Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate, hanno interessato principalmente la tematica relativa alla violazione della segretezza delle conversazioni telematiche altrui, attraverso l’utilizzo di strumenti informatici.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Tolentino che chiede: “È penalmente sanzionabile chi installa un programma informatico per intercettare le comunicazioni telefoniche di un altro soggetto, anche se poi non sono stati utilizzati?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente attuale, su cui ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n. 15071/2019, affermando la responsabilità penale di un marito, che aveva collegato il cellulare della moglie a uno “Spy-Software” per monitorarle le chiamate, punendolo pertanto ex art. 617-bis c.p., il quale stabilisce espressamente: “Chiunque, fuori dei casi consentiti dalla legge installa apparati, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche tra altre persone è punito con la reclusione da uno a quattro anni”.
Difatti, nel caso in esame, la Suprema Corte ha valutato la punibilità dell’uomo, sulla base di un’autorevole interpretazione del diritto vivente, fornita proprio dalle Sezioni Unite, con sentenza n.26889/2016, la quale ha permesso di includere i programmi informatici denominati “Spy-Software”, nella categoria degli apparati indicati espressamente dalla norma del codice penale appena citata, chiarendo che “l’evoluzione tecnologica ha consentito di apportare strumenti informatici del tipo software, solitamente installati in modo occulto su un telefono cellulare, un tablet o un PC, che consentono di captare tutto il traffico dei dati in arrivo o in partenza dal dispositivo e, quindi, anche le conversazioni telefoniche”(Cass. Pen.; Sez. Un.; Sentenza n. 26889 del 28/04/2016), evidenziando a tal proposito, una categoria aperta e dinamica, suscettibile di essere implementata per effetto delle innovazioni tecnologiche che nel tempo, consentono di realizzare scopi vietati dalla legge.
Inoltre, secondo la ricostruzione operata dalla Corte di legittimità chiamata a pronunciarsi sull’obiezione sollevata dall’uomo, in relazione alla circostanza che la moglie fosse stata di fatto avvertita dal figlio, circa l’installazione di tale programma sul suo cellulare, senza però smettere mai di usarlo, si è rilevato che il riferimento alla norma penale di cui all’art. 617-bis c.p., ha lo scopo di anticipare la tutela alla riservatezza e libertà delle comunicazioni, attraverso la sanzione dei fatti prodromici all’effettiva lesione del bene, non essendo dunque necessaria alcuna condotta ulteriore.
Pertanto, in adesione a tale autorevole orientamento della Suprema Corte e in risposta alla domanda della nostra lettrice, è da intendersi che: “Ai fini della configurabilità del reato in esame deve aversi riguardo alla sola attività di installazione e non a quella successiva dell'intercettazione o impedimento delle altrui comunicazioni, che rileva solo come fine della condotta, con la conseguenza che il reato si consuma anche se gli apparecchi installati non abbiano funzionato o non siano stati attivati”(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza del 05.04.2019, n. 1507).
Nel consigliare di denunciare prontamente tali reati, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti in sede di separazione tra gli ex coniugi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Corridonia che chiede: “A quali responsabilità va incontro l’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie?”
Tale circostanza ci porta subito ad applicare il principio giuridico oramai divenuto consolidato espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 13407/2019, secondo il quale: “Sussiste il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni laddove il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice a fronte della contestazione o dell’ostacolo posto da terzi, come nel caso di un ex marito che, a seguito della mancata voltura delle utenze domestiche dell’abitazione familiare assegnata all’ex moglie, aveva provveduto personalmente a staccare i contatori”.
Difatti, proprio in riferimento ad un caso simile a quello prospettato dalla nostra lettrice, nel quale l’ex marito, dopo aver intimato più volte all’ex moglie di procedere alla voltura delle forniture di energia elettrica e gas dell’abitazione familiare a lei assegnata in sede di separazione, aveva provveduto personalmente al distacco in quanto le spese in questione erano state accollate all’ex moglie in sede di separazione, costringendo la donna e i figli a stare nell’appartamento senza poter usufruire di tali servizi, la Corte di Cassazione ha confermato la configurabilità in capo all’imputato del reato di cui all’art. 393 c.p., in quanto, il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice di fronte alla contestazione o all’ostacolo posto da terzi; a tal proposito, la Suprema Corte aggiunge che, “non è consentito legittimare l’autosoddisfazione per il superamento degli ostacoli che si frappongono al concreto esercizio del diritto”.
Viene, infine, precisato che, “si ritiene legittima la violenza sulle cose solo quando sia esercitata al fine di difendere il diritto di possesso in presenza di un atto di turbativa nel godimento della res, sempre che l’azione reattiva avvenga nell’immediatezza di quella lesiva del diritto, non si tratti di compossesso e sia impossibile il ricorso immediato al giudice, sussistendo la necessità impellente di ripristinare il possesso perduto o il pacifico esercizio del diritto di godimento del bene”.
Pertanto, in applicazione del principio oramai consolidato della Suprema Corte, si ritiene corretto affermare che, nel caso dell’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie, lo stesso commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto e punito ai sensi dell’art. 393 c.p., in quanto tale diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso all’Autorità Giudiziaria. (Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 13407/19; depositata il 27 marzo).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla responsabilità medica per danno da ritardata diagnosi.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Cingoli che chiede: “In quali circostanze è possibile richiede il risarcimento danni al medico che ha ritardato la valutazione diagnostica di una malattia?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente sensibile, su cui ha avuto modo recentemente di pronunciarsi la Suprema Corte con sentenza n. 8461/2019, in una causa che ha riguardato la morte di una paziente alla quale era stato diagnosticato tardivamente un male di natura maligna. In tale circostanza, nella valutazione circa l’eventuale responsabilità del medico che aveva eseguito la prima visita alla paziente, la Corte di Cassazione si è uniformata a quanto enunciato dalle Sezioni Unite nel 2008 con la sentenza n. 576, ovvero che: “ In tema di responsabilità civile, il nesso causale tra la condotta o l'omissione illecita e il danno ingiusto, inteso quale fatto materiale (c.d. "nesso di causalità materiale"), va accertato secondo le regole dettate dagli artt. 40 e 41 c.p., per effetto dei quali, tale nesso di causalità va escluso solo quando, al momento in cui è stata tenuta l'azione o l'omissione, l'evento di danno appariva assolutamente imprevedibile ed inverosimile, alla luce delle migliori conoscenze scientifiche del momento” (Cass. Civ. Sez. Un. Sent. n. 576/2008).
Difatti, in base a tale orientamento, per un’idonea valutazione circa la responsabilità del soggetto autore dell’azione o dell’omissione, deve necessariamente sussistere un’indissolubile relazione tra tale condotta e l’evento dannoso verificatosi, nel senso che se fosse possibile eliminare astrattamente la prima, ovvero l’azione o l’omissione, il danno non si sarebbe realizzato. Inoltre, nel caso che ci occupa, deve essere compiuta un’ulteriore valutazione, in relazione alla circostanza per la quale, anche nell’ipotesi in cui tale epilogo, ovvero l’evento dannoso, si sarebbe comunque verificato, se è dimostrato che la condotta attiva od omissiva del soggetto in questione ha in ogni caso aggravato o velocizzato il procedimento di accadimento di tale evento, è sempre ravvisabile una responsabilità in capo a quest’ultimo, risarcibile in ambito civile sia in termini di danno patrimoniale, sia in quelli di danno non patrimoniale. Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice e in adesione con il più autorevole orientamento della Suprema Corte, si può affermare che: “E’ configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico e il pregiudizio subito dal paziente, qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi”; aggiungendo inoltre che, in tali circostanze, “Si dovrà applicare la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” al nesso di causalità, fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite"( Cass. Civ.; Sez. III, Sent. n. 8461/2019; dep. 27.03.2019).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alle modifiche poste in essere dal disegno di legge approvato in terza lettura dal Senato al codice penale ed altre disposizioni in materia di legittima difesa. Ecco l’analisi svolta dell’avv. Oberdan Pantana su ciò che è stato modificato.
Tale circostanza ci offre la possibilità di illustrare le effettive modifiche apportate con l’approvazione definitiva da parte del Senato con il dibattuto d.d.l. al codice penale così come ad altre disposizioni in materia di legittima difesa. Il testo è composto da 9 articoli, i quali, oltre alle modifiche in materia di legittima difesa ed eccesso colposo, intervengono anche su alcuni reati contro il patrimonio, nello specifico furto in abitazione, furto con strappo e rapina, nonché sul delitto di violazione di domicilio.
Per quanto concerne l’art. 52 c.p. e pertanto la legittima difesa domiciliare, il d.d.l. introduce una presunzione assoluta sull’esistenza della causa di giustificazione per cui nelle ipotesi di legittima difesa domiciliare è considerato sempre sussistente il rapporto di proporzionalità tra la difesa e l’offesa. È altresì considerato sempre in stato di legittima difesa colui che, all’interno del domicilio, e dei luoghi a esso equiparati, respinga l’intrusione da parte di una o più persone posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica. Con la modifica al comma 3 dell’art. 52 c.p., invece, al domicilio è equiparato ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Riguardo, invece, all’art. 55 c.p. e cioè all’eccesso colposo, nelle suddette ipotesi di legittima difesa domiciliare è ora esclusa la punibilità di chi trovandosi in condizione di minorata difesa ovvero in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo, ai sensi dell’art. 61, comma 1, n. 5, c.p., commetta il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità.
Per quanto concerne l’istituto della sospensione condizionale della pena (art. 165 c.p.), nei casi di condanna per furto in abitazione e furto con strappo, il pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa diventa presupposto necessario per la concessione della sospensione condizionale della pena.
La novella legislativa interviene sensibilmente anche sul quadro sanzionatorio della violazione di domicilio, del furto in abitazione, del furto con strappo e della rapina: difatti, le pene per il reato di cui all’art. 614 c.p., violazione di domicilio, vengono elevate da 6 mesi a 1 anno nel minimo e da 3 a 4 anni nel massimo; in caso di violazione di domicilio aggravata la pena detentiva diventa da 2 a 6 anni (anziché da 1 a 5 anni); la pena detentiva per il reato di furto in abitazione e di furto con strappo (art. 624-bis c.p.) diventa da 4 a 7 anni (attualmente da 3 a 6 anni), mentre le ipotesi aggravate, contemplate al comma 3, sono invece punite con la reclusione da 5 a 10 anni (anziché da 4 a 10) e con la multa da 1000 a 2500 euro (ora stabilita da euro 927 a 2000); aumentata anche le pena della rapina (art. 628 c.p.) che da 4 a 10 anni di reclusione diventa da 5 a 10 anni, mentre in ipotesi di rapina aggravata il minimo edittale passa da 5 a 6 anni di reclusione, mentre il massimo rimane invariato a 20 anni, e la pena pecuniaria, ora prevista nella multa da 1290 a 3098 €, è rideterminata da 2000 a 4000 euro; la pena per le ipotesi pluriaggravate è invece determinata nella reclusione da 7 a 20 anni (ora da 6 a 20) e nella multa da 2500 a 4000 euro (ora 1538 a 3098 euro).
In riferimento, inoltre, alla disciplina civilistica, con l’inserimento di 2 nuovi commi nell’art. 2044 c.c. viene ora esclusa la responsabilità nei casi di legittima difesa domiciliare di cui all’art. 52, commi 2, 3 e 4, c.p.; in caso di eccesso colposo, ex comma 2 dell’art. 55 c.p., al danneggiato è invece riconosciuto il diritto a una indennità che dovrà essere calcolata dal giudice con equo apprezzamento tenendo conto della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato.
Riguardo al patrocinio a spese dello Stato, la modifica all’art. 115-bis T.U. spese di giustizia estende le norme sul patrocinio a spese dello Stato a favore della persona nei cui confronti sia stata disposta l’archiviazione o il proscioglimento o il non luogo a procedere per fatti commessi in condizioni di legittima difesa o di eccesso colposo; è ad ogni modo prevista la possibilità per lo Stato di ripetere le spese anticipate qualora, in seguito alla riapertura delle indagini o revoca del proscioglimento, la persona venga condannata in via definitiva.
Infine, per quanto concerne la formazione dei ruoli d’udienza, l’art. 132-bis disp. att. c.p.p. prevede ora un canale prioritario, nella formazione dei ruoli di udienza per i processi relativi ai delitti di omicidio colposo e lesioni personali colpose verificatesi in presenza di una delle circostanze di cui agli artt. 52, commi 2, 3 e 4, e 55, comma 2, c.p..
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alle conseguenze penali derivanti dal fatto di porre in essere attestazioni mendaci ed erronee in un atto pubblico o in una autocertificazione sostitutiva, diretta alla Pubblica Amministrazione. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Camerino che chiede: “A quali sanzioni penali va incontro chi, in un atto pubblico, dichiara falsamente di non aver riportato alcuna condanna penale o di non aver procedimenti penali in corso?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con una recentissima sentenza di condanna, la n. 11240/19, nei confronti di un soggetto che nell’autocertificazione necessaria per ottenere la nomina a guardia giurata, aveva dichiarato di non aver riportato condanne penali, emergendo poi al contrario, che lo stesso in precedenza, aveva posto in essere un patteggiamento a seguito di un procedimento penale a suo carico.
In tale circostanza infatti la Suprema Corte, in linea con la precedente sentenza di condanna emessa dai giudici di secondo grado, ha evidenziato la gravità della condotta posta in essere dall’uomo, dichiarando quanto segue: “In questo caso, la dichiarazione del privato viene equiparata ad un atto pubblico destinato a provare la verità dello specifico contenuto della dichiarazione, ivi compresa l’inesistenza di condanne in capo al dichiarante, con la conseguenza che le false attestazioni al riguardo mettono in pericolo il valore probatorio dell’atto, escludendo perciò stesso l’innocuità del fatto”. (Cass. Pen.; Sez. V; n. 11240/19; dep. 13 marzo 2019), ed esponendo pertanto lo stesso alla condanna per falsità ideologica punita ai sensi dell’ art. 483 c.p. che prevede: “Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni”.
Pertanto, oltre a tale fatto materiale, viene richiesto quale elemento soggettivo quel dolo generico necessario per l’integrazione di tale ipotesi criminosa e consistente nella volontarietà e consapevolezza di dichiarare il falso circa una qualità o condizione, che proprio l’atto in cui tale dichiarazione è inserita, dovrebbe certificare come vera.
Per tali ragioni, alla luce delle considerazioni appena svolte ed in risposta alla domanda del nostro lettore si ritiene di poter affermare che: “La condotta di colui che, in una autocertificazione sostitutiva diretta alla pubblica amministrazione, dichiari di non avere riportato condanne penali o di non avere procedimenti penali in corso integra il reato di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico, previsto ai sensi dell'39;art. 483 c.p., che, essendo punibile a titolo di dolo, deve considerarsi punibile anche a titolo di dolo eventuale, potendosi escludere la responsabilità di chi lo commetta solo se abbia agito a titolo di colpa, essendo tale falsità il risultato di una leggerezza o negligenza” (Cass. Pen.; Sez. V; sent. n. 27702; dep. 15.05.2018).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente l’importante tematica del fenomeno dell’alcolismo giovanile, nello specifico dello sballo del week-end nei locali notturni.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Porto Recanati, che chiede: “ A quali responsabilità può andare incontro i gestori di bar o locali notturni in caso di determinazione in altri dello stato di ubriachezza?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata ed importante, relativa alla responsabilità dolosa o colposa dei gestori di bar o locali notturni, quando si va cagionare l’ubriachezza altrui o la somministrazione di bevande alcoliche a maggior ragione nei confronti di minorenni.
Deve escludersi che sul legale rappresentante della società gerente la discoteca o comunque un locale aperto al pubblico, all'interno della quale ha luogo la somministrazione di bevande alcooliche a persone così da cagionarne l'ubriachezza, non insistesse una posizione di garanzia in ordine all'impedimento dell'altrui stato di ubriachezza, quale evento del reato di cui all'art. 690 c.p., quale la determinazione in altri dello stato di ubriachezza.
Tanto si desume sia dalla struttura della fattispecie criminosa, costruita alla stregua di una fattispecie di evento, causalmente orientata, a forma libera, punita a titolo di dolo o di colpa e realizzabile da chiunque, purchè in un luogo pubblico o aperto al pubblico, sia dalla natura del bene giuridico tutelato, rappresentato dalla prevenzione dell'alcolismo, quale causa di degenerazione individuale e sociale e di delinquenza. Sicchè, avuto riguardo alla ratio della norma di cui all'art. 690 c.p., qualunque soggetto che, in luogo pubblico o aperto al pubblico, assuma la gestione del rischio relativo all'evento che la norma intende evitare, mediante un comportamento concludente consistente nella effettiva presa in carico del bene protetto, per ciò solo è investito di una posizione di garanzia (Sez. 4, n. 48793 del 11/10/2016, P.C. in proc. Petrillo e altri, Rv. 268216), secondo il paradigma di cui all'art. 40 c.p., comma 2.
Nondimeno, nel caso al vaglio, il gestore, proprio in quanto responsabile dell'organizzazione gerente un locale aperto al pubblico, nel quale si somministravano bevande alcooliche agli avventori ha l'obbligo giuridico, desumibile dal complesso della normativa in materia, L. n. 125 del 2001 (Legge quadro in materia di alcol e di problemi alcol correlati), D.L. n. 158 del 2012, convertito con modificazioni in L. n. 189 del 2012, D.L. n. 14 del 2017 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito con modificazione in L. n. 48 del 2017), di predisporre misure precauzionali idonee ad impedire la verificazione di episodi di ubriachezza, in particolare in pregiudizio di minorenni, quali soggetti maggiormente esposti alle conseguenze dannose della massiccia assunzione di bevande alcooliche.
Tanto risulta dalla enunciazione programmatica delle finalità della menzionata legge-quadro n. 125/2001, protesa ad assicurare:" la tutela il diritto delle persone, ed in particolare dei bambini e degli adolescenti, ad una vita familiare, sociale e lavorativa protetta dalle conseguenze legate all'abuso di bevande alcoliche e superalcoliche" (L. n. 125 del 2001, art. 2, lett. a), tanto dall'obbligo imposto a "Chiunque vende bevande alcoliche di chiedere all'acquirente, all'atto dell'acquisto, l'esibizione di un documento di identità, tranne che nei casi in cui la maggiore età dell'acquirente sia manifesta" (L. n. 125 del 2001, art. 14 ter, comma 1).
Alla stregua di tali considerazioni, non è, dunque, possibile, in via di principio, escludere la responsabilità penale del gerente di un'organizzazione imprenditoriale per la contravvenzione di cui all'art. 690 c.p., o addirittura dell’art. 689 c.p. la quale, invero, è fattispecie che ha un raggio di applicazione diverso rispetto a quella precedente in quanto riguarda la somministrazione di bevande alcooliche a minori degli anni 16 o a infermi di mente.
Quest'ultima norma, infatti, punisce la mera somministrazione di bevande alcooliche a persone che si trovino nelle condizioni soggettive specificamente indicate con l’arresto fino ad un anno oltre alla sospensione dell’esercizio, mentre la norma di all'art. 690 c.p., punisce la determinazione in altri, nei riguardi dei quali l'età è indifferente, dello stato di ubriachezza, come effetto della condotta di somministrazione di alcoolici, con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda.
Nè il fatto della determinazione dello stato di ubriachezza in minori ultrasedicenni può dirsi integrare il solo illecito amministrativo dalla L. n. 125 del 2001, art. 14 ter, comma 2, (Divieto di vendita di bevande alcoliche a minori), siccome introdotto dalla L. n. 189 del 2012, art. 7, comma 3, che recita: "Salvo che il fatto non costituisca reato, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 250 a 1.000 Euro a chiunque vende (o somministra) bevande alcoliche ai minori di anni diciotto", vuoi perchè la norma si limita a sanzionare la sola condotta del somministrare o del vendere bevande alcooliche a minori degli anni diciotto; vuoi perchè, in virtù della clausola di sussidiarietà inserita nel corpo della disposizione evocata, l'illecito amministrativo è escluso nel caso in cui la condotta di somministrazione di bevande a minori degli anni diciotto abbia dato luogo ad un reato.
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la controversa tematica, relativa alla responsabilità delle compagnie assicurative in caso di sinistro stradale, e in alternativa, la possibilità di attivazione del Fondo di Garanzia vittime della strada.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Corridonia, che chiede: “In caso di sinistro stradale provocato da un veicolo sprovvisto di assicurazione o munito di tagliando assicurativo falso, è comunque responsabile la compagnia assicurativa del soggetto che ha provocato l’incidente, oppure si può essere indennizzati direttamente dal Fondo di Garanzia vittime della strada?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto dibattuta, relativa alla responsabilità colposa delle compagnie assicurative, nonché circa le condizioni e modalità di attivazione del cosiddetto Fondo di Garanzia, facendo particolare riferimento all’art. 283 C.d.A., che disciplina in modo chiaro, le circostanze in cui il Fondo interviene ad indennizzare il soggetto danneggiato nella misura stabilita in sede di formulazione della relativa offerta, statuendo testualmente: “Il Fondo di garanzia per le vittime della strada, costituito presso la CONSAP, risarcisce i danni causati dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, per i quali vi è l’obbligo di assicurazione, nei casi in cui:
a) il sinistro sia cagionato da veicolo o natante non identificato;
b) il veicolo o natante non risulti coperto da assicurazione;
c) il veicolo o natante risulti assicurato presso una impresa in stato di liquidazione coatta o i venga posta successivamente;
d) il veicolo sia posto in circolazione contro la volontà del proprietario, dell’usufruttuario, dell’acquirente con patto di riservato dominio o del locatario in caso di locazione finanziaria.”
Inoltre, per il caso specifico di sinistro con veicolo provvisto di tagliando assicurativo falso e dunque, privo di idonea copertura assicurativa, rientrante nella categoria di cui alla lett. b), è opportuno operare una precisazione, poiché in tal caso, infatti, così come stabilito dall’art. 127 C.d.A, la compagnia di assicurazione del soggetto danneggiante risulterebbe responsabile per il solo fatto del rilascio di contrassegno assicurativo e indipendentemente dall’inefficacia o dall’invalidità del rapporto di assicurazione, pure in ipotesi di contrassegno contraffatto o falsificato, salvo che l’assicurazione stessa dia prova dell’insussistenza di una propria condotta colposa, tale da ingenerare in capo al danneggiato, l’incolpevole affidamento in merito alla sussistenza del rapporto assicurativo; in tale ultimo caso, dunque, a operare sarà il Fondo di Garanzia.
Tale questione è stata infatti affrontata dalla Corte di Cassazione, in una recentissima Ordinanza, n. 6300/2019, la quale ha fatto luce su tale controversa fattispecie, pronunciandosi in merito ad una questione analoga e consolidando un prezioso principio di diritto.
Difatti, nel caso di specie, sia il Giudice di Pace che il Tribunale adito in funzione di giudice di appello, avevano rimproverato al danneggiato che aveva subito dei danni a causa di un sinistro avuto proprio con un veicolo munito di un tagliando falso, di aver attivato direttamente il Fondo di Garanzia per le vittime della strada, anziché promuovere preventivamente una causa di risarcimento avverso la compagnia di assicurazione falsamente indicata nel tagliando, sulla base di un autonomo convincimento circa la palese falsità del contrassegno in oggetto.
Al contrario, la Suprema Corte adita, ha cassato tale pronuncia, stabilendo il principio di diritto secondo il quale: “Non sussiste per il danneggiato la necessità di citare autonomamente l’assicurazione apparentemente titolare del contrassegno assicurativo, allorchè la prova della falsità o comunque della non attribuibilità del tagliando assicurativo all’assicurazione citata, emerga dagli atti del giudizio promosso nei confronti del Fondo Vittime della Strada, per essere stata dal danneggiato spontaneamente e preventivamente accertata, rendendo superflua l’instaurazione di un autonomo giudizio nei confronti dell’apparente compagnia, la quale si limiterebbe ad invocare il fatto notorio della falsità del contrassegno”(Corte di Cass.; Sez. III Civ.; Ord. n. 6300; dep. 05.03.2019).
Per tali motivi, in risposta alla domanda del nostro lettore, in caso di sinistro con veicolo sprovvisto di idonea copertura assicurativa o munito di tagliando palesemente falso, il soggetto danneggiato potrà attivare direttamente la procedura di indennizzo nei confronti del Fondo di Garanzia con le modalità previste dal codice delle assicurazioni, il quale fornirà una copertura dei danni in base all’offerta di indennizzo di volta in volta formulata, senza dover preventivamente citare per il risarcimento dei danni, la compagnia assicurativa falsamente indicata, dal momento che, dato l’immediato accertamento circa la palese falsità del contrassegno assicurativo, non appare in nessun caso ipotizzabile una responsabilità colposa in capo alla stessa.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato la regolamentazione dei rapporti tra i coniugi in sede di separazione, con particolare riferimento all’affidamento dei propri animali domestici.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di San Severino Marche, che chiede: “In caso di mancato accordo tra i coniugi, a fronte di un procedimento di separazione, chi ha diritto di tenere con sé il proprio animale domestico?”.
Il caso di specie ci permette di analizzare una particolare e diffusa prassi che si verifica in sede di separazione dei coniugi, quale la scelta di chi abbia il diritto di tenere con sé il proprio animale domestico; difatti è sempre più frequente la presenza all’interno della propria casa familiare di cani e gatti, considerato che, oggi più che mai, c’è la buona abitudine di adottare un animale domestico.
Ebbene, occorre precisare che nel nostro ordinamento manca una normativa diretta a disciplinare l’affidamento di un animale domestico, nei casi di separazione dei coniugi o dei conviventi, tanto è vero che aumentano i casi in cui gli stessi coniugi o i conviventi, all’esito del rapporto matrimoniale o di convivenza, decidono di rivolgersi a un giudice per stabilire chi ha il diritto di tenersi il cane o il gatto. A tal proposito, in relazione a tale lacuna normativa, risulta legittima l’applicazione delle norme dettate dal legislatore per l’affidamento dei figli, in particolare laddove manchi uno specifico accordo tra i coniugi stessi, diretto a regolare chi dei due si occuperà del cane o del gatto.
In tale ottica, si inserisce l’innovativa recente pronuncia resa dal Tribunale Ordinario di Sciacca, il quale ha deciso l’affido condiviso di un cane, mirando soprattutto alla tutela del benessere dell’animale, stabilendo quanto segue: “Indipendentemente dall’eventuale intestazione risultante nel microchip, il cane viene assegnato a entrambi i coniugi, a settimane alterne, con spese veterinarie e straordinarie ripartite a metà tra moglie e marito; mentre per quanto riguarda il gatto, considerato che la donna è allergica, il felino viene assegnato all’uomo che appare assicurare il miglior sviluppo possibile dell’identità dell’animale; infatti, il sentimento per gli animali costituisce un valore meritevole di tutela, anche in relazione al benessere dell’animale stesso” (Tribunale Ordinario di Sciacca, Sez. Unica, decreto del 19.02.2019).
Infine, il legislatore, proprio in virtù di tale lacuna normativa, sta predisponendo una proposta modificativa del Codice civile, diretta a regolamentare l’affido degli animali familiari, in caso di separazione dei coniugi, con l’inserimento dell’art. 455-ter c.c., con cui si stabilisce che: “In caso di separazione dei coniugi, proprietari di un animale familiare, il tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, a prescindere dal regime di separazione o di comunione dei beni e a quanto risultante dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti i coniugi, i conviventi, la prole e, se del caso, esperti di comportamento animale, attribuisce l’affido esclusivo o condiviso dell’animale alla parte in grado di garantirne il maggior benessere. Il tribunale è competente a decidere in merito all’affido anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio”.
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica estremamente delicata, relativa alle condotte violente o da considerarle tali poste in essere da soggetti esercenti il ruolo di educatore o docente, nei confronti dei propri allievi.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata, che chiede: “Quali comportamenti, se tenuti da insegnanti nello svolgimento della propria professione, possono condurre a una condanna penale per maltrattamenti?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata e attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la stessa Corte di Cassazione, con una recentissima sentenza di condanna, la n.5205/2019, nei confronti di una maestra d’asilo, per il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. il quale punisce espressamente “Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte”.
Tale delitto, si caratterizza infatti, per l’elemento soggettivo del dolo generico, inteso come volontarietà dell’azione, nonché come consapevolezza di porre in essere un comportamento oppressivo, ed è integrato da condotte di lesione o messa in pericolo dell'incolumità fisica o psicologica, nell'ambito di rapporti interpersonali che dovrebbero favorire la personalità degli specifici soggetti, e non danneggiarla. Inoltre, elemento costitutivo di tale delitto, è l’abitualità dell’azione, ovvero la circostanza che tali condotte lesive siano reiterate e perpetrate ai danni delle vittime.
Proprio questo ultimo requisito, distingue tale delitto di maltrattamenti, quale reato abituale, dal delitto meno afflittivo di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, previsto ai sensi dell’art. 571 c.p., il quale punisce espressamente: “Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte”.
Difatti, nella sentenza citata emessa nei confronti della maestra d’asilo, la quale, nel tentativo di giustificare i propri metodi, li qualificava come “di vecchio stampo in armonia con il c.d. metodo Montessori”, la Suprema Corte ha ritenuto, “Integrato il delitto di maltrattamenti in considerazione della reiterazione delle condotte violente perpetrate ai danni degli alunni, tutti minorenni, del carattere sistematico del ricorso alla violenza fisica e morale, non suscettibile di essere inquadrata in alcun metodo educativo, scolastico, o di insegnamento, tenuto anche conto della tenera età dei bambini maltrattati.”(Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 5205 del 01.02.2019).
Pertanto, alla luce di quanto affermato e in risposta alla domanda della nostra lettrice, “Sul piano della qualificazione giuridica dei fatti si deve ribadire che integra il reato di maltrattamenti e non quello di abuso di mezzi di correzione, la reiterazione di atti di violenza fisica e morale, l’uso sistematico di comportamenti violenti, obiettivamente non leciti, insuscettibili di essere qualificati come espressivi di metodi educativi: schiaffi ripetuti, tirate di orecchio e capelli, sottoposizione a vessazioni morali e fisiche consistenti nell’apostrofare i bambini in malo modo, nello strappare loro i disegni, nel sottrarre loro l’acqua, allontanarli dagli spazi di condivisione per lasciarli da soli in bagno ovvero in una stanza poco illuminata “per riflettere”, inadeguatezza delle espressioni verbali utilizzate, ancorché sostenute da animus corrigendi”(Cass. Pen., Sez. VI, n. 53425/ del 22.10.2014).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente i comportamenti penalmente rilevanti dei pubblici ufficiali diretti a colpire il regolare funzionamento della Pubblica Amministrazione. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche, che chiede: “A quali conseguenze può andare incontro il pubblico ufficiale che utilizza per i propri scopi personali la vettura di servizi, lasciandola parcheggiata all’esterno di un condominio privato?”.Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ai reati che vengono compiuti contro la Pubblica Amministrazione, quale insieme degli Enti pubblici che concorrono all’esercizio e alle funzioni dell’amministrazione di uno Stato nelle materie di sua competenza, e in particolare ai delitti che vengono commessi dai pubblici ufficiali in danno della P.A., individuati, ai sensi dell’art. 357 c.p., in coloro che esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa, tra i quali gli appartenenti alle Forze armate italiane, alla Polizia di Stato, ai Vigili del fuoco, il sindaco, ecc.Quindi, la condotta appropriativa posta in essere dal pubblico ufficiale ai danni della Pubblica Amministrazione, risulta perfettamente idonea a configurare il reato di peculato, così come previsto dall’art.314, co. 1, c.p., il quale punisce espressamente il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria illegittimamente. A tal proposito, la Suprema Corte con una recente pronuncia, ha riconosciuto proprio la responsabilità penale del pubblico ufficiale che utilizza per fini personali la vettura di servizio, statuendo quanto segue: “La condotta del pubblico ufficiale che utilizza reiteratamente l’autovettura di servizio per finalità attinenti alla vita privata configura il reato di cui all’art. 314, comma 1, c.p. in quanto realizza una condotta appropriativa di un bene della Pubblica Amministrazione per la cui integrazione è sufficiente l’esercizio da parte dell’agente di un potere uti dominus tale da sottrarre il bene alla disponibilità dell’ente” (Cassazione Penale, Sez. VI, sentenza n. 13038/16; depositata il 10marzo 2016).Oltretutto, l’articolo 314 c.p., al secondo comma, prevede una autonoma fattispecie penale, ovvero il peculato d’uso, il quale viene in rilievo nel momento in cui il pubblico ufficiale, si appropria della cosa, ma al solo fine di farne un uso momentaneo, ed a condizione che, dopo tale uso, il bene venga immediatamente restituito, ovvero riportato nella disponibilità materiale o giuridica dell’avente diritto.Pertanto, in risposta alla specifica domanda del nostro lettore, affinché possa configurarsi il peculato d’uso, previsto dall’art. 314 co. 2 c.p., è doveroso che l’appropriazione indebita si estenda entro un arco cronologico di più breve durata, a differenza di quanto previsto nel comma 1, che coincide con il periodo di tempo necessario perché il soggetto agente possa fare uso della res. Tale situazione, è ravvisabile nella condotta del sindaco che, in assenza di una specifica finalità istituzionale, utilizza momentaneamente una macchina di proprietà del Comune, per i propri interessi personali, parcheggiandola all’esterno di un condominio privato. In merito una recente pronuncia della Corte di Cassazione, stabilisce quanto segue: “Il presupposto per la configurabilità del peculato d'uso dell'auto di servizio da parte del sindaco, è l'utilizzo a fini privati del mezzo” (Cassazione penale,Sez. III, n. 57517/18, depositata il 27 settembre 2018).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente tematiche relative ai presupposti di legittimità della sanzione disciplinare del licenziamento, irrogata dal datore di lavoro al verificarsi di specifiche condotte.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Recanati, che chiede: “Può ritenersi legittimo il licenziamento del lavoratore che accede ai social network durante l’orario lavorativo?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, in una recentissima sentenza, n. 3133/2019, confermando in via definitiva il licenziamento disciplinare di una donna, segretaria part time in uno studio medico, la quale, durante l’orario di servizio, era solita accedere ripetutamente e per durate talora significative, ai social network, raggiungendo circa 6 mila accessi in Internet, di cui 4.500 su Facebook, utilizzando il computer dell’ufficio. Nella citata sentenza infatti, la Suprema Corte evidenziava come la durata mediamente significativa dei numerosi accessi e l’estraneità dei siti consultati allo specifico ambito lavorativo, fossero risultati idonei a qualificare come “grave” la condotta posta in essere dalla lavoratrice, nonché in netto contrasto con l’etica comune, arrivando ad incrinare la fiducia datoriale e legittimando pertanto, la massima sanzione disciplinare del licenziamento.
Difatti, come ampliamente affermatosi nella prassi giurisprudenziale: “Per stabilire l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire i carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro, la proporzionalità di tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare”. (Trib. Roma, Sez. III, 06.08.2018, n. 75870).
Pertanto, è necessario che la condotta posta in essere dal lavoratore, risulti idonea a determinare un vero e proprio inadempimento degli obblighi previsti contrattualmente, al punto da rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro ed, in particolare, dell'elemento fiduciario.
Al contrario, simili trasgressioni che abbiano però carattere sporadico ed occasionale, o comunque che occupino il soggetto per un lasso particolarmente ristretto di tempo, non possono in alcun modo costituire giusta causa di licenziamento, così come stabilito dall’autorevole sentenza della Corte di Cassazione, la quale si era pronunciata in ordine all’illegittimità del licenziamento intimato ai danni del lavoratore, posto che nel caso di specie: “non era emerso che l'utilizzo personale della posta elettronica e della navigazione in Internet avessero determinato una significativa sottrazione di tempo all'attività di lavoro, nè che la condotta avesse realizzato il blocco del lavoro, con grave danno per l'attività produttiva (Cassazione civile sez. lav., dep. 02/11/2015, n.22353). Inoltre, è oltremodo pacifico, che la valutazione relativa alla sussistenza del conseguente impedimento della prosecuzione del rapporto, debba essere operata con riferimento non già ai fatti astrattamente considerati, bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti ed al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente.
Pertanto, alla luce di quanto affermato ed in risposta alla domanda del nostro lettore, è corretto affermare che: “Ai fini dell’adeguatezza del licenziamento disciplinare, l’inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto” (Corte d’Appello Roma, Sez. Lav., 02.01.2019).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente i comportamenti tenuti durante l’orario lavorativo e precisamente quello dei cosiddetti “furbetti del cartellino”. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Esanatoglia, che chiede: “A quali conseguenze può andare incontro, il dipendente pubblico che durante l’orario di lavoro, timbra il proprio badge e si allontana dalla postazione lavorativa, senza alcun giustificato motivo?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo a un diffuso mal costume relativo ai comportamenti tenuti, durante l’orario lavorativo, dai cosiddetti “furbetti del cartellino”. Infatti, occorre specificare che con tale espressione si fa riferimento a coloro che, specialmente nell’ambito del pubblico impiego, provvedono a timbrare il proprio cartellino o a farlo timbrare da colleghi compiacenti, risultando in tal modo regolarmente in servizio, salvo poi assentarsi inspiegabilmente dal luogo di lavoro, per i motivi più disparati, come recentemente riportato anche dai principali organi di informazione, in merito a lavoratori che, dopo aver timbrato il proprio badge, si erano recati durante l’orario di lavoro a fare la spesa o addirittura in montagna.
Quindi, tale illegittima condotta posta in essere ai danni della Pubblica Amministrazione, risulta perfettamente idonea a configurare il reato di truffa aggravata, così come previsto dall’art. 640 c.p., il quale punisce espressamente chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, prevedendo in particolare al comma successivo, un aumento di pena, nel caso in cui la condotta fraudolenta venga compiuta ai danni dello Stato o di un altro ente pubblico.
A tal proposito, la Suprema Corte con una recentissima pronuncia, ha riconosciuto la responsabilità penale di colui che in maniera fraudolenta attesta la propria presenza sul luogo di lavoro, stabilendo quanto segue: “La falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata qualora il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino, i periodi di assenza, sempre che questi siano economicamente apprezzabili per la P.A.” (Cassazione Penale, Sez. II, sentenza n. 3262/19; depositata il 23 gennaio 2019).
Ebbene, la falsa attestazione sul luogo di lavoro, oltre ad integrare la fattispecie penalmente rilevante della truffa aggravata, comporta anche un rilevante danno di natura economica all’erario e all’Ente truffato, considerato che il lavoratore fornisce in tal modo una prestazione lavorativa nettamente inferiore rispetto a quella effettivamente dovuta contrattualmente.
Conseguentemente, il comportamento del dipendente pubblico che è diretto a raggirare il sistema di rilevamento delle presenza, va ad incidere sulla organizzazione della Pubblica Amministrazione, andando a modificare arbitrariamente i prestabiliti orari di presenza in ufficio; tutto ciò, risulta certamente idoneo a ledere il rapporto fiduciario che si instaura tra il singolo dipendente e l’Ente stesso. Pertanto, in presenza di tali gravi nonché illegittime condotte, l’azienda è pienamente legittimata a licenziare il proprio dipendente, così come autorevolmente sancito dalla Corte di Cassazione, e precisamente: “È legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente non presente in ufficio, pur a fronte della timbratura del proprio badge, effettuata da un collega. Infatti, la falsa attestazione, mediante timbratura del badge identificativo ad opera di un terzo, implica la violazione di fondamentali doveri scaturenti dal vincolo della subordinazione, venendo intaccato gravemente e irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro”(Cassazione Civile Sez. Lavoro, 28/05/2018, n. 13269).
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Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'Avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica assai attuale relativa al risarcimento dei danni e nello specifico quelli causati da incidente su pista da sci.
Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un nostro lettore di Macerata, che chiede: “Se durante la discesa da una pista da sci, si urta contro una staccionata di legno non segnalata e si subisce una lesione, è possibile richiedere il risarcimento del danno al gestore degli impianti sciistici?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una tematica estremamente attuale, relativa ad un’attività sportiva anche se non praticata a livello agonistico, interessando principalmente l’istituto della responsabilità del custode per i danni cagionati dalla cosa in custodia, disciplinato dall’art. 2051 c.c. , il quale stabilisce espressamente che: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”, ovvero l’accadimento di una circostanza imprevedibile e fuori dall’ordinaria consuetudine.
A tal proposito, così come affermato dalla Suprema Corte: “Nello schema legale della responsabilità oggettiva per danni derivati da cose in custodia dell'art. 2051 c.c., il limite oltre il quale cessa la relazione oggettiva tra colui (il custode) che dispone della cosa e l'evento pregiudizievole derivato al terzo "dalla cosa", debba rinvenirsi nell'intervento di una fattore estrinseco alla cosa stessa, qualificabile come "caso fortuito" che, per il suo carattere di imprevedibilità e di eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale.
Tale ipotesi ricorre anche nel caso in cui l'evento imprevedibile ed eccezionale debba ravvisarsi nella condotta dello stesso danneggiato” (Cass. Civ.; sez. III, dep. 05/07/2017; n.16509).
Nel caso specifico, proprio tale pronuncia della Corte di Cassazione, evidenzia come il gestore dell’impianto sciistico sia responsabile per i danni accorsi allo sciatore durante la discesa proprio per il fatto di aver omesso la dovuta segnalazione in prossimità di una staccionata, elemento questo di pericolo che va ad escludere qualsiasi circostanza di caso fortuito.
Inoltre, laddove il soggetto danneggiato dovesse evidenziare nei riguardi del gestore degli impianti comportamenti dolosi o colposi idonei ad integrare la responsabilità extracontrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c. , anche il tale circostanza, il gestore sarebbe responsabile dei relativi danni avvenuti allo sciatore, così come affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 4018/2013:
“Affinché si possa pervenire all'individuazione di un comportamento colposo in capo al gestore, ex art. 2043 c.c., con conseguente risarcimento del danno, è necessario, sulla base dei principi generali, che il danneggiato provi l'esistenza di condizioni di pericolo della pista che rendano esigibile, sulla base della diligenza specifica richiesta, la protezione da possibili incidenti; condizioni in presenza delle quali è configurabile un comportamento colposo del gestore per la mancata predisposizione di segnalazioni” (Corte di Cass. Civ., Sez. III; 19/02/2013; n.4018).
Pertanto, in risposta alla domanda posta dal nostro lettore, il gestore dell’impianto sciistico risulterebbe il responsabile a titolo di risarcimento dell’evento dannoso accorso allo sciatore, proprio perché avvenuto nonostante l’impiego dell’ordinaria diligenza ed attenzione richieste da parte del danneggiato; al contrario, “ove tale condotta dovesse risultare imprudente o gravemente colposa, il nesso causale tra danno subito e fatto ingiusto altrui, risulterebbe irrimediabilmente interrotto”, precludendo allo sciatore, il risarcimento del danno subito (Cass. Civ., sez. III, del 10/05/2018, n. 11274).
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Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente i comportamenti tenuti dal datore di lavoro che mirano a ledere i diritti e la professionalità del proprio dipendente.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Castelraimondo, che chiede: Quando il lavoratore può chiedere il risarcimento danni da mobbing?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo alla sempre più frequente ed attuale vicenda legata al mobbing, ovvero a tutti quei comportamenti persecutori che tendono a emarginare un soggetto dal gruppo sociale di appartenenza, tramite violenza psichica protratta nel tempo e in grado di causare seri danni alla vittima. In particolare, è opportuno soffermarsi sul principale contesto in cui vengono in risalto simili condotte illecite, ovvero l’ambiente lavorativo, laddove il mobbing si estrinseca in tutti quei comportamenti che il datore di lavoro pone in essere per svariate ragioni, al fine di emarginare e allontanare un determinato lavoratore.
A tal proposito, la Corte di Cassazione, con una recentissima pronuncia, ha ben definito gli elementi costitutivi di tale comportamento persecutorio, stabilendo quanto segue: “Per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità. Per la ricorrenza di tale fattispecie devono pertanto sussistere la molteplicità dei comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, purché reiterati nel tempo e connotati da intento vessatorio, l’evento lesivo della salute o della personalità del lavoratore, il nesso eziologico tra condotta e pregiudizio e la prova dell’elemento soggettivo e, cioè, dell’intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi” (Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, sentenza n. 30673/18; depositata il 27 novembre 2018).
Tutto ciò può essere anche legato ad episodi di demansionamento, in conseguenza dei quali il lavoratore viene costretto a svolgere mansioni di livello inferiore rispetto a quelle per le quali è stato assunto, come nel caso in cui venga relegato a fare delle mere fotocopie, situazione che umilia e limita l’espressione delle capacità e delle competenze dello stesso lavoratore, oppure casi in cui lo stesso lavoratore venga sottoposto a continue critiche ingiuste o a illegittime limitazioni circa la possibilità di fare carriera all’interno dell’ambiente lavorativo. Pertanto, in presenza di tali circostanze, il lavoratore può legittimamente chiedere il risarcimento del danno patito nei confronti del proprio datore di lavoro, così come autorevolmente sancito della Suprema Corte, e precisamente: “Nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale (art. 32 e 37 cost.), il danno non patrimoniale è configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore, concretizzando un vulnus ad interessi oggetto di copertura costituzionale; questi ultimi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi - concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che vanno risarciti, mediante una valutazione supportata da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia, sottratta, come tale, anche quanto alla quantificazione del danno, a qualsiasi censura in sede di legittimità” (Cassazione Civile Sez. Unite, 22/02/2010, n.4063).
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Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'Avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica assai delicata ed attuale, relativa al rilascio della licenza di porto d’armi a seguito di una condanna penale.
Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un nostro lettore di San Ginesio, che chiede: “Il rilascio della licenza di porto d’armi, può essere negato automaticamente anche se il fatto di rilevanza penale è accaduto in un momento temporalmente distante rispetto a quello in cui viene effettuata la richiesta?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una tematica estremamente sensibile e molto spesso dibattuta a causa della stretta relazione che sussiste tra il provvedimento di diniego della richiesta di licenza e la c.d. discrezionalità amministrativa.
Difatti, il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS), che disciplina la materia, al comma I dell’art. 43, elenca le circostanze ostative alla concessione della specifica licenza in questione, stabilendo espressamente che: “Oltre a quanto è stabilito dall'art. 11 non può essere conceduta la licenza di portare armi:
a) a chi ha riportato condanna alla reclusione per delitti non colposi contro le persone commessi con violenza, ovvero per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione;
b) a chi ha riportato condanna a pena restrittiva della libertà personale per violenza o resistenza all'autorità o per delitti contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico;
c) a chi ha riportato condanna per diserzione in tempo di guerra, anche se amnistiato, o per porto abusivo di armi.”
Dalla lettura di tale dispositivo, sembrerebbe dunque prevedersi l’assoluta l'incompatibilità del precedente penale con il rilascio del porto d'armi, se non fosse che al comma II della stessa norma, nello stabilire che"La licenza può essere ricusata ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi non può provare la sua buona condotta o non dà affidamento di non abusare delle armi", la norma attribuisce alla Pubblica Amministrazione (P.A.) la chiara possibilità di vagliare le singole fattispecie concrete, nei termini di un potere discrezione apparentemente privo di limitazioni.
Da qui, la conseguente problematica relativa alla palese e incontrollata ampiezza di tale discrezionalità amministrativa, la quale talvolta ha assunto i connotati di un vero e proprio “abuso di potere”, determinando il moltiplicarsi dei ricorsi in opposizione avverso tale sistema decisionale.
A tal proposito, numerose sono state le pronunce dei vari Tribunali Amministrativi Regionali (T.A.R), volte a definire i termini di operatività di tale potere discrezionale, con particolare riguardo ai principi cui la stessa P.A. ha il dovere di ispirarsi nel valutare caso per caso le istanze di ciascun richiedente e i requisiti cui affidarsi nelle decisioni di concessione o diniego della licenza in questione.
In particolare, con riferimento al necessario giudizio prognostico attraverso cui valutare la meritevolezza ed affidabilità del soggetto richiedente, nei casi in cui sussista in capo a quest’ultimo una precedente condanna penale, il T.A.R. Piemonte ha affermato a chiare lettere che: “non è sufficiente per l’Amministrazione invocare il dato fattuale della remota condanna, occorrendo, piuttosto, procedere ad una concreta prognosi che tenga conto di tale evento, ma pure della condotta tenuta dall’interessato nell’ampio lasso di tempo successivo al fatto, nonché della circostanza che negli anni non si siano verificati episodiche possano costituire indici concreti ad accertati d’attuale pericolosità ed inaffidabilità del ricorrente” (T.A.R. Piemonte, sez. I, 12.12.2017, n. 1349), aggiungendo, in altra pronuncia, quanto segue: “La coerenza dell’ordinamento, impone all’amministrazione quanto meno di procedere ad una prognosi concreta che tenga conto del tempo trascorso e della condotta tenuta successivamente al fatto di reato con l’onere di motivare specificatamente i fatti che essa ritenga espressivi di non avvenuto completamento dell’emenda, fermo restando che in linea generale non possono compiersi apprezzamenti negativi in presenza di un solo episodio ostativo mai più ripetuto. (T.A.R. Piemonte, sez. I, 10.01.2018, n.84)
Pertanto, in risposta alla domanda posta del nostro lettore, si può correttamente sostenere che nel caso di specie, debba essere preferita una interpretazione della norma conforme ai principi costituzionali, con la conseguenza, che la P.A., nel compiere la propria complessiva valutazione in ordine all’affidabilità nel possesso delle armi, all’interno di un più generale giudizio prognostico sull’opportunità di concessione della licenza, non può non tenere conto anche della sussistenza di altri elementi, attuali e concreti, dai quali desumere una più idonea e aderente valutazione circa la condotta del soggetto richiedente, a maggior ragione se si parla di un singolo episodio, mai più ripetuto con addirittura l’avvenuta riabilitazione.
Alla luce di quanto affermato e come pure sancito dall’autorevole pronuncia del Consiglio di Stato, risulta pertanto oramai pacifico sostenere che:“la preclusione prevista dall'art. 43 TULPS per il possesso di armi e munizioni in capo ai soggetti, che abbiano subito le indicate tipologie di condanne, non possa essere automatica, ove ragionevolmente altri elementi attuali della personalità dell'interessato, quale il lungo tempo intercorso rispetto all'epoca del commesso reato senza la commissione di ulteriori illeciti penali (corroborato nelle sue positive implicazioni dalla intervenuta riabilitazione), depongano per lo stabile il ripristino in capo al soggetto medesimo delle richieste condizioni di affidabilità nel possesso di armi in corrispondenza ad una rinnovata e consolidata integrazione nel sano contesto socio economico in presenza di indizi univoci e concordanti in tale senso”. (Consiglio di Stato, sez. III, 17.11.2017, n. 5313).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente tematiche riferibili ai rapporti interpersonali e nello specifico quelli che possono scaturire dalla separazione personale dei coniugi. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda di un lettore di Civitanova Marche, che chiede:” Se il beneficiario di un assegno di mantenimento costituisce una famiglia di fatto può perdere tale diritto?
A tal proposito, la sentenza n. 32871/18 della Corte di Cassazione, Sez. I Civ., ha posto in essere il nuovo orientamento in tema di assegno di mantenimento riguardo ad una nuova scelta esistenziale del coniuge separato, superando i precedenti assetti della elaborazione giurisprudenziale di riferimento. Di fatti, i giudici della Corte di Cassazione, oltre a ricordare che in tema di separazione personale dei coniugi, la convivenza stabile e continuativa intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione o la interruzione dell'obbligo di corresponsione dell'assegno di mantenimento che grava sull'altro ex, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi more uxorio siano messe in comune nell'interesse del nuovo nucleo familiare, la Suprema Corte va oltre, statuendo che la formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto, ad opera del coniuge beneficiario dell'assegno di mantenimento, va a porre in essere una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita ed il nuovo assetto fattuale costituzionalmente tutelato, ai sensi dell’art. 2 Cost., in quanto espressamente cercato e voluto dal coniuge beneficiario della solidarietà coniugale. Infatti, la ricerca, la scelta ed il concreto perseguimento di un diverso assetto di vita familiare, da parte del coniuge che pure abbia conseguito il riconoscimento del diritto dell'assegno di mantenimento, fa scaturire un riflesso incisivo dello stesso diritto alla contribuzione periodica, facendola venir meno, non rilevando la possibilità che i coniugi non divorziati possano astrattamente tornare a ricomporre la propria vita a seguito di un (improbabile) ripensamento, perché anche in questo caso l'assegno non rivivrebbe ma tornerebbe ad operare il precedente assetto di vita caratterizzato dalla ripresa della convivenza, con conseguente impossibilità di reviviscenza del contributo che era stato a suo tempo assegnato dal giudice. Per tali ragioni, risulta corretto affermare che, l’assegno di mantenimento, viene meno nei confronti del beneficiario nel momento in cui lo stesso va a costituire una famiglia di fatto (Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza n. 32871/18, depositata il 19 dicembre 2018).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente l’imminente festività del Capodanno, con l’ormai classica problematica dei botti legata all’incolumità delle persone e degli animali. Di seguito la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda di un lettore di Pieve Torina, che chiede a quali responsabilità può andare incontro il produttore di fuochi d’artificioe/o il consumatore, nel momento in cui una persona rimane ferita aseguito di un utilizzo inidoneo o ad un malfunzionamento del prodottopirico?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica molto importante e delicata, come quella relativa alla fabbricazione di prodotti pirici, considerato che in occasione dei festeggiamenti per l’ultimo dell’anno, vengono in risalto sempre piùcasi di persone che rimangono ferite, anche gravemente, a seguito dell’utilizzo non adeguato o ad un malfunzionamento dei cosiddetti “botti di capodanno”. Innanzitutto, occorre precisare che sono state introdotte nel nostro Paese, anche sotto la spinta dell’ordinamento comunitario, rigorose regole che impongono requisiti generali di sicurezza per ogni prodotto che viene immesso sul mercato comunitario e destinato al consumo o che possa essere usato dai consumatori. Quindi, sui fabbricanti di beni, e in particolare sui produttori di prodotti pirici, gravano dei precisi obblighi generali, tra i quali risaltano quelli di tipo informativo, e in particolare in ordine alla sicurezza, composizione e qualità dei prodotti; infatti, risulta opportuno citare l’art. 2 del D. lgs. n. 206/2005, meglio noto comeCodice del Consumo, il quale prevede che ai consumatori ed agli utenti sono riconosciuti come fondamentali i diritti relativi alla tutela della salute, alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi, nonché ad una adeguata informazione e corretta pubblicità circa l’utilizzo degli stessi. A tal proposito, la Corte di Cassazione, hastabilito quanto segue: “I produttori di fuochi pirici sono titolari di una posizione di garanzia nei confronti degli acquirenti che, in quanto consumatori, vanno informati adeguatamente circa le modalità con cui il prodotto va utilizzato, i rischi derivabili da un uso inidoneo e i pericoli di malfunzionamento del prodotto; pertanto, rispondono delle omissioni qualora a queste sia connesso un evento lesivo in danno dei consumatori”(Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, n. 3472/15; depositata il 26 gennaio 2015). Oltretutto, è doveroso ricordare come tali botti di capodanno, in alcuni casi, siano utilizzati anche in modo illegale, risultando così pericolosi per l’incolumità sia delle persone sia dei nostri amici a quattro zampe; in tali casi, è opportuno riportare una recente sentenza della Suprema Corte, che ha riconosciuto la responsabilità penale e relativi obblighi risarcitori nei confronti non solo di chi ha ‘ordinato’ l’acquisto ed ha poi materialmente comprato i ‘botti’, ma anche di successivamente li ha utilizzati, causando il ferimento di persone ed animali che in qual momento stavano passeggiando (Cassazione, sentenza n. 25365/18, depositata il 12 ottobre 2018).
Nel consigliare, pertanto, un utilizzo consapevole, attento e legale dei prodotti pirotecnici, auguro a tutti voi lettori un buon 2019, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Avv. Oberdan Pantana
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato diversi argomenti a carattere natalizio e, data la diffusa atmosfera di festa, nonché la singolare curiosità espressa dai molteplici lettori per circostanze che riguardano direttamente e indirettamente la festività del Natale, abbiamo scelto di riportare le seguenti situazioni.
Di seguito la risposta alla domanda di un lettore di Civitanova che chiede: “Se durante il cenone della vigilia, nello stappare lo spumante colpisco con il tappo uno dei presenti, in quali responsabilità posso incorrere?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, il riferimento a quanto accaduto al titolare di un ristorante che, preso dall’euforia dei festeggiamenti, finiva per ferire all’occhio una cliente che sedeva poco distante, con il tappo dello spumante appena aperto.
La Suprema Corte pronunciatasi sulla vicenda, ravvisava nella condotta dell’euforico ristoratore, il reato di lesioni colpose, a causa della mancata adozione delle idonee cautele del caso, condannandolo alla pena prevista dall’art. 590 c.p. che stabilisce testualmente: “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a 309 euro”. (Cass. Pen., Sez. IV, n.32548 del 12.07.2016)
Ebbene sì, anche un gesto festoso può finire per “conciarci per le feste”.
-In risposta alla domanda di un lettore di Porto Recanati che chiede: “Se a causa di un ritardo del volo prenotato, ci viene impedito di trascorrere le festività con i nostri cari, può essere richiesto il risarcimento del danno subito?”. Riportiamo la sentenza del Giudice di Pace di Cagliari (n. 571/2012) che, pronunciatosi su un caso molto simile, aveva condannato la compagnia aerea a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali ad un passeggero che era stato costretto a trascorrere la vigilia di Natale in aeroporto, consumando il “cenone” in solitaria con del cibo acquistato presso un bar poco distante dal gate. L'uomo difatti, oltre al risarcimento per il danno esistenziale subito, era stato ristorato anche dei danni patrimoniali comprese le spese per comprare i due "tristi" panini del “cenone natalizio”!
-Di seguito la risposta ad un lettore di Tolentino che ci chiede: “E’ legittimo il licenziamento di un dipendente che, in occasione delle festività natalizie, decide in piena autonomia di concedersi delle ferie per stare con la propria famiglia?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica molto importante sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20461 del 30.09.2010 in riferimento alla condotta posta in essere da un dipendente che, nonostante il rifiuto della richiesta da parte del datore di lavoro, decideva di non presentarsi comunque al lavoro, rimanendo a casa da Natale a Capodanno.
La Suprema Corte chiamata a pronunciarsi, aveva rilevato che “considerata la mancata prova delle circostanze che potevano rilevare nel rendere più lieve l'infrazione e quindi eccessiva la sanzione del licenziamento, ai fini del giudizio di necessaria proporzionalità, l'allontanamento arbitrario dal posto di lavoro dal 24 al 31 dicembre, malgrado il rifiuto dell'azienda datrice, costituiva giusta causa di recesso, conformemente peraltro a quanto previsto dall'art. 151 del CCNL”, che disciplina i tempi, le circostanze e le modalità con cui il lavoratore può legittimamente richiede un periodo di aspettativa al proprio datore di lavoro; circostanze non rispettate nel caso di specie.
Con tali motivazioni dunque, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso formulato dal lavoratore e dichiarava la legittimità del licenziamento posto in essere dal datore di lavoro.
Quando si suol dire, le ferie costano care!!
-In risposta alla domanda posta da un lettore di Muccia che chiede: “Essere un giocatore di carte soprattutto nel periodo natalizio può comportare ripercussioni in sede di separazione?” Riportiamo la decisione assunta dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.5395/2014, che, chiamata a pronunciarsi in merito ad una caso di separazione giudiziale dei coniugi, aveva stabilito l’addebito della separazione in capo al marito, il quale era solito spendere molto denaro nel gioco e che, solo nel periodo natalizio, aveva sperperato oltre € 1.000 giocando a carte.
La Suprema Corte adita aveva infatti chiarito che “anche il gioco d'azzardo, ripetuto ed eccessivo, viola in modo grave gli obblighi matrimoniali sino a rendere la convivenza intollerabile e a far scaturire separazione e consequenziale addebito.”
Difatti, il discutibile vizio che impegnava il marito della coppia per diverse ore al giorno, assentandosi quasi totalmente nel periodo natalizio oltre a rappresentare una cattiva abitudine, lo portava a stare spesso, e senza alcun giustificato motivo, fuori casa, non ottemperando ai propri doveri di marito e padre, per di più sottraendo grosse somme di denaro alla cura e al sostentamento della propria famiglia.
Pertanto, senza negare il piacere che può derivare dal giocare a carte con amici o in famiglia, specie durante il periodo natalizio, si consiglia di non esagerare!
-In risposta alla domanda di un lettore di Corridonia che chiede: “E’ penalmente sanzionabile un soggetto che invia infausti auguri di Natale ?” Riportiamo la pronuncia del Tribunale di Bari, che con sentenza depositata il 25 febbraio 2015, ha condannato per estorsione un uomo che si era rivolto più volte alla sua vittima minacciandola ripetutamente del fatto che, se non gli avesse dato i soldi richiesti, la madre avrebbe passato “un brutto Natale”.
Difatti l’art. 629 c.p. punendo “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”intende scongiurare che la prospettazione di un evento dannoso per l'incolumità fisica della vittima o di una persona ad essa molto vicina, spingano la stessa a gesti disperati o comunque non voluti.
Il Tribunale adito, specificava inoltre che “In tema di estorsione, la violenza o la minaccia può essere manifestata in modi e forme differenti, purché venga a crearsi la condizione di costrizione psichica della vittima volta, ad ottenere un profitto ingiusto per sé o per altri, con danno altrui.”
A differenza del caso appena proposto, e in vista del Natale orami alle porte, nel rimanere in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, colgo l’occasione per porgerVi i miei migliori auguri di Buone Feste, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente tematiche riferibili alle conseguenze del cd. phishing, fenomeno finalizzato all’acquisizione, da parte di hacker, di dati personali e sensibili; di seguito la risposta alla domanda posta da una lettrice di Corridonia, che chiede: è possibile ottenere un risarcimento dal proprio istituto bancario, qualora terzi si impossessino delle credenziali di accesso al servizio di home banking ed azzerino la giacenza sul conto corrente?
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo alla tematica, molto attuale, delle responsabilità derivanti dal cd. phishing, fenomeno molto frequente online, che si verifica quando un soggetto si finge un ente affidabile, quale ad es. un istituto di credito, ed attraverso varie modalità, come l’invio di e-mail o il rimando dell’utente su un sito web creato ad hoc, acquisisce i dati finanziari o, comunque, le credenziali di accesso al conto corrente del titolare, allo scopo di utilizzarli per disporre della liquidità presente. A tal proposito, occorre considerare come il rischio che terzi estranei sottraggano i dati personali dei propri correntisti, il cui particolare trattamento da parte dell’istituto è soggetto alle disposizioni previste in materia dal Codice della Privacy e dal Regolamento Europeo n. 679/2016, sia considerato da giurisprudenza consolidata, un rischio tipico del prestatore dei servizi di pagamento, in quanto tale prevedibile ed evitabile; sussiste dunque, innanzitutto, in capo all’istituto di credito, l’obbligo di operare con la diligenza qualificata di cui all’art. 1176 co.2 c.c., da valutare assumendo come parametro la figura del cd. accorto banchiere, e dunque l’obbligo di garantire elevati standard di sicurezza nell’utilizzo dei propri sistemi di pagamento online, determinato con riferimento alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, in modo tale da evitare tali illegittime sottrazioni, ad esempio, imponendo ai propri clienti l’uso delle cd. O.T.P., One Time Password, o dei cd. sistemi di autenticazione a due fattori. Pertanto, in capo all’istituto di credito sussisterà l’obbligo di risarcire il danno, ex art. 2050 c.c., nel caso in cui avvengano episodi di accesso non autorizzato alle informazioni private dei propri clienti, sempre che questo non provi di avere adottato tutte le misure idonee a garantire la sicurezza del servizio e la riconducibilità dell'operazione al cliente.A tal proposito, la Suprema Corte in una recente pronuncia ha statuito quanto segue:“l’istituto che svolga una attività di tipo finanziario o in generale creditizio risponde, quale titolare del trattamento di dati personali, dei danni conseguenti al fatto di non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico del cliente mediante la captazione dei suoi codici di accesso e le conseguenti illegittime disposizioni di bonifico, se non prova che l’evento dannoso non gli è imputabile perchè discendente da trascuratezza, errore dell’interessato o da forza maggiore ”(Cass. Civ., sez. I, 23.05.2016, n. 10638).
Nel consigliare, dunque, di porre particolare attenzione a mail o siti sospetti, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tutela degli animali tenuti dai rispettivi proprietari in condizioni non conformi. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una giovane lettrice di San Severino Marche, che chiede a quali responsabilità può andare incontro colui che costringa il proprio cane a vivere in condizioni inadeguate tali da mettere in pericolo la salute e la vita dell’animale stesso.
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo alla triste nonché attuale vicenda inerente al maltrattamento degli animali domestici, quali cani e gatti, che troppe volte, subiscono vere e proprie sevizie e crudeltà da parte dell’uomo, come avviene purtroppo quando gli stessi sono lasciati in isolamento legati ad una catena, con una cuccia non idonea a proteggerli dalle intemperie, all’interno di uno spazio insufficiente alla propria indole, o comunque carente di acqua, cibo e assistenza igienica.
Così come previsto e punito dall’art. 544 ter cod. pen., vengono sanzionati i comportamenti tali da realizzare danni all’animale, comprendendo sia le cosiddette sevizie, intese come tutte le forme di crudeltà verso l’animale e che sono offensive del sentimento di pietà e compassione per gli stessi, sia tutte le condotte capaci di sottoporre l’animale ad azioni insopportabili per le proprie caratteristiche comportamentali. Tale evenienza si rinviene, ad esempio proprio nel momento in cui l’animale venga lasciato solo in un ambiente totalmente inadeguato, sia per quanto riguarda le dimensioni del luogo, sia per la salubrità, situazione questa certamente idonea ad incidere sulle condizioni di salute dell’animale stesso.
A tal proposito, risulta dunque utile riportare una recente pronuncia resa dalla Suprema Corte di Cassazione, in riferimento alla vicenda di un padrone che si era comportato da aguzzino nei confronti del suo pastore tedesco, sottoponendolo a vere e proprie sevizie, obbligando l’animale a utilizzare una cuccia in cemento non funzionale a fronteggiare il freddo, statuendo quanto segue: “ai fini della configurazione dell’art. 544 ter c.p. è sufficiente tenere l’animale in isolamento, per periodi considerevoli di tempo, legato in uno spazio angusto, senza cure igieniche né somministrazioni alimentari, e senza un’adeguata protezione dalle intemperie”(Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza n. 8036/18; depositata il 20 febbraio 2018).
Inoltre, il caso di specie, ci offre la possibilità di richiamare l’art. 727 cod. pen., che punisce la deplorevole condotta di colui che abbandona un animale domestico o un animale che abbia acquisito abitudini della cattività; tuttavia deve essere precisato che nella nozione di abbandono di animali è da intendersi non solo la diretta volontà di abbandonare definitivamente l’animale, ma anche il non prendersene più cura, con la consapevolezza dell’incapacità dello stesso animale di non poter più provvedere a sé come quando era affidato alle cure del proprio padrone.
In merito, la Corte di Cassazione ha asserito quanto segue: “In tema di maltrattamento di animali, il reato permanente di cui all'art. 727 c.p. è integrato dalla detenzione degli animali con modalità tali da arrecare gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura, avuto riguardo, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali” (Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza n. 37859/2014).
Nel consigliare di denunciare prontamente tali gravi reati, commessi ai danni dei nostri amici a quattro zampe, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.