Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente i comportamenti tenuti durante l’orario lavorativo e precisamente quello dei cosiddetti “furbetti del cartellino”. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Esanatoglia, che chiede: “A quali conseguenze può andare incontro, il dipendente pubblico che durante l’orario di lavoro, timbra il proprio badge e si allontana dalla postazione lavorativa, senza alcun giustificato motivo?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo a un diffuso mal costume relativo ai comportamenti tenuti, durante l’orario lavorativo, dai cosiddetti “furbetti del cartellino”. Infatti, occorre specificare che con tale espressione si fa riferimento a coloro che, specialmente nell’ambito del pubblico impiego, provvedono a timbrare il proprio cartellino o a farlo timbrare da colleghi compiacenti, risultando in tal modo regolarmente in servizio, salvo poi assentarsi inspiegabilmente dal luogo di lavoro, per i motivi più disparati, come recentemente riportato anche dai principali organi di informazione, in merito a lavoratori che, dopo aver timbrato il proprio badge, si erano recati durante l’orario di lavoro a fare la spesa o addirittura in montagna.
Quindi, tale illegittima condotta posta in essere ai danni della Pubblica Amministrazione, risulta perfettamente idonea a configurare il reato di truffa aggravata, così come previsto dall’art. 640 c.p., il quale punisce espressamente chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, prevedendo in particolare al comma successivo, un aumento di pena, nel caso in cui la condotta fraudolenta venga compiuta ai danni dello Stato o di un altro ente pubblico.
A tal proposito, la Suprema Corte con una recentissima pronuncia, ha riconosciuto la responsabilità penale di colui che in maniera fraudolenta attesta la propria presenza sul luogo di lavoro, stabilendo quanto segue: “La falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata qualora il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino, i periodi di assenza, sempre che questi siano economicamente apprezzabili per la P.A.” (Cassazione Penale, Sez. II, sentenza n. 3262/19; depositata il 23 gennaio 2019).
Ebbene, la falsa attestazione sul luogo di lavoro, oltre ad integrare la fattispecie penalmente rilevante della truffa aggravata, comporta anche un rilevante danno di natura economica all’erario e all’Ente truffato, considerato che il lavoratore fornisce in tal modo una prestazione lavorativa nettamente inferiore rispetto a quella effettivamente dovuta contrattualmente.
Conseguentemente, il comportamento del dipendente pubblico che è diretto a raggirare il sistema di rilevamento delle presenza, va ad incidere sulla organizzazione della Pubblica Amministrazione, andando a modificare arbitrariamente i prestabiliti orari di presenza in ufficio; tutto ciò, risulta certamente idoneo a ledere il rapporto fiduciario che si instaura tra il singolo dipendente e l’Ente stesso. Pertanto, in presenza di tali gravi nonché illegittime condotte, l’azienda è pienamente legittimata a licenziare il proprio dipendente, così come autorevolmente sancito dalla Corte di Cassazione, e precisamente: “È legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente non presente in ufficio, pur a fronte della timbratura del proprio badge, effettuata da un collega. Infatti, la falsa attestazione, mediante timbratura del badge identificativo ad opera di un terzo, implica la violazione di fondamentali doveri scaturenti dal vincolo della subordinazione, venendo intaccato gravemente e irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro”(Cassazione Civile Sez. Lavoro, 28/05/2018, n. 13269).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'Avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica assai attuale relativa al risarcimento dei danni e nello specifico quelli causati da incidente su pista da sci.
Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un nostro lettore di Macerata, che chiede: “Se durante la discesa da una pista da sci, si urta contro una staccionata di legno non segnalata e si subisce una lesione, è possibile richiedere il risarcimento del danno al gestore degli impianti sciistici?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una tematica estremamente attuale, relativa ad un’attività sportiva anche se non praticata a livello agonistico, interessando principalmente l’istituto della responsabilità del custode per i danni cagionati dalla cosa in custodia, disciplinato dall’art. 2051 c.c. , il quale stabilisce espressamente che: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”, ovvero l’accadimento di una circostanza imprevedibile e fuori dall’ordinaria consuetudine.
A tal proposito, così come affermato dalla Suprema Corte: “Nello schema legale della responsabilità oggettiva per danni derivati da cose in custodia dell'art. 2051 c.c., il limite oltre il quale cessa la relazione oggettiva tra colui (il custode) che dispone della cosa e l'evento pregiudizievole derivato al terzo "dalla cosa", debba rinvenirsi nell'intervento di una fattore estrinseco alla cosa stessa, qualificabile come "caso fortuito" che, per il suo carattere di imprevedibilità e di eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale.
Tale ipotesi ricorre anche nel caso in cui l'evento imprevedibile ed eccezionale debba ravvisarsi nella condotta dello stesso danneggiato” (Cass. Civ.; sez. III, dep. 05/07/2017; n.16509).
Nel caso specifico, proprio tale pronuncia della Corte di Cassazione, evidenzia come il gestore dell’impianto sciistico sia responsabile per i danni accorsi allo sciatore durante la discesa proprio per il fatto di aver omesso la dovuta segnalazione in prossimità di una staccionata, elemento questo di pericolo che va ad escludere qualsiasi circostanza di caso fortuito.
Inoltre, laddove il soggetto danneggiato dovesse evidenziare nei riguardi del gestore degli impianti comportamenti dolosi o colposi idonei ad integrare la responsabilità extracontrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c. , anche il tale circostanza, il gestore sarebbe responsabile dei relativi danni avvenuti allo sciatore, così come affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 4018/2013:
“Affinché si possa pervenire all'individuazione di un comportamento colposo in capo al gestore, ex art. 2043 c.c., con conseguente risarcimento del danno, è necessario, sulla base dei principi generali, che il danneggiato provi l'esistenza di condizioni di pericolo della pista che rendano esigibile, sulla base della diligenza specifica richiesta, la protezione da possibili incidenti; condizioni in presenza delle quali è configurabile un comportamento colposo del gestore per la mancata predisposizione di segnalazioni” (Corte di Cass. Civ., Sez. III; 19/02/2013; n.4018).
Pertanto, in risposta alla domanda posta dal nostro lettore, il gestore dell’impianto sciistico risulterebbe il responsabile a titolo di risarcimento dell’evento dannoso accorso allo sciatore, proprio perché avvenuto nonostante l’impiego dell’ordinaria diligenza ed attenzione richieste da parte del danneggiato; al contrario, “ove tale condotta dovesse risultare imprudente o gravemente colposa, il nesso causale tra danno subito e fatto ingiusto altrui, risulterebbe irrimediabilmente interrotto”, precludendo allo sciatore, il risarcimento del danno subito (Cass. Civ., sez. III, del 10/05/2018, n. 11274).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente i comportamenti tenuti dal datore di lavoro che mirano a ledere i diritti e la professionalità del proprio dipendente.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Castelraimondo, che chiede: Quando il lavoratore può chiedere il risarcimento danni da mobbing?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo alla sempre più frequente ed attuale vicenda legata al mobbing, ovvero a tutti quei comportamenti persecutori che tendono a emarginare un soggetto dal gruppo sociale di appartenenza, tramite violenza psichica protratta nel tempo e in grado di causare seri danni alla vittima. In particolare, è opportuno soffermarsi sul principale contesto in cui vengono in risalto simili condotte illecite, ovvero l’ambiente lavorativo, laddove il mobbing si estrinseca in tutti quei comportamenti che il datore di lavoro pone in essere per svariate ragioni, al fine di emarginare e allontanare un determinato lavoratore.
A tal proposito, la Corte di Cassazione, con una recentissima pronuncia, ha ben definito gli elementi costitutivi di tale comportamento persecutorio, stabilendo quanto segue: “Per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità. Per la ricorrenza di tale fattispecie devono pertanto sussistere la molteplicità dei comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, purché reiterati nel tempo e connotati da intento vessatorio, l’evento lesivo della salute o della personalità del lavoratore, il nesso eziologico tra condotta e pregiudizio e la prova dell’elemento soggettivo e, cioè, dell’intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi” (Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, sentenza n. 30673/18; depositata il 27 novembre 2018).
Tutto ciò può essere anche legato ad episodi di demansionamento, in conseguenza dei quali il lavoratore viene costretto a svolgere mansioni di livello inferiore rispetto a quelle per le quali è stato assunto, come nel caso in cui venga relegato a fare delle mere fotocopie, situazione che umilia e limita l’espressione delle capacità e delle competenze dello stesso lavoratore, oppure casi in cui lo stesso lavoratore venga sottoposto a continue critiche ingiuste o a illegittime limitazioni circa la possibilità di fare carriera all’interno dell’ambiente lavorativo. Pertanto, in presenza di tali circostanze, il lavoratore può legittimamente chiedere il risarcimento del danno patito nei confronti del proprio datore di lavoro, così come autorevolmente sancito della Suprema Corte, e precisamente: “Nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale (art. 32 e 37 cost.), il danno non patrimoniale è configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore, concretizzando un vulnus ad interessi oggetto di copertura costituzionale; questi ultimi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi - concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che vanno risarciti, mediante una valutazione supportata da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia, sottratta, come tale, anche quanto alla quantificazione del danno, a qualsiasi censura in sede di legittimità” (Cassazione Civile Sez. Unite, 22/02/2010, n.4063).
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In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica assai delicata ed attuale, relativa al rilascio della licenza di porto d’armi a seguito di una condanna penale.
Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un nostro lettore di San Ginesio, che chiede: “Il rilascio della licenza di porto d’armi, può essere negato automaticamente anche se il fatto di rilevanza penale è accaduto in un momento temporalmente distante rispetto a quello in cui viene effettuata la richiesta?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una tematica estremamente sensibile e molto spesso dibattuta a causa della stretta relazione che sussiste tra il provvedimento di diniego della richiesta di licenza e la c.d. discrezionalità amministrativa.
Difatti, il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS), che disciplina la materia, al comma I dell’art. 43, elenca le circostanze ostative alla concessione della specifica licenza in questione, stabilendo espressamente che: “Oltre a quanto è stabilito dall'art. 11 non può essere conceduta la licenza di portare armi:
a) a chi ha riportato condanna alla reclusione per delitti non colposi contro le persone commessi con violenza, ovvero per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione;
b) a chi ha riportato condanna a pena restrittiva della libertà personale per violenza o resistenza all'autorità o per delitti contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico;
c) a chi ha riportato condanna per diserzione in tempo di guerra, anche se amnistiato, o per porto abusivo di armi.”
Dalla lettura di tale dispositivo, sembrerebbe dunque prevedersi l’assoluta l'incompatibilità del precedente penale con il rilascio del porto d'armi, se non fosse che al comma II della stessa norma, nello stabilire che"La licenza può essere ricusata ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi non può provare la sua buona condotta o non dà affidamento di non abusare delle armi", la norma attribuisce alla Pubblica Amministrazione (P.A.) la chiara possibilità di vagliare le singole fattispecie concrete, nei termini di un potere discrezione apparentemente privo di limitazioni.
Da qui, la conseguente problematica relativa alla palese e incontrollata ampiezza di tale discrezionalità amministrativa, la quale talvolta ha assunto i connotati di un vero e proprio “abuso di potere”, determinando il moltiplicarsi dei ricorsi in opposizione avverso tale sistema decisionale.
A tal proposito, numerose sono state le pronunce dei vari Tribunali Amministrativi Regionali (T.A.R), volte a definire i termini di operatività di tale potere discrezionale, con particolare riguardo ai principi cui la stessa P.A. ha il dovere di ispirarsi nel valutare caso per caso le istanze di ciascun richiedente e i requisiti cui affidarsi nelle decisioni di concessione o diniego della licenza in questione.
In particolare, con riferimento al necessario giudizio prognostico attraverso cui valutare la meritevolezza ed affidabilità del soggetto richiedente, nei casi in cui sussista in capo a quest’ultimo una precedente condanna penale, il T.A.R. Piemonte ha affermato a chiare lettere che: “non è sufficiente per l’Amministrazione invocare il dato fattuale della remota condanna, occorrendo, piuttosto, procedere ad una concreta prognosi che tenga conto di tale evento, ma pure della condotta tenuta dall’interessato nell’ampio lasso di tempo successivo al fatto, nonché della circostanza che negli anni non si siano verificati episodiche possano costituire indici concreti ad accertati d’attuale pericolosità ed inaffidabilità del ricorrente” (T.A.R. Piemonte, sez. I, 12.12.2017, n. 1349), aggiungendo, in altra pronuncia, quanto segue: “La coerenza dell’ordinamento, impone all’amministrazione quanto meno di procedere ad una prognosi concreta che tenga conto del tempo trascorso e della condotta tenuta successivamente al fatto di reato con l’onere di motivare specificatamente i fatti che essa ritenga espressivi di non avvenuto completamento dell’emenda, fermo restando che in linea generale non possono compiersi apprezzamenti negativi in presenza di un solo episodio ostativo mai più ripetuto. (T.A.R. Piemonte, sez. I, 10.01.2018, n.84)
Pertanto, in risposta alla domanda posta del nostro lettore, si può correttamente sostenere che nel caso di specie, debba essere preferita una interpretazione della norma conforme ai principi costituzionali, con la conseguenza, che la P.A., nel compiere la propria complessiva valutazione in ordine all’affidabilità nel possesso delle armi, all’interno di un più generale giudizio prognostico sull’opportunità di concessione della licenza, non può non tenere conto anche della sussistenza di altri elementi, attuali e concreti, dai quali desumere una più idonea e aderente valutazione circa la condotta del soggetto richiedente, a maggior ragione se si parla di un singolo episodio, mai più ripetuto con addirittura l’avvenuta riabilitazione.
Alla luce di quanto affermato e come pure sancito dall’autorevole pronuncia del Consiglio di Stato, risulta pertanto oramai pacifico sostenere che:“la preclusione prevista dall'art. 43 TULPS per il possesso di armi e munizioni in capo ai soggetti, che abbiano subito le indicate tipologie di condanne, non possa essere automatica, ove ragionevolmente altri elementi attuali della personalità dell'interessato, quale il lungo tempo intercorso rispetto all'epoca del commesso reato senza la commissione di ulteriori illeciti penali (corroborato nelle sue positive implicazioni dalla intervenuta riabilitazione), depongano per lo stabile il ripristino in capo al soggetto medesimo delle richieste condizioni di affidabilità nel possesso di armi in corrispondenza ad una rinnovata e consolidata integrazione nel sano contesto socio economico in presenza di indizi univoci e concordanti in tale senso”. (Consiglio di Stato, sez. III, 17.11.2017, n. 5313).
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Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente tematiche riferibili ai rapporti interpersonali e nello specifico quelli che possono scaturire dalla separazione personale dei coniugi. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda di un lettore di Civitanova Marche, che chiede:” Se il beneficiario di un assegno di mantenimento costituisce una famiglia di fatto può perdere tale diritto?
A tal proposito, la sentenza n. 32871/18 della Corte di Cassazione, Sez. I Civ., ha posto in essere il nuovo orientamento in tema di assegno di mantenimento riguardo ad una nuova scelta esistenziale del coniuge separato, superando i precedenti assetti della elaborazione giurisprudenziale di riferimento. Di fatti, i giudici della Corte di Cassazione, oltre a ricordare che in tema di separazione personale dei coniugi, la convivenza stabile e continuativa intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione o la interruzione dell'obbligo di corresponsione dell'assegno di mantenimento che grava sull'altro ex, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi more uxorio siano messe in comune nell'interesse del nuovo nucleo familiare, la Suprema Corte va oltre, statuendo che la formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto, ad opera del coniuge beneficiario dell'assegno di mantenimento, va a porre in essere una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita ed il nuovo assetto fattuale costituzionalmente tutelato, ai sensi dell’art. 2 Cost., in quanto espressamente cercato e voluto dal coniuge beneficiario della solidarietà coniugale. Infatti, la ricerca, la scelta ed il concreto perseguimento di un diverso assetto di vita familiare, da parte del coniuge che pure abbia conseguito il riconoscimento del diritto dell'assegno di mantenimento, fa scaturire un riflesso incisivo dello stesso diritto alla contribuzione periodica, facendola venir meno, non rilevando la possibilità che i coniugi non divorziati possano astrattamente tornare a ricomporre la propria vita a seguito di un (improbabile) ripensamento, perché anche in questo caso l'assegno non rivivrebbe ma tornerebbe ad operare il precedente assetto di vita caratterizzato dalla ripresa della convivenza, con conseguente impossibilità di reviviscenza del contributo che era stato a suo tempo assegnato dal giudice. Per tali ragioni, risulta corretto affermare che, l’assegno di mantenimento, viene meno nei confronti del beneficiario nel momento in cui lo stesso va a costituire una famiglia di fatto (Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza n. 32871/18, depositata il 19 dicembre 2018).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente l’imminente festività del Capodanno, con l’ormai classica problematica dei botti legata all’incolumità delle persone e degli animali. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda di un lettore di Pieve Torina, che chiede a quali responsabilità può andare incontro il produttore di fuochi d’artificioe/o il consumatore, nel momento in cui una persona rimane ferita aseguito di un utilizzo inidoneo o ad un malfunzionamento del prodottopirico?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica molto importante e delicata, come quella relativa alla fabbricazione di prodotti pirici, considerato che in occasione dei festeggiamenti per l’ultimo dell’anno, vengono in risalto sempre piùcasi di persone che rimangono ferite, anche gravemente, a seguito dell’utilizzo non adeguato o ad un malfunzionamento dei cosiddetti “botti di capodanno”. Innanzitutto, occorre precisare che sono state introdotte nel nostro Paese, anche sotto la spinta dell’ordinamento comunitario, rigorose regole che impongono requisiti generali di sicurezza per ogni prodotto che viene immesso sul mercato comunitario e destinato al consumo o che possa essere usato dai consumatori. Quindi, sui fabbricanti di beni, e in particolare sui produttori di prodotti pirici, gravano dei precisi obblighi generali, tra i quali risaltano quelli di tipo informativo, e in particolare in ordine alla sicurezza, composizione e qualità dei prodotti; infatti, risulta opportuno citare l’art. 2 del D. lgs. n. 206/2005, meglio noto comeCodice del Consumo, il quale prevede che ai consumatori ed agli utenti sono riconosciuti come fondamentali i diritti relativi alla tutela della salute, alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi, nonché ad una adeguata informazione e corretta pubblicità circa l’utilizzo degli stessi. A tal proposito, la Corte di Cassazione, hastabilito quanto segue: “I produttori di fuochi pirici sono titolari di una posizione di garanzia nei confronti degli acquirenti che, in quanto consumatori, vanno informati adeguatamente circa le modalità con cui il prodotto va utilizzato, i rischi derivabili da un uso inidoneo e i pericoli di malfunzionamento del prodotto; pertanto, rispondono delle omissioni qualora a queste sia connesso un evento lesivo in danno dei consumatori”(Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, n. 3472/15; depositata il 26 gennaio 2015). Oltretutto, è doveroso ricordare come tali botti di capodanno, in alcuni casi, siano utilizzati anche in modo illegale, risultando così pericolosi per l’incolumità sia delle persone sia dei nostri amici a quattro zampe; in tali casi, è opportuno riportare una recente sentenza della Suprema Corte, che ha riconosciuto la responsabilità penale e relativi obblighi risarcitori nei confronti non solo di chi ha ‘ordinato’ l’acquisto ed ha poi materialmente comprato i ‘botti’, ma anche di successivamente li ha utilizzati, causando il ferimento di persone ed animali che in qual momento stavano passeggiando (Cassazione, sentenza n. 25365/18, depositata il 12 ottobre 2018).
Nel consigliare, pertanto, un utilizzo consapevole, attento e legale dei prodotti pirotecnici, auguro a tutti voi lettori un buon 2019, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato diversi argomenti a carattere natalizio e, data la diffusa atmosfera di festa, nonché la singolare curiosità espressa dai molteplici lettori per circostanze che riguardano direttamente e indirettamente la festività del Natale, abbiamo scelto di riportare le seguenti situazioni.
Di seguito la risposta alla domanda di un lettore di Civitanova che chiede: “Se durante il cenone della vigilia, nello stappare lo spumante colpisco con il tappo uno dei presenti, in quali responsabilità posso incorrere?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, il riferimento a quanto accaduto al titolare di un ristorante che, preso dall’euforia dei festeggiamenti, finiva per ferire all’occhio una cliente che sedeva poco distante, con il tappo dello spumante appena aperto.
La Suprema Corte pronunciatasi sulla vicenda, ravvisava nella condotta dell’euforico ristoratore, il reato di lesioni colpose, a causa della mancata adozione delle idonee cautele del caso, condannandolo alla pena prevista dall’art. 590 c.p. che stabilisce testualmente: “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a 309 euro”. (Cass. Pen., Sez. IV, n.32548 del 12.07.2016)
Ebbene sì, anche un gesto festoso può finire per “conciarci per le feste”.
-In risposta alla domanda di un lettore di Porto Recanati che chiede: “Se a causa di un ritardo del volo prenotato, ci viene impedito di trascorrere le festività con i nostri cari, può essere richiesto il risarcimento del danno subito?”. Riportiamo la sentenza del Giudice di Pace di Cagliari (n. 571/2012) che, pronunciatosi su un caso molto simile, aveva condannato la compagnia aerea a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali ad un passeggero che era stato costretto a trascorrere la vigilia di Natale in aeroporto, consumando il “cenone” in solitaria con del cibo acquistato presso un bar poco distante dal gate. L'uomo difatti, oltre al risarcimento per il danno esistenziale subito, era stato ristorato anche dei danni patrimoniali comprese le spese per comprare i due "tristi" panini del “cenone natalizio”!
-Di seguito la risposta ad un lettore di Tolentino che ci chiede: “E’ legittimo il licenziamento di un dipendente che, in occasione delle festività natalizie, decide in piena autonomia di concedersi delle ferie per stare con la propria famiglia?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica molto importante sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20461 del 30.09.2010 in riferimento alla condotta posta in essere da un dipendente che, nonostante il rifiuto della richiesta da parte del datore di lavoro, decideva di non presentarsi comunque al lavoro, rimanendo a casa da Natale a Capodanno.
La Suprema Corte chiamata a pronunciarsi, aveva rilevato che “considerata la mancata prova delle circostanze che potevano rilevare nel rendere più lieve l'infrazione e quindi eccessiva la sanzione del licenziamento, ai fini del giudizio di necessaria proporzionalità, l'allontanamento arbitrario dal posto di lavoro dal 24 al 31 dicembre, malgrado il rifiuto dell'azienda datrice, costituiva giusta causa di recesso, conformemente peraltro a quanto previsto dall'art. 151 del CCNL”, che disciplina i tempi, le circostanze e le modalità con cui il lavoratore può legittimamente richiede un periodo di aspettativa al proprio datore di lavoro; circostanze non rispettate nel caso di specie.
Con tali motivazioni dunque, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso formulato dal lavoratore e dichiarava la legittimità del licenziamento posto in essere dal datore di lavoro.
Quando si suol dire, le ferie costano care!!
-In risposta alla domanda posta da un lettore di Muccia che chiede: “Essere un giocatore di carte soprattutto nel periodo natalizio può comportare ripercussioni in sede di separazione?” Riportiamo la decisione assunta dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.5395/2014, che, chiamata a pronunciarsi in merito ad una caso di separazione giudiziale dei coniugi, aveva stabilito l’addebito della separazione in capo al marito, il quale era solito spendere molto denaro nel gioco e che, solo nel periodo natalizio, aveva sperperato oltre € 1.000 giocando a carte.
La Suprema Corte adita aveva infatti chiarito che “anche il gioco d'azzardo, ripetuto ed eccessivo, viola in modo grave gli obblighi matrimoniali sino a rendere la convivenza intollerabile e a far scaturire separazione e consequenziale addebito.”
Difatti, il discutibile vizio che impegnava il marito della coppia per diverse ore al giorno, assentandosi quasi totalmente nel periodo natalizio oltre a rappresentare una cattiva abitudine, lo portava a stare spesso, e senza alcun giustificato motivo, fuori casa, non ottemperando ai propri doveri di marito e padre, per di più sottraendo grosse somme di denaro alla cura e al sostentamento della propria famiglia.
Pertanto, senza negare il piacere che può derivare dal giocare a carte con amici o in famiglia, specie durante il periodo natalizio, si consiglia di non esagerare!
-In risposta alla domanda di un lettore di Corridonia che chiede: “E’ penalmente sanzionabile un soggetto che invia infausti auguri di Natale ?” Riportiamo la pronuncia del Tribunale di Bari, che con sentenza depositata il 25 febbraio 2015, ha condannato per estorsione un uomo che si era rivolto più volte alla sua vittima minacciandola ripetutamente del fatto che, se non gli avesse dato i soldi richiesti, la madre avrebbe passato “un brutto Natale”.
Difatti l’art. 629 c.p. punendo “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”intende scongiurare che la prospettazione di un evento dannoso per l'incolumità fisica della vittima o di una persona ad essa molto vicina, spingano la stessa a gesti disperati o comunque non voluti.
Il Tribunale adito, specificava inoltre che “In tema di estorsione, la violenza o la minaccia può essere manifestata in modi e forme differenti, purché venga a crearsi la condizione di costrizione psichica della vittima volta, ad ottenere un profitto ingiusto per sé o per altri, con danno altrui.”
A differenza del caso appena proposto, e in vista del Natale orami alle porte, nel rimanere in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, colgo l’occasione per porgerVi i miei migliori auguri di Buone Feste, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente tematiche riferibili alle conseguenze del cd. phishing, fenomeno finalizzato all’acquisizione, da parte di hacker, di dati personali e sensibili; di seguito la risposta alla domanda posta da una lettrice di Corridonia, che chiede: è possibile ottenere un risarcimento dal proprio istituto bancario, qualora terzi si impossessino delle credenziali di accesso al servizio di home banking ed azzerino la giacenza sul conto corrente?
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo alla tematica, molto attuale, delle responsabilità derivanti dal cd. phishing, fenomeno molto frequente online, che si verifica quando un soggetto si finge un ente affidabile, quale ad es. un istituto di credito, ed attraverso varie modalità, come l’invio di e-mail o il rimando dell’utente su un sito web creato ad hoc, acquisisce i dati finanziari o, comunque, le credenziali di accesso al conto corrente del titolare, allo scopo di utilizzarli per disporre della liquidità presente. A tal proposito, occorre considerare come il rischio che terzi estranei sottraggano i dati personali dei propri correntisti, il cui particolare trattamento da parte dell’istituto è soggetto alle disposizioni previste in materia dal Codice della Privacy e dal Regolamento Europeo n. 679/2016, sia considerato da giurisprudenza consolidata, un rischio tipico del prestatore dei servizi di pagamento, in quanto tale prevedibile ed evitabile; sussiste dunque, innanzitutto, in capo all’istituto di credito, l’obbligo di operare con la diligenza qualificata di cui all’art. 1176 co.2 c.c., da valutare assumendo come parametro la figura del cd. accorto banchiere, e dunque l’obbligo di garantire elevati standard di sicurezza nell’utilizzo dei propri sistemi di pagamento online, determinato con riferimento alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, in modo tale da evitare tali illegittime sottrazioni, ad esempio, imponendo ai propri clienti l’uso delle cd. O.T.P., One Time Password, o dei cd. sistemi di autenticazione a due fattori. Pertanto, in capo all’istituto di credito sussisterà l’obbligo di risarcire il danno, ex art. 2050 c.c., nel caso in cui avvengano episodi di accesso non autorizzato alle informazioni private dei propri clienti, sempre che questo non provi di avere adottato tutte le misure idonee a garantire la sicurezza del servizio e la riconducibilità dell'operazione al cliente.A tal proposito, la Suprema Corte in una recente pronuncia ha statuito quanto segue:“l’istituto che svolga una attività di tipo finanziario o in generale creditizio risponde, quale titolare del trattamento di dati personali, dei danni conseguenti al fatto di non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico del cliente mediante la captazione dei suoi codici di accesso e le conseguenti illegittime disposizioni di bonifico, se non prova che l’evento dannoso non gli è imputabile perchè discendente da trascuratezza, errore dell’interessato o da forza maggiore ”(Cass. Civ., sez. I, 23.05.2016, n. 10638).
Nel consigliare, dunque, di porre particolare attenzione a mail o siti sospetti, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tutela degli animali tenuti dai rispettivi proprietari in condizioni non conformi. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una giovane lettrice di San Severino Marche, che chiede a quali responsabilità può andare incontro colui che costringa il proprio cane a vivere in condizioni inadeguate tali da mettere in pericolo la salute e la vita dell’animale stesso.
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo alla triste nonché attuale vicenda inerente al maltrattamento degli animali domestici, quali cani e gatti, che troppe volte, subiscono vere e proprie sevizie e crudeltà da parte dell’uomo, come avviene purtroppo quando gli stessi sono lasciati in isolamento legati ad una catena, con una cuccia non idonea a proteggerli dalle intemperie, all’interno di uno spazio insufficiente alla propria indole, o comunque carente di acqua, cibo e assistenza igienica.
Così come previsto e punito dall’art. 544 ter cod. pen., vengono sanzionati i comportamenti tali da realizzare danni all’animale, comprendendo sia le cosiddette sevizie, intese come tutte le forme di crudeltà verso l’animale e che sono offensive del sentimento di pietà e compassione per gli stessi, sia tutte le condotte capaci di sottoporre l’animale ad azioni insopportabili per le proprie caratteristiche comportamentali. Tale evenienza si rinviene, ad esempio proprio nel momento in cui l’animale venga lasciato solo in un ambiente totalmente inadeguato, sia per quanto riguarda le dimensioni del luogo, sia per la salubrità, situazione questa certamente idonea ad incidere sulle condizioni di salute dell’animale stesso.
A tal proposito, risulta dunque utile riportare una recente pronuncia resa dalla Suprema Corte di Cassazione, in riferimento alla vicenda di un padrone che si era comportato da aguzzino nei confronti del suo pastore tedesco, sottoponendolo a vere e proprie sevizie, obbligando l’animale a utilizzare una cuccia in cemento non funzionale a fronteggiare il freddo, statuendo quanto segue: “ai fini della configurazione dell’art. 544 ter c.p. è sufficiente tenere l’animale in isolamento, per periodi considerevoli di tempo, legato in uno spazio angusto, senza cure igieniche né somministrazioni alimentari, e senza un’adeguata protezione dalle intemperie”(Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza n. 8036/18; depositata il 20 febbraio 2018).
Inoltre, il caso di specie, ci offre la possibilità di richiamare l’art. 727 cod. pen., che punisce la deplorevole condotta di colui che abbandona un animale domestico o un animale che abbia acquisito abitudini della cattività; tuttavia deve essere precisato che nella nozione di abbandono di animali è da intendersi non solo la diretta volontà di abbandonare definitivamente l’animale, ma anche il non prendersene più cura, con la consapevolezza dell’incapacità dello stesso animale di non poter più provvedere a sé come quando era affidato alle cure del proprio padrone.
In merito, la Corte di Cassazione ha asserito quanto segue: “In tema di maltrattamento di animali, il reato permanente di cui all'art. 727 c.p. è integrato dalla detenzione degli animali con modalità tali da arrecare gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura, avuto riguardo, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali” (Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza n. 37859/2014).
Nel consigliare di denunciare prontamente tali gravi reati, commessi ai danni dei nostri amici a quattro zampe, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica della violenza sessuale e nello specifico quali comportamenti possono risultare penalmente rilevanti. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Civitanova Marche, che chiede: “Colui che prova a dare un bacio sulle labbra ad un’altra persona, pur non riuscendo nel tentativo per l’opposizione e il rifiuto di quest’ultima, va incontro a delle responsabilità”?
Il caso di specie ci offre lo spunto per fare chiarezza circa una tematica estremamente sensibile e di grande attualità, in relazione alla quale la giurisprudenza della Suprema Corte è sempre più attenta e rigorosa, come viene mostrato anche in una recente sentenza della stessa Corte di Cassazione Sez. III Pen. n. 43553/2018, che in linea con l’orientamento ormai unanime, stabilisce in modo chiaro e puntuale la punibilità di colui che coinvolga oggettivamente la corporeità sessuale della persona offesa e sia finalizzato ed idoneo a compromettere il bene primario della libertà individuale, anche nella forma tentata, per il delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis c.p. , nella prospettiva dell'autore di soddisfare od eccitare il proprio istinto sessuale. Occorre, innanzitutto, individuare quali parti del corpo siano da intendersi come “zone erogene” ai fini dell’integrazione di tale fattispecie criminosa; a tal proposito, è utile sottolineare che, secondo la scienza sono da considerarsi tali le aree della pelle o delle mucose la cui stimolazione produce sensazioni piacevoli ed eccitazione, tra le quali le aree genitali, le natiche ed il seno, anche se queste non esauriscono le potenzialità erogene del corpo umano, che variano da individuo ad individuo. Ulteriore parte erogena del corpo umano è, inoltre, la bocca; difatti, oltre a condotte che possiedono un'evidente carica sessuale (masturbazione, rapporti sessuali, ecc.), vi sono atti la cui previsione "sessuale" deve essere valutata caso per caso, in relazione al particolare contesto in cui si inserisce la condotta e/o alla natura dei rapporti che intercorrono con il suo autore o alla natura della prestazione; ad esempio, non possono qualificarsi come sessuali i gesti d'affetto genitoriale, i baci sulle guance dati in segno di affetto o di saluto. In casi del genere, la natura 'sessuale' dell'atto deve essere valutata secondo il significato 'sociale' della condotta, avuto riguardo all'oggetto dei toccamenti, ma anche - quando ciò non sia sufficiente - al contesto in cui l'azione si svolge, ai rapporti intercorrenti tra le persone coinvolte e ad ogni altro elemento eventualmente sintomatico di una indebita compromissione della libera determinazione della sessualità del soggetto passivo che sia oggettivamente e socialmente percepibile come tale. Di conseguenza, ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale, va qualificato come "atto sessuale" anche il bacio sulla bocca che sia limitato al semplice contatto delle labbra, potendosi detta connotazione escludere solo in presenza di particolari contesti sociali, culturali o familiari nei quali l'atto risulti privo di valenza erotica. Concorre, inoltre, alla configurazione di tale violazione nella forma tentata, l’ipotesi in cui la suddetta condotta violenta o minacciosa non abbia determinato una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, esclusivamente per la reazione della vittima o per altri fattori indipendenti dalla volontà dell’agente. A tal proposito, nel confermare la condanna dell’uomo per il delitto di tentata violenza sessuale, per aver cercato con violenza di baciare la donna, trattenendola per il collo e aggredendola, la Suprema Corte ha dunque ritenuto integrati i requisiti di sessualità dell’atto poiché relativo ad una zona erogena del corpo umano, quale la bocca, e di violazione ed invasione della libera autodeterminazione sessuale della persona offesa (Corte di Cassazione, Sez. III Penale n. 43553/2018).
Nel consigliare di denunciare prontamente tale grave reato, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie riguardanti la lesione dei diritti delle persone diversamente abili e nello specifico la tematica dell’assegnazione allo studente diversamente abile di un numero di ore di sostegno scolastico inferiore rispetto a quello effettivamente necessario secondo le sue personali esigenze. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Macerata, che chiede: in caso di effettuazione da parte dello studente disabile di un numero di ore di sostegno inferiore a quelle attribuite, è possibile ottenere in via giudiziale la condanna dell’amministrazione all’integrazione di tali ore?
La risposta a tale quesito presuppone, innanzitutto, una breve disamina del percorso necessario per l’attribuzione delle ore di sostegno, il quale inizia, a seguito dell'individuazione dell'alunno come persona portatrice di handicap e dell’accertamento sanitario che dà luogo al diritto a fruire delle prestazioni stesse, con l’operato del G.L.O.H., Gruppo di lavoro operativo per l’handicap, formato dal Consiglio di classe, dagli operatori della A.S.L. e dai genitori degli studenti diversamente abili, che elabora, per ciascuno studente portatore di handicap, un profilo dinamico-funzionale dello stesso, ossia un documento che sintetizza tutte le caratteristiche, capacità e difficoltà dello studente, cui segue la redazione del cosiddetto P.E.I., Piano Educativo Individualizzato; tale piano è una sorta di sintesi coordinata dei progetti didattico-educativi, riabilitativi e di socializzazione necessari per consentire l’integrazione a livello scolastico ed extrascolastico della persona con disabilità, come prevista dalla L. 104/1992, all’interno del quale vi è una apposita proposta delle ore di sostegno necessarie per il singolo alunno. Una volta redatto il P.E.I., il Dirigente Scolastico trasmette le risultanze agli Uffici Scolastici Regionali, i quali attribuiscono all’Istituto tanti insegnanti di sostegno quanti ne sono necessari per coprire tutte le ore che sono state oggetto delle proposte, ed infine il Dirigente assegna a ciascun disabile il numero di ore di sostegno corrispondente all’oggetto della singola proposta del G.L.O.H., proprio sulla base delle risorse messe a disposizione dall’Ufficio; però, accade spesso, purtroppo, che tale Ufficio Scolastico Regionale non provveda a fornire alla scuola un adeguato numero di insegnanti di sostegno, determinando così una problematica che si ripercuote sugli studenti diversamente abili, i quali, di conseguenza, si vedono assegnare ore di sostegno nettamente inferiori a quelle previste nel personale P.E.I. di riferimento. A tal proposito, occorre, invece, considerare come la predisposizione del P.E.I., obblighi l’amministrazione scolastica a garantire all’alunno il sostegno per il numero di ore programmato, senza lasciare alla scuola il potere discrezionale di ridurne l’entità in ragione delle risorse disponibili, e che, pertanto, qualora dovesse verificarsi tale ingiusta riduzione, la condotta dell’amministrazione si risolverebbe nella contrazione del diritto allo studio del disabile, ossia in una forma di discriminazione la cui repressione spetta al giudice ordinario; diversamente, come correttamente affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, “le controversie aventi ad oggetto la declaratoria della consistenza dell’insegnamento di sostegno ed afferenti alla fase che precede la formalizzazione del piano educativo individualizzato, restano affidate alla giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133 cod. proc. amm., comma 1, lett. c)” (Corte di Cassazione, SS. UU., 20 aprile 2017, n. 9966).
Chiariti tali aspetti, risulta ora opportuno riportare quanto deciso del Tribunale di Palermo, il quale, di recente, ha emesso ben sette provvedimenti d’urgenza in riferimento proprio ad alunni diversamente abili, cui era stato negato l’opportuno sostegno per le ore indicate nel PEI personale, con ciò palesandosi una vera lesione del diritto fondamentale allo studio e all’integrazione scolastica del portatore di handicap. Difatti, il Giudicante, ordinando all’amministrazione scolastica la cessazione immediata della condotta discriminatoria posta in essere, e attribuendo ai rispettivi alunni l’insegnante di sostegno per le ore effettivamente indicate nel P.E.I., ha statuito quanto segue: “Risulta esistente il requisito del periculum in mora, che fonda la necessità di provvedere inaudita altera parte in attesa dell’instaurazione del pieno contraddittorio nell’ambito del giudizio di merito, parimenti incardinato con il deposito del ricorso per giudizio sommario ex art. 702 bis c.p.c., giacchè l’anno scolastico è già in corso e, al fine di rendere effettivo il diritto allo studio del minore, è necessario intervenire tempestivamente rimuovendo il pregiudizio con attribuzione fin da subito di un insegnante di sostegno per il numero massimo di ore previsto, giacché l’attesa dei tempi del giudizio di merito, potrebbe determinare una definitiva compromissione di tutti gli obiettivi indicati nel PEI e nel PED”. Inoltre, risulta doveroso rammentare come sia espressione del medesimo diritto allo studio anche il servizio di assistenza sanitaria posto in capo alle A.S.L., reso ancor più prezioso nei casi più gravi tanto da assicurare l’effettività del diritto all’istruzione. A tal proposito il Tribunale di Aosta con l’ordinanza n. 85/2018, ha condannato la convenuta A.S.L. ad attivare immediatamente la richiesta assistenza infermieristica presso l’istituzione scolastica frequentata dal minore disabile, durante l’orario scolastico, in quanto “Il diritto del bambino ad ottenere l’assistenza infermieristica durante l’orario scolastico a cura e spese dell’azienda Usl discende direttamente dall’art. 38 della Costituzione, che sancisce il diritto fondamentale all’istruzione dei soggetti disabili”.
Nel consigliare, dunque, di adire la competente Autorità Giudiziaria qualora si verifichino tali gravi circostanze in danno al diritto allo studio dell’alunno diversamente abile, rimango come sempre in attesa delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie riguardanti il risarcimento danni da incidente stradale e nello specifico quello accaduto per causa di attraversamenti di animali selvatici sulle nostre strade, tanto da causare dei danni all’autovettura ed alle persone presenti nella stessa. Di seguito la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un nostro lettore di Muccia, che chiede: In caso di sinistro stradale causato da un cinghiale chi ha l’onere risarcitorio tra Regione e Provincia?
Tale circostanza ci porta subito ad applicare il principio giuridico oramai divenuto consolidato espresso dalla Suprema Corte con l’ordinanza n. 13488/2018 secondo il quale: “ La responsabilità aquiliana deve essere imputata all’ente (Regione o Provincia) al quale siano stati in concreto affidati «i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, con autonoma decisione sufficiente a consentire loro di svolgere l’attività in modo da poter amministrare i rischi di danni a terzi che da tali attività derivino”.
Difatti, tale vicenda giudiziaria, così come il caso prospettato dal nostro lettore, ha quale oggetto la richiesta di risarcimento danni patiti dall’attore a causa dei danneggiamenti alla sua auto provocati dalla collisione con un cinghiale improvvisamente comparso sulla strada.
A tal proposito, la Corte di Cassazione, rigettando il ricorso proposto dalla Provincia, confermava la sentenza emessa dalla Corte d’Appello adita, secondo la quale, il comportamento colposo poteva essere ascritto solo all’Amministrazione provinciale, la quale avrebbe dovuto esercitare il potere di adottare misure necessarie per prevenire i danni causati dagli animali selvatici, ai sensi del d.lgs. n. 267/2000 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali); mentre alla Regione, non poteva essere mosso nessun rimprovero negli stessi termini, esercitando soltanto funzioni di programmazione e di coordinamento della pianificazione faunistica.
In particolare, osserva la Suprema Corte che i poteri di controllo spettano sia alla Regione che alla Provincia;ciò posto l’art. 14 l. n. 142/1990 (Ordinamento delle autonomie locali) attribuisce alle Province la protezione della fauna selvatica nelle zone che interessano il territorio provinciale, mentre alla Regioni la l. n. 157/1999 attribuisce il compito di «emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie di fauna selvatica» e dispone che le Province attuino la disciplina regionale.Quindi la Regione, avente competenza legislativa, hanno attribuito alle Province, aventi funzioni amministrative e di controllo, tutti i compiti rilevanti ai fini della gestione della fauna selvatica. Inoltre è previsto che le Province stipulino della polizze specifiche per assicurarsi per il risarcimento dei danni, così come la stessa è anche ritenuta responsabile per l’erogazione di indennizzi gravanti sul fondo regionale in relazione ai poteri ad essa connessi.
Infine, la Cassazione ha evidenziato che la responsabilità per i danni causati dagli animali selvatici deve ritenersi disciplinata dalle regole generali di cui all’art. 2043 c.c. e non delle regole di cui all’art. 2052 c.c..Per tali ragioni si ritiene l’Amministrazione provinciale responsabile della fauna selvatica e dell’attribuzione del suo controllo così come dei danni causati dalla stessa(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza n. 13488/18; depositata il 29 maggio).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie che possono insorgere tra condomini nei rapporti di vicinato, in particolare in riferimento alla problematica delle immissioni di fumi, odori e rumori molesti. Di seguito la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un nostro lettore di Cingoli, che chiede a quali responsabilità può andare incontro colui che pone in essere delle immissioni moleste nell’appartamento condominiale sovrastante con l’odore di cucinato o rumori?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ai controversi rapporti che possono insorgere tra condomini, con particolare riguardo alle cosiddette molestie olfattive, nello specifico in odori o fumi provenienti da cucine o da ambienti simili, od acustiche, tali da creare fastidio e disagio nel soggetto che le subisce. Innanzitutto, occorre specificare quanto previsto dall’art. 674 c.p.: “Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a 206 euro”.
A tal proposito, risulta utile riportare un consolidato principio giurisprudenziale della Suprema Corte, che recentemente ha ribadito quanto segue: “La contravvenzione prevista dall’art. 674 c.p. è configurabile anche nel caso di molestie olfattive con la specificazione che, quando non esista una predeterminazione normativa dei limiti delle emissioni, si deve avere riguardo alla normale tollerabilità di cui all’art. 844 c.c., criterio che costituisce un referente normativo per il cui accertamento non è necessario disporre una perizia tecnica, potendo il giudice fondare il suo convincimento su elementi probatori di diversa natura, anche ricorrendo alle sole dichiarazioni testimoniali dei confinanti” (Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza n. 14467/17; depositata il 24 marzo 2017).
Pertanto, ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 674 c.p., le immissioni possono considerarsi moleste soltanto nel momento in cui superano il limite della normale tollerabilità; infatti, ai sensi dell’art. 844 c.c., il proprietario di un terreno o di un edificio non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e altre propagazioni derivanti dal terreno o edificio del vicino, se le stesse non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.
Tutto ciò anche riguardo alle immissioni rumorose, dette anche acustiche, provenienti dagli appartamenti adiacenti, situazioni anch’esse motivo di accesi contrasti condominiali tra colui che le subisce ed il soggetto che le emette, attraverso condotte, quali: spostamento di mobili, tenere la musica ad alto volume, continuo vociare, utilizzo nelle ore serali o notturne di elettrodomestici particolarmente rumorosi, ecc… .
La tutela penale di riferimento è rappresentata dall’art. 659 c.p., secondo il quale: “Chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a 309 euro”.
Ebbene, anche in questo caso, al fine di comprendere se l’immissione acustica sia illecita o meno, sarà necessario procedere alla sua valutazione tenendo presente il criterio della normale tollerabilità, il cui superamento del limite dovrà recare un potenziale disturbo ad una pluralità di persone, a nulla rilevando poi che alcune non siano state effettivamente disturbate (Cass. I, n. 1394/1999).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente tematiche riferibili alla condotta di quei ragazzi che pongono in essere atteggiamenti aggressivi nei confronti dei propri compagni di scuola. Di seguito la risposta alla domanda posta da una lettrice di Montecassiano, che chiede: a quali responsabilità può andare incontro un ragazzino che maltratta ed umilia un proprio compagno di classe, in modo sistematico, isolandolo dagli altri e procurandogli serie conseguenze psicologiche e fisiche?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica estremamente attuale, e purtroppo sempre più diffusa al giorno d’oggi, ossia il bullismo, che si configura quando vengono posti in essere, intenzionalmente e ripetutamente, comportamenti prevaricatori nei confronti di una persona con cui si condivide il medesimo contesto sociale, quale potrebbe essere quello scolastico, condotte a seguito delle quali la vittima, spesso percepita come “anello debole” della catena, diviene del tutto isolata ed incapace di difendersi. E’ importante rilevare, innanzitutto, come, nonostante nel nostro ordinamento non sia ancora stata tipizzata un’apposita fattispecie di reato per il bullismo, vengano certamente puniti i singoli atti attraverso i quali tale fenomeno si manifesta; infatti, le aggressioni fisiche ai danni di un compagno di classe possono sicuramente integrare i reati di molestie,percosse e lesioni personali, nelle aggressioni psichiche possono ravvisarsi i reati di minacciae diffamazione, così come, nei casi di aggressioni al patrimonio, possono configurarsi il furto, l’estorsione ed ildanneggiamento, ecc. .
Qualora le aggressioni, reiterate nel tempo, generino poi nel soggetto un perdurante stato di ansia e di timore, tanto da costringerlo, ad esempio, a non frequentare più la stessa scuola, si può addirittura arrivare a configurare il delitto di atti persecutori,ex art.612 bis c.p., così come stabilito dalla Corte di Cassazione con una recente sentenza, la n. 26595/2018, con cui si è affermata la responsabilità penale di due studenti per il cd. stalking scolastico; difatti, con specifico riferimento a due ragazzi che avevano posto in essere condotte vessatorie e moleste ai danni di un loro compagno di classe, nel corso dell’intero anno scolastico,tanto da comportare il suo trasferimento presso un differente istituto, la Suprema Corte ha stabilito quanto segue: “Del tutto condivisibile appare il percorso argomentativo seguito dal giudice di secondo grado, sottolineando, con particolare riguardo al delitto di cui all'art. 612 bis c.p., la pluralità delle condotte vessatorie poste in essere dai due imputati per tutto il periodo dell'anno scolastico in cui egli frequentò la scuola, costringendolo, prima, ad interrompere la frequenza scolastica ed, alla fine, ad abbandonare la scuola, eventi che, avendo determinato un'evidente alterazione delle condizione di vita del minore, integrano, come correttamente ritenuto dal giudice di appello, la fattispecie incriminatrice, di cui all'art. 612 bis c.p., unitamente all'accertato stato di ansia e di paura per la propria incolumità fisica, insorto nel minore”(Cassazione penale, sez. V, 28/02/2018, n. 26595).
Pertanto, riguardo al caso che ci occupa, alla luce di tali considerazioni ed in adesione all’unanime orientamento della Suprema Corte, risulta dunque corretto affermare che, chiunque maltratti ed umili un proprio compagno di classe, in modo ripetuto e sistematico, isolandolo dagli altri e procurandogli serie conseguenze psicologiche e fisiche tali da comportare addirittura una modifica delle proprie abitudini di vita, potrà essere punito, ai sensi dell’ art. 612 bis c.p., per il grave delitto di “stalking”, fatta salva comunque l’integrazione di altri reati che frequentemente si accompagnano alla condotta del cd.bullo.
Nel consigliare, dunque, di non sottovalutare tali circostanze e pertanto denunciare prontamente alle Autorità competenti tali gravi reati, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente la tematica relativa alla procedura di composizione delle crisi introdotta con la Legge n. 3/2012, a favore del consumatore/debitore in sovraindebitamento per il risanamento della propria posizione personale.
Di seguito la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da un nostro lettore di Macerata, che chiede: “Cosa è possibile fare in caso di indebitamento da parte di un soggetto impossibilitato a far fronte allo stesso per insufficienza economica?”
Grazie alla legge sul sovraindebitamento le persone fisiche e le famiglie possono risanare la propria condizione debitoria ricorrendo ad una sorta di “procedura fallimentare” che consente di trovare un accordo con i creditori dinanzi al Giudice. L’accordo in questione può essere molto vantaggioso per giungere ad un saldo e stralcio delle singole posizioni debitorie con società finanziarie, banche, Fisco, Equitalia e qualsiasi altro tipo di creditore. Il vantaggio c’è tanto per il debitore in quanto riesce a trovare una volta per tutte una sorta di compromesso e ridurre il proprio debito complessivo tentando di accontentare tutti i creditori, quanto per questi ultimi che, di fronte alla possibilità di scegliere tra procedure esecutive poco utili (vista la mancanza di beni e l’eccesso di crediti da soddisfare) e un accordo che consente di realizzare almeno parte del credito, optano certamente per la seconda strada. Ecco perché l’accordo può essere trovato anche con il Fisco ed Equitalia, come avvenuto in recenti casi seguiti tra i quali quello del Tribunale di Busto Arsizio, che ha applicato per la prima volta il piano del consumatore ai debiti del contribuente con Equitalia decurtandoli circa l’80% del proprio debito, o il Giudice di Como invece, omologando l’accordo con i creditori, ha cancellato il 74% i debiti di un’imprenditrice nei confronti di Equitalia e l’Agenzia delle Entrate.
Innanzitutto, per «sovraindebitamento» si intende una situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, nonché la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni. Detto in poche parole, si tratta dello stato di indebitamento cronico, di perdurante insolvenza e impossibilità di far fronte a tutte le obbligazioni assunte. Possono accedere alla composizione della crisi da sovra indebitamento i consumatori e precisamente il debitore persona fisica che risulti aver contratto obbligazioni per far fronte ad esigenze personali o familiari o della più ampia sfera attinente agli impegni derivanti dall’estrinsecazione della propria personalità sociale, dunque anche a favore di terzi, ma senza riflessi diretti in una attività di impresa o professionale propria. Le procedure di composizione della crisi sono tre: accordo con i creditori, piano del consumatore e liquidazione del patrimonio. Riguardo all’accordo con i creditori, la proposta di accordo deve indicare l’elenco di tutti i creditori e relative somme dovute, l’elenco dei beni, gli eventuali atti di disposizioni effettuati negli ultimi cinque anni, le ultime tre dichiarazione dei redditi, l’elenco delle spese per il sostentamento del debitore e della sua famiglia (con indicazione del numero dei componenti), l’attestazione di fattibilità del piano rilasciata da un professionista (avvocato o commercialista).Se svolge attività di impresa, il debitore deve indicare anche le scritture contabili autentiche degli ultimi tre anni.
La proposta di accordo deve essere depositata presso il tribunale del luogo di residenza o sede del debitore tramite gli appositi “Organismi di composizione della crisi”. Se la proposta è completa di tutti i requisiti e ammissibile, il giudice fissa un’apposita udienza, alla quale, in assenza di iniziative o atti in frode ai creditori, dispone che per non oltre 120 giorni non possano essere esperiti da parte dei creditori aventi titolo o causa anteriore, nei confronti del debitore, a pena di nullità: azioni esecutive individuali, sequestri conservativi, acquisizione di diritti di prelazione sul patrimonio del debitore. Tale sospensione non opera nei confronti dei creditori titolari di crediti impignorabili; durante tale periodo inoltre le prescrizioni rimangono sospese e le decadenze non si verificano. Dopo che tutti i creditori sono stati informati dall’Organismo del contenuto della proposta, l’accordo si ritiene raggiunto quando essi fanno pervenire al medesimo organismo di composizione della crisi la dichiarazione scritta del proprio consenso alla proposta, con eventuali modifiche. L’accordo si ritiene raggiunto quando si ottiene il consenso del 60% dei crediti. La seconda alternativa è detta “piano del consumatore”: a differenza di quanto accade nell’accordo con i creditori, non è richiesto il consenso del creditore. Il debitore si fa autorizzare direttamente dal giudice, il quale, se ritiene che il programma di pagamento sia soddisfacente e commisurato alle effettive possibilità del debitore, lo autorizza, decurtando la residua parte della passività.
È in ogni caso ammessa la contestazione dei creditori sulla convenienza del piano. Il piano del consumatore può rappresentare la scelta più vantaggiosa anche se l’accoglimento della proposta è rimesso interamente alla discrezionalità del giudice. Per tale motivo vi è l’obbligo specifico di redazione, a cura dell’Organismo di composizione, di una relazione particolareggiata, da allegare al piano e contenente, oltre all’attestazione della completezza e dell’attendibilità della documentazione presentata nonché della probabile convenienza della proposta rispetto all’alternativa liquidatoria.
Difatti, quando non è possibile agire attraverso il piano del consumatore, che permette una certa libertà di scelta sui beni vendere, vi è la terza procedura, cioè quella della liquidazione del patrimonio con la vendita dei propri beni (ad eccezione di alcuni impignorabili) per avere l’esdebitazione. Si può accedere a questa procedura anche se si è soggetti a procedura concorsuali diverse o se si è già fatto ricorso nei precedenti cinque anni al piano del consumatore o all’accordo con i creditori (condizioni che invece non permettono di accedere alle altre due procedure).Con la liquidazione si determina lo spossessamento dei beni del debitore e si dà luogo all’accertamento del passivo tramite deposito di istanze di insinuazione dei creditori. Il progetto di stato passivo va poi comunicato dal liquidatore ai creditori interessati che hanno quindici giorni per presentare eventuali osservazioni. Il liquidatore, entro 30 giorni dalla formazione dell’inventario, deve inoltre redigere un programma di liquidazione da offrire in comunicazione al debitore e ai creditori e da depositare presso la cancelleria del Tribunale. Ha poi il potere di vendere i beni e di compiere gli altri atti necessari per la liquidazione del patrimonio del debitore. Terminata la liquidazione dei beni procede quindi al riparto finale del ricavato tra tutti i creditori; vanno però prioritariamente pagati i crediti sorti in occasione o in funzione della liquidazione o del procedimento di composizione delle crisi.
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato la questione inerente ai contributi erogati nei riguardi di coloro che hanno avuto le proprie abitazioni danneggiate dal terremoto a far data dall’agosto 2016 e nello specifico i contributi elargiti per la loro ricostruzione o per l’autonoma sistemazione versati a titolo di affitto. In particolare, ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Muccia, che chiede se tali somme di denaro possono essere o meno oggetto di pignoramento da parte di terzi.
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica molto sentita nonché attuale, relativa alla pignorabilità delle somme erogate a sostegno della ricostruzione degli immobili lesionati dal sisma, nonché delle mensilità versate, a titolo di contributo di autonoma sistemazione, in favore dei soggetti che hanno perso la propria abitazione in conseguenza delle violenti scosse di terremoto, che dall’agosto 2016 hanno purtroppo interessato il Centro Italia e nello specifico la nostra amata provincia.
Innanzitutto, deve essere specificato che, la Legge n. 219 del 14 maggio 1981, emanata in seguito al violentissimo terremoto che il 23 novembre 1980 colpì la Campania centrale e la Basilicata centro-settentrionale (il terremoto dell’Irpinia), aveva previsto anche in quella circostanza l’erogazione dei contributi economici nei confronti di coloro che avevano perso la propria abitazione, alla scopo di permettere la ricostruzione delle zone colpite da tale sisma. Ebbene, in materia si segnala un importante e consolidato principio giurisprudenziale statuito dalla Suprema Corte di Cassazione, che chiamata a pronunciarsi proprio per una vicenda legata a quel terremoto in merito alla pignorabilità di terzi nei confronti dei contributi elargiti per la ricostruzione di un immobile, la stessa ha statuito che tali somme pur non soggette ad un vincolo di impignorabilità assoluta vige però nei loro confronti un vincolo di impignorabilità di destinazione, affermando quanto segue: “La legge n. 219 del 1981, non introduce espressamente un vincolo di impignorabilità in relazione ai contributi erogati per la ricostruzione di immobili danneggiati dal sisma. Inoltre il D. lgs. n. 76 del 1990, art. 3, comma 7, prevede che gli atti di pignoramento eventualmente notificati agli uffici pagatori non sospendono il pagamento dei titoli di spesa, rendendo chiaro sul piano dell’interpretazione letterale che la legge non ha inteso gravare di un vincolo di impignorabilità assoluta i contributi per la ricostruzione. Difatti, pur in mancanza di un vincolo di impignorabilità assoluta, e di un riferimento espresso al pignoramento nell’ultima norma citata, esiste pur sempre un vincolo di destinazione sui fondi erogati ai privati per consentire la ricostruzione, affinché essi non siano aggredibili dai creditori del beneficiario stornandoli dalla finalità per la quale venivano erogati” (Cassazione Civile, Sez. III, 15/05/2014 n. 10642).
Quindi, sulle somme erogate per la ricostruzione delle aree devastate dal terremoto, sussiste un vincolo di destinazione, finalizzato a consentire lo specifico risultato a cui sono destinati tali fondi. Qualora, infatti, il soggetto destinatario di questi contributi ponga in essere una serie di obbligazioni aventi la stessa destinazione delle somme corrisposte dallo Stato, quest’ultime potranno certamente essere pignorate, in quanto sono rivolte a soddisfare comunque gli stessi interessi che con il vincolo si intendeva preservare; mentre, allo stesso tempo, tali somme non potrebbero essere pignorate da terzi nel momento in cui le stesse andrebbero a soddisfare interessi diversi: ad esempio, il creditore che ha fornito materiale edile proprio per la ricostruzione di quell’abitazione può porre in essere un pignoramento presso terzi nei confronti di tali somme destinate per la ricostruzione a differenza di un credito riferito all’acquisto di una macchina, o comunque di beni che nulla hanno a che vedere con tale vincolo di destinazione.
Per quanto riguarda il C.A.S., ovvero il contributo per l’autonoma sistemazione, occorre precisare che anch’esso è una misura rivolta al sostegno delle popolazioni colpite dagli eventi sismici, riconosciuto a chi, al momento del sisma, risultava titolare di diritti reali sull’immobile nel quale aveva l’abitazione principale, edificio poi dichiarato inagibile con ordinanza del Sindaco; tale contributo termina, poi, al venire meno dei presupposti normativi, e quindi al momento del ripristino delle condizioni per il rientro nell’abitazione principale, o nel differente caso di reperimento di un’altra sistemazione avente però carattere di stabilità.
Ebbene, stante la sua natura di misura volta al sostegno della popolazione colpita dal terremoto, deve essere rilevato che anche per il contributo di autonoma sistemazione varrà lo stesso principio giuridico consolidato applicato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 10642/2014 come sopra riportato, tanto da andare incontro anch’esso al vincolo giuridico di destinazione.
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili alla vendita di prodotti alimentari; nello specifico, una lettrice di Morrovalle ha posto il seguente quesito: a quali responsabilità può andare incontro quel venditore ambulante che, all’interno del suo furgoncino, mette in commercio frutta e verdura o altri alimenti lungo una pubblica via, esponendole così, purtroppo, anche ai gas di scarico delle autovetture?
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo ad una tematica attuale e piuttosto frequente, ossia la salubrità dei prodotti alimentari messi in commercio; difatti, colui che esercita l’attività di “commercio in forma itinerante” è tenuto sia a garantire la tracciabilità della filiera e, dunque, la provenienza dei generi alimentari venduti, sia a rispettare le medesime regole igienico-sanitarie e merceologiche previste per tutti i commercianti.
Capita di frequente, però, che determinati alimenti, prima di essere venduti, vengano esposti per ore lungo strade trafficate, senza le apposite cautele igieniche e precauzioni, venendo dunque a contatto con lo smog o altri agenti, alterandosi, così, la loro freschezza e genuinità.
Rispetto a tale tematica si è espressa la Corte di Cassazione, con una recente sentenza, la n. 45274/2018, affermando la responsabilità di un venditore ambulante che risultava aver violato lo specifico obbligo di assicurare l’idonea conservazione delle sostanze alimentari, così come stabilito ex art. 5, lett. B), L. 283/1962; tale disposizione, infatti, sancisce espressamente che, “È vietato impiegare nella preparazione di alimenti o bevande, vendere, detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione”, e, peraltro, chiunque risulta aver posto in essere tale condotta rischia di esser punito con la reclusione fino ad un anno, o con l’ammenda da € 309,00 a € 30.987,00.
Nello specifico, la Suprema Corte è stata adita in riferimento proprio alla vicenda di un commerciante ambulante, il quale aveva detenuto, a fini di vendita, un ampio quantitativo di alimenti, senza predisporre alcuna protezione ed esponendolo così, lungo la pubblica via, a tutti gli agenti atmosferici e batteri in grado di alterarne le proprietà; a tal proposito, la Corte di Cassazione ha dunque stabilito quanto segue: “il cattivo stato di conservazione di cui all’art. 5 lett. b riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora perfettamente genuine e sane, si presentano mal conservate e cioè preparate o confezionate o messe in vendita senza l’osservanza di quelle prescrizioni di leggi, regolamenti o atti amministrativi generali che sono dettate a garanzia della buona conservazione al fine di prevenire il pericolo di una loro precoce degradazione, contaminazione o comunque alterazione (scatolame bombato, arrugginito, involucri forati, intaccati, unti, bagnati, esposizione prolungata ai raggi solari di vino e olio, latte lasciato a temperature inadeguate, alimenti collocati in prossimità di insetti e simili). Dunque, ai fini dell’integrazione della contravvenzione in esame si deve ritenere sufficiente l’inosservanza delle prescrizioni igienico sanitarie volte a garantire la buona conservazione del prodotto.” (Cass. Pen., 09.10.2018, n. 45274).
Pertanto, nell’analizzare le ripercussioni giuridiche di simili condotte da parte di venditori ambulanti posizionati in aree di parcheggio, lungo le vie cittadine o a ridosso addirittura di strade urbane o extraurbane per la vendita dei più svariati alimenti come frutta e verdura, pane, prodotti ittici, salumi e formaggi, ecc., risulta opportuno rammentare come la disposizione ex art. 5, lett. B) L. n. 283/1962 è volta ad assicurare che il prodotto esposto giunga al consumo con le opportune garanzie igieniche; difatti, lo stato di cattiva conservazione riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioè preparate, confezionate o messe in vendita senza l’osservanza delle prescrizioni dirette a prevenire il pericolo di una loro precoce degradazione o contaminazione. Ciò significa che a inchiodare il commerciante è «l’inosservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie volte a garantire la buona conservazione» dell’alimento, a prescindere dalla sua «genuinità»(Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 45274/18; depositata il 9 ottobre).
Nel consigliare, dunque, di porre particolare attenzione alle condizioni in cui si presentano i prodotti che si intendono acquistare, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avv.Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili alla condotta di chi utilizza l’identità digitale di un altro soggetto, sostituendosi a questo per la generalità degli utenti in connessione, nel porre in essere le più disparate attività;di seguito la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da Mario, una lettore di Porto Recanati, che chiede: a quali responsabilità si va incontro qualora venga creato un account con le generalità di una persona terza, per il compimento di acquisti online?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica estremamente attuale sulla quale si è espressa laCorte di Cassazione con una recentissima sentenza, la n.42572/2018, affermando la responsabilità penale del soggetto ai sensi dell’art. 494 c.p. , il quale sancisce espressamente:
“Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno”.
Difatti, la Suprema Corte adita ha statuito quanto segue: “Integra il reato di sostituzione di persona, ex art. 494 c.p. , la condotta di colui che crei ed utilizzi un account ed una casella di posta elettronica nonché proceda all’iscrizione su un sito e-commerce,servendosi dei dati anagrafici di un soggetto diverso edinconsapevole, con il fine di far ricadere su quest'ultimo l'inadempimento delle obbligazioni conseguente all'avvenutoacquisto di beni mediante la partecipazione ad aste in rete o ad altri strumenti contrattuali. Tanto in quanto porre in essere una condotta con siffatta modalità è prova che l’agente abbia volontariamente sostituito, per la generalità degli utenti in connessione, alla propria identità quella di altri, a prescindere dalla propalazione all'esterno delle diverse generalità utilizzate”(Cass. Pen., Sez. V, n. 42572/2018, dep. il 27/09/2018).
Pertanto, nell’analizzare le ripercussioni giuridiche che tali condotte possono avere, è necessario considerare che in una realtà come quella contemporanea, nella quale si fa un uso sempre maggiore dei sistemi telematici per il compimento di una varietà in crescendo di attività, le credenziali adoperate per l’utilizzo delle varie piattaforme, rappresentano il soggetto agente tanto dacostituire un vero e proprio surrogato della persona fisica; dunque, la tutela offerta dal legislatore, è intesa a garantire la pubblica fede ed evitare che l’utilizzo di raggiri e artifizi, nel contesto di una società in continua evoluzione, possano trarre in inganno quanti operano in tali settori.
Alla luce di tali considerazioni, e in adesione all’unanime orientamento della Suprema Corte, risulta corretto affermare che, chiunque in modo volontario e al fine specifico di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, utilizzi l’identità digitale di un soggetto terzo ignaro e inconsapevole, è punito ai sensi dell’art. 494 c.p. con la reclusione fino ad un anno.
Nel consigliare di denunciare prontamente tali reati, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica della diffamazione realizzata attraverso la pubblicazione di frasi offensive sul social network Facebook; di seguito la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da Gloria, una lettrice di Matelica, che chiede a quali responsabilità si va incontro qualora vengano inseriti dei commenti offensivi sulla bacheca Facebook?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica sempre più attuale, quale è la diffamazione compiuta via Facebook, in riferimento alla pubblicazione di frasi offensive su tale social network. Innanzitutto, bisogna specificare quanto previsto dall’art. 595 cod. pen.:“chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone offende l’altrui reputazione è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a 1.032 euro”. Affinché possa delinearsi una specifica responsabilità penale, è sufficiente che l’addebito venga comunicato ad almeno due persone, in grado di percepirne il contenuto, tanto è vero che in tema di delitti contro l’onore, l’elemento psicologico della diffamazione consiste non solo nella consapevolezza di pronunziare o di scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione, ma anche nella volontà che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone.
Per quanto riguarda l’elemento oggettivo del presente reato, occorre evidenziare che la condotta giuridicamente rilevante è quella che risulta idonea ad integrare l’offesa all’altrui reputazione, elemento questo imprescindibile affinché un determinato comportamento possa essere definito di tipo diffamatorio.
A tal proposito, risulta utile riportare un consolidato principio giurisprudenziale della Suprema Corte, che stabilisce quanto segue: “Lesiva dell'onore deve essere reputata l'espressione che, in base al significato socialmente condiviso delle parole e delle espressioni utilizzate, nonché all'uso che se ne fa, sia capace di ledere l'altrui reputazione. Tanto in quanto oggetto di tutela nel delitto di diffamazione è l'onore in senso oggettivo o esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come senso della dignità personale in conformità all'opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto anche storico”(Corte di Cassazione, Sez. V Penale, sentenza n. 1923/17;depositata il 17 gennaio 2017).
Ebbene, nel caso prospettato è ravvisabile anche l’aggravante prevista dal comma 3 dell’art. 595 c.p., che stabilisce quanto segue: “se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro”; difatti, nella vicenda in esame, la frase offensiva se pubblicata su una bacheca Facebook, risulta certamente idonea a realizzare concretamente un’ampia diffusione del messaggio offensivo ad un numero indefinito di persone. La Suprema Corte, a tal proposito, ha consolidato il proprio orientamento, dichiarando quanto segue: “si può affermare senza dubbio, proprio con riferimento ai messaggi ed ai contenuti diffusi tramite Facebook, che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone”; i giudici concludono poi affermando che “la funzione principale della pubblicazione di un messaggio in una bacheca o anche in un profilo Facebook è la condivisione di esso con gruppi più o meno ampi di persone, le quali hanno accesso a detto profilo, che altrimenti non avrebbe ragione di definirsi social”(Corte di Cassazione, sez.V Penale, sentenza n.40083/18; depositata il 06settembre 2018). Inoltre, in seguito alla pubblicazione di post offensivi sul social network Facebook, al fine di evitare che i commenti oltraggiosi possano raggiungere sempre più persone e per impedire la protrazione delle conseguenze dannose del reato, la persona che subisce tale comportamento, è legittimata a richiedere all’Autorità Giudiziaria il provvedimento del sequestro preventivo, ex art. 321 c.p.p., tramite oscuramento del profilo Facebook riferito al soggetto che ha materialmente posto in essere la condotta diffamatoria.
A riguardo, deve essere rilevato che non può essere messa in discussione la legittimità del sequestro preventivo di una pagina telematica, in quanto “l’equiparazione dei dati informatici alle cose in senso giuridico consente di inibire la disponibilità delle informazioni in rete e di impedire la protrazione delle conseguenze dannose del reato” (Corte di Cassazione, Sez. V Penale, sentenza n. 21521/18, depositata il 15 maggio 2018). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan
In questasettimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili all’importante tema della modalità di accertamento del superamento (o no) del tasso soglia rilevante per la disciplina sull’usura;nello specifico ho scelto la mail di una lettrice di Tolentino nella quale ci viene chiesto “quali e quando gli interessi applicati dall’istituto in un contratto di mutuo possono considerasi usurari”.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza emessa dalla Sesta Sezione Civile il 4 ottobre 2017, n. 23192, è intervenuta ancora una volta sull’importante tema della modalità di accertamento del superamento o meno del tasso soglia rilevante per la disciplina sull’usura.
Il tema è importante non foss’altro per le conseguenze civilistiche derivanti dall’aver pattuito un finanziamento con un tasso sopra soglia: ed infatti, l’art. 1815 c.c. al suo secondo comma prevede che «se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi».Peraltro, va ricordato che la Cassazione si era già espressa su un tema collegato quale quello della c.d. sommatoria tra interessi corrispettivi e moratori ai fini dell’accertamento del superamento del tasso soglia;si tratta della nota sentenza Cass. n. 350/2013 il cui principio di diritto, era che “ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori”.
Senonché, dopo quella sentenza, la giurisprudenza di merito e parte degli autori iniziarono a sostenere che quella sentenza non era poi così chiara e che comunque avrebbe dovuto essere applicata a seconda dei vari casi, così da aprire un enorme contenzioso sul punto con alterne fortune ora per la Banca ora per il cliente.
Orbene, secondo la recente sentenza di Cassazione riportata sopra in commento, ha ribadito che “si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento; il legislatore, infatti, ha voluto sanzionare l’usura perché realizza una sproporzione oggettive tra la prestazione del creditore e la controprestazione del debitore”.
Peraltro, la stessa Cassazione riprende anche la sentenza Cass. n. 5324/2003 secondo cui «in tema di contratto di mutuo, l'art. 1 legge n. 108/1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che gli interessi moratori»; ma soprattutto ha richiamato la sentenza Cass., n. 5598/2017 che aveva cassato la decisione del Tribunale che, in sede di opposizione allo stato al passivo e con riferimento al credito insinuato da una banca, aveva escluso la possibilità di ritenere usurari gli interessi relativi a due contratti di mutuo in ragione della non cumulabilità degli interessi corrispettivi e di quelli moratori.
Per tali ragioni che allo stato della giurisprudenza di legittimità si può affermare che l’usurarietà riguarda sia gli interessi moratori che corrispettivi e che gli stessi si possono sommare al fine di verificare il superamento del tasso soglia nel momento della loro pattuizione indipendentemente dalla corresponsione in concreto;pertanto, ai sensi dell’art.1815 c.c., comma 2,“non sono dovuti interessi” ed il mutuatario ha diritto alla restituzione di tutte le somme indebitamente pagate con la dovuta rivalutazione.
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana