non devi dire niente”
Il fratello sedicenne di Saman Abbas, ha confermato durante l’audizione protetta durata quasi tre ore, quanto già aveva detto agli inquirenti sull'omicidio della sorella : lo zio, 33 anni, gli avrebbe confessato di aver ucciso la giovane: la sua colpa sarebbe stata quella di opporsi a un matrimonio combinato e di voler andarsene dalla famiglia, dopo essere ritornata a casa per un breve periodo.
Questa vicenda ha probabilmente un nome: si chiama “karo kari”, è una condanna a morte per il disonore causato alla famiglia dalle relazioni avute prima del matrimonio o da relazioni extraconiugali, oppure dal rifiuto di un matrimonio già combinato: in Pakistan una legge del 2016 vieta questa pratica che però di fatto sfugge al controllo delle autorità. Proprio il Pakistan conta il numero pro capite più elevato al mondo di delitti d’onore documentati.
È il sistema patriarcale pakistano che pesa, anche per le comunità che si costituiscono all’estero, soprattutto in piccoli paesi di provincia. I ragazzi e le ragazze di seconda generazione vivono una vita piena di grandi sofferenze: questi giovani portano con loro, ovunque vadano anche da migranti, il fardello arcaico del patriarcato.
E’ di pochi giorni fa la notizia del ritorno in libertà di Giovanni Brusca.
Giovanni Brusca, è stato un mafioso, dal 1996 collaboratore di giustizia, in passato esponente di rilievo di Cosa Nostra, condannato per più di 100 omicidi tra cui quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito, rapito e sciolto nell’acido; nonchè per la strage di Capaci in cui perse la vita il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta.
La sua ferocia gli valse il soprannome di “scannacristiani”. Arrestato nel 1996, grazie alla sua collaborazione ha evitato l’ergastolo convertito nella pena a 30 anni: con uno sconto di pena di 45 giorni ogni sei mesi per buona condotta, i 30 anni sono diventati 25 ed è così che l’odierno 64enne ha varcato le porte del carcere; d’altro canto in cambio lo Stato ha ricevuto importanti rivelazioni decisive nella lotta contro la mafia.
La notizia della sua scarcerazione ha detonato comprensibilmente reazioni violente soprattutto tra le famiglie delle sue vittime. E’ proprio la sorella del Giudice Falcone che dichiara “Un pugno nello stomaco che lascia senza respiro”, aggiunge “ Ma questa è la legge. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso. La stessa magistratura in più occasioni ha espresso dubbi sulla completezza delle sue rivelazioni, soprattutto quelle relative al patrimonio che, probabilmente, non è stato tutto confiscato: non è più il tempo di mezze verità e sarebbe un insulto a Giovanni, Francesca, Vito, Antonio e Rocco che un uomo che si è macchiato di crimini orribili possa tornare libero a godere di ricchezze sporche di sangue.”
Se umanamente questa liberazione scuote gli animi e crea indignazione, bisogna comunque ricordare che tale scarcerazione è avvenuta per una legge: legge il cui impulso è stato dato da Giovanni Falcone, che stabilisce che chi si dissocia e collabora con lo Stato può avere un trattamento più favorevole anche riguardo la pena da scontare.
In questo modo, grazie alle collaborazioni con la giustizia, si sono potuti conoscere molti segreti di cosa Nostra, sono state fornite “numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa Nostra... dando “una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice” (cit. Giovanni Falcone).
I mafiosi del calibro di Brusca, se non collaborano con lo Stato, sono sottoposti all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario che prevede l’ergastolo “ostativo”: ciò significa che in base a tale norma non è consentita l’applicazione di nessun beneficio penitenziario laddove non vi sia una collaborazione: l'applicazione dell’ergastolo ostativo consiste nel “fine pena mai”.
Con sentenza del 2019 la Corte Costituzionale ha tuttavia stabilito che l’ergastolo ostativo è incompatibile con la nostra carta costituzionale; per la Consulta, l’esclusione dei benefici penitenziari ai condannati all’ergastolo per reati di mafia, che non abbiano collaborato con la Giustizia, è contraria all’ art. 27 Costituzione all’art. 3 della CEDU.
La Corte ha dato un anno di tempo al Parlamento per approntare una nuova disciplina che tenga conto della natura dei reati di mafia da un lato e che dall’altro preservi l’importanza della collaborazione con la giustizia.
Raggiri e manipolazioni, truffe che corrono on line: la polizia postale spiega che le condizioni di vulnerabilità delle vittime sono non tanto lo status sociale o culturale, quanto la fragilità, la solitudine e la mancanza di tempo da dedicare a frequentazioni reali.
Una prima richiesta di amicizia online, un profilo Facebook apparentemente reale, corredato da molte foto (rubate dal web) ed il/la malvivente inizia un corteggiamento serrato della vittima, carpendone fiducia e confidenze, dopo aver condotto un vero e proprio studio attraverso i social sulle sue abitudini di vita, sui suoi interessi, sulle sue amicizie.
Lo scambio dei numeri di telefono, l’invio di messaggi scritti ed audio che riempiono la giornata del/la malcapitato/a facendola sentire “di nuovo viva”. La vittima abbassa le sue difese ed aumenta il suo coinvolgimento, che ben presto diventa un vero e proprio innamoramento con tutti gli slanci, le emozioni e le aspettative che appartengono a questo sentimento.
Inutile dire che i sedicenti “innamorati” virtuali, dopo aver “aperto il cuore della vittima ”con l’inganno, iniziano ben presto ad avanzare richieste di denaro: le motivazioni sono le più disparate: gravi problemi di salute, la mancanza di mezzi economici per raggiungere la vittima (che solitamente vive dall’altra parte del mondo del sedicente corteggiatore), addirittura non è infrequente, spiega la dirigenza della Polizia Postale, vengano richiesti bonifici per comprare una casa dove poter vivere finalmente insieme. Le richieste sono ingenti, arrivano generalmente a 50.000, 100.000 euro, quando non di più.
A definizione di un caso finito nelle aule di giustizia, ai danni di un uomo raggirato da un’ avvenente giovane donna che più che una storia d’amore con lui, aspirava ( ed ha ottenuto) al suo denaro, la Cassazione , con sentenza 3651/2021, ha precisato che “la truffa non si apprezza tanto per l’inganno in sé riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo".
La messa in scena di “una situazione atta a far scambiare il falso con il vero” può avvenire anche nel mondo reale, oltre che virtuale.
Il sentimento su cui fanno leva questo tipo di truffatori/truffatrici nel mondo reale non è sempre e solo l’amore. Può capitare che le truffe, sempre finalizzate ad estorcere denaro, si realizzino sfruttando l’empatia, la disponibilità, la generosità della vittima.
Questi soggetti prima diventano amici delle proprie vittime (non sono mai vittime a caso, ma sempre prescelte in virtù del loro benessere economico), poi si fanno prestare soldi, con l’assicurazione di una rapida restituzione che invece sistematicamente non avviene; le scuse sono le più varie: solitamente dichiarano di essere in attesa di entrare in possesso di ingenti somme di denaro ottenute grazie a fortunati investimenti. Gli amici creditori, rassicurati in tal senso, spesso concedono rinvii nel pagamento, ai quali corrispondono nuove richieste da parte del debitore/debitrice: “ è questione di giorni e ti restituirò tutto, anzi anche di più”..I giorni diventano mesi..poi anni.. e spesso queste situazioni si concludono con una perdita economica definitiva e con un “amico” che sparirà con la stessa facilità con cui è comparso.
Lasciando da parte gli amici improvvisati contattati in rete, molti hanno l’amico a cui hanno prestato dei soldi che non hanno più rivisto. Un vecchio proverbio popolare dice: “ chi presta soldi all’amico, perde quello ed il denaro”.
È un caso di cui si parla molto in questi giorni, quello della presunta violenza da parte di quattro ragazzi tra i quali Ciro Grillo, ai danni di una ragazza conosciuta la sera stessa del presunto reato a Porto Cervo, in Sardegna.
Un po’ di tempo fa, durante la trasmissione “Non è l’Arena”, uno di loro si è lasciato sfuggire una frase che contraddice la versione della difesa dei ragazzi, quella cioè della presunta consensualità della diciannovenne ai rapporti sessuali.
La frase è la seguente: “Non l’abbiamo costretta a bere, è lei che l’ ha presa (la bottiglia di vodka, ndr) Noi non riuscivamo a berla, e lei ha detto “dai che ce la faccio” e se l’ è bevuta”.
Perchè a queste parole l’impianto difensivo vacilla?
Perchè ciò significherebbe che la notte tra il 16 e 17 luglio, quando si sarebbero verificati i fatti, la ragazza si trovava in uno stato di inferiorità fisica e psichica che non le avrebbe consentito di prestare un valido consenso.
Il secondo comma dell’art. 609 bis c.p. – violenza sessuale- sanziona la condotta di colui che abbia persuaso-indotto la vittima a compiere o a subire atti sessuali ottenendo un consenso viziato...a causa della sua condizione di inferiorità, della quale egli abbia abusato. “Rientrano nelle condizioni di inferiorità psichica anche quelle conseguenti all’ingestione di alcolici o all’assunzione di stupefacenti, poichè anche in tal senso si realizza una situazione di menomazione della vittima che può essere strumentalizzata per il soddisfacimento degli impulsi sessuali dell’agente”. Secondo consolidata giurisprudenza non rileva, quando le condizioni di inferiorià siano derivate dall’assunzione di bevande alcoliche o di droga, che tale assunzione sia stata frutto di volontaria deliberazione della stessa persona offesa.
Se pur la scelta di bere quantità esagerate di alcolici, come mezza bottiglia di vodka, possa essere discutibile e di poco buon senso, ciò non ha nulla a che vedere con quegli insopportabili luoghi comuni del tipo “se l’è cercata” o ancora “ ma lei era d accordo”poichè è esperienza comune che elevati quantitativi di alcool alterano la percezione e rendano nulla la capacità di prestare il proprio consenso in modo consapevole.
Non conta che la vittima appaia accondiscendente, o addirittura disinibita, poichè tali stati, in caso di abuso di alcool sono indotti dallo stesso, che limita grandemente o elimina del tutto la capacità di intendere e di volere e quindi, di prestare il proprio consenso.
Giorni fa Beppe Grillo ha pubblicato un video che ha suscitato fortissime polemiche perché ha sostenuto la difesa del figlio in modo volgare e senza alcuna sensibilità nei confronti della ragazza e della sua famiglia.
Spetterà al giudice, peritus peritorum, valutare le prove audio e video raccolte durante le indagini e ricostruire i fatti per giungere ad una verità processuale che garantisca giustizia. Decisivo infatti sarà constatare dai video l’effettiva capacità di autodeterminarsi della ragazza, o accertare una eventuale compromissione di tale capacità causata dagli alcolici assunti.
Il primo omicidio della storia dell’uomo è narrato nella Bibbia: Caino e Abele sono i primi due figli nati da Adamo ed Eva dopo la cacciata dal giardino dell’Eden. Abele è il prediletto da Dio, Caino suo fratello maggiore ne è invidioso; tale sentimento lo porta ad “alzare la mano contro il fratello” e ucciderlo.
Questo omicidio consente di ricordare che la violenza è sempre esistita e che nell’essere umano, da sempre, albergano emozioni e sentimenti riprovevoli che influenzano la condotta: tra questi vi è l’invidia.
L’ invidia è un sentimento sottovalutato, di cui si parla poco, che resta celato: ammettere di provare invidia significherebbe dichiarare la propria inferiorità nel confronto con l’altro. Essa poggia sulle passioni primitive dell’animo umano, nasce dalla frustrazione per ciò che non si è raggiunto, e che invece altri, accanto a noi, hanno conquistato: invidia nasce su un sentimento di mancanza, di inferiorità, di rivalità.
L’invidia è uno dei sette peccati capitali, è un sentimento che induce a rammaricarsi per la felicità altrui, a desiderare che l’invidiato perda i suoi beni, induce a vivere il successo dell’altro come un’offesa alla propria autostima.
Quando si prova invidia verso qualcuno si tende a sminuirne le qualità e si prova un senso di ingiustizia per non avere ottenuto altrettanto: questo sentimento inquina la vita di chi lo prova e diventa distruttivo e doloroso non solo per lui ma anche per chi ne è l’oggetto.
A volte però può nascere anche un senso di emulazione e sana competizione: in una personalità sana, caratterizzata da tolleranza alle frustrazioni, empatia,capacità di adattamento all’ambiente e in generale capacità di gestire le proprie emozioni,l’invidia può essere un sentimento trasformato in motore per migliorare sè stessi.
Ci sono però anche casi diversi; casi in cui l’invidia diventa il motore potente dell’agito violento.
Pensiamo all’ omicidio dei fidanzati di Lecce del settembre 2020, uccisi nella loro abitazione con 79 coltellate da un 21enne reo confesso, ex coinquilino della coppia cui era stato chiesto di interrompere la condivisione dell’appartamento.
Come dichiarò il comandante provinciale di Carabinieri di Lecce rispondendo alle domande dei giornalisti sull’omicida:
“Verosimilmente qualcosa gli ha dato fastidio, ascrivibile ad un senso di invidia per la felicità, la solarità, la gioia di vivere di questi giovani che non riconosceva in se stesso, nelle poche amicizie che aveva”.
Secondo la perizia psichiatricha sul ragazzo, richiesta dalla Corte d’ Assise di Lecce, depositata la scorsa settimana, egli “non è affetto da patologie che compromettono la sua capacità di intendere e di volere”.
L’imputato sarebbe affetto da “una grave forma di narcisismo con disregolazione degli stati emotivi e comportamentali”.
In tali personalità prevalgono la mancanza di empatia, deputata ad inibire l’agito violento,una tendenza manipolatoria della realtà, una ridotta tolleranza alle frustrazioni e una disfunzionale regolazione emotiva.
L’invidia è il sentimento principale che alimenta le forme più gravi di narcisismo, disturbo prodotto dall’effetto di fattori ambientali, relazionali familiari e temperamentali. Il modello narcisistico è un modello disfunzionale di risposta a bisogni emotivi cronicamente non corrisposti in età precoce dalle figure di riferimento.
Torna l'appuntamento con la rubrica settimanale "La Strada delle Vittime", nella quale si affronta l'analisi della casistica criminale con approccio vittimologico.
24 aprile 2021, Reggio Emilia: un giovane 21enne allerta i soccorsi per un incendio divampato nella casa dei suoi genitori. Giunte sul luogo le forze dell’ordine hanno scoperto il corpo senza vita di Paolo Eletti, il padre, e hanno trovato la moglie della vittima riversa in un lago di sangue con i polsi tagliati, in stato di semi-incoscienza.
All’esito delle indagini è stato arrestato del figlio della coppia, con l’accusa di omicidio e tentato omicidio.
Il movente sarebbe da ricercarsi in una diatriba per questioni patrimoniali, di cui da tempo sembra che discutessero genitori e figlio.
23 aprile 2021, Napoli: Elena 18 anni e Giovanni, quasi 23, hanno ucciso il padre di lei perché si opponeva alla loro relazione. I due hanno confessato l’omicidio aggiungendo di aver pianificato la strage: avrebbero voluto sterminare l’intera famiglia, il padre, poi la moglie e la figlia più piccola.
Quest’ultimo caso ci riporta inevitabilmente alla memoria l’omicidio di Novi Ligure, portato a termine da Erika e Omar, 16 e 17 anni, che nel 2001 uccisero madre e fratellino piccolo di lei e che, secondo l’accusa, avevano progettato di uccidere anche il padre, in quel momento fuoricasa.
È interessante riflettere su un frammento di un’intervista al magistrato che seguì il caso dei ragazzi di Novi Ligure 20 anni fa:
“Il movente dichiarato era che i due ragazzi volevano vivere una dimensione di libertà assoluta in quella casa, dove sarebbero stati soli visto che il progetto era uccidere anche il padre. Però, entrambi godevano già di una grandissima libertà. I motivi più profondi vanno cercati nel rapporto che Erika aveva con i propri genitori e soprattutto con sua madre (..) Non c’era una comunicazione autentica. C’erano dei tentativi da parte di questa mamma di aprire un dialogo, che però riuscivano inadeguati allo scopo. Non c’era uno scambio di emozioni, ma tutto avveniva su un piano di adeguatezza formale”.
Il movente che accomuna questi omicidi è il fine utilitaristico. Di fatto questi figli eliminano il genitore quasi fosse “semplicemente” un ostacolo ai propri desideri consumistici: il patrimonio economico, la libertà, diventano beni primari e prioritari addirittura rispetto al valore vita di un essere umano. Al valore vita di un genitore.
Entrare nelle famiglie con giudizi affrettati, famiglie delle cui dinamiche non sappiamo nulla, è rischioso.
Tuttavia forse non è così distante dalla realtà dire che questi ragazzi sono abituati a ricevere, ma non a dare.
L’amore spesso nella nostra società, anche nei confronti dei figli, fin dalla più tenera età, viene “scambiato” e veicolato attraverso beni materiali. Ecco che il genitore per il bambino che cresce, diventa la figura attraverso cui ottenere ed ancora ottenere; un mezzo attraverso cui ricevere la soddisfazione dei propri desideri. Ciò può condurre ad una crescita sana, valoriale ed emotiva di un figlio, se non è cresciuto anche nel rispetto, nell’amore e nella capacità di accettare dei sani ed educativi “no”? E quando quel “genitore - mezzo” smette di dare, o si oppone all’improvviso a quello che oramai è diventato l’automatismo del chiedere/avere, cosa accade? Certamente non tutti giungono a concretizzare l’uccisione del proprio genitore, ma le esperienze di psicologi e psicoterapeuti che nei loro studi sentono parlare di odio nei confronti dei genitori, sono molto maggiori di quanto si possa pensare.
Matricidio, parricidio e parenticidio sono casi di cronaca in cui i figli si sono macchiati di questi delitti. Stupiscono la giovane età degli assassini che sono adolescenti o poco più, la freddezza nel compimento dell’omicidio, l’assenza di rimorso. Queste storie drammatiche che hanno visto madri e padri massacrati sconvolgono l’opinione pubblica per la loro efferatezza; si è quasi incapaci di comprendere questi figli che uccidono i genitori, questi figli che pongono fine alla vita delle persone che hanno dato loro la vita.
Torna l'appuntamento con la rubrica settimanale "La Strada delle Vittime", nella quale si affronta l'analisi della casistica criminale con approccio vittimologico:
"La vittima è Marco Vannini, il ventenne ucciso da un colpo di pistola nella notte tra il 17 e il 18 maggio del 2015 nella villetta dei genitori della fidanzata, la famiglia Ciontoli.
Il processo per la sua morte si è definitivamente concluso il 3 maggio scorso con la sentenza della Cassazione che ha confermanto quanto stabilito dalla Corte D’Appello, e ha condannato in via definitiva Antonio Ciontoli a 14 anni di carcere per omicidio volontario con dolo eventuale, la moglie e i figli a 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo in omicidio volontario.
Il papà e la mamma di Marco, Valerio e Marina, hanno atteso fuori dalle aule la sentenza.
“Non sono stata presente alla lettura della sentenza - ha raccontato Marina Vannini, intervistata dai microfoni di Chi l’ha visto - Ho sentito un boato e ho capito che era andata come volevamo noi. Il mio primo pensiero è stato quello di mandare un messaggio sul telefono a mio figlio. Gli ho scritto che era andato tutto come mi aveva detto lui. Perché io me l’ero sognato una settimana fa e me l’ero tenuto solo per me. Era una cosa mia. Perché poi avevo paura che non andava così. Gli ho detto: Marco, il sogno si è avverato”.
Marina condivide con l’intervistatrice un’amara quanto reale considerazione: sembra che in tutto questo iter processuale Marco sia rimasto nascosto.
E’ così. Se è vero che l’attenzione del pubblico viene molto spesso catalizzata dalla figura del reo e dalla curiosità, a volte morbosa, sugli sviluppi delle indagini, è anche vero che proprio per questa ragione, spesso la vittima rimane solo un’ombra sullo sfondo, un oggetto passivo del reato.
Ci sembra giusto e doveroso quindi, tra le tante notizie di approfondimento e di cronaca giudiziaria pubblicate sul caso, ricordare chi era Marco Vannini. E quali sono le migliori parole da usare, se non quelle dei suoi genitori che hanno di fronte ai loro occhi, ogni giorno, il suo sorriso meraviglioso.
“Marco era un ragazzo sempre disponibile, sempre pronto ad aiutare tutti. Ma non perchè era il mio Marco, potrebbero pensare che lo dico perchè sono a mamma, ma proprio perchè era così”
La mamma prosegue: “Marco era un ragazzo che aveva tanti sogni nel cassetto, aveva vent’anni quando è stato ucciso”.
“Il sogno più grande di Marco era volare con le Frecce Tricolori” e la mamma è convinta che ci sarebbe riuscito perchè era ambizioso; aggiunge “forse oggi che avrebbe 26 anni il suo sogno si sarebbe realizzato, quindi io lo voglio immaginare così sfrecciare nel cielo con le Frecce Tricolori”.
Anche il papà Valerio si aggiunge al ricordo di Marina e lo immagina così, sfrecciare nel cielo.
Valerio condivideva con il figlio la passione per le moto, uscivano spesso insieme; “un figlio ma anche un fratello, un rapporto molto forte, tanti i bei ricordi di quando uscivano in moto insieme”.
Le sensazioni di oggi, quando con la testa chiusa nel suo casco sente Marco “come se gli fosse addosso” sono bellissime, dice il papà, “ma la cosa brutta è che purtroppo ci parli ma non ti può risponedere. Solo ricordi, ricordi e sensazioni”.
Marco è stato l’orgoglio di due genitori che, spiegano, l’hanno visto crescere bello, buono ed educato.
“Viviamo l’ergastolo della sofferenza” questa la frase del papà di Marco che esprime la tragicità del dolore senza fine in cui vivono i due genitori.
Se la famiglia Ciontoli si fosse attivata per chiedere subito i soccorsi, scrive il giudice nella motivazione della sentenza, Marco si sarebbe potuto salvare.
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“L’impronta scarlatta dell’assassino che scagiona la Franzoni” fu la notizia riportata da tutti i maggiori quotidiani nazionali dell’epoca, quando tutta Italia era mediaticamente coinvolta dal delitto avvenuto a Cogne, in cui fu ucciso il piccolo Samuele.
Ma qualcosa non quadrava! Furono i consulenti tecnici incaricati dalla Procura di Aosta che scoprirono che la famosa “impronta dell’assassino” non era stata impressa sul sangue e/o col sangue, bensì che era stata stampata come un timbro sul luminol. Fu scoperto che prima era stato spruzzato il luminol e che l’impronta era arrivata solo dopo. Cosa era accaduto? Lo ammise in aula con deposizione spontanea in un’udienza del Cogne bis, il fotografo svizzero che fu accusato di aver inquinato la scena del delitto del piccolo Samuele Lorenzi:
“Per errore ho lasciato l’impronta sulla porta della camera da letto della villa di Cogne, dove mi ero recato per fare fotografie ai risultati del trattamento del luminol per conto del collegio difensivo – ha detto – e volevo presentare le dimissioni dall'istituto per cui lavoro, ma i miei superiori mi hanno dissuaso dal farlo perché la condizione in cui avevo lavorato quella notte poteva spiegare un incidentale contatto con la porta”.
Il delitto di Cogne ebbe immediatamente un forte impatto mediatico. I carabinieri preposti alle indagini si trovarono innanzi ad una scena del delitto compromessa a causa dei numerosi accessi sui luoghi anche a seguito dei tentativi di soccorso di numerose persone.
Alla fine, arriva la svolta e viene accusata di omicidio volontario la madre del piccolo Samuele, Annamaria Franzoni. A 19 anni dal terribile delitto la donna, che dopo anni di detenzione è ritornata in famiglia, non ha mai confessato la sua colpevolezza mentre gli esperti, nel giugno del 2006, conclusero che la Franzoni avrebbe sofferto di un grave disturbo di personalità e avrebbe compiuto il delitto in uno “stato crepuscolare” per cui può aver ucciso il suo bambino ma l’ avrebbe rimosso.
Il caso è risolto ma molti ancora si chiedono se Annamaria è colpevole o innocente.
Questo è solo uno, forse il primo di tanti casi mediaticamente altisonanti, in cui si è iniziato a parlare dell’importanza della fase del sopralluogo, che ha quale fine quella importantissima di assicurare le fonti di prova, chiarire la dinamica del crimine ed identificarne l’autore.
L’analisi della scena del crimine è una tappa fondamentale delle indagini che nella maggior parte dei casi diventa determinante per la risoluzione del caso stesso.
Proprio per questa sua rilevanza occorre adottare tutta una serie di regole per un corretto intervento.
Le indagini tecniche consistono in un’opera di ricerca che ripercorre a ritroso l’iter del crimine per ricostruire, tra l’altro, lo scenario, il modus operandi dell’autore, fornendo utili dati per la sua identificazione.
La legge in Italia non prevede l’individuazione del così detto ”Responsabile della scena del crimine”: ossia di una figura istituzionale che si faccia carico di conservare il più intatto possibile l’ambiente interessato da un delitto. Eppure la conservazione ottimale del luogo del delitto è una componente indispensabile per raccogliere prove “non corrotte”, utili ai fini delle indagini. Un reperto degradato, mal conservato, contaminato da agenti esterni non potrà rivelarsi decisivo in sede dibattimentale, una scena del crimine mal gestita può dar luogo a gravi conseguenze.
Proprio per l’importanza che le tecniche investigative assumono nell’indagine su di un fatto delittuoso, esse richiedono la conoscenza e l’attuazione di adeguati protocolli di svolgimento e una specifica e sempre aggiornata professionalità in chi le compie.
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Quando si parla di reato come fenomeno relazionale all’interno della coppia, può accadere di non avere nemmeno la consapevolezza di trovarci di fronte ad un episodio configurabile come reato.
Ci sono azioni violente, prevaricazioni, che spesso banalizziamo con espressioni di uso comune ma che invece integrano una violazione al codice penale e, prima ancora, una lesione a diritti costituzionalmente garantiti.
Quando sottrarre lo smartphone al partner diventa reato?
A rispondere è la Corte di Cassazione con diverse pronunce; l’ultima depositata a marzo di quest’ anno ha affrontato il caso di due partners conviventi (Cass.pen., Sez II, n.8821/2021).
Commette reato il partner che sottrae al compagno/a, contro la sua volontà, il cellulare per scoprire prove sulla sua infedeltà. Anche se conviventi, ciò non giustifica la sottrazione dello smartphone, comportamento che integra una condotta antigiuridica, un’intrusione nella sfera di riservatezza della vittima.
Nel caso di specie, l’imputato sosteneva la liceità del proprio comportamento, in quanto la convivenza, secondo la sua difesa, comportava un consenso tacito alla conoscenza di ogni comunicazione anche personale del coniuge.
Il suo ricorso tuttavia è stato respinto dalla Suprema Corte, che ha affermato che la tesi sostenuta dal ricorrente urta contro la giurisprudenza consolidata secondo la quale “l’impossessamento del telefono contro la volontà della donna integra una condotta antigiuridica, e l’ingiusto profitto consiste nell’ indebita intrusione nella sfera di riservatezza della vittima, con la conseguente violazione del diritto di autodeterminazione nella sfera sessuale, che non ammette intrusione da parte di terzi e nemmeno del coniuge”
Di fatto, se non viene chiesta l’autorizzazione al legittimo proprietario, ma con violenza o minaccia ci si impossessa del suo cellulare si commette il reato di rapina, mentre commette reato ex articolo 615 ter c.p. (accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico) chi con l’inganno, abusivamente accede a chat di messaggistica private del partner.
Una delle basi del rapporto di coppia dovrebbe essere la fiducia; la garanzia della serenità e felicità di coppia non dipende certo dalla “capacità di controllo” sul partner.
Il bisogno di controllo è spesso dettato dall’ insicurezza nella relazione, dall’ansia, dal dubbio che può diventare devastante e che spesso, se alimentato, va a minare proprio quella fiducia su cui la coppia si fonda (o si dovrebbe fondare).
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Lui, I.B., 45 anni, lei M.C. 48 anni, insegnante, entrambi italiani; lei ha deciso dopo circa sei anni di convivenza e una figlia nata dalla loro relazione, che non lo vuole più e quindi una sera, senza preavviso, lo spintona con violenza fuori dalla porta e si chiude in casa.
Sono già da tempo ai ferri corti. A distanza di pochi giorni la donna sporge querela, denunciando l’ex compagno per stalking e minacce. Lui imputato, lei la vittima.
Ma è andata proprio così?
All’esito delle indagini non sembra. Anzi, innanzi al Giudice la situazione si è completamente ribaltata. Lui è stato prosciolto da ogni accusa mentre la donna è stata riconosciuta colpevole di due diversi episodi di violenza dall’autorità giudiziaria di Venezia, con l’accusa di lesioni personali ai danni dell’ex convivente.
In realtà gli episodi di aggressione da parte della donna erano stati numerosi e risalenti nel tempo.
I più violenti che hanno portato alla condanna della donna, e hanno costretto il quarantacinquenne a rivolgersi alle cure mediche, si sono verificati ben prima della loro rottura.
In una prima occasione la donna aveva colpito il compagno alla testa con un pugno, utilizzando un grosso mazzo di chiavi per rendere l’impatto più violento, tanto da provocargli una lesione dell’arcata sopraccigliare.
Il secondo episodio denunciato dall’uomo, difeso dal noto penalista avv. Alessandro Menegazzo del foro di Venezia, lo ha visto vittima di un’aggressione da parte di lei conil ferro da stiro bollente, che, compresso contro la schiena e contro un braccio, gli ha provocato ustioni di secondo grado.
La donna, non affetta da alcuna patologia, oltre ad aver perpetrato tali forme di violenza fisica, dopo la separazione ha violato per almeno 5 anni l’ordine del giudice di far vedere la bambina al padre: di fatto gli impediva di vedere e tenere con sèla figlia con le modalità preveste dal decreto del tribunale. Tali episodi sono oggetto di un altro procedimento tuttora in corso.
Mi chiedo, e chiedo all’Avvocato Menegazzo, quali siano le ripercussioni sulla figlia minorenne della coppia: “La ragazzina” spiega l’Avvocato, “sensibile, intelligente e brava a scuola, appena ha avuto la possibilità di decidere, è andata a vivere con il papà. Il fatto che una ragazzina di 15 anni scelga di vivere con il padre è già di per se indicativo delle sofferte dinamiche familiari violente, procurate dalla madre”.
Quando alla base della decisione di commettere un reato c’è l’appartenenza di un soggetto ad un genere piuttosto che ad un altro si parla di violenza di genere. Ma quando, come in questo caso, è presente l’elemento relazionale la questione del genere diventa irrilevante. Non è “violenza di genere” ma "violenza relazionale”: la criminogenesi va individuata nella relazione tra i due.
In questo, come in molti altri casi, spesso trascurati dall’opinione pubblica ma non per questo trascurabili, in cui l’uomo è vittima della donna, la violenza non è frutto di una “cultura di genere”, ma di un disequilibrio interno alla coppia.
Ogni giorno si sente parlare di donne violentate, perseguitate e uccise tra le pareti domestiche. Eppure accanto a questa realtà ne esiste un’altra più taciuta perchègli uomini, a causa dello stereotipo di virilità e della quasi certezza di non essere creduti, spesso non denunciano: la violenza che le donne agiscono sugli uominiè soprattutto psicologica ed economica, ma, in casi come questi, anche fisica.
A febbraio di quest’anno la Polizia ha recuperato 35.000 euro e un chilo e mezzo di gioielli che erano stati sottratti ad alcuni anziani residenti a Bologna e a Forlì.
La truffa ha inizio sempre con lo stesso tipo di telefonate alle vittime: “suo nipote è grave, l’unica possibilità di salvarlo è un costoso vaccino anti Covid ”; viene quindi richiesto di far fronte alle spese con contanti o anche con gioielli. I truffatori si presentano poi nelle abitazioni dei malcapitati, ritirano “il bottino” e spariscono.
A Milano nel mese di marzo si sono moltiplicate le segnalazioni per truffe tentate e riuscite dello stesso tipo.
Molti i casi di truffe anche in altri parti d’ Italia, comprese le Marche, perpetrate con modalità diverse ma sempre sfruttando la parola d’ordine: Covid 19. In questi casi i truffatori, spacciandosi per addetti di compagnie elettriche, telefonano agli anziani estorcendo il loro Iban e dati personali con la scusa di “ versare un rimborso per il Covid”, di 90 euro.
In altri casi ancora gli anziani ricevono visite o telefonate da sedicenti operatori sanitari che, con la scusa di “sanificare l’ambiente” o “verificare il loro stato di salute”, una volta ottenuto l’accesso nelle loro abitazioni li derubano.
Numerosi in Italia sono i progetti messi in campo dalle Associazioni in collaborazione con le Amministrazioni locali, con la finalità di prevenire ogni tipo di truffa agli anziani, attraverso una capillare attività informativa, l’attivazione di un numero telefonico dedicato per ricevere le segnalazioni degli anziani ed offrire loro supporto e tutela sia da un punto di vista legale che psicologico.
“Il supporto psicologico è di fondamentale importanza per un anziano che ha subito una truffa”, fa riflettere il Prof. Antonino Giorgi, psicologo psicoterapeuta e vittimologo, docente all’Università Cattolica di Brescia che tra le altre specializzazioni ha quella in psicogeriatria : “il sentimento di vergogna, di colpa, che si trova a provare l’anziano, può essere devastante per la sua esistenza, tanto più se è solo o se subisce una seconda vittimizzazione dalla famiglia che magari lo colpevolizza per essere stato raggirato, giungendo alla conclusione che non può prendersi più cura di sè.
Tali sentimenti di inadeguatezza e di vergogna, non sono connessi tanto con l’entità dei beni che vengono sottratti, quanto piuttosto con la ferita ricevuta nella propria buona fede.”
“L’anziano, soprattutto se isolato, è più fragile e meno resiliente: dopo un evento del genere è difficile reagisca in maniera proattiva . La sofferenza psicologica che ne deriva potrebbe sfociare in un disturbo post traumatico da stress, in un disturbo d’ansia, in un disturbo del ciclo sonno-veglia o in uno stato depressivo, solo per citarne alcuni” chiarisce il Prof. Giorgi.
E’ perciò importante tutelare i nostri anziani, prestare loro ascolto e farli sentire liberi di narrare i loro malesseri o le loro difficoltà senza che si sentano giudicati come “inadeguati”.
Non farli sentiti mai isolati, ma al contrario farli sentire accolti amati e protetti non dovrebbe essere in realtà solo un’ attenzione messa in atto per prevenire il pericolo delle truffe in cui rischiano di incorrere, ma forse dovrebbe essere una predisposizione d’animo sincera e profondamente sentita nella nostra società, spesso troppo disattenta ai bisogni delle persone più fragili.
In questo nostro tempo cosi difficile non dovrebbero trovare spazio truffe o altre incoscienti furbizie egoistiche a danno degli anziani, ma dovremmo tutti pensare alla popolazione anziana come ad un patrimonio di esperienza e saggezza e anche ricordare che per una famiglia su 3 è il primo e spesso unico reddito. Dobbiamo quindi pensare a questo mondo della fragilità come a una risorsa e non gestirlo semplicemente come un onere.