In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema delle multe elevate tramite il sistema c.d. “Street Control/Police Control”, utilizzato anche dai Vigili Urbani di Macerata soprattutto nei tratti cittadini di Corso Cairoli e Corso Cavour, proprio a seguito dell’emissione della prima sentenza da parte del Giudice di Pace di Macerata, che ha statuito, come già in precedenza affermato dall'avvocato Oberdan Pantana, l’illegittimità dei verbali di accertamento del divieto di sosta con l’utilizzo del sistema dello “Street Control” da parte della Polizia Municipale del Comune di Macerata. Di seguito le sue spiegazioni.
Difatti, tale tipologia di rilevamento delle infrazioni di divieto di sosta in utilizzo solo quest’anno nel Comune di Macerata, era stato messo al bando già dal 2013 dal Giudice di Pace di Milano, proprio a seguito dell’utilizzo da parte dei Vigili Urbani della città meneghina di tale apparecchiatura elettronica; per l’appunto, la sentenza n. 100658 depositata il 13/3/2013, G.d.P. di Milano, dott. Sergio Gallo, statuisce con estrema chiarezza il principio giuridico secondo il quale: “ Le infrazioni rilevate con dispositivi fotografici posti sulle auto dei Vigili urbani vanno contestate subito se presente il trasgressore altrimenti sono illegittime”. Correttamente, infatti, il Giudicante ha dichiarato nella in tale sentenza che: “Non basta dunque riprendere o fotografare un’auto in divieto di sosta, per poter inviare la multa a casa a distanza di tempo. Se la Polizia municipale usa lo “Street control” o altro sistema similare per accertare le infrazioni, gli agenti sono tenuti a cercare subito il trasgressore: in caso contrario la sanzione è nulla”.Tale principio giuridico, inoltre, era stato dichiarato nel 2012 e ribadito nel 2015, anche dallo stesso Ministero dei Trasporti con propri pareri n. 2291/2012 e n. 4851/2015, con i quali lo stesso Ministero aveva messo al bando tali dispositivi elettronici utilizzati dai Vigili Urbani per scovare auto in doppia fila o in sosta vietata e recapitare verbali a raffica ai proprietari dei mezzi. Di fatti, tali pareri affermano esplicitamente quanto segue: “ L’automobilista va cercato subito. La pratica, molto agevole e sbrigativa per la Polizia municipale – dell’immortalare con una telecamera portatile le auto in sosta vietata lungo le strade più trafficate, del successivo rintraccio dei dati dei trasgressori e dell’invio per posta delle multe, giustificando la contestazione differita con la mancanza del destinatario a bordo dell’auto, viola l’art. 201 del nuovo codice della strada (il d.lgs. 285/1992). Il codice stradale, infatti, permette la «contestazione non immediata della violazione del divieto di sosta, nel caso di accertamento in assenza del trasgressore e del proprietario del veicolo. I verbali, cioè, possono essere spediti a domicilio, solo se il conducente o l’intestatario della carta di circolazione non sono presenti al momento della scoperta. Ma i sistemi di videosorveglianza, proseguono i pareri, non risultano tuttavia idonei a dimostrare l’assenza del trasgressore, circostanza che può essere accertata solo dall’intervento diretto degli organi di polizia stradale; dunque, è necessario che una pattuglia dei Vigili accerti di persona se c’è qualcuno al volante o comunque vi sia la sua presenza nelle vicinanze, poiché in tal caso la contestazione dovrà essere immediata altrimenti tale contravvenzione sarà illegittima”.Nonostante tali precedenti, il Comune di Macerata, nel 2018, si è dotato di tale strumentazione per elevare a raffica multe per divieto di sosta nei tratti cittadini soprattutto in Corso Cairoli ed in Corso Cavour, circostanza questa che sin da subito ha sollevato più di un dubbio circa la loro effettiva legittimità.Fino a che, in data 09.07.2018, è stata depositata la prima sentenza emessa dal Giudice di Pace di Macerata e precisamente la Sentenza n. 436/18 G.d.P. di Macerata, con la quale il sottoscritto avvocato ha ottenuto per il proprio assistito l’annullamento del verbale di accertamento della multa di divieto di sosta proprio con l’utilizzo da parte della Polizia Municipale di Macerata del c.d. “Street Control”. Nello specifico, i Vigili Urbani di Macerata, in data 20.03.2018, erano passati con la loro autovettura di servizio in Corso Cairoli di Macerata, ed avevano ripreso alcune macchine con tale strumento, senza accertare se le stesse fossero in sosta, in fermata o in fase di arresto, ma soprattutto se i loro conducenti fossero o meno all’interno o nei loro pressi, omettendo, pertanto, di contestare nell’immediatezza, così come invece prescritto dagli artt. 200 e 201 del Codice della Strada, tali presunte violazioni.Difatti, è emerso dall’istruttoria processuale che, non solo l’automobilista era presente nella proprio veicolo al momento della “ripresa televisiva” effettuata dai Vigili Urbani di Macerata, ma lo stesso si trovava con il proprio mezzo in fase di arresto, e non in fermata o sosta come sostenuto dai verbalizzanti, in quanto bloccato nella corsia di destra da un’altra autovettura che lo precedeva ferma davanti alle strisce pedonali, in attesa, pertanto, di riprendere la marcia. Il Giudice di Pace di Macerata, infatti, nell’accogliere il ricorso presentato dal sottoscritto avvocato, ha evidenziato l’illegittimità di tale procedura posta in essere dai Vigili di Macerata, proprio seguendo i principi giuridici espressi dal Codice della Strada, dalla Giurisprudenza di merito e dai pareri propri del Ministero dei Trasporti, motivando la sentenza così come segue: “La violazione contestata pare contraddittoria poiché dalla documentazione allegata in atti dalla parte ricorrente emerge che effettivamente il ricorrente era a bordo del veicolo per cui la contestazione doveva essere svolta immediatamente per modo che lo stesso potesse avere modo di difendersi, infatti ha dichiarato di essere fermo dietro ad un furgone fermo davanti le strisce pedonali, che effettivamente si vede dal filmato e che era in attesa di sorpassarlo, ma i veicoli della corsia di sinistra non consentivano tale manovra tra cui anche la vettura dei vigili urbani che anziché consentire che il ricorrente si inserisse nella corsia di sorpasso avendo trovato dinanzi a se un veicolo fermo, ha pensato di filmare e contestare senza chiedere alcunché all’utente della strada in difficoltà. Per tali motivi si accoglie il ricorso ed annullato il verbale emesso dalla Polizia Municipale del Comune di Macerata”.Pertanto, la procedura così come utilizzata dalla Polizia Municipale di Macerata è del tutto illegittima, in quanto lo strumento del c.d. “Street Control”, poiché non omologato dal Ministero dei Trasporti per il suo utilizzo in tale modalità, non può sostituire il Vigile urbano nella contestazione della violazione, la quale deve avvenire nell’immediatezza a maggior ragione se il conducente o l’intestatario della carta di circolazione è presente nell’autovettura o nei suoi pressi, circostanza questa che solamente il Vigile urbano può constatare di persona. Si ritiene opportuno, perciò, nonché necessario che l’Amministrazione comunale di Macerata consentisse ai nostri Vigili Urbani di vigilare nuovamente di persona con fischietto in mano nei tratti di Corso Cairoli e Corso Cavour, tanto da essere così da deterrente per la commissione non solo di tali possibili violazioni, ma soprattutto di gravi reati alla persona od al patrimonio.Come sempre rimango in attesa delle vostre richieste via mail dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, puntuale, anche oggi la consueta rubrica "Chiedilo all'avvocato", curata dall'avvocato Oberdan Pantana.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema della sicurezza sulle strade e nello specifico il caso in cui l’automobilista sia distratto nella guida dall’uso vietato del telefonino o di altro strumento tecnologico, tanto da comportare un incidente mortale o delle lesioni gravissime. Di seguito le spiegazioni dell'avvocato Pantana.
Innanzitutto, bisogna ricordare che il solo fatto di utilizzare apparecchi radiotelefonici durante la guida, comporta la violazione dell’art. 173, 2° comma, del Codice della Strada, secondo il quale: “È vietato al conducente di far uso durante la marcia di apparecchi radiotelefonici ovvero di usare cuffie sonore, fatta eccezione per i conducenti dei veicoli delle Forze armate e dei Corpi di cui all'articolo 138, comma 11, e di polizia. È consentito l'uso di apparecchi a viva voce o dotati di auricolare purché il conducente abbia adeguate capacità uditive ad entrambe le orecchie (che non richiedono per il loro funzionamento l'uso delle mani). Inoltre, il comma 3–bis del medesimo articolo, prevede quale sanzione amministrativa il pagamento di una somma da euro 161 a euro 647; infine, viene applicata anche la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida da uno a tre mesi, qualora lo stesso soggetto compia un’ulteriore violazione nel corso di un biennio.
Mentre, se da tale violazione al Codice della Strada, ne deriva un sinistro stradale dall’esito mortale, il responsabile sarà incolpato del reato di omicidio stradale, previsto e punito dall’art. 589 bis del codice penale, con la pena della reclusione da due a sette anni; infine, se dall’utilizzo di apparecchi radiotelefonici alla guida ne consegue, invece, un sinistro con lesioni gravi o gravissime, ai sensi dell’art. 590 bis del codice penale, il trasgressore andrà incontro al reato di lesioni stradali, punito con la pena della reclusione da tre mesi ad un anno per le lesioni gravi e da uno a tre anni per le lesioni gravissime.
Non sempre, però, risulta agevole poter provare tale tipologia di violazione pur in concomitanza di tali tragici eventi, in quanto l’istantaneità nell’utilizzo di tali strumenti tecnologici, pur fatale per la realizzazione di tali reati, a volte non consente alla Polizia Giudiziaria poter risalire alle effettive cause di tali delitti.
Per tali ragioni, la Procura di Pordenone con la Procura Generale di Trieste, tramite la Direttiva n. 4414 del 26 giugno 2018 indirizzata agli operatori di Polizia Giudiziaria del Friuli Venezia Giulia, hanno posto in essere delle precise indicazioni, condivise sin da subito anche da altre Procure italiane, sul come porre in essere i dovuti accertamenti al fine di far emergere tali responsabilità.
Le distrazioni tecnologiche più frequenti, specifica la direttiva, sono rappresentate dall'uso dei telefonini per chattare, inviare sms, utilizzare la rubrica telefonica, telefonare o riceverne, impostare il navigatore ecc. . In questi casi il conducente perde il controllo visivo del veicolo e può provocare incidenti anche molto gravi. Per questo motivo è estremamente importante che gli organi di vigilanza pongano la massima attenzione su questi dispositivi e su tutte le ulteriori dotazioni di bordo del veicolo come telecamere e scatole nere. In caso di sinistro mortale o con lesioni gravissime, andranno quindi attivati immediatamente accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone, specifica la direttiva, ai sensi dell'art. 354 del codice di procedura penale; in particolare la Polizia Giudiziaria dovrà verificare l'orario esatto dell'incidente ed elencare tutti i dispositivi elettronici presenti sul veicolo, il loro stato unitamente al recupero dei codici di sblocco. Il dispositivo in uso all'eventuale persona deceduta dovrà sempre essere sequestrato prestando attenzione a non spegnerlo; per le persone ferite andrà richiesto il consenso degli interessati mentre i dispositivi di bordo andranno sequestrati assieme al veicolo.
Particolare attenzione andrà riposta, prosegue la direttiva, nel controllo dei dispositivi mobili in dotazione al conducente: se l'autista presterà il consenso l'apparato andrà consultato in loco con informazione sulla facoltà di fare presenziare un avvocato o persona di fiducia purché prontamente reperibile; nel verbale si darà atto di tutto quanto, ovvero se sono presenti messaggi o chat aperte e coincidenti con il momento del sinistro. Se dall'esame del dispositivo non emerge alcun elemento che sostenga l'utilizzo del supporto al momento del sinistro, l'apparecchio verrà consegnato al proprietario, diversamente si procederà al sequestro del cellulare per quanto di competenza.
Inoltre, nell'ipotesi in cui l'autista non risulti collaborativo, la Polizia Giudiziaria potrà procedere alla perquisizione in flagranza con successivo sequestro del dispositivo per i successivi accertamenti tecnici di cui all’art. 360 del codice di procedura penale; se le condizioni lo suggeriscono la Polizia Giudiziaria potrà limitarsi a richiedere all'autista il numero dell'utenza per poi richiedere alla Procura l’acquisizione del tabulato telefonico.
Infine, la direttiva specifica che, tutti i dispositivi che non possono essere esaminati immediatamente con il consenso dell'interessato, dovranno essere sequestrati ed esaminati successivamente con la complessa procedura prevista per gli accertamenti tecnici irripetibili.
Pertanto, l’applicazione da parte della Polizia Giudiziaria di tale direttiva consentirà la migliore ricostruzione dei fatti al fine di far emergere le dovute responsabilità.
Come sempre rimango in attesa delle vostre richieste via mail dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Torna come ogni domenica la rubrica Chiedilo all'avvocato, curata dall'avvocato Oberdan Pantana.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema della tutela degli animali e nello specifico il caso in cui gli amici a quattro zampe vengano abbandonati dai propri padroni, orrenda circostanza questa spesso posta in essere proprio a ridosso delle ferie estive. Il caso in parola ci offre la possibilità di esaminare giuridicamente tale deplorevole condotta penalmente rilevante. Di seguito la risposta dell'avvocato.
Caso giuridico: Il proprietario di un cane abbandona l’animale ai bordi di una strada proprio prima di partire per le proprie ferie estive senza essere visto da alcuna persona che potrebbe denunciare immediatamente tale fatto alla Polizia Giudiziaria.
L’animale viene poi salvato da un passante che denuncia tale ritrovamento all’Autorità Pubblica: quali le responsabilità in capo al proprietario dell’animale.Il caso di specie ci porta ad analizzare il reato di “Abbandono di Animali”, previsto e disciplinato dall’art. 727 del codice penale, secondo il quale: “Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l'arresto fino ad un anno o con l'ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze”.Ma cosa si deve intendere specificatamente per abbandono di animali?
Il concetto di abbandono va ricondotto alla trascuratezza o al disinteresse verso l’animale e non invece all’incrudelimento nei suoi confronti o all’inflizione di sofferenze gratuite, atteggiamenti questi rientranti, di fatto, nel reato di “Maltrattamento di animali” previsto e punito dall’art. 544- ter del codice penale. L’abbandono, in ogni caso, non va individuato nella sola precisa volontà di abbandonare l’animale, ma nell’intento più generale di non prendersene più cura nella consapevolezza dell’incapacità dell’animale di provvedere autonomamente a se stesso.Pertanto, nel caso che ci occupa, risulta evidente l’applicazione dell’art. 727 c.p. nei confronti del proprietario del cane abbandonato, il quale, pur non essendo stato visto da alcuna persona, non ha tenuto conto della presenza del microchip addosso all’animale; per tali ragioni, è stato agevole per il Servizio Veterinario, poter risalire al proprietario del cane abbandonato poi denunciato all’Autorità Giudiziaria per il reato di abbandono di animali.
Il proprietario dell’animale abbandonato, sia in primo grado, sia in Appello, ha tentato di difendersi adducendo il fatto di aver smarrito il cane durante una battuta di caccia, senza però aver presentato alcuna denuncia o comunque aver posto in essere alcun tentativo effettivo di ritrovamento.Per tali ragioni, la Corte di Cassazione, non ha potuto che rigettare il ricorso, in quanto il comportamento tenuto dal proprietario dell’animale, è rinvenibile nella nozione di abbandono enunciata dal primo comma dell'art. 727 c.p. , la quale postula una condotta ad ampio faggio che include anche la colpa intesa come indifferenza o inerzia nella ricerca immediata dell'animale. La S.C., quindi, specifica che la nozione di abbandono di animali è da intendersi non solo come precisa volontà di abbandonare definitivamente l'animale ma anche come il non prendersene più cura, "ben consapevoli dell'incapacità dell'animale di non poter più provvedere a sé stesso come quando era affidato alle cure del proprio padrone".
I Giudici di legittimità concludono, avallando ancor di più la decisione del Tribunale, affermando che il "concetto di abbandono, come delineato dall'art. 727 c.p., implica semplicemente quella trascuratezza o disinteresse che rappresentano una delle variabili possibili in aggiunta al distacco volontario vero e proprio. Per tali ragioni, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso, confermando al ricorrente la condanna di 10.000 euro di ammenda oltre al pagamento delle spese processuali. (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 18892/11; depositata il 13 maggio).Nel consigliare a tutti di denunciare prontamente tali spregevoli e pericolosi comportamenti penalmente rilevanti, come sempre rimango in attesa delle vostre richieste via mail dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica Chiedilo all'avvocato, curata dall'avvocato Oberdan Pantana.
Questa settimana, le mail arrivate hanno interessato maggiormente tematiche riferibili alle prossime ferie estive e nello specifico alla “responsabilità da vacanza rovinata” in capo all’agenzia di viaggi e/o del tour operator in qualità di organizzatori. "Avvocato Pantana" chiede Giorgia da Morrovalle "in quali casi è possibile richiedere un risarcimento danni in caso di vacanza rovinata?". Di seguito la risposta dell'avvocato
Caso giuridico: Una coppia di coniugi hanno acquistato presso un’agenzia viaggi un pacchetto turistico “tutto compreso” di un tour operator della durata di 1 settimana, comprensivo anche dei trasferimenti. Giunti a destinazione, gli attori constatavano alcune difformità rispetto a quanto prospettato e tali divergenze rendevano, a detta dei medesimi, impossibile la prosecuzione delle vacanze, tanto da intentare un’azione di risarcimento danni nei riguardi degli organizzatori.Nel contratto di viaggio vacanza «tutto compreso» (c.d. «pacchetto turistico» o package), disciplinato attualmente dagli artt. 82 ss. d.lgs. n. 206/2005 - (c.d. «codice del consumo»), che si caratterizza per la prefissata combinazione di almeno due degli elementi rappresentati dal trasporto, dall’alloggio e da servizi turistici agli stessi non accessori (itinerario, visite, escursioni con accompagnatori e guide turistiche ecc.) costituenti parte significativa di tale contratto, con durata superiore alle ventiquattro ore ovvero per un periodo di tempo comportante almeno un soggiorno notturno, oltre alla violazione delle «norme poste a tutela dei viaggiatori, anche con riferimento all’obbligo di informazione» e di «falsa rappresentazione della realtà» riferite all’alloggio e/o al trasporto, bisogna tenere in considerazione anche la «finalità turistica» (o «scopo di piacere»), che si sostanzia nell’interesse che lo stesso pacchetto è funzionalmente volto a soddisfare, connotandone la causa concreta e determinando, perciò, l’essenzialità di tutte le attività e dei servizi strumentali alla realizzazione del preminente scopo vacanziero.In tutto ciò, è da chiarire, però, il ruolo tenuto dall’agenzia di viaggi, e precisamente se abbia assunto esclusivamente il ruolo di intermediaria, quale venditrice del pacchetto turistico fornito alla coppia e non anche quello di organizzatore; ciò a maggior ragione quando, come nel caso in esame, il viaggio sia stato scelto da un catalogo predisposto dal tour operator, senza l’intervento dell’agenzia nell’organizzazione dello stesso.Infatti, il consolidato orientamento giurisprudenziale di riferimento ha chiarito che l’art. 93 del Codice del Consumo (secondo cui l’organizzatore e il venditore di un pacchetto turistico devono rispondere secondo le rispettive responsabilità), non conduce a una automatica responsabilità dell’agenzia viaggi;nel contratto di intermediazione di viaggio, infatti, è da ravvisare un mandato conferito dal viaggiatore all’agenzia e la responsabilità di quest’ultima è limitata all’adempimento del mandato ricevuto dal consumatore, non dovendo al contrario essere chiamata a rispondere delle obbligazioni nascenti dall’organizzazione del viaggio, che invece competono al tour operator;in tal caso, invece, la responsabilità dell’agenzia sarebbe subordinata alla prova della sua conoscenza (o conoscibilità) della inaffidabilità del tour operator secondo l’uso della normale diligenza dell’attività prestata.Pertanto, la nostra coppia potrà agire nei soli confronti del tour operator, per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, provando la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte; anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, alla coppia istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul tour operator l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento. Inoltre, il danno da vacanza rovinata, va inteso anche nel pregiudizio al benessere psichico e materiale sofferto dalla coppia per non aver potuto godere appieno della vacanza quale occasione di piacere, svago e riposo, che si concreta in un tipo di danno costituito da disagio e sofferenze transeunti per il presumibile stravolgimento delle aspettative con riguardo alla qualità e serenità della vacanza.Per tali ragioni, la coppia ha tutto il diritto di pretendere ed ottenere in tal caso dal solo tour operator il risarcimento di tutti quei pregiudizi, patrimoniali e non patrimoniali, di cui fornisca idonea documentazione (Corte di Cassazione, Sez. III Civile, sentenza n. 5683/16, depositata il 23 marzo).Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Torna il nuovo appuntamento con la rubrica Chiedilo all'avvocato, curata dall'avvocato Oberdan Pantana.
Questa settimana, i quesiti rivolti al legale hanno interessato maggiormente il tema della guida in stato di ebbrezza con contestuale validità della procedura dell’alcoltest: "Avvocato Pantana, ci si può rifiutare di sottoposti all'alcoltest?" chiede Paolo di Montecosaro. Ecco la risposto dell'avvocato.
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza in merito all’utilizzo di tale strumento di misurazione utilizzato dalla P.G. anche in presenza di rifiuto dell’automobilista.
Caso giuridico: Ad un giovane di Civitanova Marche è stato contestato di essersi messo alla guida in stato d’ebbrezza alcolica e, richiesto di sottoporsi all’accertamento alcolimetrico, di aver opposto un rifiuto, senza però che precedentemente l’organo di polizia lo abbia avvisato della facoltà di farsi assistete da un avvocato.Il rifiuto di sottoporsi a test è reato. La rilevanza penale del rifiuto di sottoporsi ad accertamento finalizzato alla verifica del tasso alcolico ha trovato rinnovato spazio nelle modifiche del Codice della Strada del 2008.
Il fondamento politico-criminale della ri-penalizzazione della condotta (la risposta sanzionatoria è stata equiparata alla violazione del divieto di guida in stato d’ebbrezza) è quello di prevenire sacche di impunità: se in precedenza il conducente poteva opporre un rifiuto accettando l’irrogazione di una sanzione amministrativa, ora se non si sottopone all’accertamento tecnico vedrà applicarsi la sanzione più elevata e perderà l’occasione di dimostrare che il suo tasso alcolemico è inferiore alla soglia che determinerebbe la possibile irrogazione di sanzioni più mite.
Per tali ragioni il responsabile veniva indagato per il rifiuto di sottoporsi ad accertamento dello stato di ebbrezza tramite etilometro (art. 186, comma 7, C.d.S.), e condannato sia in primo sia in secondo grado; la sentenza veniva impugnata poi in Cassazione dalla difesa che deduce, come in precedenza, l’erronea applicazione della norma per l’omesso avviso, ex art. 114 disp. att. c.p.p., della facoltà di farsi assistere da un avvocato che, secondo il più recente orientamento giurisprudenziale, trova applicazione anche nel caso di rifiuto all’accertamento del tasso alcolemico.
Il Collegio ritiene fondato il ricorso sottolineando come i più recenti orientamenti abbiamo rivisitato i contenuti dell’obbligo di avviso al conducente della facoltà di cui all’art. 114 cit. , così come facendo riferimento alla sentenza della Corte di Cassazione Sezioni Unite n. 5396/2015. In particolare, l’obbligo di procedere all’avvertimento in parola scatta nel momento in cui l’organo di polizia, sulla base delle concrete circostanze, ritenga desumibile uno stato di alterazione del conducente e, comunque, prima di procedere all’accertamento mediante etilometro.
Il sistema di garanzie delineato dagli artt. 114 disp att. c.p.p. e 354 c.p.p. introduce infatti una verifica tecnica che prende avvio con la richiesta di sottoporti al test strumentale e con l’avvertimento del diritto all’assistenza del difensore, adempimento indispensabile e necessario per la prosecuzione dell’accertamento; a tal proposito viene anche precisato che in tema di guida in stato di ebbrezza, l’obbligo di preavviso al conducente, coinvolto in un sinistro stradale, del diritto di farsi assistere da un difensore sussiste anche in relazione al prelievo ematico presso una struttura sanitaria.
In conclusione la Corte annulla la sentenza impugnata senza rinvio ed assolve il conducente perché il fatto non sussiste (Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza n. 6526/18; depositata il 9 febbraio 2018).Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Torna, puntuale come ogni domenica, l'appuntamento con la nostra rubrica Chiedilo all'avvocato, curata dall'avvocato Oberdan Pantana.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema del licenziamento e nello specifico quello della lavoratrice madre. Abbiamo scelto un caso che ci offre la possibilità di fare chiarezza in merito a tale tipologia di tutela e sostegno della maternità e paternità. Una madre lavoratrice di Muccia si è infatti trovata senza lavoro a causa della chiusura del reparto nel quale era impiegata. Lo società, nel licenziarla, si è assunta l'impegno di reimpiegarla, al termine del periodo protetto, in un altro esercizio all’interno dell’azienda, ma in riforma della decisione dei Giudici di prime cure, la Corte d’Appello ha dichiarato la nullità del licenziamento per violazione dell’art. 54, comma 3, lett. b), d.lgs. n. 151/2001, il quale consente il licenziamento della lavoratrice madre solo nei casi di cassazione totale dell’attività. Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso in Cassazione.
Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana.
Il principio di carattere generale presente nel testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità che vieta il licenziamento della lavoratrice madre, dall’inizio della gestazione fino al compimento dell’anno di vita del bambino, può essere derogato solo ed esclusivamente se cessa l’intera attività della società. Lo spiega la Corte di Cassazione con sentenza n. 14515/18 depositata il 6 giugno.
L’eccezione che conferma la regola… Trattandosi di un’eccezione ad un principio di carattere generale, gli Ermellini affermano che la norma citata deve ritenersi di «stretta interpretazione» e, come tale, «non suscettibile di interpretazione estensiva o analogica». Infatti, in tema di tutela della lavoratrice madre, costituisce consolidato orientamento giurisprudenziale quello secondo cui «la deroga al divieto di licenziamento di cui all’art. 54, comma 3, lett. b) d.lgs. n. 151/2001, dall’inizio della gestazione fino al compimento dell’età di un anno del bambino, opera solo in caso di cassazione dell’intera attività aziendale». Tal fattispecie normativa non può dunque essere applicata in via estensiva od analogica all’ipotesi, quale quella del caso di specie, di cessazione dell’attività di un solo reparto, anche se dotato di autonomia funzionale. Pertanto, ritenendo priva di fondamento la questione sollevata dalla società ricorrente, i Giudici di legittimità rigettano il ricorso e la condannano al pagamento delle spese processuali.
Inoltre, in tal caso, poiché «il licenziamento intimato alla lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino è nullo e improduttivo di effetti», ciò significa che «il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente» e quindi «il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio e a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno». In conclusione, quindi, «il rapporto va considerato come mai interrotto» e «la lavoratrice», «ha diritto alle retribuzioni dal giorno del licenziamento sino alla effettiva riammissione in servizio» (Cassazione, sentenza n. 475/2017, Sezione Lavoro, depositata l’11 gennaio).
Nel consigliare la massima tutela in materia di licenziamento, a maggior ragione quello della lavoratrice madre, come sempre attendo le vostre richieste dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Torna, puntuale come ogni domenica, l'appuntamento con la nostra rubrica Chiedilo all'avvocato, curata dall'avvocato Oberdan Pantana.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema del condominio ed il corretto utilizzo dei parcheggi da parte dei relativi condomini.
Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana.
Condominio e uso corretto del parcheggio: il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza quando l’acquirente di un appartamento condominiale ha anche assicurato il parcheggio riferito al medesimo condominio.
Caso giuridico: Il costruttore procede alla vendita delle varie unità immobiliari che compongono il fabbricato realizzato nel 1972 riservandosi la proprietà del cortile retrostante il corpo di fabbrica; quest'ultimo che in data 1991 viene successivamente venduto ad una società. Questa “manovra” non piace al condominio che cita in giudizio il venditore contestando la validità della vendita del cortile perché, a quanto pare, questo era gravato da vincolo a parcheggio a favore dell'intero fabbricato.
Occorre partire dal presupposto che la normativa di settore non è certamente delle più semplici in quanto varia in relazione ad una serie di elementi quali la data di rilascio del titolo edilizio in virtù del quale è stato realizzato il fabbricato, la data del primo atto di vendita, la data dell'atto di vendita relativo alle aree vincolate e chi più ne ha più ne metta.
Immobili realizzati prima della legge ponte. Una prima categoria di immobili riguarda quelli realizzati prima dell'entrata in vigore della c.d. legge ponte (ovvero della Legge n. 765/1967). Le aree a parcheggio realizzate in vigenza di tale disciplina devono essere considerate “libere” in quanto la normativa urbanistica dell'epoca non prevedeva alcun vincolo.
Immobili realizzati tra il 1967 e il 2005. Con l'entrata in vigore della legge ponte, la disciplina relativa alla circolabilità degli spazi adibiti a parcheggio subisce una prima modifica. L'art. 18 Legge n. 765/1967, infatti, modificò la legge urbanistica del 1942 inserendo, al suo interno, l'articolo 41-sexies. Tale norma introdusse il vincolo, per la nuove costruzioni, non solo di realizzare delle aree destinate al parcheggio delle autovetture, ma andò anche oltre stabilendo che vi fosse un rapporto tra le cubature assentite (ovvero i metri cubi di progetto) e le superfici da adibire a parcheggio. Tale rapporto veniva fissato, in un primo tempo, in 1 a 20 (poi ridotto a 1 a 10); in sostanza, per ogni 10 mc di costruzione, occorre realizzare un parcheggio di 1 mq.
Il contenuto della nuova disciplina. Occorre tener presente che le aree a parcheggio svolgono soprattutto una funzione pubblicata in quanto mirano a disciplinare la viabilità ed a salvaguardare l'ordine pubblico e la vivibilità delle città. Prevedere idonei spazi riservati alla sosta dei veicoli e, parallelamente, prevedere specifici obblighi di utilizzo degli stessi, vuol dire - in primo luogo - evitare che un eventuale abbandono disordinato e casuale dei veicoli possa produrre il blocco della circolazione stradale e quindi - a cascata - vuol dire prevenire possibili pericoli nella circolazione. Il Legislatore, resosi conto che il numero di vetture in circolazione aumentava giorno per giorno il che procurava, oggettivamente, la difficoltà di trovare un parcheggio, cercò una soluzione imponendo al costruttore di realizzare, accanto agli appartamenti, anche delle aree destinate a contenere le auto in sosta. Gli spazi a parcheggio realizzati in vigenza della legge ponte soggiacciono ad una disciplina speciale per cui costituiscono delle pertinenze delle unità immobiliari. Il costruttore, eventualmente, può riservarsi la proprietà di tali aree e, in ipotesi, può anche venderle a terzi, fermo restando il diritto reale d'uso in favore dei proprietari delle singole unità immobiliari.
Immobili realizzati in vigenza della Legge n. 246/2005. La situazione cambia radicalmente con la Legge 28 novembre 2005, n. 246 (c.d. legge di semplificazione del 2005). A tale norma viene riconosciuto il merito di aver “liberalizzato” la vendita delle aree a parcheggio spezzando il rapporto di pertinenzialità inscindibile tra l'appartamento ed il posto auto favorendo, in questo modo, la circolabilità degli immobili. A ben guardare, lo spirito della legge non viene tradito; l'obbligo di realizzare gli spazi a parcheggio rimane, per cui le auto troveranno comunque una loro collocazione ma, al proprietario dell'appartamento, viene data una alternativa: acquistare il posto auto, ovvero rinunciare all'acquisto e lasciare la propria autovettura in altra zona. Occorre tener presente che, secondo la giurisprudenza, la Legge n. 246/2005 non ha portata retroattiva per cui troverà applicazione solo per i fabbricati realizzati in data successiva alla sua entrata in vigore.
Quale disciplina si applica al caso in esame? Dettate le regole di base, occorre stabilire quale disciplina applicare al caso concreto. Nel nostro caso abbiamo un fabbricato realizzato nel 1972 mentre la vendita in blocco del cortile su cui gravava il vincolo a parcheggio viene realizzata quasi 20 anni dopo, ovvero solo nel 1991. La disciplina applicabile, quindi, è quella relativa agli immobili realizzati tra il 1967 e il 2005. Di conseguenza, i condòmini avranno il diritto reale d'uso sulle aree a parcheggio che, eventualmente, potranno anche essere vendute a terzi purché venga garantito l'utilizzo ai condòmini, dietro comunque un equo compenso al costruttore.
L'atto di vendita è nullo? A questo punto occorre effettuare una precisazione. L'atto di vendita dell'area vincolata a parcheggio è solo parzialmente nullo in quanto la nullità colpisce solo quella clausola contrattuale che impedisce l'esercizio del diritto d'uso in favore dei condòmini.
A tal proposito, la Corte di Cassazione, Sez. II Civile, sentenza n. 26911/17, depositata il 14.11.2017, statuisce che: “Solo i proprietari degli immobili realizzati tra il 1967 ed il 2005 possono vantare il diritto reale d'uso sulle aree vincolate a parcheggio. In tale ipotesi, l'atto di vendita dell'area vincolata è valido; solo le clausole contrattuali che impediscono ai condòmini l'esercizio del diritto d'uso vengono colpite da nullità. L'esercizio del diritto reale d'uso non è gratuito; chi vuole avvalersene, deve corrispondere un equo compenso al costruttore”.
Come sempre rimango in attesa delle vostre richieste dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Torna, puntuale come ogni domenica, l'appuntamento con la nostra rubrica Chiedilo all'avvocato, curata dall'avvocato Oberdan Pantana.
Questa settimana, fra le diverse mail arrivate, abbiamo scelto un quesito posto dal lettore Alberto P. di Tolentino che chiede chiarezza in merito al tema della privacy ed al corretto utilizzo della videosorveglianza nei rapporti di vicinato, strumento questo spesso mal utilizzato e lesivo pertanto di interessi legittimi.
Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana.
Video-sorveglianza nei rapporti di vicinato: il caso in parola offre la possibilità di eseguire una chiara distinzione tra videosorveglianza con rilevo penale e videosorveglianza unicamente con rilievo civile.
Caso giuridico: Due villette a schiera confinanti di cui una dotata di videocamere puntate anche sulle finestre del vicino: tale circostanza comporta la sola violazione della privacy domestico o integra anche il reato di interferenze illecite nella vita privata ex art. 165 bis c.p.?Il proprietario dell’immobile “ spiato”, pertanto, quali azioni potrebbe intraprendere per tutelare i propri diritti?
Videosorveglianza e reato di illecite interferenze nella vita privata ex art. 165-bis c.p.:
Il reato di illecite interferenze nella vita privata ex art. 165-bis c.p. si registra quando le telecamere inquadrano spazi altrui appositamente schermati dai proprietari in modo da escluderne la vista agli estranei. Nel nostro caso i vicini non avevano schermato la visione delle finestre rendendo così le stanze a queste prospicienti assimilabili a "luoghi esposti al pubblico". Secondo giurisprudenza consolidata non sono punibili (e non possono, pertanto, dar luogo ad alcun correlativo risarcimento) «le videoriprese aventi ad oggetto comportamenti tenuti in spazi di pertinenza della abitazione di taluno ma di fatto non protetti dalla vista degli estranei, giacchè per questa ragione tali spazi sono assimilabili a luoghi esposti al pubblico» (Cass. n. 44156/2008). Pertanto sebbene le videocamere del vicino avessero registrato stralci di vite altrui nessun reato ex art. 165-bis c.p. sarebbe stato integrato.
Videosorveglianza e illecito civile (lesione privacy):
Le videocamere puntate anche sugli spazi del vicino costituiscono sempre una lesione della privacy domestica degli interessati che integra perfettamente la fattispecie dell'illecito civile. Nell'ambito della responsabilità aquiliana la questione centrale si snoda attorno all'ampiezza dell'angolo visuale delle videocamere private. La delibera del Garante Privacy dell’8 aprile 2010 sancisce che, ove il singolo condomino installi un impianto di videosorveglianza a tutela della proprietà̀ esclusiva «l'angolo visuale delle riprese deve essere limitato ai soli spazi di propria esclusiva pertinenza, ad esempio quelli antistanti l'accesso alla propria abitazione, escludendosi ogni forma di ripresa, anche senza registrazione, di immagini relative ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) o antistanti l’abitazione di altri condomini.
Nel caso di specie, l'angolo visuale delle videocamere comprendeva anche l'accesso a casa e le finestre di bagno e cucina del vicino. Pertanto sotto il profilo civile vi era stata lesione della riservatezza domestica. Tuttavia l'esistenza della violazione non costituisce un danno in re ipsa nel nostro ordinamento, ma occorre addurre sempre le allegazioni e le prove del danno conseguenza altrimenti si snaturerebbe «la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo» (Cass. SS. UU. 26972/08).
Azione giuridica del proprietario: riconoscimento del danno punitivo.
Il proprietario spiato decide, pertanto, di intraprendere un giudizio civile nei confronti del vicino ai fini del risarcimento del danno, ma nei fatti non è in grado di provare alcunché rimettendosi semplicemente all'equità del giudicante, senza, pertanto, porre in essere delle allegazioni che avrebbero permesso al Giudice di applicare il criterio equitativo in modo più adeguato alla realtà. In questo modo il Giudice comprende che vi sia stato un pregiudizio, ma non ha gli strumenti per determinarlo scientificamente sebbene in via equitativa.
Così la liquidazione con il criterio dell'equità riconosce in questo caso una sorta di danno punitivo: «la quantificazione equitativa di detto danno ingiusto non può che essere tuttavia contenuta entro termini minimi: tali da assicurare quella che si è giunti bensì̀ a riconoscere che sia la valenza punitiva iure propria del risarcimento del danno non patrimoniale da lesione dei diritti fondamentali». Tutto ciò, in quanto, nel vigente ordinamento alla responsabilità̀ civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché́ sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile; non è quindi logicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi, (così Cass. SS.UU. 16601/17)». In questo caso il minimo riconosciuto dal Giudice è stato di € 20.000,00.
Nel consigliare la massima tutela in materia di privacy soprattutto in ambito personale, come sempre attendo le vostre richieste dandovi appuntamento alla prossima settimana. Avv. Oberdan Pantana
Nuovo appuntamento con la rubrica Chiedilo all'avvocato, curata dall'avvocato Oberdan Pantana. Oggi abbiamo scelto una mail che riteniamo particolarmente interessante, perchè tocca un argomento di cui si parla poco ma che invece coinvolge tantissimi sportivi. Il quesito di Roberto di Pollenza riguarda il calcio: "Gentile avvocato Pantana, in un intervento falloso di gioco, si possono riscontrare anche responsabilità penali?". Ecco la risposta
Con grande piacere che mi accingo ad affrontare il seguente argomento sollecitato dalle numerosissime mail dei lettori riguardo alle possibili responsabilità di un atleta nella pratica dello sport più seguito ed amato in Italia: il gioco del calcio.
Nel farlo utilizzerò dei casi pratici che spesso e volentieri avvengono durante una competizione calcistica e che soprattutto mi sono occupato in prima persona in qualità di legale.
Ultimissimi minuti del match. Risultato – importantissimo – ancora in bilico. Contropiede fulmineo della squadra ospite. L’attaccante, palla al piede, si dirige verso l’area avversaria, quando irrompe il difensore che, pur volendo colpire la sfera, centra in pieno la gamba sinistra del ‘numero 9’;grave infortunio per l’attaccante: frattura della tibia.
In primo ed in secondo grado, viene confermata la condanna per il difensore locale per il reato di lesioni colpose di cui all’art. 590 c.p.; in Cassazione, invece, viene assolto con formula piena, per l’assenza di tale tipologia di responsabilità. Smentita la visione tracciata dai giudici del Tribunale prima e da quelli della Corte d’appello poi: decisiva l’applicazione del cosiddetto “rischio consentito”, con riferimento ad «eventi lesivi causati nel corso di incontri sportivi».Nessun dubbio sulla dinamica del rilevante scontro di gioco, verificatosi durante tale partita; evidente, infatti, la condotta scorretta del difensore della squadra di casa, evento, però, frutto di un eccessivo «agonismo» e di un errore nel calcolo della «tempistica dell’intervento di gioco»: egli, infatti, ha mirato «il pallone», ma ha «finito per colpire la gamba dell’attaccante, che, in anticipo,già aveva allungato la sfera in avanti.
Rilevante il contesto: «l’infortunio maturò in un frangente particolarmente intenso», cioè «gli ultimi minuti dell’incontro», e durante «una azione di gioco decisiva» per un match «rilevante per il campionato». Significativo anche il fatto che l’azione del difensore, pur in trance agonistica, «era manifestamente indirizzata a interrompere l’azione di contropiede, mediante il tentativo di impossessarsi regolarmente del pallone», sottraendolo all’attaccante.Tutto ciò, spiegano correttamente i magistrati della Cassazione, consente di ritenere meritevole di censura il gesto compiuto dal difensore, però solo nell’ambito dell’«ordinamento sportivo». Va esclusa, quindi, la «antigiuridicità» a livello penale del «fallo» compiuto sul campo da calcio. Evidente la colpa del difensore, sanzionabile, però, solo in ambito sportivo, non certo in quello penale (Cassazione, sentenza n. 9559/2016, Sezione Quarta Penale).
Così come: “derby infuocato”, il difensore colpisce l’avversario con un pugno con l’azione di gioco distante da tale evento: in tal caso la Suprema Corte ha giustamente confermato la sentenza di condanna dell’imputato/difensore locale,
Il Collegio di legittimità, ritenendo corretta la valutazione svolta dalla Corte territoriale, afferma che «in tema di competizioni sportive, non è applicabile la scriminante atipica del rischio consentito, qualora nel corso di un incontro di calcio, l’imputato colpisca l’avversario con un pugno al di fuori di un’azione ordinaria di gioco, trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva». Nella disciplina calcistica, infatti, «l’azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone ovvero di movimenti, anche senza palla, funzionali alle più efficaci strategie tattiche, circostanze non presenti in quanto accaduto >>.
Tale circostanza, al fine di spiegare ancor meglio il limite della scriminante dell’attività sportiva del c.d. “rischio consentito” nell’ambito di una partita di calcio, si va a ricollegare ad un ulteriore fatto accaduto in campo, soffermandoci però prima all’indimenticabile finale mondiale di Berlino vinta dalla nostra nazionale.
Il colpo di testa è un protagonista obbligatorio di ogni partita di calcio che si rispetti, giocata, questa, spesso vincente, è in grado di sorprendere, se ben eseguita, anche il più “felino” dei portieri. Diversa dal colpo di testa è, invece, la testata vera e propria, anche questa, purtroppo, presente in alcune partite di calcio; tutti noi ricorderemo Materazzi mentre stramazza al suolo come un birillo, colpito dalla craniata infertagli da Zidane: si era alla finale dei Mondiali del 2006 e tutta l'Italia – di lì a poco – sarebbe scesa in strada ad esultare per la quarta stelletta conquistata.Fatta questa premessa “storica” che non ha avuto alcuna evoluzione giudiziaria, pur possibile, la stessa però si va a ricollegare ad un caso simile, che si è svolto in un contesto molto più modesto dell’Olympiastadion di Berlino, che invece è terminata nelle aule dei Tribunali.
Durante un incontro di calcio, poco prima del fischio finale, un giocatore si accascia al suolo, tramortito: ha appena ricevuto una testata sul naso da un avversario a gioco fermo. Il malcapitato calciatore, col setto nasale fratturato, vola in ambulanza verso l'ospedale più vicino: di lì a poco sporgerà querela. Il procedimento penale, deciso nelle forme del rito abbreviato condizionato, si conclude con una sentenza di condanna.
Tutti gli eventi riportati, ci consentono di chiarire meglio l’antigiuridicità durante una partita di calcio, facendo riferimento alle c.d. scriminanti “atipiche”. Il catalogo piuttosto ristretto delle scriminanti “codificate” non fa espressa menzione dell'esimente sportiva, che appartiene – per dottrina e giurisprudenza ormai ben consolidate – al novero delle esimenti non espressamente contemplate nel codice, ma di fatto esistenti. Queste ultime sono figlie dell'evoluzione naturale del diritto penale, che, nel suo adeguarsi alla realtà sociale in cui si applica, deve necessariamente calibrare la risposta punitiva alle infinite, lecite, ma talvolta rischiose, forme in cui può esprimersi la condotta umana. Lo sport è una di esse: chi lo pratica – non importa se professionalmente o per diletto - mette in conto di poter subire anche conseguenze pregiudizievoli per la propria integrità fisica: il rischio che ogni sportivo accetta è, appunto, un rischio consentito. Qual è, a questo punto, il limite che non deve essere oltrepassato per sconfinare nell'illecito penale?
Il consenso che – tacitamente – si esprime prendendo parte ad una competizione sportiva, implica, come già detto, l'accettazione di un rischio, più o meno calcolato. Questo calcolo si basa, evidentemente, anche sull'affidamento che tutti i partecipanti alla competizione conoscano e si conformino alle regole della disciplina sportiva praticata.
Secondo la giurisprudenza, che dimostra di non ignorare la “realtà naturale” dell'agonismo, l'involontario travalicamento delle regole di gioco non è sufficiente per aprire le porte alla responsabilità penale nel caso in cui dovessero verificarsi conseguenze lesive per alcuno degli atleti.Il discorso cambia del tutto nell'ipotesi in cui l'incontro sportivo diventi un pretesto per dare sfogo a gesti gratuitamente violenti, o che comunque non sono giustificabili con il gesto atletico richiesto dal gioco del calcio; circostanza questa che ogni vero sportivo dovrebbe evitare oltreché condannare. Il gioco del calcio ha bisogno di veri sportivi!Rispettiamolo.
Attendo come sempre le vostre richieste e vi do appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Per l'appuntamento di questa settimana con la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana "Chiedilo all'avvocato", abbiamo scelto di rispondere alla mail inviata dalla signora Paola M. di Civitanova Marche relativa a un argomento che tocca da vicino numerose famiglie.
La signora Paola chiede: "Gentile avvocato Pantana, quali sono gli obblighi di legge e come bisogna comportarsi quando, in una famiglia, un soggetto si sottrae ai propri doveri di coniuge o di genitore, non versando, ad esempio, il mantenimento al partner o ai figli?".
La violazione degli obblighi di assistenza familiare, con la quale il legislatore abbia inteso tutelare i rapporti interpersonali intercorrenti all'interno di un nucleo familiare, oggi viene regolata dall’art.570 c.p. e dalla nuova fattispecie di cui all’art. 570 bis c.p. .Per quanto concerne l’art. 570 c.p., lo stesso prevede diverse fattispecie infatti:1. punisce con la reclusione fino a un anno o con la multa da 103 euro a 1032 euro "chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge";2. punisce con la reclusione fino a un anno e con la multa da 103 euro a 1032 euro chi "malversa o dilapida i beni del figlio minore o del coniuge" e chi "fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa".In merito all’elemento oggettivo del reato, riguardo al punto 1), perché si configuri “l'abbandono del domicilio domestico”, o comunque “la condotta contraria all'ordine e alla morale delle famiglie”, la S.C. ha precisato come l'abbandono sia punibile solo in quanto abbia avuto per risultato la violazione degli obblighi di assistenza inerenti la qualità di coniuge e/o genitore.Per quanto concerne il punto 2), per “malversazione”, si intende la cattiva gestione concretantesi in appropriazioni o distrazioni di beni a proprio o altrui profitto; non è sufficiente un solo atto di appropriazione, ma una pluralità di atti di disonesta gestione; per “dilapidazione”, invece, si intende la dispersione sconsiderata di beni altrui che ha come conseguenza la dissipazione, anche parziale, del patrimonio amministrato.Infine, per “omessa prestazione dei mezzi di sussistenza”, la norma non sanziona l'inosservanza degli obblighi civilistici di mantenimento, essa tutela invece il diritto della persona, che l'ordinamento penale riconosce e tutela a ricevere il necessario sostegno dai propri familiari ove si trovi in condizioni di estremo disagio; lo stato di bisogno è un presupposto della condotta e viene fatto consistere nella mancanza dei mezzi di sussistenza, da cui la persona non è in grado di uscire autonomamente. Infatti, riguardo alla nozione di “mezzi di sussistenza”, essa non coincide con gli “alimenti”, disciplinati dal codice civile: mentre i primi indicano ciò che è indispensabile per vivere; i secondi hanno ad oggetto quanto occorre per soddisfare i bisogni della vita, secondo la condizione economica e sociale del beneficiario (Cass. VI, n. 49755/2012). A tal proposito, il codice non punisce la violazione della corresponsione degli “alimenti”, ma il rifiuto dei mezzi necessari per vivere: pertanto il delitto non ricorre se il discendente, l'ascendente, il coniuge non versino in condizioni di bisogno benché titolari del diritto agli alimenti; l'obbligo giuridico di prestare gli alimenti costituisce il presupposto del reato: in assenza di tale obbligo il reato non sussiste (Cass. VI, n. 2968/1972).Il soggetto deve essere in condizione di adempiere (anche parzialmente): la prova dell'impossibilità di farlo a tenore della giurisprudenza, spetta all'interessato (Cass. VI, n. 2736/2008); l'incapacità economica dell'obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli inadempimenti sanzionati dall'art. 570 c.p., deve essere assoluta e deve altresì integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti (Cass. VI, n. 33997/2015). L'obbligo non viene meno quando i soggetti siano assistiti da terzi o dall'assistenza pubblica; in particolare, nel caso di minori, è l'età ad integrare lo stato di bisogno, così da configurare il reato anche se l'assistenza è assicurata dall'altro coniuge o da terzi. Ai fini della configurabilità dell'elemento soggettivo di cui all'art. 570 c.p., è sufficiente che il soggetto attivo si sia volontariamente posto nella situazione di non poter adempiere gli obblighi di assistenza familiare; è stato ritenuto doloso, quanto meno sotto il profilo del dolo eventuale, il comportamento del marito e padre che, inopinatamente dimettendosi dal posto di lavoro, aveva fatto venir meno i mezzi di sussistenza alla moglie e ai figli, (Cass. VI, n. 5287/1989).La nuova fattispecie, invece, di cui all’art. 570 bis c.p., entrata in vigore il 06 aprile u.s. tramite il D.L. n. 21/2018, va a completare la tutela riguardo agli obblighi di assistenza familiare, disponendo espressamente quanto segue: “Le pene previste dall'articolo 570 c.p. si applicheranno anche al coniuge che si sottrae all'obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero che violi gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli”.Tale nuovo riferimento normativo ha comportato come prima sostanziale innovazione il fatto che la sanzione penale ora viene applicata anche in caso di omesso versamento dell’assegno nei confronti del coniuge separato; la seconda, invece, è rappresentata dal fatto che la sanzione penale ora èapplicabile a prescindere dall’accertamento dello stato di bisogno, in quanto la stessa è consequenziale all’omesso versamento dell’assegno.Infine, ulteriore tutela è data nell’ultima parte dell’art. 570 bis c.p., facendo altresì riferimento alla “violazione degli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli”, circostanza questa che espone al genitore obbligato alla sanzione penale anche in caso di omessa contribuzione economica in relazione alle spese straordinarie e non solo in caso di omesso versamento dell’assegno mensile di mantenimento dovuto per le spese “ordinarie”.A questo punto si riportano di seguito alcuni episodi che configurano il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare:1) Omessa assistenza familiare: lo stipendio dell’ex moglie non evita la condannaIl reato di cui all’art. 570, comma 2, c.p. sussiste anche laddove l’altro genitore abbia la concreta possibilità di provvedere in via sussidiaria al sostentamento del figlio minore.(Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 19508/18);2) L’ex marito non versa l’assegno perché senza lavoro, condannato in quanto non lo prova. L’incolpevole impossibilità economica dedotta dall’imputato quale giustificazione per il mancato versamento dell’assegno a favore della ex moglie e della figlia, come stabilito in sede di separazione, deve essere dimostrata da chi la deduce; tale mancanza ha comportato la sua condanna. (Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 16810/15);3) Non mantiene i figli minori, tanto ci pensano i nonni: condannato. In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, lo stato di bisogno e l’obbligo del genitore di contribuire al mantenimento dei figli minori non vengono meno quando gli aventi diritto siano assistiti economicamente da terzi. (Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 6682/15);4) Figlio invalido: la mancata partecipazione alle spese per le cure mediche integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Non basta il versamento dell’assegno di mantenimento in caso di separazione tra coniugi per far fronte alle esigenze di un figlio invalido. In questi caso, la violazione degli obblighi di assistenza familiare sussiste qualora il genitore non partecipi alle spese mediche né provveda all’assistenza quotidiana e materiale. L’obbligo di assistenza sussiste anche quando a provvedere allo stato di bisogno è l’altro coniuge con il proprio lavoro o l’aiuto di altri congiunti.(Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 24694/14).
Come sempre, raccomando di chiedere la consulenza di un legale e di denunciare alle autorità competenti tutti gli eventuali problemi che si registrano in casi come quelli sopra evidenziate. Attendo come sempre le vostre richieste di chiarimenti e le vostre domande e vi do appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Per il terzo appuntamento con la rubrica Chiedilo all'avvocato, curata dall'avvocato Oberdan Pantana, abbiamo scelto di trattare l'argomento proposta da una lettrice di Macerata che chiede "Quando si configura il reato di stalking? E' necessario che la vittima venga infastidita o perseguitata fisicamente, o per configurare il reato è sufficiente anche essere presi di mira, ad esempio, sui social network?".
Ecco le spiegazioni dell'avv. Pantana
Il reato di “ stalking” di cui all’art. 612-bis c.p. è stato introdotto dal D.l. 23 febbraio 2009 n. 11, recante < misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori >, convertito, con modificazioni, nella L. 23 aprile 2009 n. 38, con la finalità dichiarata di contrastare il fenomeno dello stalking, negli ultimi anni in preoccupante aumento e sempre più spesso all’attenzione delle cronache dei mass-media. La parola stalking deriva dal lessico venatorio inglese dove to stalker è colui che, a caccia di una preda, si apposta o la segue ossessivamente, tanto che negli ultimi anni ha assunto il significato di assillare, molestare, disturbare e perseguitare.
Nello specifico l’art. 612-bis c.p. prevede quanto segue:
[I]. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque (2) anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
[II]. La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici (3).
[III]. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
[IV]. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all'articolo 612, secondo comma. (4). Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio.
Pertanto, il contegno tipico punito dalla norma di cui al primo comma, consiste nella reiterazione di comportamenti minacciosi (art. 612 c.p.) o molesti (art. 660 c.p.) tali da determinare nella vittima “un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Il delitto è punibile a titolo di dolo generico ed è integrato dalla volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice. Trattandosi di reato abituale di evento, il dolo è da ritenersi senz'altro unitario, esprimendo un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica; ma ciò non significa affatto che l'agente debba rappresentarsi e volere fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi, ben potendo il dolo realizzarsi in modo graduale e avere ad oggetto la continuità nel complesso delle singole parti della condotta. (Cass. V, n. 18999/2014; Cass. V, n. 20993/2013).
Per quanto attiene alla condotta, gli atti che costituiscono lo stalking sono perlopiù comportamenti che potrebbero assumere sembianze anche normali se non fossero caratterizzati dall’insistenza ed invadenza nel tempo, tanto da causare effetti psicologici sulla vittima, oltre ad esporre quest'ultima al rischio di violenza. Così gli atti tipici dello stalker possono identificarsi: nell'invio ripetuto di regali, fiori, telefonate assillanti o solo squilli, posta assillante e disturbante (con ripetuti invii di e-mail Sms) negli appostamenti, nei frequenti incontri (apparentemente causali mai in realtà voluti e ricercati) sul luogo di lavoro della vittima e nelle vicinanze di esso o nei pressi dell'abitazione, nell'osservazione della vittima ecc... E se è vero che nella maggior parte dei casi lo stalking non è una persona violenta, può comunque accadere che il medesimo faccia ricorso alle minacce esplicite o ad atti di violenza a cose o persone (ad esempio il compimento di atti vandalici su beni di proprietà della vittima, quali l'automobile Cass. V, n. 8832/2011).
La norma individua tre tipi alternativi di evento che devono essere determinati dal comportamento criminoso tenuto dall'agente e in mancanza dei quali non avremmo il delitto di atti persecutori ma soltanto plurimi reati di minaccia o molestia.
Il delitto è dunque costruito secondo lo schema del reato di evento (Cass. n. 9222/2015) che si caratterizza per la produzione di un evento di «danno» consistente nell'alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero, alternativamente, di un evento di «pericolo», consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva..
Si tratta di reato a fattispecie alternative, ciascuna delle quali è idonea ad integrarlo (Cass. V, n. 34015/2010; Cass. V, n. 2987/2011; Cass. III, n. 23485/2014; Cass. III , n. 9222/2015).
Riguardo al perdurante e grave stato di ansia o di paura, secondo i primi commentatori doveva essere inteso come un vero e proprio stato patologico, accertabile nel processo per mezzo di consulenze tecniche. La giurisprudenza di legittimità si è invece discostata da tale orientamento ritenendo integrato l'evento anche in assenza di prova della causazione di una patologia nella vittima; ha infatti affermato che la prova dello stato d'ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall'agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante (Cass. V, n. 8832/2011; Cass. V, n. 24135/2012; Cass. VI, n. 50746/2014; Cass. VI, n. 20038/2014).
Per quanto concerne, invece, il fondato timore per l'incolumità propria di un prossimo congiunto o di persona legata da relazione affettiva, lo stesso non richiede l'accertamento di uno stato patologico ingenerato nella vittima dalla condotta dell'agente ben potendo il giudice fare ricorso alle massime di esperienza.
Infine, circa l’alterazione delle abitudini di vita, per la giurisprudenza di legittimità, ciò che rileva non è la valutazione quantitativa, ad esempio in termini orari, di tale variazione, ma il significato e le conseguenze emotive di una condotta alla quale la vittima sente di essere stata costretta, sottolineando che: “il fatto poi che lo stalking sia reato di evento e non di pura condotta, nulla ha a che vedere con il fatto che, nella maggior parte dei casi, la prova debba essere dedotta dalle parole della stessa vittima. Invero, è principio elementare quello in base al quale un fatto non va confuso con la sua prova. D'altra parte, non pochi sono i delitti con riferimento ai quali, in genere, l'unica prova consiste nelle dichiarazioni della persona offesa (si pensi, ad esempio, a tutti i reati a sfondo sessuale). Ciò che dunque rileva è la attendibilità della persona offesa e la credibilità del suo racconto” (Cass. V n. 24021/2014).
Riguardo alle aggravanti, il comma 2 dell'art. 612-bis c.p., introduce una circostanza ad efficacia comune; in particolare, il testo originario della norma prevedeva l'aumento della pena (fino a un terzo) qualora il fatto fosse commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da un soggetto che in passato è stato legato alla persona offesa da una relazione affettiva. Il d.l. 14 agosto 2013, n. 93, nel testo modificato dalla legge di conversione l. 15 ottobre 2013, n. 119, ha esteso l'applicazione della circostanza aggravante sia ai fatti commessi dal coniuge separato soltanto di fatto sia ai fatti commessi in costanza del rapporto di coniugio o affettivo. Detto decreto ha anche introdotto una nuova previsione aggravatrice al comma 2 della norma, che considera il fatto commesso attraverso strumenti informatici o telematici (come nel frequente caso in cui il delitto sia commesso attraverso l'invio di sms, e-mail, diffusione di video o immagini attraverso internet).
Il comma 3, prevede, invece, che la pena sia aumentata fino alla metà (si tratta, pertanto, di circostanza ad effetto speciale) qualora il fatto sia commesso ai danni di un minore, di una donna in stato di gravidanza, o di una persona con disabilità di cui all'art. 3, l. 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con l'uso di armi o da persona travisata; infine in base al disposto dell'art. 8 d.l. n. 11/2009 la pena è aumentata se il fatto è commesso da soggetto già ammonito. A tal proposito, l’art. 8 d.l. n. 11/2009 convertito nella L. n. 38/2009 prevede che “ fino a quando non è proposta querela per il reato di cui all' articolo 612-bis del codice penale, introdotto dall'articolo 7, la persona offesa può esporre i fatti all'autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell'autore della condotta. Il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l'istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale; copia del processo verbale è rilasciata al richiedente l'ammonimento e al soggetto ammonito. Il questore inoltre adotta i provvedimenti in materia di detenzione armi e munizioni. Per quanto riguarda, invece, la procedibilità d'ufficio per il delitto previsto dall'articolo 612-bis, la stessa è prevista quando il fatto è commesso da soggetto ammonito ai sensi del presente articolo, così come se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio.
A questo punto si riportano di seguito alcuni episodi che configurano il reato di stalking:
1) Tre giorni di corteggiamento folle: condannato per stalking
Appostamenti, pedinamenti e apprezzamenti alla donna desiderata costano caro all’uomo. Respinta la tesi che le sue condotte, concretizzatesi in tre giorni, siano catalogabili come semplice frutto di un insano amore. La vittima ha vissuto malissimo, con timore e ansia, quegli episodi, tanto da cambiare le proprie abitudini. (Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 104/18);
2)Amante presa di mira su Facebook: è stalking
Messaggi e filmati postati sui social network integrano l’elemento oggettivo del delitto di atti persecutori e l’attitudine dannosa di tale condotte non è tanto quella di costringere la vittima a subire offese o minaccia per via telematica, quanto quella di diffondere su internet dati, veri o falsi, fortemente dannosi. (Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 57764/17);
3) Atti di bullismo su un compagno: condannati per stalking
Confermata la decisione presa in secondo grado. I ragazzi finiti sotto accusa hanno offeso, maltrattato e aggredito la loro vittima, costringendolo a cambiare scuola. (Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 28623/17);
4) Bastano un paio di minacce all’ex compagna per integrare il reato di stalking
Il reiterato comportamento minaccioso o molesto che cagioni nella vittima un grave e perdurante stato di turbamento emotivo ovvero la costringa ad alterare le proprie abitudini di vita integra il reato di atti persecutori. (Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 26588/17);
5) Un giorno, un mese, un anno… non è l’arco temporale a stabilire se si tratta di stalking
Il delitto di atti persecutori si configura anche quando le singole condotte sono reiterate in un brevissimo arco temporale, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi, pur concentrata in un tempo ristretto, una sola giornata, sia la causa effettiva dello stato d’ansia, del fondato timore per l’incolumità o del mutamento delle abitudini di vita della vittima.(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 16205/17);
6) Pedinamenti e minacce alla moglie: condannato per stalking
Irrilevante il fatto che i due coniugi avessero avviato le pratiche per la separazione. I comportamenti tenuti dal marito sono stati ossessivi e caratterizzati anche da minacce di morte.(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 8362/17);
7) Danneggia più volte le ruote dell’auto di una donna: condannato per stalking
Sancita in via definitiva la colpevolezza di un uomo che ha preso di mira la vettura di proprietà di una sua vecchia conoscente. Decisiva la ripetizione ossessiva dei danneggiamenti.(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 52616/16).
Trattandosi di uno dei reati più odiosi, ma anche pericolosi, anche in questo caso consiglio di rivolgersi sempre alle autorità competenti per denunciare il fatto e consentire subito di poter prendere adeguati provvedimenti tesi innanzitutto a salvaguardare l'incolumità fisica della vittima di stalking.
Attendo come di consueto i vostri quesiti alla mail info@picchionews.it e vi aspetto la prossima settimana per un nuovo appuntamento con Chiedilo all'avvocato
Avv. Oberdan Pantana
Secondo appuntamento con la rubrica Chiedilo all'avvocato, curata dall'avv. Oberdan Pantana.
Le prime mail dei lettori arrivate all'indirizzo info@picchionews.it, hanno riguardato diversi argomenti, ma le domande più ricorrenti sono state quelle relative al maltrattamento di animali e a come giuridicamente la legge tutela i nostri amici a quattro zampe.
In particolare, abbiamo scelto la mail di una nostra lettrice di Cingoli che chiede all'avv. Pantana: "Gentile avvocato, capita purtroppo sempre più spesso di leggere sulla stampa notizie relative al maltrattamento di animali, in particolare cani e gatti. In che modo è possibile fare in modo che certe situazioni vengano evitate oppure, qualora non si possa intervenire in tempo, denunciare e punire i colpevoli?"
Il delitto di maltrattamento di animali di cui all’art. 544-ter c.p. è stato introdotto dall’art. 1 L. 20 luglio 2014 n. 189, con cui sono state incriminate condotte, talune delle quali già previste dalla contravvenzione di cui all’art. 727 c.p. “Abbandono di animali”, oggetto anch’essa di riformulazione.
Nello specifico l’art. 544-ter c.p. prevede quanto segue: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro.
La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi.
La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell'animale”.
Pertanto, nel primo comma vengono ricomprese le seguenti condotte:
a) Aver cagionato per crudeltà o senza necessità una “lesione”; a tal proposito, la Corte di Cassazione ha ritenuto come la nozione di “lesione”, sebbene non necessariamente coincidente con quella prevista dall'art. 582 c.p. delle “Lesioni personali”, implichi comunque la sussistenza di un'apprezzabile diminuzione della originaria integrità dell'animale che, pur non risolvendosi in un vero e proprio processo patologico e non determinando una menomazione funzionale, sia comunque diretta conseguenza di una condotta volontaria commissiva o omissiva (si v. Cass. III, n. 32837/2013);
b) Condotte di sevizie, comprensive di “tutte le forme di crudeltà verso animali, offensive del sentimento di pietà e compassione per gli stessi”;
c) Condotte consistenti nella sottoposizione dell'animale ad attività insopportabili per le sue caratteristiche etologiche; in sede di legittimità, si è precisato come la nozione di “comportamenti insopportabili per le caratteristiche etologiche” non assuma un significato “assoluto” (inteso come raggiungimento di un limite oltre il quale l’animale sarebbe annullato), ma un significato “relativo”, nel senso del contrasto con il comportamento proprio della specie di riferimento come ricostruita dalla scienza naturale (Cass. III, n. 39159/2014), che ne precisa il contenuto riferendolo alla collocazione degli animali in ambienti non adatti alla loro naturale esistenza, inadeguati dal punto di vista delle dimensioni, della salubrità, delle condizioni tecniche.
Nel secondo comma vengono invece incriminate le condotte di:
Somministrazione di “sostanza stupefacente o vietate”; da intendersi, in senso descrittivo come “ogni sostanza, naturale o sintetica, che, somministrata agli animali, risulti idonea a determinare in essi uno stato di alterazione fisica o psichica con effetto drogante”. Quanto, invece, alle sostanze vietate, per esse il richiamo vale alle norme che proibiscono la somministrazione di determinate sostanze agli animali (vi rientrano la norme che puniscono l'utilizzo di estrogeni nell'allevamento del bestiame, di cui alla d.l. 4 agosto 1999, n. 336, art. 32), o comunque, la “Sottoposizione a trattamenti che procurano un danno alla loro salute”.
Per la previsione di cui al terzo comma dell'art. 544-ter c.p., ovvero la morte dell’animale, dal punto di vista dell'ascrizione soggettiva, l'imputazione dell'evento “morte”, benché non coperta dal dolo, neanche “eventuale”, configurandosi altrimenti il delitto di cui all'art. 544-bis c.p. “Uccisione di animali”, deve comunque, secondo le regole fissate dall'art. 59, comma 2, c.p., essere ascrivibile almeno a colpa, dunque porsi come conseguenza prevedibile delle condotte di cui ai commi che precedono.
Pertanto, configurano il reato di maltrattamento di animali i seguenti fatti di cronaca che quotidianamente veniamo a conoscenza perché avvenuti anche localmente quali:
1)Tiene il proprio cane in isolamento e senza una cuccia adeguata: condannato
Ha tenuto il proprio cane – un pastore tedesco – legato per diversi giorni a una catena. Gli ha negato l’assistenza igienica, l’acqua e il cibo. Per concludere, l’ha obbligato a utilizzare una pseudo cuccia in cemento, che non gli offriva alcun riparo dal freddo e dalle intemperie.Più che un padrone, un aguzzino, e difatti i giudici lo hanno condannato a sei mesi di reclusione per “maltrattamento di animali”. Inequivocabili le condizioni del quadrupede: “stato di magrezza e deperimento” così avanzato da provocargli un collasso (Cassazione, sentenza n. 8036/18, sez. III Penale, depositata il 20 febbraio).
2)Cane bastonato: padrone condannato a pagare 10mila euro di multa
I guaiti del cane inchiodano il padrone. Essi vengono ripetutamente percepiti dai vicini di casa, che ne fanno un resoconto dettagliato alle forze dell’ordine, allertate a seguito della segnalazione relativa a un colpo di bastone dato dall’uomo sulla testa del quadrupede. Consequenziale la condanna per maltrattamenti (Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 38182/17, depositata oggi).
3)Collare elettrico per addestrare il cane: è maltrattamento
Disponibile online, pubblicizzato assai, proposto a prezzi variabili (da un minimo di 120 euro a un massimo di 290 euro), e talora anche recuperabile in ‘offerta’ (ad esempio, su ‘Ebay’ lo si trova a 32 euro). Eppure è da considerare ufficialmente vietato...Di cosa si parla? Del cosiddetto ‘collare elettrico’, o ‘collare d’addestramento’, da impiegare, secondo alcuni ‘teorici’, per ‘indirizzare’ il proprio cane. Ma, in realtà, da considerare, senza alcun dubbio, come strumento di tortura per l’animale. (Cassazione, sentenza n. 38034, Terza sezione Penale, depositata oggi)Correzione? Decisivo è il ritrovamento di un cane, che vaga «incustodito sulla pubblica via»: a richiamare l’attenzione è il suo collare, che risulta essere un «collare elettronico».Caratteristiche dell’apparecchio? Produrre scosse di varia intensità sul collo dell’animale, ovviamente su input del padrone con un apposito telecomando a distanza, per «reprimere», sempre secondo i ‘teorici’, «comportamenti molesti».Ma questa strumentazione – di vago richiamo medievale... – è da considerare assolutamente vietata, almeno in Italia. Per questo motivo, il padrone dell’animale viene condannato – su decisione del Giudice per le indagini preliminari – per aver detenuto il cane «in condizioni incompatibili con la sua natura, e produttive di gravi sofferenze».Ad avviso dell’uomo, però, è stato trascurato un particolare importante: il collare elettrico, «se utilizzato correttamente», è «necessario per un utile addestramento dell’animale, provocandogli solo una lieve molestia».No, maltrattamento. L’obiezione proposta dal padrone del cane, però, viene respinta in maniera netta dai giudici della Cassazione, i quali ribadiscono, a chiare lettere, che «il collare elettronico» è da considerare «certamente incompatibile con la natura del cane». Perché l’«addestramento», che si presume di poter così realizzare, è «basato esclusivamente sul dolore» e «incide sull’integrità psico-fisica del cane, poiché la somministrazione di scariche elettriche per condizionarne i riflessi ed indurlo, tramite stimoli dolorosi, ai comportamenti desiderati produce effetti collaterali quali paura, ansia, depressione ed anche aggressività».Come si può parlare, allora, di «addestramento»? Piuttosto, è logico considerare gli «effetti» del ricorso al collare elettrico sul «comportamento dell’animale» come «maltrattamento» in piena regola.Proprio per questo, è da confermare in toto la condanna nei confronti dell’uomo, così come decisa dal Giudice per le indagini preliminari.
3)Apppalti a iosa con i Comuni e quadrupedi ammassati: sigilli al ‘canile lager’.
Vero e proprio ‘lager’, quello scoperto: nel contesto di un canile i quadrupedi erano letteralmente ammassati, comunque oltre la propria capienza massima, tutto ciò con il chiaro obiettivo di massimizzare i profitti.Evidente la fondatezza delle accuse mosse ai proprietari della struttura: regge, cioè, l’ipotesi della contestazione di maltrattamento di animali. E, di conseguenza, regge anche il provvedimento di sequestro preventivo del canile (Cassazione, sentenza n. 37859, sez. III Penale, depositata oggi).Riferimento fondamentale, a questo proposito, le «condizioni nelle quali gli animali erano custoditi, condizioni incompatibili con la natura degli animali e produttiva di gravi sofferenze e sevizie».
4) L’abbaio di Fido chiuso da ore in auto a più di trenta gradi basta e avanza per una condanna.
Non serve ulteriore prova della sofferenza grave, quando un cane abbaia incessantemente, lasciato chiuso in auto per lungo tempo ad elevate temperature, in quanto il suo malessere è «condizione certamente intuibile con il senso comune e non necessitante visite specialistiche e/o perizie ad hoc (…) essendo nozioni di comune conoscenza divulgate in occasione di fatti di cronaca, nelle quali, da episodi analoghi, sono scaturiti eventi drammatici quali la morte». (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 14250/15; depositata il 9 aprile).
Nel raccomandare di denunciare sempre e comunque questi brutti episodi alle autorità competenti, aspetto altri quesiti dei lettori di Picchio News cui poter rispondere nei prossimi appuntamenti con la rubrica Chiedilo all'avvocato.
Avv. Oberdan Pantana
Parte questa settimana la nuova rubrica di Picchio News "Chiedilo all'avvocato", in collaborazione con l'avvocato Oberdan Pantana.
Il legale maceratese si mette a disposizione dei nostri lettori che possono interagire inviando i loro quesiti alla mail info@picchionews.it. La rubrica avrà cadenza quindicinale. Il primo intervento dell'avvocato Pantana riguarda le multe elevate tramite Scout o Street control.
Le infrazioni rilevate con dispositivi fotografici posti sulle auto dei Vigili urbani, in uso anche a Macerata, vanno contestate subito se presente il trasgressore.
E’ il principio confermato anche dal Giudice di Pace di Milano, dott. Sergio Gallo nella sentenza n. 100658 depositata il 13/3/2013, così come quello di altri giudicanti in altre parti d’Italia.
Il caso sottoposto all’esame del Giudice ha riguardato un automobilista a cui era stato notificato dalla Polizia Municipale di Milano un verbale di accertamento con il quale gli veniva contestata la sosta in doppia fila della propria autovettura. Dalla contravvenzione si ricavava che la stessa fosse stata rilevata con lo strumento cosiddetto “Scout”, dispositivo tecnologico adottato dal Comune di Milano che permette di sanzionare in tempi rapidissimi le auto in doppia fila.
Non essendo stata contestata immediatamente l’infrazione e in assenza di elementi che potessero consentire una verifica delle circostanze contestate (la fotografia scattata dovrebbe infatti essere messa a disposizione del destinatario della contravvenzione accedendo al sito internet del Comune di Milano) poiché l’inserimento del codice indicato sulla contravvenzione sul portale del Comune non conduceva ad alcuna informazione né tantomeno ad alcuna fotografia del veicolo, l’automobilista impugnava il verbale di accertamento dinanzi al Giudice di Pace per ottenerne l’annullamento stante la violazione del proprio diritto di difesa.
Il Comune si costituiva in giudizio con memoria con la quale allegava una fotografia dell’auto senza altra specificazione.
Correttamente, il Giudicante ha dichiarato nella propria sentenza che “non basta dunque riprendere o fotografare un’auto in divieto di sosta, per poter inviare la multa a casa a distanza di tempo. Se la Polizia municipale usa lo “Street control” o altro sistema similare per accertare le infrazioni, gli agenti sono tenuti a cercare subito il trasgressore: in caso contrario la sanzione è nulla”.
Lo ha chiarito anche il Ministero dei Trasporti con propri pareri, con i quali hanno messo al bando i nuovi dispositivi usati da molti Comuni per scovare auto in doppia fila o in sosta vietata e recapitare verbali a raffica ai proprietari dei mezzi. L’automobilista va cercato subito. La pratica, molto agevole e sbrigativa per la Polizia municipale – dell’immortalare con una telecamera portatile le auto in sosta vietata lungo le strade più trafficate, del successivo rintraccio dei dati dei trasgressori e dell’invio per posta delle multe, giustificando la contestazione differita con la mancanza del destinatario a bordo dell’auto – spiega il ministero, viola l’art. 201 del nuovo codice della strada (il d.lgs. 285/1992). Il codice stradale, infatti, permette la «contestazione non immediata della violazione del divieto di sosta, nel caso di accertamento in assenza del trasgressore e del proprietario del veicolo».
I verbali, cioè, possono essere spediti a domicilio, solo se il conducente o l’intestatario della carta di circolazione non sono presenti al momento della scoperta. Ma i sistemi di videosorveglianza, pur essendo adatti a riprendere le violazioni, prosegue il parere «non risultano tuttavia idonei a dimostrare l’assenza del trasgressore, circostanza che può essere accertata solo dall’intervento diretto degli organi di polizia stradale».
Dunque, è necessario che una pattuglia dei Vigili accerti di persona se c’è qualcuno al volante o comunque vi sia la sua presenza nelle vicinanze, poiché in tal caso la contestazione dovrà essere immediata altrimenti tale contravvenzione sarà illegittima.
I pareri di riferimento del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sono il n. 2291/2012 ed il n. 4851/2015, i quali ribadiscono che, “I sistemi di videosorveglianza, anche se risultano idonei a dimostrare l'avvenuta violazione, non sono tuttavia idonei a dimostrare l'assenza del trasgressore e del proprietario del veicolo, circostanza che può essere accertata solo dall'intervento diretto degli organi di polizia stradale”; ne discende che l’utilizzo degli stessi non servirebbe per giustificare la contestazione non immediata.
Infine, ulteriori contestazioni potrebbero essere elevate contro tale procedura utilizzata dalla Polizia Municipale anche riguardo alla mancata omologazione della strumentazione utilizzata dai vigili urbani, così come l’assenza di segnalazione con cartellonistica circa l’utilizzo di detti mezzi elettronici in quel preciso tratto stradale da parte degli agenti della municipale.
Macerata lì 18.04.2018