
di Vanessa Carletti

Farmaci anti-obesità: come agiscono e in che modo assumerli
Negli ultimi anni, i “farmaci anti-obesità” – in particolare gli analoghi del GLP-1 – sono diventati protagonisti di una nuova fase nella gestione del peso e nella riduzione del rischio di malattie associate all’obesità. Nati inizialmente come terapie per il diabete di tipo 2, questi farmaci agiscono mimando l’azione di un ormone intestinale, il GLP-1, che regola l’appetito, il senso di sazietà e i livelli di zucchero nel sangue. Il risultato? Una riduzione significativa dell’introito calorico, senza dover contare solo sulla forza di volontà. Molte persone che vivono con l’obesità sanno quanto sia complesso perdere peso e, soprattutto, mantenerlo nel tempo. Per questo l’arrivo di molecole come semaglutide e tirzepatide ha aperto nuove e promettenti prospettive terapeutiche. Gli studi clinici parlano chiaro: l’uso di questi farmaci può portare a una perdita di peso superiore al 10-15% del peso corporeo iniziale, un risultato che fino a pochi anni fa si osservava quasi esclusivamente con la chirurgia bariatrica. Tuttavia, è fondamentale chiarire un punto: non si tratta di soluzioni miracolose. L’effetto di questi farmaci è massimo quando vengono inseriti in un percorso che comprende un’alimentazione equilibrata, attività fisica regolare e, quando necessario, supporto psicologico o comportamentale. Un importante studio pubblicato sul New England Journal of Medicine ha confrontato l’uso della semaglutide rispetto al placebo in adulti con obesità. Chi assumeva il farmaco ha perso in media il 15% del proprio peso corporeo. Ma è importante sottolineare che tutti i partecipanti seguivano anche un programma strutturato, con una dieta controllata e attività fisica. Risultati ancora più significativi sono emersi in altri studi, in cui il trattamento farmacologico è stato affiancato da un percorso intensivo e personalizzato: dieta ipocalorica, movimento programmato, consulenza comportamentale. In questi casi, il dimagrimento medio ha superato il 16-20%, dimostrando quanto lo stile di vita sia fondamentale per potenziare l’efficacia della terapia. È quindi importante non considerare questi farmaci come una scorciatoia o una soluzione rapida al problema del peso. Oltre a richiedere un’assunzione continuativa nel tempo per mantenere i risultati, la loro efficacia può variare molto da persona a persona. Alcuni ottengono grandi benefici, altri solo una riduzione modesta. Inoltre, è stato osservato che, dopo l’interruzione del trattamento, è possibile andare incontro a un recupero del peso perso. In altre parole, questi farmaci non sostituiscono la dieta, ma possono renderla più efficace, aiutando a controllare l’appetito e a migliorare l’aderenza nel lungo periodo. Sono uno strumento in più, non un’alternativa. Affidarsi solo a un’iniezione settimanale senza modificare le proprie abitudini alimentari e lo stile di vita è un po’ come voler curare l’ipertensione con una pillola, continuando però a consumare troppo sale e a non muoversi mai. È fondamentale ricordare che l’obesità è una malattia cronica e multifattoriale, non una questione di mancanza di volontà. I nuovi farmaci rappresentano un passo avanti nella sua gestione, perché ci permettono di trattarla in modo moderno, scientifico e meno stigmatizzante. Ma la chiave resta sempre un approccio integrato, costruito su misura per la persona. Non esiste un percorso identico per tutti: esiste invece una strategia personalizzata, in cui il farmaco può facilitare il cammino — ma non può sostituire il viaggio.

Mangiare sano fuori casa: è davvero impossibile?
Mangiare in modo sano è spesso associato a piatti preparati nella tranquillità di casa, a una spesa ben pianificata e alla cura nella scelta degli ingredienti. Ed è vero: una buona alimentazione comincia proprio da una buona spesa. Tuttavia, per molte persone questa condizione ideale non è sempre possibile. Impegni di lavoro, turni variabili, pranzi al volo tra una riunione e l’altra, viaggi frequenti o semplicemente il desiderio di socializzare intorno a un tavolo fuori casa, rendono i pasti “on the go” una realtà quotidiana. Questo significa dover rinunciare a mangiare bene? Assolutamente no. Seguire un’alimentazione equilibrata anche quando si è lontani dalla cucina di casa è possibile. Non si tratta di rigidità o perfezionismo, ma di consapevolezza e organizzazione. Il primo passo è cambiare prospettiva: non serve controllare tutto, ma scegliere con criterio ciò che è disponibile. Quando si ha il tempo di prepararsi i pasti da portare, anche solo due o tre volte a settimana, è già un buon investimento sulla propria salute. Preparazioni semplici come un’insalata di cereali integrali con verdure e legumi, una frittata con contorno, oppure un panino integrale con hummus e verdure grigliate, possono essere gustose, bilanciate e facili da trasportare. Avere in frigo o in dispensa ingredienti “salva-pasto” come legumi già cotti, uova, frutta fresca, noci, pane integrale o yogurt bianco, aiuta a comporre velocemente pasti sani anche quando il tempo è poco. Ma cosa succede quando non si riesce a preparare nulla e si deve mangiare fuori casa, magari tutti i giorni? Qui entrano in gioco alcune strategie pratiche. Innanzitutto, la scelta del locale. Sempre più ristoranti, tavole calde, bar e mense aziendali stanno ampliando le loro proposte con opzioni più leggere, vegetali e bilanciate. Saper leggere il menù con attenzione è fondamentale: prediligere piatti con verdure, fonti proteiche magre (come pesce, uova, legumi o carni bianche), cotture semplici (griglia, vapore, forno) e condimenti serviti a parte è un ottimo punto di partenza. Anche i piatti unici, se ben bilanciati, sono un alleato prezioso. Un esempio? Un poke con riso integrale, salmone, avocado e verdure; oppure un piatto di pasta integrale con pomodorini, rucola e ceci. Sono scelte pratiche che nutrono con gusto e senza eccessi. Se il menù non offre alternative soddisfacenti, si può combinare un secondo piatto con due contorni, oppure chiedere una porzione ridotta di primo e un’aggiunta di verdure. Un aspetto spesso sottovalutato è l’ascolto del proprio corpo. Quando si mangia fuori casa, si tende a seguire ritmi esterni o abitudini sociali, dimenticando di ascoltare il senso di fame e sazietà. Fermarsi, respirare, gustare lentamente ciò che si mangia e non sentirsi obbligati a finire tutto il piatto sono piccoli gesti di cura che fanno una grande differenza. Anche chiedere un contenitore per portare via ciò che avanza è un’abitudine intelligente e sempre più accettata. Infine, va ricordato che la qualità della dieta si misura sull’arco di giorni, settimane, mesi: non dipende da un singolo pasto. A volte si potrà scegliere il meglio possibile, altre volte si opterà per ciò che è disponibile. E va bene così. L’alimentazione non è una prova da superare, ma una relazione da coltivare nel tempo, con flessibilità e rispetto verso sé stessi. Mangiare fuori casa può rimanere un momento conviviale, piacevole, persino rigenerante, se affrontato con un approccio equilibrato. Più che cercare la perfezione, impariamo a cercare la coerenza: piccoli gesti ripetuti nel tempo, anche fuori casa, possono contribuire a un benessere autentico e duraturo.

Un’estate meno salata: consigli per difendersi dal sodio in eccesso
Con l’arrivo dell’estate, le nostre abitudini alimentari cambiano: cerchiamo piatti freschi, veloci e pratici, spesso a base di formaggi, affettati o insalate già pronte. Se da un lato questi alimenti sembrano ideali per affrontare il caldo, dall’altro possono diventare una fonte nascosta – e spesso sottovalutata – di sale. Il sale è uno dei condimenti più conosciuti e utilizzati nelle cucine di tutto il mondo, ed è una sostanza fondamentale per l’organismo umano. È coinvolto nella regolazione dell’equilibrio idrico, nella trasmissione degli impulsi nervosi e nella contrazione muscolare, compresa quella del cuore. Tuttavia, come spesso accade in nutrizione, è la quantità a fare la differenza tra beneficio e rischio. Secondo le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, non dovremmo superare i cinque grammi di sale al giorno, una quantità che corrisponde a circa un cucchiaino da tè. Eppure, nella realtà quotidiana, il consumo medio della popolazione italiana si aggira tra i nove e i dodici grammi, più del doppio del limite suggerito. Il paradosso è che solo una piccola parte del sale che assumiamo proviene dalla saliera: la maggioranza è già presente nei cibi industriali e trasformati che consumiamo ogni giorno. Pane, grissini, formaggi stagionati, salumi, snack confezionati (sia dolci che salati), salse pronte, piatti precotti possono contribuire in modo significativo all’introito di sodio, spesso a nostra insaputa. Le conseguenze di un’assunzione eccessiva di sale sono ben documentate dalla letteratura scientifica. Numerosi studi, hanno dimostrato che una riduzione del consumo di sale può portare a una significativa diminuzione della pressione arteriosa, sia in soggetti ipertesi che normotesi. Anche una modesta riduzione, nell’ordine di 4-5 grammi al giorno, può abbassare la pressione sistolica di diversi millimetri di mercurio, con benefici concreti in termini di prevenzione cardiovascolare. In alcuni casi, l’effetto può essere paragonabile a quello di un farmaco antipertensivo, ma senza effetti collaterali. L’eccessivo consumo di sale può favorire, oltre all’aumento della pressione arteriosa, anche fenomeni come la ritenzione idrica, la sensazione di gonfiore. Va poi considerato che, con il caldo, aumenta la sudorazione e con essa la perdita di sali minerali: ciò può indurre alcune persone a ricercare inconsciamente cibi più saporiti, accentuando ulteriormente l’apporto di sodio. Cosa possiamo fare, dunque, per ridurre l’eccesso di sale senza rinunciare al piacere del cibo? Innanzitutto, è utile abituarsi gradualmente a sapori meno salati, perché il palato si adatta facilmente. Chi è abituato a salare tutto rischia di non percepire il gusto naturale degli alimenti. Un primo passo è quello di ridurre il sale aggiunto in cottura o a crudo, utilizzando invece erbe aromatiche, spezie, succo di limone, aceto o scorza di agrumi, che possono esaltare il gusto senza aggiungere sodio. È fondamentale poi leggere attentamente le etichette degli alimenti confezionati, soprattutto per quelli che sembrano insospettabili: pane e i suoi sostituti, cereali da colazione, zuppe pronte, formaggi, salse da condimento e perfino dolci! Molti prodotti riportano il contenuto di sodio invece che di sale, ma il calcolo è semplice: per sapere quanti grammi di sale ci sono, basta moltiplicare i grammi di sodio per 2,5. Un altro accorgimento utile è quello di scegliere pane e prodotti da forno a ridotto contenuto di sale, ormai presenti in molti supermercati e forni artigianali. Anche limitare il consumo di salumi, formaggi stagionati e pesce conservato (come il tonno in lattina) a non più di una o due volte a settimana può fare la differenza. In alternativa, si possono preferire formaggi freschi e naturalmente meno salati, come la ricotta. Inoltre, privilegiare la cucina casalinga rispetto ai piatti pronti consente un maggiore controllo su ciò che si mangia, evitando condimenti eccessivi o nascosti. Infine, ricordiamoci che una dieta ricca di frutta e verdura, cereali integrali e legumi non solo aiuta a ridurre il sodio, ma apporta potassio, un minerale che bilancia gli effetti del sodio sull’organismo e protegge la pressione arteriosa. Anche l’idratazione gioca un ruolo chiave: bere a sufficienza, soprattutto nei mesi caldi, favorisce l’eliminazione del sodio in eccesso attraverso l’urina e aiuta a mantenere l’equilibrio idrosalino. Il messaggio, in conclusione, è semplice ma potente: il sale non va demonizzato, ma va usato con consapevolezza. In una società in cui i gusti forti e decisi sono esaltati dall’industria alimentare, imparare a ridurre il sale diventa un gesto di attenzione verso sé stessi, il proprio cuore e la propria salute. Anche in estate, con pochi accorgimenti e un pizzico di creatività in cucina, è possibile mantenere il piacere della tavola senza eccedere con il sodio. La salute, in fondo, comincia proprio da ciò che mettiamo nel piatto ogni giorno.

Senza glutine, lattosio o lievito? Quando serve davvero e quando è solo moda
Negli ultimi anni, sempre più persone hanno iniziato a eliminare alimenti dalla propria dieta con l’idea di “stare meglio”: niente glutine, niente latticini, niente lievito. Spesso queste scelte nascono da informazioni lette online, consigli di amici o semplicemente perché “ci si sente gonfi dopo aver mangiato”, senza riuscire a capire cosa esattamente causi questo disagio. Il problema è che molte volte queste restrizioni vengono adottate senza una diagnosi medica o il supporto di un professionista, e questo può avere conseguenze tutt’altro che positive per la salute. Prendiamo l’esempio del glutine. Per chi soffre di celiachia, l’eliminazione del glutine è imprescindibile per prevenire danni all’intestino e complicanze sistemiche. Al di fuori di questo contesto, però, molti scelgono autonomamente di seguire una dieta gluten free, convinti che porti benessere, perdita di peso o maggiore energia: stime recenti parlano di circa un terzo della popolazione che riduce o elimina il glutine solo per motivi di salute percepita. Il problema è che chi elimina il glutine senza un motivo valido può andare incontro a effetti negativi: carenze di fibre, vitamine del gruppo B, minerali, e un aumento di alimenti ultra-processati (spesso più costosi e meno nutrienti). In alcuni casi si è osservato anche un incremento di peso e alterazioni del microbiota intestinale. Anche gli alimenti contenenti lattosio vengono spesso allontanati perché creduti “meno leggeri”, e non perché ci sia un’intolleranza accertata. L’intolleranza al lattosio è causata da una ridotta attività dell’enzima lattasi, che serve a digerire questo zucchero presente nel latte. Ma non si tratta di un “tutto o niente”: esistono diversi gradi di tolleranza. Alcune persone riescono a consumare piccole quantità di latticini, soprattutto se inseriti in pasti completi, mentre altre avvertono disturbi anche con minime dosi. In certi casi, la difficoltà nel digerire il lattosio può essere temporanea, ad esempio dopo un’infezione intestinale o un ciclo di antibiotici che ha alterato la flora intestinale. Quando l’equilibrio del microbiota si altera – una condizione chiamata disbiosi – può ridursi non solo la capacità di digerire il lattosio, ma anche quella di tollerare altri zuccheri fermentabili, detti FODMAP. Questi si trovano in molti alimenti comuni, come alcuni cereali, frutta, verdura, legumi e derivati del latte. In queste situazioni, i sintomi (gonfiore, gas, crampi, diarrea) non dipendono da un’allergia o da un’intolleranza “classica”, ma da una sensibilità intestinale più complessa, che richiede una valutazione attenta. Un discorso simile riguarda anche il lievito, spesso accusato di essere responsabile di gonfiore o pesantezza dopo pasti a base di pane o pizza. In realtà, una vera intolleranza al lievito è molto rara. Nella maggior parte dei casi, i disturbi dipendono da impasti poco digeribili, farine raffinate, lievitazioni troppo brevi o condimenti ricchi di grassi e zuccheri. Anche chi soffre di intestino sensibile o disbiosi può avere difficoltà a digerire certi prodotti lievitati, ma questo non significa doverli escludere del tutto. A volte basta scegliere alimenti realizzati con ingredienti semplici e tempi di lievitazione lunghi, oppure consumarli in modo più consapevole, in quantità moderate e all’interno di pasti bilanciati. È per questo che il ruolo del professionista della salute è fondamentale. Intraprendere da soli una dieta restrittiva può portare a squilibri nutrizionali, carenze di vitamine e minerali, perdita di massa muscolare e peggioramento della qualità della vita. Inoltre, eliminare certi alimenti senza un motivo reale può rendere più difficile una successiva diagnosi, se i sintomi dovessero persistere. Anche se molte persone riferiscono di sentirsi meglio dopo aver eliminato determinati alimenti, il miglioramento spesso non è dovuto all’esclusione del glutine o del lattosio in sé, ma piuttosto a un generale cambiamento delle abitudini alimentari: si riducono i cibi ultra-processati, si fa più attenzione alla qualità degli ingredienti e si introducono alimenti freschi e meno zuccheri. Il beneficio, quindi, potrebbe derivare da uno stile alimentare più sano nel complesso, e non da una singola esclusione.

Il gelato può sostituire un pasto? Ecco come inserirlo nella dieta
Con l’arrivo del caldo, è del tutto naturale che il gelato diventi uno dei protagonisti della nostra alimentazione quotidiana. Più che normale, è quasi fisiologico: le alte temperature stimolano il desiderio di alimenti freschi, dolci e appaganti, capaci di offrire un immediato sollievo e una piacevole pausa. Il gelato, in particolare, non appaga solo il gusto: ha anche una forte componente emotiva e relazionale. È spesso associato a ricordi d’infanzia, alle vacanze estive, alle passeggiate serali in compagnia. Non è solo un alimento, ma un piccolo rituale che unisce gusto, memoria e condivisione. Proprio per questo motivo, quando arriva la bella stagione, è naturale chiedersi come includere il gelato nella propria alimentazione in modo equilibrato, senza rinunciare al piacere ma tenendo conto anche del benessere complessivo. Oltre al gusto, c’è un aspetto spesso sottovalutato ma importante: la gratificazione sensoriale. Studi sul comportamento alimentare mostrano che il piacere derivante dal consumo di un alimento aumenta quando vengono coinvolti anche il tatto, la vista e la ritualità del gesto. È il caso del gelato nel cono: la croccantezza, la manualità, la lentezza nel mangiarlo rendono l’esperienza più appagante, contribuendo anche a una maggiore consapevolezza nel consumo e, in alcuni casi, a una minore quantità assunta. Tuttavia, anche se si tratta di un piacere legittimo, è bene non trasformarlo in un’abitudine quotidiana. Il gelato, soprattutto nei gusti più elaborati – come quelli alla crema, con salse, biscotti o granelle – può contenere quantità elevate di zuccheri semplici e grassi saturi. Questo non significa che debba essere evitato, ma consumato con moderazione, scegliendo porzioni contenute, preferendo gusti semplici o alla frutta, e, quando possibile, optando per preparazioni artigianali. Una domanda frequente, specie nei giorni di caldo intenso, è se il gelato possa sostituire un pasto. Sebbene occasionalmente possa rappresentare una soluzione pratica, non è un'alternativa nutrizionalmente completa. Il gelato fornisce energia, ma è povero di fibre, proteine, vitamine e sali minerali. Inoltre, il suo elevato indice glicemico può causare un rapido aumento della glicemia seguito da un altrettanto rapida sensazione di fame. Per questo motivo, se manca l’appetito, è preferibile orientarsi verso pasti leggeri e bilanciati, come un’insalata con una fonte proteica o uno yogurt con frutta fresca e frutta secca. Particolare attenzione va riservata a chi sta seguendo un percorso di dimagrimento o convive con il diabete. In questi casi, il consumo di gelato richiede maggiore consapevolezza: è consigliabile limitare le porzioni, scegliere gelati alla frutta artigianali, e verificare sempre gli ingredienti in caso di gelati “senza zuccheri aggiunti”, per evitare dolcificanti che possano avere effetti indesiderati. Inserirlo nel piano alimentare in modo ragionato, può permettere di gestirne meglio l’impatto glicemico senza rinunce drastiche. In definitiva, il gelato è uno dei piaceri più semplici e caratteristici dell’estate. Con qualche attenzione e una buona dose di consapevolezza, può tranquillamente far parte di un’alimentazione varia, equilibrata e soddisfacente. Proprio come una passeggiata al tramonto o una chiacchierata sotto le stelle, il gelato, se scelto e gustato con criterio, può essere uno dei piccoli piaceri che rendono l’estate più dolce.

Dieta ideale: ridurre i grassi o i carboidrati? Studi, differenze e falsi miti
Quando si decide di intraprendere una dieta per perdere peso, ci si trova spesso di fronte a un dilemma: è meglio ridurre i carboidrati o limitare i grassi? Da un lato c'è chi sostiene con convinzione l’efficacia delle diete low carb, che promettono rapide perdite di peso e un miglior controllo della fame; dall’altro c'è chi difende i benefici di una dieta low fat, più in linea con le raccomandazioni nutrizionali tradizionali. Entrambe le correnti possono vantare studi scientifici, testimonianze di successo e logiche convincenti. Tuttavia, quando si analizzano con attenzione le evidenze scientifiche nel loro complesso, emerge un quadro molto più sfumato: difficilmente esiste un’unica risposta valida per tutti, e la realtà, come spesso accade in campo nutrizionale, è fatta di molte variabili individuali. Le diete low carb, che riducono drasticamente pane, pasta, riso e zuccheri, hanno guadagnato popolarità negli ultimi anni anche grazie a promesse di risultati rapidi. D’altro canto, le diete low fat, nate negli anni ’80 e focalizzate sulla riduzione dei grassi, restano un pilastro di molte linee guida ufficiali. Negli ultimi anni, diversi studi clinici di grande rilevanza hanno messo a confronto questi due approcci dietetici. Nella fase iniziale, spesso i regimi low carb sembrano portare a una perdita di peso più rapida, probabilmente per l’effetto combinato di una riduzione della ritenzione idrica e di un maggiore senso di sazietà indotto dalle proteine e dai grassi. Tuttavia, quando si osservano i risultati sul lungo periodo, in particolare dopo 12 mesi, le differenze tra i due gruppi tendono progressivamente ad attenuarsi, fino a risultare spesso minime o addirittura sovrapponibili. È il caso, ad esempio, di alcuni studi ampi e ben controllati che mostrano come, indipendentemente dal tipo di macronutriente prevalente, il fattore determinante resti la capacità di mantenere il deficit calorico e di aderire al piano alimentare nel tempo. Proprio questa osservazione introduce un aspetto fondamentale spesso trascurato: la personalizzazione. Ogni persona ha una risposta metabolica diversa agli alimenti, influenzata da fattori genetici, ormonali, psicologici e perfino dal microbiota intestinale. Una dieta low carb può funzionare bene per qualcuno che ha una forte resistenza insulinica o tendenza alla fame nervosa, mentre un approccio low fat potrebbe essere più sostenibile per chi ama frutta, legumi e cereali integrali. In entrambi i casi, è importante evitare scelte estreme: né grassi né carboidrati sono nemici da demonizzare, ma elementi da scegliere con attenzione. Esistono grassi buoni – come quelli dell’olio extravergine, della frutta secca o del pesce azzurro – così come carboidrati complessi e ricchi di fibre, che contribuiscono a una dieta equilibrata. In definitiva, ciò che conta davvero è trovare un approccio alimentare che possa diventare parte della propria quotidianità, che si adatti alle esigenze individuali e che consenta di mantenere il benessere senza sacrificare il piacere di mangiare. Perché il vero successo non è seguire una dieta perfetta, ma costruire abitudini sane che durino nel tempo.

Aumento di peso senza mangiare di più? Il ruolo nascosto dello stress cronico
Può sorprendere, ma è possibile aumentare di peso anche senza mangiare di più, soprattutto durante periodi di forte stress. Questo accade perché lo stress attiva meccanismi fisiologici ben precisi, capaci di alterare il metabolismo, l’appetito e il modo in cui il corpo accumula energia. Quando siamo sotto stress – che sia di tipo emotivo, lavorativo o familiare – il nostro cervello attiva una risposta antica, ereditata dai nostri antenati: la cosiddetta risposta “lotta o fuggi” (fight or flight). In questo stato, le ghiandole surrenali (due piccole ghiandole poste sopra i reni) rilasciano ormoni come cortisolo e adrenalina, che preparano l’organismo ad affrontare un pericolo. Il paradosso è che oggi il pericolo non è più un predatore nella savana, ma il traffico del rientro, il parcheggio introvabile al supermercato alle 18:30 o le venti e-mail a cui rispondere prima di cena. Eppure, per il nostro cervello, è come se fossimo ancora in pericolo di vita. E quando lo stress diventa cronico – cioè si protrae per giorni, settimane o mesi – questo sistema inizia a lavorare contro di noi. Il cortisolo, in particolare, è al centro del legame tra stress e aumento di peso. Livelli elevati e prolungati di questo ormone aumentano l’appetito (soprattutto verso cibi ricchi di zuccheri e grassi, i cosiddetti “comfort food”), favoriscono l’accumulo di grasso viscerale – quello che si deposita attorno agli organi interni, più pericoloso per la salute – e riducono la massa muscolare e il metabolismo basale. In pratica, il corpo si comporta come se fosse in carestia, anche se siamo circondati dal cibo. Ma non è tutto: quando siamo cronicamente stressati, dormiamo peggio, ci muoviamo meno e il metabolismo rallenta. Lo stress continuo manda in tilt il sistema che regola la comunicazione tra cervello e ghiandole endocrine, rendendo l’organismo meno sensibile all’insulina. Questo squilibrio può portare a un aumento della glicemia e, nel tempo, elevare il rischio di diabete e sindrome metabolica. Anche l’intestino risente dello stress. Il cosiddetto “secondo cervello” – cioè il sistema nervoso enterico – comunica costantemente con il cervello centrale. In situazioni di stress prolungato, la flora intestinale (microbiota) si altera, si infiamma e diventa meno efficiente nell’assorbire i nutrienti. Il risultato? Gonfiore, stanchezza cronica e ulteriore aumento di peso. La buona notizia è che il legame tra stress e peso non è una condanna. Ridurre lo stress può migliorare sia il benessere psicologico che quello fisico. Anche una camminata quotidiana di mezz’ora può abbassare i livelli di cortisolo, così come tecniche di rilassamento come la meditazione e la respirazione consapevole aiutano a contenere la produzione degli ormoni dello stress. È importante anche seguire un’alimentazione equilibrata, evitando diete drastiche e preferendo cibi ricchi di fibre, vitamine e grassi “buoni”, come il pesce azzurro, la frutta secca e l’olio extravergine d’oliva. Infine, dormire almeno sette ore per notte è essenziale per regolare gli ormoni che controllano l’appetito, come leptina e grelina. Conoscere il legame tra stress e aumento di peso ci aiuta a guardare al nostro corpo con maggiore comprensione e meno giudizio. Non è solo una questione di forza di volontà: è il modo in cui l’organismo cerca di adattarsi a una vita che spesso corre troppo in fretta. Ma, con piccoli gesti quotidiani e un po’ di consapevolezza in più, possiamo ritrovare equilibrio, salute e benessere.

Quando il cibo parla ai nostri geni: la rivoluzione della nutrigenomica
Cosa succede nel nostro corpo quando mangiamo? La risposta può sembrare semplice: digeriamo il cibo, assorbiamo i nutrienti e li utilizziamo per produrre energia. Ma negli ultimi anni, la scienza ha scoperto che il legame tra alimentazione e salute è molto più profondo. Oggi sappiamo che ciò che mangiamo è in grado di comunicare con il nostro organismo, influenzando direttamente il modo in cui le nostre cellule si comportano. È questa l’idea alla base della nutrigenomica, una disciplina relativamente recente che studia come l’alimentazione possa modulare l’attività del nostro corpo, a partire dalle istruzioni contenute nel DNA. Per comprenderla meglio, possiamo immaginare i geni come una sorta di manuale operativo: sono loro a fornire le indicazioni su come ogni cellula deve funzionare. Il cibo, attraverso le sue componenti, può influenzare quando e quanto queste istruzioni vengono seguite. Non si tratta di cambiare il nostro patrimonio genetico – quello resta lo stesso per tutta la vita – ma di regolare il modo in cui i geni vengono attivati o “letti”, un po’ come si regola l’intensità della luce con un dimmer: la lampadina è sempre la stessa, ma possiamo decidere di aumentare o ridurre la luminosità. Tra i modelli alimentari più studiati al mondo, la dieta mediterranea emerge come una delle strategie più efficaci per trasmettere all’organismo i segnali giusti. Non è un caso che da decenni sia oggetto di attenzione scientifica: si basa su un equilibrio nutrizionale semplice ma ben radicato, che include cereali integrali, verdure fresche, legumi, frutta, olio extravergine di oliva, pesce e un consumo moderato di carne. Questa combinazione di alimenti non solo nutre, ma modula attivamente le funzioni cellulari. Studi condotti anche in Italia hanno dimostrato che chi segue uno stile alimentare ispirato alla dieta mediterranea tende ad avere un organismo più equilibrato, con minori livelli di infiammazione cronica e un metabolismo più efficiente. Si tratta di benefici misurabili anche a livello clinico: riduzione del rischio cardiovascolare, miglior controllo del peso, e una maggiore resistenza allo stress ossidativo. In pratica, alcune sostanze presenti negli alimenti tipici della dieta mediterranea – come i polifenoli dell’olio d’oliva, gli omega-3 del pesce e gli antiossidanti contenuti in frutta e verdura – agiscono come segnali che parlano direttamente alle nostre cellule. Questi segnali aiutano l’organismo a mantenere l’equilibrio, sostenendo le funzioni vitali senza innescare reazioni di stress o meccanismi di difesa non necessari. Questi effetti non si vedono solo a lungo termine, ma si riflettono anche nel benessere quotidiano: chi segue una dieta bilanciata riferisce più energia, sonno di qualità migliore e una maggiore capacità di affrontare lo stress. La nutrigenomica, insomma, non ci parla solo del futuro della medicina, ma soprattutto del presente delle nostre abitudini. Le scelte che facciamo ogni giorno – cosa mettiamo nel carrello della spesa, come cuciniamo, cosa portiamo in tavola – influenzano in modo profondo il nostro organismo, fino al livello cellulare. Una dieta ricca di alimenti ultra-processati, zuccheri aggiunti e grassi di bassa qualità tende ad attivare segnali di emergenza: infiammazione, accumulo di grasso, affaticamento cronico. Al contrario, un’alimentazione varia e ricca di alimenti vegetali e poco trasformati, invia segnali positivi: equilibrio, protezione, energia. In quest’ottica, la nutrigenomica ci invita a considerare il cibo non soltanto come fonte di energia, ma come un mezzo attraverso cui guidare e sostenere il buon funzionamento dell’organismo.

"Non tutto quel che sembra fame lo è davvero": imparare a distinguere i segnali del corpo
È mezzogiorno, sei al lavoro, e lo stomaco comincia a brontolare. Ma è davvero fame? O è solo l’abitudine a mangiare a quell’ora? La fame non è solo un segnale biologico, ma un linguaggio complesso del nostro corpo, che intreccia ormoni, cervello, emozioni e anche le nostre abitudini quotidiane. Capire perché abbiamo fame (e che tipo di fame proviamo!) può aiutarci a mangiare meglio e a prenderci più cura di noi stessi. Per prima cosa, dobbiamo definire il concetto di fame. Questa è un segnale naturale e indispensabile: è il modo con cui il nostro corpo ci dice che ha bisogno di energia. La fame, quella fisiologica, si presenta gradualmente: una lieve sensazione di vuoto, un calo di energia, forse un po’ di irritabilità. È il corpo che ci avvisa di aver bisogno di carburante. Questo meccanismo è orchestrato da una rete di messaggeri chimici, tra cui spicca la grelina, l’ormone prodotto dallo stomaco quando è vuoto. La grelina invia un segnale all’ipotalamo, una piccola ma potentissima area del cervello, attivando il desiderio di cercare e consumare cibo. Quando mangiamo, entrano in gioco altri ormoni: la leptina, prodotta dal tessuto adiposo, ci comunica che siamo sazi; l’insulina, oltre a regolare la glicemia, contribuisce anch’essa alla percezione di sazietà; altri messaggeri intestinali, come il peptide YY e il GLP-1, completano il quadro, spegnendo gradualmente il senso di fame. Ma non tutte le forme di fame nascono dallo stomaco. Spesso, capita di rivolgerci al cibo per trovare conforto in momenti di stress, noia, solitudine o tristezza. Questa è quella che chiamiamo fame emotiva: un’esperienza comune, che fa parte del modo in cui molte persone imparano a gestire emozioni intense o situazioni difficili. Anche se questo tipo di fame non si spegne sempre con il cibo, riconoscerla è un primo passo importante verso un rapporto più consapevole con ciò che mangiamo e con noi stessi. A volte, poi, il bisogno può diventare più impulsivo e automatico: ci ritroviamo a mangiare senza averlo pianificato, quasi senza accorgercene. È una risposta del cervello che cerca benessere attraverso qualcosa di accessibile e familiare. Ogni volta che mangiamo qualcosa che ci piace, il nostro sistema di ricompensa si attiva e rilascia dopamina, associando quella sensazione positiva al cibo consumato. Il problema è che questo meccanismo può sfuggire al controllo, facendoci desiderare certi alimenti anche in assenza di vera fame. Non si tratta di debolezza: è una risposta neurobiologica che tutti abbiamo. Comprendere queste dinamiche con gentilezza, senza giudizio, ci permette di affrontarle in modo più sereno e di prenderci cura di noi in maniera più completa. Riconoscere le diverse forme di fame è il primo passo per instaurare un rapporto più sano con il cibo. Fermarsi un attimo prima di mangiare, ascoltare il corpo e chiedersi se si ha davvero fame o se si cerca qualcosa d’altro, può fare la differenza. Anche prestare attenzione a come e quando mangiamo (senza distrazioni, gustando ogni boccone) aiuta il cervello a registrare meglio il pasto, migliorando il senso di sazietà. Dormire bene, muoversi regolarmente e gestire lo stress sono altri alleati preziosi per mantenere in equilibrio i segnali della fame. In fondo, imparare a distinguere la fame del corpo da quella del cuore non significa rinunciare al piacere di mangiare, ma riscoprirlo in modo più autentico e consapevole. Perché ascoltarsi, davvero, è il primo passo per prendersi cura di sé.

Cibo e infiammazione: come mangiare per stare bene davvero
Ci sentiamo spesso stanchi, con una fastidiosa sensazione di pesantezza addominale o dolori ricorrenti, e tendiamo a dare la colpa allo stress, al cambio di stagione o semplicemente all’età. Ma se alla base di questi disturbi ci fosse un “fuoco silenzioso” che arde dentro di noi ogni giorno? È ciò che molti scienziati definiscono infiammazione cronica di basso grado: uno stato persistente e silente dell’organismo che, nel tempo, può favorire l’insorgenza di patologie come diabete, obesità, disturbi cardiovascolari e persino malattie neurodegenerative come l’Alzheimer. La buona notizia è che, secondo numerose ricerche scientifiche, ciò che mangiamo ogni giorno può davvero aiutare a spegnere questo fuoco. L’infiammazione, infatti, è una risposta naturale e utile del nostro corpo, attivata per proteggerci da infezioni o traumi. Tuttavia, quando questa risposta diventa continua e sproporzionata, può provocare danni ai tessuti e creare le condizioni ideali per lo sviluppo di malattie croniche. Studi pubblicati su riviste internazionali come Nature Reviews Immunology e The Lancet hanno evidenziato come un’alimentazione squilibrata, ricca di zuccheri e grassi industriali, possa alterare profondamente la composizione del microbiota intestinale, contribuendo a mantenere attivo uno stato infiammatorio nel tempo. Una revisione recente pubblicata sul British Medical Journal ha identificato alcuni alimenti di largo consumo che possono contribuire in modo significativo all’infiammazione cronica, specialmente se assunti con regolarità. Tra questi vi sono gli zuccheri raffinati, presenti in dolci, bibite e snack confezionati; i cereali ultra-raffinati, poveri di fibra; gli oli vegetali ad alto contenuto di omega-6, come quello di mais o girasole; le carni lavorate e insaccate, così come l’alcol in eccesso. Non si tratta di demonizzare questi cibi, ma di limitarne il consumo e fare spazio a scelte alimentari più sane e bilanciate. Fortunatamente, la natura ci mette a disposizione numerosi alleati contro l’infiammazione, molti dei quali appartengono alla nostra tradizione mediterranea. Non servono alimenti esotici o di moda: ciò che fa davvero la differenza sono le abitudini quotidiane. Frutta e verdura colorata, ricca di polifenoli e antiossidanti, pesce azzurro come alici, sgombro e sardine, fonte preziosa di omega-3, noci e semi oleosi, olio extravergine di oliva, spezie come curcuma e zenzero, legumi e cereali integrali sono tutti cibi capaci di nutrire l’intestino e modulare i processi infiammatori in modo naturale. Uno studio condotto dall’Università di Harvard e pubblicato su JAMA Internal Medicine ha dimostrato che chi segue regolarmente un’alimentazione ricca di alimenti vegetali e povera di cibi ultra-processati presenta livelli più bassi di marcatori infiammatori nel sangue, come la proteina C-reattiva, un indicatore chiave dello stato infiammatorio sistemico. L’alimentazione anti-infiammatoria non è una moda passeggera né una dieta rigida: è un ritorno consapevole a una cucina semplice, stagionale, varia e gustosa. È adatta a ogni età e può migliorare l’energia, la digestione, l’umore e persino l’aspetto della pelle. Sempre più medici sottolineano che uno dei modi migliori per ridurre l’infiammazione non si trova in farmacia, ma nel frigorifero. Cambiando ciò che mettiamo ogni giorno nel piatto, possiamo davvero agire alla radice dell’infiammazione, migliorando il nostro benessere in modo concreto e duraturo.

Non solo buono: il carciofo tra tradizione, scienza e benessere
Spesso protagonista delle nostre tavole primaverili, il carciofo non è soltanto un ortaggio gustoso e versatile, ma anche un concentrato di benefici per la salute. Originario del bacino del Mediterraneo e coltivato fin dai tempi degli Etruschi, vanta una lunga tradizione in Italia, che oggi è sia il primo produttore sia il primo consumatore al mondo. Negli ultimi anni, questa pianta è stata al centro di numerosi studi scientifici che ne confermano le proprietà nutrizionali e terapeutiche. Ricco di antiossidanti, fibre, vitamine e composti bioattivi come la cinarina, il carciofo si rivela un alleato prezioso per la salute del fegato, il controllo del colesterolo, la regolazione della glicemia e la prevenzione cardiovascolare. Una delle sue caratteristiche nutrizionali più rilevanti è l’elevato contenuto di fibre: bastano due carciofi per coprire circa la metà del fabbisogno giornaliero raccomandato. Tra queste spicca l’inulina, una fibra solubile che trattiene acqua e contribuisce al senso di sazietà. Ma l’inulina è anche una fibra prebiotica, in grado di nutrire selettivamente i batteri “buoni” dell’intestino, come i bifidobatteri, aiutando così a mantenere un microbiota equilibrato e funzionale. I benefici sono numerosi: digestione più efficiente, rafforzamento del sistema immunitario, maggiore assorbimento di minerali come calcio e magnesio, e un migliore controllo della glicemia. Non sorprende quindi che diversi studi abbiano osservato un miglioramento dei livelli di zucchero nel sangue e una maggiore sensibilità all’insulina in soggetti che consumano regolarmente carciofi. Inoltre, grazie al senso di sazietà che favorisce, l’inulina può contribuire anche alla perdita di peso e alla riduzione della circonferenza addominale. Un altro protagonista tra i composti attivi del carciofo è la cinarina, un polifenolo presente soprattutto nelle foglie. Nota per le sue proprietà coleretiche e colagoghe, stimola la produzione e il flusso della bile, facilitando la digestione dei grassi e favorendo l’eliminazione delle tossine. Gli effetti protettivi della cinarina sul fegato sono ben documentati: numerose ricerche hanno evidenziato un miglioramento significativo dei livelli degli enzimi epatici (come ALT e AST), suggerendo una funzione di protezione cellulare. Inoltre, la cinarina ha mostrato di contribuire alla riduzione del colesterolo totale e LDL, migliorando così il profilo lipidico e riducendo il rischio cardiovascolare. E se ti stai chiedendo se queste virtù siano note anche fuori dalla medicina… beh, lo sono eccome! Sapevi che il famoso amaro Cynar è a base di carciofo? E no, non è uno scherzo. Il suo nome deriva proprio da Cynara scolymus, il nome latino del carciofo, e l’estratto utilizzato è apprezzato non solo per il sapore caratteristico, ma anche per le sue proprietà digestive. Certo, l’alcol non lo rende un’alternativa alle verdure al vapore, ma dopocena può dare un piccolo aiuto (o almeno una buona scusa!). Infine, una nota culinaria rassicurante: i carciofi conservano buona parte della loro capacità antiossidante anche dopo la cottura — che sia bollitura, cottura a vapore, alla griglia o persino frittura. Tuttavia, meglio preferire le tecniche meno aggressive come la bollitura o la pentola a pressione, per ridurre il rischio di formazione di composti potenzialmente dannosi dovuti alle alte temperature dell’olio. Visti i numerosi benefici nutrizionali e la ricca tradizione agricola che ci vede primi produttori al mondo, forse dovremmo riscoprire più spesso il valore di questa verdura antica, che da oltre duemila anni fa parte della nostra cultura alimentare. In fondo, non capita tutti i giorni di portare a tavola un fiore… e per di più così prezioso per la salute.

Sani nonostante l’obesità? La realtà complessa della MHO
È possibile trovarsi in condizione di obesità e allo stesso tempo essere in salute? A prima vista può sembrare una contraddizione, ma la scienza ci invita a guardare oltre i numeri sulla bilancia. Il concetto di "Metabolically Healthy Obesity" (MHO), ovvero “obesità metabolicamente sana”, sta guadagnando crescente attenzione tra ricercatori e professionisti della salute. Si riferisce a persone con un indice di massa corporea (BMI) superiore a 30, che tuttavia non presentano alterazioni metaboliche tipiche dell’obesità, come ipertensione, insulino-resistenza, colesterolo elevato o infiammazione cronica. In pratica, individui che, almeno temporaneamente, sembrano protetti dalle malattie croniche spesso associate all’eccesso di peso. Tuttavia, le evidenze scientifiche suggeriscono prudenza. Studi recenti, come quello pubblicato su Nature Reviews Endocrinology, indicano che questa condizione non è sempre stabile. Circa la metà di chi soffre di obesità metabolicamente sana sviluppa nel giro di pochi anni problematiche metaboliche. Ciò fa pensare che l’MHO rappresenti più uno stadio intermedio che una condizione duratura, e che non debba essere considerata priva di rischi. Questa complessità sottolinea i limiti del BMI come unico indicatore di salute. Una persona normopeso può comunque presentare squilibri metabolici, mentre chi vive con obesità può mostrare un profilo metabolico sorprendentemente favorevole. Come ricordato da Harvard Medical School, è fondamentale valutare la salute in modo più ampio, includendo fattori come la pressione arteriosa, la glicemia, il profilo lipidico e lo stile di vita complessivo. Alcuni elementi sembrano proteggere chi è in condizione di obesità dallo sviluppo di patologie metaboliche. L’attività fisica costante, una dieta equilibrata e ricca di alimenti naturali, una buona qualità del sonno e una gestione efficace dello stress possono fare la differenza. Inoltre, recenti ricerche indicano che la distribuzione del grasso corporeo e la composizione del microbiota intestinale influenzano profondamente la salute metabolica. È interessante notare come non esista una definizione universale di MHO: i criteri variano, rendendo difficile identificare con precisione chi rientra in questa categoria. Ma il messaggio centrale è chiaro: la salute non può essere ridotta a un numero sulla bilancia. Parlare di obesità metabolicamente sana ci aiuta a comprendere la complessità dell’organismo umano, senza cedere a semplificazioni o stigmatizzazioni. Tuttavia, è importante ricordare che trovarsi in una fase “metabolicamente favorevole” oggi non garantisce protezione domani. Ecco perché la prevenzione resta essenziale, con scelte di vita sostenibili, personalizzate e orientate al benessere complessivo. In un’epoca in cui le condizioni legate all’eccesso di peso sono sempre più diffuse, riflettere sull’MHO significa anche ripensare il modo in cui parliamo di salute: con maggiore precisione, empatia e attenzione all’individuo.

Composizione corporea: la chiave per una salute su misura
Quando si parla di salute e forma fisica, spesso l’attenzione si concentra esclusivamente sul peso corporeo. Tuttavia, questo dato da solo fornisce un'informazione limitata e non riflette in modo accurato la reale composizione del nostro corpo. I parametri antropometrici, infatti, sono numeri “sterili” se non vengono integrati con un'analisi più approfondita, come quella della composizione corporea. Due persone con lo stesso peso possono avere strutture corporee profondamente diverse: una può presentare una maggiore quantità di massa muscolare, l’altra una prevalenza di massa grassa. Per comprendere davvero come siamo fatti e per monitorare il nostro stato di salute, è quindi fondamentale valutare la composizione corporea in modo semplice, affidabile e accessibile. Tra le metodiche più diffuse per farlo troviamo la bioimpedenziometria (BIA), un esame non invasivo e indolore che utilizza un impedenziometro per far passare una corrente elettrica a bassa intensità attraverso i tessuti corporei. Poiché il corpo umano è costituito in media per il 65% da acqua, e i diversi tessuti si comportano come conduttori o isolanti in base al loro contenuto idrico, la BIA sfrutta queste proprietà per ottenere informazioni dettagliate. I tessuti magri, come i muscoli, conducono bene l’elettricità grazie all’elevata presenza di acqua ed elettroliti, mentre i tessuti adiposi e le ossa si comportano da isolanti. Attraverso la misurazione di resistenza e reattanza, e l'elaborazione dei dati tramite software dedicati, è possibile ottenere una stima accurata dello stato nutrizionale, idrosalino e metabolico della persona. La BIA consente, ad esempio, di valutare la massa grassa, la massa magra, il contenuto di acqua corporea totale, e la sua distribuzione tra compartimenti intracellulare ed extracellulare. Questi dati permettono anche di individuare condizioni cliniche specifiche, come l’obesità sarcopenica – caratterizzata dalla presenza di massa grassa in eccesso e ridotta massa muscolare, spesso non evidente guardando il solo peso. È inoltre possibile rilevare ritenzione idrica, edema, e perfino situazioni più gravi come la cachessia, una marcata perdita di massa muscolare legata a malattie croniche. Anche per chi pratica sport, la bioimpedenziometria rappresenta uno strumento prezioso. Monitorare la massa muscolare è fondamentale per prevenire eventuali riduzioni, che possono verificarsi in seguito ad allenamenti troppo intensi o prolungati, oppure a causa di un’alimentazione non adeguata al tipo di sforzo fisico sostenuto e al livello di idratazione. Valutare regolarmente la composizione corporea consente quindi di ottimizzare sia la performance atletica che il recupero, riducendo il rischio di infortuni e sovraccarichi. Conoscere la propria composizione corporea è quindi un passaggio fondamentale prima di intraprendere un programma alimentare o un percorso di attività fisica. Questo consente di stimare in modo personalizzato il metabolismo basale, il fabbisogno energetico e di monitorare con precisione le variazioni dei diversi compartimenti corporei. La BIA si configura così come uno strumento essenziale per pianificare interventi efficaci e realmente su misura, che puntano al miglioramento della salute e del benessere complessivo.

Dolcificanti acalorici e regolazione dell'appetito: cosa succede nel nostro corpo?
Nel tentativo di mantenere la linea o di seguire una dieta più sana, molte persone scelgono di sostituire lo zucchero con dolcificanti "light", noti anche come dolcificanti acalorici. Li troviamo nelle bibite, nei dessert, nei chewing gum e persino in alcuni farmaci. Il loro vantaggio? Forniscono un sapore dolce senza calorie, o quasi. Ma è davvero tutto oro quel che luccica? Alcuni studi recenti stanno cercando di capire meglio come questi dolcificanti influenzano il nostro corpo, in particolare l’appetito. E i risultati non sono uguali per tutti: il modo in cui rispondiamo ai dolcificanti può cambiare a seconda del nostro peso corporeo. Uno studio pubblicato sulla rivista Nature Metabolism ha esplorato gli effetti del sucralosio, uno dei dolcificanti più usati, su un gruppo di volontari con peso normale, sovrappeso e obesità. I ricercatori hanno analizzato come cambiava l’attività cerebrale dopo aver bevuto bevande dolcificate con sucralosio, saccarosio (zucchero comune) o solo acqua. Il risultato? Il sucralosio stimolava maggiormente una parte del cervello chiamata ipotalamo, che ha un ruolo chiave nella regolazione della fame, soprattutto nelle persone con obesità. Questo potrebbe significare che, paradossalmente, il sucralosio aumenta la sensazione di fame proprio in chi cerca di controllarla. Il nostro senso di fame e sazietà è controllato anche da alcuni ormoni. La grelina, ad esempio, stimola l’appetito, mentre la colecistochinina (o CCK) contribuisce a farci sentire sazi. Alcune ricerche hanno mostrato che il sucralosio, a differenza dello zucchero, non provoca una risposta significativa di questi ormoni. In altre parole, può darci un gusto dolce, ma senza attivare i segnali che dicono al nostro cervello: "Hai mangiato abbastanza". Questo potrebbe rendere più difficile controllare l’appetito, anche se stiamo assumendo poche calorie. Inoltre, esistono molti tipi di dolcificanti e non tutti funzionano allo stesso modo. Uno studio ha confrontato, ad esempio, l’effetto di due sostanze molto comuni: l’eritritolo e l’aspartame. I risultati hanno evidenziato che l’eritritolo è più efficace nel ridurre la grelina, l’ormone della fame, e nel farci sentire sazi rispetto all’aspartame. Questo suggerisce che la scelta del tipo di dolcificante può fare una differenza concreta nel nostro comportamento alimentare. I dolcificanti acalorici sono sicuramente un’opzione utile per ridurre l’assunzione di zuccheri e calorie. Tuttavia, come dimostrano gli studi più recenti, non sono una soluzione "magica" per dimagrire. Anzi, in alcune persone – specialmente chi ha già un peso elevato – possono addirittura aumentare l'appetito. È quindi importante farne un uso consapevole e, allo stesso tempo, imparare a ridurre la dipendenza da sapori eccessivamente dolci. Come sempre, le fondamenta del benessere restano una dieta equilibrata, ricca di ingredienti semplici e poco lavorati, e uno stile di vita attivo e sostenibile.

Carboidrati e longevità: ecco che cosa dicono i dati
Quando si decide di intraprendere una dieta, spesso si tende a eliminare alimenti come pane, pasta, pizza e patate. Tuttavia, la Dieta Mediterranea - riconosciuta a livello internazionale come modello alimentare promotore di longevità, anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) - pone i carboidrati al centro, considerandoli la principale fonte di energia. Ma è davvero possibile vivere a lungo e, se necessario, dimagrire consumando carboidrati? Uno studio pubblicato nel 2018 sulla prestigiosa rivista The Lancet, condotto su oltre 15.000 adulti, ha rilevato che il rischio di mortalità è più basso con un apporto di carboidrati pari al 50-55% delle calorie totali, esattamente quanto previsto dalle linee guida della Dieta Mediterranea. Al contrario, il rischio aumenta sia con un'assunzione troppo bassa (<40%) sia con una troppo elevata (>70%) di carboidrati. Non a caso, nelle cinque Blue Zone - le aree del mondo con la più alta aspettativa di vita - l’apporto di carboidrati si attesta generalmente tra il 50 e il 60%. A Okinawa (Giappone), ad esempio, i carboidrati rappresentano il 58% dell’apporto calorico e provengono soprattutto da alimenti a basso indice glicemico, come le patate dolci, abbinate a verdure e legumi (soprattutto soia). In Ogliastra, Sardegna, la quota di carboidrati arriva fino al 67%, grazie al consumo di grano duro, orzo e patate. A Nicoya (Costa Rica), fagioli e mais sono sempre presenti nei pasti, accompagnati da abbondanti verdure, e a Ikaria (Grecia) i protagonisti sono i legumi, consumati con regolarità. I benefici dei carboidrati, in particolare quelli complessi e ricchi di fibre, sono numerosi e ben documentati dalla letteratura scientifica. Una dieta equilibrata e ricca di carboidrati integrali si associa a una riduzione significativa del rischio di malattie cardiovascolari, grazie alla capacità di migliorare i livelli di colesterolo, di regolare la pressione arteriosa e di ridurre l’infiammazione sistemica. Inoltre, un apporto adeguato di fibre contribuisce a prevenire il diabete di tipo 2, poiché rallenta l’assorbimento degli zuccheri e migliora la sensibilità all’insulina. Anche la salute dell’intestino trae beneficio da un’alimentazione ricca di carboidrati complessi: le fibre, infatti, favoriscono il transito intestinale, nutrono il microbiota e svolgono un’importante funzione prebiotica. Questo si traduce anche in una maggiore efficienza del sistema immunitario, poiché la flora intestinale è strettamente legata alla risposta immunitaria dell’organismo. Infine, i carboidrati ricchi di fibre aumentano il senso di sazietà, aiutando a controllare l’appetito e a gestire meglio il peso corporeo. Attenzione, però: questo non significa che si possa eccedere con pane, pasta o pizza. I carboidrati raccomandati nella Dieta Mediterranea derivano principalmente da cereali integrali, legumi, verdura e frutta. L’approccio mediterraneo privilegia infatti alimenti a basso indice glicemico, ricchi di fibre o accompagnati da porzioni generose di verdure, in grado di attenuare i picchi glicemici post-prandiali. In altre parole, nel piatto dovrebbero prevalere fonti di carboidrati complessi e fibre (almeno 30 grammi al giorno) mentre gli zuccheri semplici vanno limitati. In conclusione, è importante sfatare alcuni falsi miti che ancora oggi circolano intorno ai carboidrati. Non è vero, ad esempio, che debbano essere evitati la sera: ciò che conta è il bilancio energetico complessivo e la qualità degli alimenti consumati, non l’orario. Allo stesso modo, non sono i carboidrati in sé a far ingrassare, ma l’eccesso calorico e la scarsa qualità della dieta. Inseriti nel contesto di un’alimentazione equilibrata e varia, soprattutto se provenienti da fonti integrali, verdure e legumi, i carboidrati rappresentano un alleato prezioso per la salute, il benessere e persino per il controllo del peso corporeo.