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Il mobbing uccide: la storia di Sara Pedri

Il mobbing uccide: la storia di Sara Pedri

Sara Pedri è una ginecologa 31enne di Forlì, innamorata della sua professione, in servizio all’ospedale di Trento, dove arriva a metà novembre dello scorso anno dopo aver vinto il concorso, e dopo aver concluso brillantemente la laurea specialistica a Catanzaro.

In pochi mesi la sua passione per il lavoro si trasforma in un incubo: il suo sguardo si spegne, la sua voce squillante si affievolisce, il suo sorriso sparisce, smette di mangiare. Quando si reca a Forlì a trovare i suoi genitori, la trovano deperita in modo preoccupante. La situazione nell’ambiente lavorativo per Sara era diventata insostenibile, non ne fa mistero: le vessazioni sul lavoro le tolgono “linfa vitale” ma lei resiste: “ non mollo” scriveva alle amiche ed al fidanzato.

A marzo Sara sparisce, dopo aver dato le dimissioni dall’ospedale in cui aveva preso servizio pochi mesi prima

Solo dopo la sua sparizione si è sgretolato il muro di omertà ed anche le sue colleghe cominciano a denunciare che la dottoressa è stata vittima di gravi persecuzioni professionali sul posto di lavoro: i racconti e le denunce  fatti sui frequenti episodi di mobbing, a quanto pare all’ordine del giorno in quel reparto di ginecologia,  giungono però quando oramai si teme il peggio: il ritrovamento della sua auto abbandonata nei pressi di un ponte a 40 Km da Trento ed il  riconoscimento di tracce di Sara da parte dei cani molecolari nei pressi di un dirupo a ridosso del lago di Santa Giustina, non lontano da dove è stata rinvenuta la macchina, hanno fatto pensare  al gesto estremo.

La Procura ha aperto un fascicolo e l’Azienda sanitaria ha avviato un indagine interna, mentre il Ministero della Salute ha inviato ispettori ministeriali che parleranno con le altre dipendenti, acquisiranno materiale, raccoglieranno ogni informazione utile per comprendere cosa accade nel reparto dove in due anni si sono già dimesse 11 persone.

I dipendenti del reparto hanno parlato di “abusi di potere, minacce continue e umiliazioni”. In altre parole di mobbing.

Il mobbing si concretizza  in una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro esercitata da parte di un superiore gerarchico (cd. bossing o mobbing verticale) o dai colleghi (cd. mobbing orizzontale): questi  con intento persecutorio, ripetutamente, per un lasso di tempo significativo, vessano con denigrazioni, messaggi ostili ed ogni altra azione moralmente scorretta il lavoratore preso di mira. 

Tali comportamenti protratti nel tempo, quotidianamente, comportano gravi danni per la salute del dipendente: gli esperti dichiarano  accertate importanti patologie derivanti dal mobbing: stress, ansia, depressione, aritmie, malattie dell’apparato cardio circolatorio, malattie legate al sistema immunitario, gastriti.

Il disagio psico fisico, quello procurato dal mobbing, può far entrare la vittima già prostrata dalle vessazioni, e quindi fragile, in una spirale che può condurre al suicidio.

Quanto alla denuncia di queste situazioni, la maggiore criticità sta nel fatto che per dimostrare la condotta lesiva perpetrata ai danni della vittima di mobbing servono i testimoni. Ed i testimoni sono i colleghi di lavoro, raramente disposti a testimoniare, soprattutto quando il mobbing è attuato dal datore di lavoro, poichè temono ripercussioni personali.

Consapevole di questa difficoltà la vittima si sente sempre più isolata ed impotente ed è questa la fase più pericolosa in cui si possono aggravare i disturbi psico fisici.

In una società civile come dovrebbe essere la nostra, lo spirito di colleganza, di solidarietà, potrebbero essere i più validi e concreti aiuti per evitare l’isolamento e la disperazione di queste vittime: quando ciò non accade, o accade “troppo tardi” l’individualismo, l’egoismo utilitaristico avranno vinto. Il resto saranno solo vuote parole di circostanza.

(Foto Ansa)

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