Manifestazioni di sdegno, di dolore e di incredulità da parte dei familiari delle vittime alla lettura della sentenza che ha assolto quasi tutti gli imputati per la strage di Rigopiano del 18 gennaio 2017.
La Procura aveva chiesto condanne molto severe, per reati che vanno dall'omicidio colposo plurimo alle lesioni colpose plurime, dal falso al depistaggio agli abusi edilizi con tutti i reati connessi; il giudice ha invece deciso di assolvere 25 imputati su 30 complessivi (leggi qui) .
I familiari in aula avevano gli occhi colmi di lacrime, mentre indossavano ciascuno una maglietta con il nome del proprio padre, figlio, moglie, sorella, morti sotto tonnellate di neve in quella struttura, divenuta una trappola mortale. Sfiduciati, dopo sei anni in cui hanno cercato giustizia: "Sono stati uccisi per la seconda volta", dice qualcuno con la voce rotta dal pianto.
Qualcun'altro ha chiesto con la voce della disperazioneb”lasciatemi parlare con il giudice" e rivolgendosi a lui “mi può rispondere signor giudice? Lei ha assolto le persone che hanno ucciso mio figlio". E una mamma, piangendo, si chiede e chiede: "Allora la colpa è degli ospiti che sono saliti in quel maledetto albergo?"
Molte le voci di dissenso dei parenti delle vittime: "Vergogna ","Ingiustizia è fatta", e di rabbia nei confronti del giudice, tanto da richiedere l'intervento delle Forze dell'ordine per blindare l'aula.
Nel processo d'appello bis celebrato a Perugia, (che ha riguardato solo il reato di violenza sessuale), è stato confermato l'ergastolo per Innocent Oseghale, già condannato per aver ucciso e fatto a pezzi la diciottenne Pamela Mastropietro nel gennaio del 2018 a Macerata.
La sentenza è stata emessa oggi dalla Corte d' Assise d'appello di Perugia che ha così accolto la richiesta avanzata dalla Procura generale di riconoscere la violenza sessuale e quindi l'ergastolo per Oseghale. Per l'accusa il modo in cui è stato smembrato il corpo della povera ragazza "dimostra che l'assassino voleva coprire la violenza sessuale".
"L'omicidio è avvenuto in occasione della violenza sessuale" ha ribadito il sostituto procuratore generale Paolo Barlucchi, esprimendo parole di comprensione e affetto per Pamela, ricordando le sue sofferenze.
In udienza erano presenti il padre di Pamela, la madre Alessandra Verni che, insieme allo zio di Pamela, Marco Valerio Verni, legale della famiglia, con determinazione si sono battuti in questo sino ad ora lungo e faticoso iter giudiziario, affinchè verità e giustizia venissero fatte per la loro amata Pamela e per tutte le donne vittime di atroci delitti.
"Siamo delusi dalla sentenza, attendiamo di conoscere le motivazioni, ma già da ora annunciamo la nostra intenzione di ricorrere in Cassazione", è stato il commento degli avvocati di Oseghale.
Ha avuto inizio il 25 gennaio scorso il processo d’Appello bis nei confronti di Innocent Oseghale, già condannato in via definitiva per l’omicidio della diciottenne Pamela Mastropietro, avvenuto a Macerata il 30 gennaio 2018. La Cassazione aveva inviato gli atti alla Corte d’Appello di Perugia per la decisione sulla sussistenza o meno dell’aggravante della violenza sessuale; contestazione che invece, per la procura generale, "può dirsi certa”.
All'udienza del 25 gennaio dovevano essere sentiti come testimoni due uomini che Pamela aveva incontrato la sera in cui è stata barbaramente uccisa, ma i testi non si sono presentati: di qui il rinvio dell’udienza a domani, 22 febbraio. Per uno dei due testi è stato disposto l’accompagnamento coattivo in quanto la sua assenza non è risultata giustificata.
Sempre all’udienza del 25 gennaio era stato chiesto all’imputato Oseghale, presente in aula, se volesse essere presente all’udienza del 22 febbraio. L’imputato ha chiesto di non essere presente alla prossima udienze.
"Perché dopo 5 anni ancora bisogna discutere se dare un ergastolo a una persona che ha fatto quello che ha fatto su mia figlia?" aveva detto Alessandra Verni ai giornalisti , "Ci rendiamo conto? E gli si viene pure a chiedere all’imputato se vuole venire la prossima volta oppure no?".
"Che altro avrebbe dovuto farle per avere la condanna?". Si chiede con dolore straziante la mamma di Pamela, riferendosi al possibile sconto di pena che sarebbe riconosciuto a Oseghale, qualora non venisse ritenuta sussistente l’aggravante della violenza sessuale.
"Non dobbiamo mai scordare quello che è successo a Pamela, uccisa a coltellate, divisa in parti, decapitata, scuoiata, esanguata, scarnificata, asportata di tutti i suoi organi interni, lavata con la candeggina con particolare cura addirittura dentro la cervice uterina, per cosa, se non per nascondere la violenza sessuale?" aveva dichiarato lo zio di Pamela, legale della famiglia, Marco Valerio Verni, ai giornalisti.
Salvatore La Motta, ergastolano di 63 anni, ritenuto esponente di spicco del clan mafioso Santapaola, condannato per associazione mafiosa e un omicidio, era in permesso premio: ne ha approfittato per compiere un duplice delitto. Ieri mattina ha ucciso a colpi di pistola in volto una donna di 48 anni, Carmelina Marino, mentre era nella sua auto sul lungomare di Riposto, nel catanese, non lontano dal porto turistico,e Santa Castorina, 50 anni, appena scesa dalla sua auto parcheggiata in una zona vicina al primo omicido.
Dopo il duplice omicidio, il killer si è presentato armato in caserma per costituirsi. "I militari, tenendolo sotto tiro hanno cercato di convincerlo a lasciare l'arma e non fare alcun tipo di gesto insensato, ma, purtroppo, è stato vano perchè l'uomo si è puntato la pistola alla testa ed ha fatto fuoco" ha spiegato il Tenente Colonnello Claudio Papagno, comandante del reparto operativo dei carabinieri del Comando Provinciale di Catania.
Gli inquirenti sono al lavoro per ricostruire il legame del La Motta con le due donne: sembrerebbe avesse una relazione extraconiugale con la prima vittima. In fase di accertamento il movente del duplice omicidio, si sta cercando di risalire a chi abbia procurato al killer l'arma con cui ha sparato. Nelle ultime ore sembrerebbe sia stato fermato un uomo 55enne coinvolto nei fatti, per il quale la Procura di Catania avrebbe disposto il fermo.
La Motta era stato arrestato a Riposto dai carabinieri del nucleo operativo di Catania il 16 giugno del 2000 dopo essere stato condannato all'ergastolo; attualmente era detenuto in regime di semilibertà, e stava godendo di un permesso premio di una settimana. Il duplice omicidio è avvenuto poche ore prima che scadesse il permesso.
Il segretario generale S.PP., Sindacato Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo: "Mentre continuiamo a dissertare sul 41 bis e sui diritti dei detenuti al carcere duro nel Catanese un ergastolano, già condannato per associazione mafiosa e omicidio, in permesso premio, uccide due donne. Qualcuno deve interrogarsi sulle responsabilità di quanto è accaduto”.(Agenparl)
(Credit foto: Ansa)
L'ipotesi è emersa nel corso della puntata di "Chi l'ha visto?", andata in onda mercoledì sera: potrebbero essere di Isabella Noventa, i resti umani scoperti da alcuni operai in una zona periferica di Marghera (Venezia), immersa tra capannoni e fabbriche.
Isabella Noventa scomparve nel nulla tra il 15 e il 16 gennaio 2016 e il suo corpo non venne mai ritrovato. Il processo per l'omicidio di Isabella si è chiuso a novembre 2020 con la sentenza di Cassazione che ha confermato le condanne di Freddy Sorgato, l'ex fidanzato della Noventa e l'ultimo ad averla vista ancora in vita, condannato a 30 anni di carcere insieme alla sorella di lui Debora Sorgato, entrambi condannati per omicidio volontario con l'aggravante della premeditazione, soppressione e distruzione di cadavere. Condannata a sedici anni e dieci mesi di reclusione invece Manuela Cacco, ex amante di Freddy, accusata di concorso negli stessi reati, atti persecutori e simulazione di reato.
I tabulati telefonici di Freddy Sorgato, mostrati nel corso del programma “Chi l’ha visto?” lo collocherebbero proprio il pomeriggio del 17 gennaio 2016, il giorno dopo la morte di Isabella, nei pressi del luogo del ritrovamento dei resti. Ora si attende l'esito dell'esame del Dna di quei resti (cranio, un femore, il bacino, alcune ossa della cassa toracica e della spina dorsale); il medico legale ha stimato che il corpo fosse lì da circa sette anni, compatibili proprio con il periodo in cui la 55enne di Albignasego (Padova) è scomparsa.
Freddy, quando venne posto in stato di fermo insieme alla sorella Debora, e all’amante, Emanuela Cacco, aveva parlato di un tragico incidente che provocò la morte di Isabella; aveva confessato di aver agito da solo ammettendo di aver gettato il corpo della donna nel fiume Brenta vicino casa. Le ricerche tuttavia non portarono ad alcun ritrovamento.
Secondo la ricostruzione della Procura invece le cose sono andate diversamente. Freddy e la vittima Isabella, quella sera di gennaio 2016, uscirono per una pizza per poi concludere la serata a casa del primo. Lì in casa, ad attendere la povera donna c’era la sorella di lui, Debora: la aggredì a colpi di martello in testa, mossa dalla gelosia per il rapporto che la vittima aveva con suo fratello, e dal timore che la stessa potesse beneficiare del suo denaro.
Sopraggiunse, probabilmente a delitto già concluso, la complice dei due, nonché amante di Freddy, Manuela Cacco: si infilò il piumino bianco della vittima per dirigersi insieme a Freddy nel centro di Padova, al fine di essere ripresa dalle telecamere di sorveglianza della città e fingersi lei. Fu Paolo Noventa, fratello della vittima, il primo a spiegare agli investigatori i suoi dubbi sui fotogrammi delle telecamere di videosorveglianza.
Nel ripercorrere i fatti a distanza di anni, non è possibile dimenticare un'altra tragedia che si consumò durante le ricerche di Isabella Noventa nel fiume Brenta, dove Freddy aveva indicato di aver gettato il corpo: proprio in quell'occasione perse la vita l'ispettore della polizia di Stato, sub del Centro Nautico e Sommozzatori della Spezia, Rosario Sanarico.
L'ispettore era uno dei sommozzatori più esperti che aveva partecipato a molti interventi, spesso in condizioni molto difficili, come i soccorsi per il naufragio della Costa Concordia. L'agente, di soli 53 anni marito e padre di due figli, rimase incastrato sott'acqua mentre stava scandagliando il fondale del fiume alla ricerca del corpo di Isabella.
I carabinieri di Milano con il supporto dei colleghi di Napoli hanno catturato il killer della 'ndrangheta Massimiliano Sestito, evaso dai domiciliari a Pero, nel milanese, il 30 gennaio. È stato rintracciato e catturato davanti alla Stazione Circumvesuviana di Sant'Anastasia, in provincia di Napoli.
In un sistema in cui chiaramente qualcosa non ha funzionato, tanto da permettere ad un pericoloso killer di fuggire per sottrarsi alla giustizia, il plauso va alle forze dell'ordine e al loro incessante lavoro: "La rapida e ineluttabile cattura di Massimiliano Sestito è una bella notizia che riempie di soddisfazione tutti quelli che vestono la divisa, a cominciare dal figlio di Renato Lio, assassinato da questo brutale killer, nostro stimato collega". Così si è espresso Valter Mazzetti, Segretario Generale Fsp Polizia di Stato, dopo che i carabinieri ieri hanno catturato il killer della ‘ndrangheta.
Renato Lio, era un appuntato scelto, calabrese; quando è stato ammazzato durante un posto di blocco la notte del 20 agosto 1991 a Soverato aveva 35 anni, una moglie di 29 anni e due figli piccoli di 11 e 9 anni. Il giorno in cui fu ucciso era il compleanno del figlio Salvatore, tutto era pronto per festeggiarlo.
"Da allora non dormo più - ha dichiarato la moglie del carabiniere Lio, Anna - in un'intervista a "il Quotidiano del Sud", perché io e i miei figli abbiamo pagato un prezzo altissimo e nessuno potrà mai ripagarci per quello che abbiamo perduto: l’amore di un marito e di un padre amorevole che ogni giorno metteva a rischio la propria vita per la sicurezza degli altri".
Sono estese in tutta Italia, affidate ai carabinieri, le ricerche di Massimiliano Sestito, 52 anni, l’uomo è evaso nella notte tra lunedì e martedì dalla propria abitazione nell’hinterland milanese dove si trovava ai domiciliari con il braccialetto elettronico, dopo averlo manomesso.
L’evasione secondo gli investigatori non è stata improvvisata, ma preparata da tempo e probabilmente dopo aver attivato solidi 'agganci'. Proprio per oggi era prevista, e si è celebrata, l’udienza presso la Corte di Cassazione su ricorso presentato dalla difesa di Sestito, avverso sentenza di condanna all’ergastolo emessa dalla Corte d'appello di Roma nell'ottobre del 2021, per l’omicidio del boss Vincenzo Femia commesso nel 2013.
Il killer, affiliato della 'ndrangheta, era già stato condannato a 30 anni per un altro omicidio: quello avvenuto nel 1991 dell’appuntato scelto dell’Arma dei carabinieri Renato Lio, insignito di medaglia d'oro al valore civile alla memoria.
Il militare, durante un controllo ad un’autovettura, “veniva improvvisamente raggiunto da numerosi colpi d'arma da fuoco”. “Benché gravemente ferito, ingaggiava con il malvivente una violenta colluttazione da cui desisteva quando ormai privo di forze, si accasciava al suolo. Splendido esempio di altissimo senso del dovere spinto sino all' estremo sacrificio” (D.P.R. 27 novembre 1992)
“Chiedo che vengano rigettati tutti i ricorsi”. Così si è espresso il procuratore generale della Corte di Cassazione durante l’udienza di oggi, chiedendo, nell'udienza davanti alla prima sezione penale, la conferma dell'ergastolo per Massimiliano Sestito.
La Corte di Cassazione aveva già esaminato due volte il caso, una prima annullando una sentenza di condanna, poi annullando l'assoluzione e disponendo un nuovo processo. Ora dovrà decidere nuovamente sulla sorte del latitante, cui solo il 12 gennaio scorso era stata concessa, in accoglimento di un’istanza di attenuazione della misura cautelare avanzata dagli avvocati, la misura del braccialetto elettronico dalla Corte d’Assise d’Appello di Roma.
Perchè era ai domiciliari? “Certo, la vicenda nel suo complesso lascia l’amaro in bocca e resta da capire come mai un soggetto con alle spalle una condanna per omicidio si trovasse agli arresti domiciliari, una condizione che potrebbe aver agevolato la sua fuga”.
“In attesa che venga fatta piena e doverosa luce sull’accaduto, a nome anche della Giunta regionale, esprimo tutta la mia vicinanza alla famiglia di Renato Lio, un valoroso calabrese che ha perso la vita facendo il proprio dovere” ha affermato in una nota Roberto Occhiuto, presidente della Regione Calabria.
"Thomas, amore di papà resisti", erano state le parole disperate del papà di Thomas, lasciate su Facebook dopo il terribile agguato di cui è stato vittima il figlio, avvenuto ad Alatri lunedì sera. Thomas Bricca, 18 anni, si trovava nei pressi di un bar molto frequentato da giovanissimi, insieme ai suoi amici, quando è stato raggiunto da un proiettile in testa. A sparare sarebbe stato un soggetto sopraggiunto in sella ad uno scooter guidato da un complice.
Nella notte Thomas, già in condizioni disperate, era stato sottoposto ad un delicatissimo intervento chirurgico all’ospedale San Camillo di Roma; poche ore fa i medici purtroppo l’hanno dichiarato clinicamente morto con una nota della direzione del San Camillo nella quale si legge che il paziente, ricoverato già in gravissime condizioni, nella mattina di oggi ha presentato le caratteristiche del coma irreversibile con elettroencefalogramma piatto per assenza di attività elettrica cerebrale. Trattandosi di paziente clinicamente morto, si è riunita una commissione medica aziendale per la certificazione della morte, come prescritto dalla legge.
Non è stato ancora possibile chiarire se fosse proprio Thomas l’obiettivo dell’agguato: le indagini stanno proseguendo, gli inquirenti avrebbero già individuato dei sospettati. Tra le ipotesi al vaglio degli investigatori ci sarebbe anche quella di una 'vendetta' seguita ad una rissa avvenuta nei giorni precedenti: un regolamento di conti tra bande di giovanissimi.
Il Procuratore di Frosinone ha dichiarato: "Sul piano delle ipotesi possiamo presumere che si tratti di uno scontro tra bande contrapposte. Evidentemente il ragazzo stava con persone che erano attribuite dagli sparatori al gruppo contrapposto. Se ne facesse parte? Lo stiamo ancora accertando".
Il sindaco di Alatri, Maurizio Cianfrocca, aveva lanciato l'allarme per le risse avvenute nel paese tra giovani nel fine settimana e, come annunciato ieri nel suo profilo Facebook, aveva chiesto l'intervento delle forze dell'ordine. "Già questa mattina, considerate le risse avvenute nel centro storico nel fine settimana, avevo sentito e scritto al Comando dei Carabinieri di Alatri chiedendo maggiori controlli al fine di assicurare l'incolumità e la serenità della cittadinanza intera, che ha pieno diritto di vivere la città in piena sicurezza".
Ragazzi ormai non più abituati a pensare, che agiscono, credendo di vivere in una canzone o in un reality show e perdono il contatto con la realtà. Giovanissimi che emulano i comportamenti "di un mondo adulto autocentrato, dove io mi sento offeso e quindi reagisco, senza rendermi conto di avere davanti una persona e non un ostacolo che posso buttare sotto al treno", e con un atteggiamento verso la donna che dovrebbe essere ormai superato per le nuove generazioni, "che è una persona e non un oggetto di contesa".
Queste sono state le parole del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Milano, Ciro Cascone, sulla grave vicenda verificatasi tre giorni fa a Monza: due minorenni italiani, di 14 e 15 anni, della provincia di Monza, hanno aggredito un coetaneo spingendolo contro un treno in corsa, rischiando di ucciderlo. I due sono ora accusati di tentato omicidio; la giovane vittima, immediatamente soccorsa e trasportata all’ospedale, ha riportato una ampia ferita alla testa, oltre a una frattura alla caviglia, ma non rischia la vita.
Secondo le indagini della Squadra Mobile di Monza, la vicenda è stata scatenata da un messaggino whatsapp che la vittima avrebbe inviato ad una ragazzina; uno dei due aggressori, interessato alla stessa giovane destinataria di quel messaggio, avrebbe raggiunto insieme ad un amico il coetaneo, nella stazione ferroviaria dove stava aspettando il treno per fare rientro a casa, al fine di “fargliela pagare” per aver “osato tanto”: insulti, accuse, sino alla richiesta di una felpa firmata per “saldare i conti” , avendo mandato quel messaggio a chi “non doveva toccare”.
Quando il giovane ha opposto il rifiuto a questa richiesta ed è scappato verso il binario dove avrebbe dovuto prendere il treno, è scattata l’aggressione fisica, l’inseguimento, sino alla violenta spinta che lo ha fatto cadere su un treno in transito. Il giovane per miracolo è rimasto incastrato tra la banchina e le ruote della carrozza e non è finito sotto il treno.
Gli autori dell’aggressione sono fuggiti, per poi venire rintracciati nel tardo pomeriggio, grazie all'analisi delle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza. Portati in Questura a Monza, sono stati interrogati dal pm della Procura minorile, che ha poi emesso il provvedimento di fermo per tentata rapina aggravata e tentato omicidio in concorso.
Il continuo aumento di reati sempre più violenti, commessi dai giovanissimi, è oramai argomento diffusamente trattato: non può non far riflettere il riferimento fatto del Procuratore di Milano all’emulazione di “un mondo adulto autocentrato”. Secondo le ricerche condotte dagli esperti, proprio la esorbitante visione narcisistica del “sé”, negli adulti come nei ragazzi, provoca reazioni abnormi di rabbia e violenza, ogni volta che la propria autostima viene minacciata; la competizione diventa incessante, e con tutti: anche con sé stessi.
(fonte e foto Ansa)
La Procura di Pavia ha chiuso le indagini per il delitto del 60enne Luigi Criscuolo, detto "Gigi Bici". Accusata dell’omicidio è la fisioterapista 40enne Barbara Pasetti, in carcere da oltre un anno dopo che il 20 dicembre 2021 venne ritrovato in un campo vicino alla sua villa, il cadavere di Criscuolo. I capi di imputazione sono quello di omicidio volontario, occultamento di cadavere e tentata estorsione aggravata; caduta l’aggravante della premeditazione, inizialmente contestata, poichè, come spiega la Procura "i fatti si sono svolti in modo repentino e sostanzialmente occasionale, attraverso un’arma che lo stesso Criscuolo aveva consegnato a Barbara Pasetti".
Nella comunicazione della chiusura delle indagini, firmata dal procuratore Fabio Napoleone, viene ricordato che il 5 ottobre, in un interrogatorio chiesto dalla stessa Pasetti, "l’indagata ha ammesso gli addebiti". Oggi emergono i dettagli.
Secondo le ricostruzioni l'uomo è stato ucciso dalla Pasetti, che aveva inizialmente dichiarato di non conoscerlo nemmeno, il giorno stesso in cui è scomparso, con un colpo di pistola sparato alla tempia. Per un mese, sino a quando venne ritrovato il suo corpo, i familiari, e una delle figlie in particolare, si erano rivolti alla tv per ritrovare il padre scomparso. La figlia incontrò anche la Pasetti, in quanto fu colei che aveva ritrovato il cadavere, ma la donna non smise mai di mentire dicendo di non conoscere quell’uomo.
In realtà, come accertato dagli inquirenti nel corso delle indagini, i due si conoscevano. L’arma con cui venne ucciso Criscuolo era stata consegnata dalla vittima alla Pasetti che lo aveva incaricato di uccidere il suo ex marito; l’uomo però aveva rifiutato. Secondo quanto dichiarato dalla donna le continue richieste di denaro del Criscuolo l’avrebbero portata ad ucciderlo.
(foto Ansa)
Un grave episodio di violenza sessuale di gruppo ai danni di una studentessa americana, si è consumato in centro a Milano lo scorso marzo. Particolare riflessione merita ciò che è stato scritto dal gip nell' ordinanza di custodia cautelare con cui, due giorni fa, sono stati posti agli arresti domiciliari i due ragazzi “gravemente indiziati del reato”: "Emerge invero nitidamente dai video che riprendono la violenza e dagli ulteriori atti di indagine, in particolare le intercettazioni ambientali, l'incapacità degli indagati di comprendere appieno il disvalore delle proprie condotte, e la conseguente possibilità che gli stessi reiterino nei propri comportamenti delittuosi, convinti della propria innocenza".
“L' incapacità di comprendere appieno il disvalore delle proprie condotte” di cui scrive il gip è l’elemento su cui soffermarsi, al di là dei nomi dei soggetti raggiunti dal povvedimento che, essendo due calciatori del Livorno, hanno forse distratto l'attenzione dalla gravità dei dettagli posti in luce nell'ordinanza. Si tratta di due ragazzi di soli 22 e 23 anni che, in concorso con altri tre giovani indagati, secondo la ricostruzione della Procura, si sarebbero offerti di riaccompagnare a casa la giovane americana, al termine di una serata in discoteca; ma una volta in macchina, invece di riaccompagnarla, l' avrebbero condotta in un appartamento in centro città e la avrebbero costretta a subire violenza, uno dopo l'altro.L' abuso sarebbe avvenuto approfittando dello stato di inferiorità psichica della vittima, che quella sera aveva bevuto "dei drink" e che aveva "vuoti di memoria, intervallati da flash", come lei stessa ha raccontato agli investigatori. I fatti sono stati ricostruiti dagli inquirenti anche sulla base del racconto di alcuni testimoni, e di quanto recuperato dai telefoni cellulari della vittima e dei presunti autori: la violenza sessuale di gruppo è stata infatti in parte registrata, conservata e ritrovata nei telefoni cellulari degli arrestati.
Come descritto nell' ordinanza di custodia cautelare disposta per “l’assai probabile reiterazione di analoghi comportamenti”, i giovani che hanno partecipato alla violenza erano ben consci dello stato di menomazione psicofisica della ragazza, provocata dall'assunzione di una quantità eccessiva di alcol nel corso della serata, ed hanno anzi utilizzato proprio quello stato nella consapevolezza di poter vincere qualsiasi tipo di resistenza per "concretizzare la violenza sessuale collettiva" .
L’avvocato di uno dei due giovani posti ai domiciliari ha già annunciato che presenterà ricorso al Riesame per chiedre la revoca dei domiciliari; scrive che il suo assistito è “devastato e incredulo e dice che non c’è stata alcuna violenza”.
Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. L'inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Tp) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido.È quanto apprende l'Ansa da fonti qualificate. Matteo Messina Denaro sarebbe stato arrestato all'interno di una clinica privata di Palermo, dove si era recato "per sottoporsi a terapie". Il capomafia trapanese è stato condannato all'ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell'acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del '92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del '93 a Milano, Firenze e Roma. Fonte Ansa
Martina Scialdone era una giovane avvocatessa di Roma, aveva 35 anni, lavorava in uno studio del quartiere Parioli dove trascorreva la maggior parte del suo tempo: una vita tra tribunale e studio. Stava investendo professionalmente su sé stessa, rari gli spazi da dedicare al tempo libero. Aveva perso il papà ed era legatissima alla mamma e al fratello.
Venerdi sera Martina si era fatta convincere dal suo ex, un ingegnere dell’Enav, Ente Nazionale per l’Assistenza al Volo, di 61 anni, Costantino Bonaiuti, ad incontrarlo per un chiarimento. I due avevano avuto una relazione durata 2 anni, poi la decisione della ragazza di interrompere quel rapporto: si era resa conto che quell’uomo non era adatto a lei.
L’incontro è avvenuto in Viale Amelia all'Appio Latino, in un ristorante che si chiama "Brado" e si è concluso con l’ennesima tragedia: non un raptus, non follia, ma la violenza omicida di un uomo che considera la donna al pari di una proprietà privata, e che non ha accettato il rifiuto della sua ex fidanzata.
Quell’incontro nelle aspettative dell’uomo doveva portare a riaprire quella relazione, ormai conclusa da qualche mese; ma forse sapeva che il finale sarebbe stato diverso, visto che si era recato all’appuntamento con una pistola, regolarmente denunciata per uso sportivo.
Il rifiuto di Martina alla riconciliazione ha scatenato la furia del 61enne: secondo le testimonianze, a fine cena si sarebbe scatenata un’accesa discussione che ha indotto la giovane avvocatessa a rifugiarsi nel bagno del ristorante. Lui l’ha inseguita, prendendo a pugni la porta chiusa a chiave, urlandole di uscire.
A quel punto secondo alcune testimonianze, entrambi sarebbero stati allontanati dal locale per non creare ulteriore scompiglio tra i clienti. Il ristorante Brado smentisce questa ricostruzione, dichiarando di aver fatto tutto il possibile per aiutare la ragazza, allertando le autorità sin dal primo momento.
Di fatto, una volta usciti, di fronte agli occhi di tutti, si è consumata la tragedia: Bonaiuti ha puntato la pistola ed ha sparato. Martina ha percorso qualche metro, per poi accasciarsi a terra. Inutile l’intervento di una dottoressa che era nel locale e degli immediati soccorsi giunti sul posto, in contemporanea con il fratello della giovane: la 34enne si è spenta tra le braccia del fratello.
Bonaiuti, che subito dopo aver sparato era scappato a piedi verso la sua auto, è stato rintracciato dagli agenti della squadra mobile nel suo appartamento a Fidene, dove si era rifugiato, ed è stato posto in arresto.
ll sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ha commentato la vicenda in un post su Facebook: "Il brutale assassinio di Martina Scialdone uccisa senza pietà dal suo ex-compagno ci sconvolge tutti. Roma si stringe al dolore dei familiari, degli amici, di tutti colleghi di questa giovane brillante avvocata, che nella sua attività professionale si occupava di diritto di famiglia, e anche di violenza di genere".
"Quella stessa violenza criminale di cui è rimasta vittima innocente, e che è un fenomeno drammatico e preoccupante - ha aggiunto - che va contrastato con tutte le forze, a tutti i livelli, dappertutto. A mio avviso, a questo dovremmo aggiungere una riflessione sulla necessità di limitare il possesso delle armi, riducendone il numero in circolazione, per aumentare la sicurezza di tutte e di tutti.”
Il sindaco Gualtieri a conclusione del post ha sollecitato ciascuno a "fare la propria parte", poichè le azioni messe in campo dalle Istituzioni non sono sufficienti "se non alziamo l’asticella dell’attenzione rispetto a comportamenti che possono sfociare nella violenza, se non abbiamo il coraggio di intervenire davanti a situazioni che vedono le donne in pericolo. Dobbiamo a Martina tutto il nostro impegno, in prima persona, affinché simili atroci tragedie non accadano mai più".
foto Ansa
Circa due mesi fa Alessandra Verni, la mamma di Pamela Mastropietro, la 18enne romana brutalmente uccisa a Macerata 5 anni fa, aveva scritto tre lettere: al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla presidente del consiglio Giorgia Meloni e al ministro della Giustizia Carlo Nordio, chiedendo di essere ascoltata e di dare voce al suo dolore di donna e di madre che, dopo 5 anni dall'atroce, macabro delitto della figlia, sta ancora attendendo che giustizia sia fatta.
Ieri è stata ricevuta dal sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia, Andrea Ostellari, nella sede del ministero in via Arenula, a Roma, che si è dimostrato interessato al caso. Alessandra Verni ha trovato l’incontro di ieri molto costruttivo: ha dichiarato di aver messo al corrente il sottosegretario Ostellari "di molte cose che non sono andate bene in questi cinque anni durante le indagini, gli ho riferito di indagini non fatte, di mancanze da parte di alcune istituzioni, quindi vediamo ora il prosieguo".
La prima sezione penale della Cassazione, confermata la condanna del nigeriano Innocent Oseghale per l'omicidio volontario di Pamela, vilipendio e distruzione di cadavere, aveva deciso di annullare la sentenza d’appello con riferimento al reato di violenza sessuale, disponendo su questo un appello bis. La prima udienza del processo d’Appello "bis" si è celebrata il 23 novembre a Perugia, con rinvio al 25 gennaio prossimo, ore 9.30, per l’integrazione dell’istruttoria, con l’escussione testimoniale due uomini che la ragazza aveva incontrato prima di Oseghale.
Per la Procura gli elementi documentali, testimoniali, logici, emersi in dibattimento a sostegno del reato di violenza sessuale sono chiari, e proprio la violenza sessuale commessa dal nordafricano sarebbe stata il movente dell'omicidio di Pamela. La ragazza sarebbe stata brutalmente uccisa da Oseghale poichè temeva che, una volta ripresasi, lo avrebbe potuto denunciare per la violenza subita.
Tale circostanza avrebbe trovato riscontro anche in alcune frasi intercettate dagli inquirenti nel 2018 nel carcere di Ancona, tra due nigeriani che erano stati co-indagati nell'inchiesta per l'omicidio di Pamela, per poi definitivamente uscirne per assenza di riscontri alle accuse. "Il 30 gennaio Innocent mi telefonò chiedendomi se volevo andare a stuprare una ragazza che dormiva" riferì uno dei due all’altro. Ed ancora, in un'altra conversazione avrebbe poi detto di aver saputo che Pamela era stata stuprata.
In primo e in secondo grado c'era già stata la condanna per violenza sessuale. Ora i giudici, a conclusione del rinnovato dibattimento, dovranno emettere la nuova decisione: se l'aggravante della violenza sessuale dovesse cadere, per Oseghale, condannato all'ergastolo in primo e secondo grado, potrebbe esserci uno sconto di pena. Un supplizio per la famiglia di Pamela, per la mamma che sopravvive grazie alla fede, e che chiede giustizia per sua figlia "e per tutte le donne violentate e massacrate da individui liberi di agire".
“Nessun potere, per quanto forte sia, potrà fermare la verità, anche se rimarrà una sola persona a difenderla e a pretenderla”. Con queste parole Pietro Orlandi aveva commentato la decisione della sesta sezione penale della Cassazione che confermava l’archiviazione dell’inchiesta sulla sorella 15enne Emanuela Orlandi, scomparsa il 22 giugno 1983: i giudici dichiararono inammissibile il ricorso presentato dalla famiglia Orlandi contro l’ordinanza con cui il gip di Roma aveva disposto l’archiviazione dell’indagine della Procura.
A distanza di 40 anni in questi giorni il promotore di giustizia vaticano, Alessandro Diddi, e la Gendarmeria hanno deciso di riaprire le indagini, “aprire un fascicolo” sulla vicenda, con il dichiarato intento di scandagliare di nuovo tutti i fascicoli, i documenti, le segnalazioni, le informative, le testimonianze. Sono emersi elementi nuovi nelle investigazioni? O forse il silenzio protratto per 40 anni dal Vaticano si è fatto insostenibile di fronte alla pressione mediatica, soprattutto degli ultimi tempi? "Forse hanno capito che altrimenti noi non ci fermeremo mai nella ricerca della verità" ha commentato Pietro Orlandi, impegnato da sempre nella ricerca della sorella.
La decisione del Vaticano è giunta a distanza di poche settimane dall’iniziativa di alcuni parlamentari che hanno chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta sui casi Orlandi, Gregori e Cesaroni, ormai chiusi da anni. È giunta immediatamente dopo la morte di Papa Ratzinger avvenuta solo qualche giorno fa, il 31 dicembre 2022; dopo gli attacchi rivolti a Papa Francesco dal segretario di Ratzinger, monsignor Georg Gänswein, ricevuto in udienza privata per un primo chiarimento il 9 gennaio 2023.
È giunta pochi giorni prima dalla pubblicazione del libro di memorie dello stesso segretario di Ratzinger, scritto a quattro mani con il vaticanista Saverio Gaeta e intitolato “Nient’altro che la verità. La mia vita al fianco di Benedetto XVI”, nel quale, tra l’altro, un ampio capitolo è dedicato proprio al mistero di Emanuela; dopo l'onda mediatica del docufilm "Vatican Girl" che ha acceso i riflettori sulla vicenda in tutto il mondo. Dopo la testimonianza del fratello di Emanuela sulla cartellina gialla con su scritto "Rapporto Emanuela Orlandi" che era stata vista negli uffici del Palazzo Apostolico dal cosiddetto "Corvo", (Paolo Gabriele ex maggiordomo del papa Benedetto XV), circostanza smentita da mons. Gänswein, se pur un paio d’anni fa fu proprio lui a dire alla famiglia Orlandi, secondo la testimonianza di Pietro “il fascicolo c’è”. Solo coincidenze?
Pietro Orlandi nel tempo ha sempre dichiarato di avere un’unica certezza, suffragata da elementi d’indagine concreti: “ in Vaticano , e non solo, ci sono persone a conoscenza di quanto accaduto". "Il silenzio li ha resi complici", è lo slogan apposto nella locandina in cui compaiono gli ultimi tre papi che si sono succeduti dalla scomparsa della ragazza fino ad oggi, con la quale Pietro ha indetto un sit-in di protesta che si terrà in Largo Giovanni XXIII il 14 gennaio.
Per Pietro Orlandi, ma anche per tutti quelli che credono nella Verità e nella Giustizia “ è il momento di mettere fine a questa vicenda: per noi, ma anche per loro, per la Chiesa, il Vaticano stesso”.
(Foto Facebook)
"I gravissimi scontri avvenuti ieri sull’ autostrada A1 confermano che questi criminali travestiti da tifosi rappresentano un rischio grave e concreto per i cittadini e per le forze dell’ordine. I poliziotti che hanno agito ieri con professionalità e sangue freddo, a Badia al Pino, sono stati costretti, infatti, a intervenire nelle corsie autostradali aperte alla circolazione e a fare i conti con persone armate di tutto punto, con bastoni e bombe carta, nonché abbigliate in modo da rendere difficile la loro identificazione".
La dichiarazione giunge dal segretario generale del sindacato di Polizia Coisp, Domenico Pianese, che ha proseguito con la richiesta al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, di "valutare la sospensione delle trasferte fino alla fine del campionato per le tifoserie che si macchiano di episodi di violenza.
E per coloro che saranno identificati quali autori degli scontri di ieri, auspichiamo l’applicazione del Daspo a vita. Di fronte a vicende del genere, infatti, l’unica via da applicare è quella dell’assoluta severità".
Sulla stessa linea il sindacato di Polizia Siulp, con la richiesta al ministro Piantedosi di valutare urgentemente "la reintroduzione di tutti gli strumenti già sperimentati per prevenire queste forme di violenza. A partire dalla tessera del tifoso sino alle partite a porte chiuse per quelle squadre le cui tifoserie si evidenziano per violenza e intolleranza".
Gli scontri in autostrada avvenuti ieri tra gli ultras del Napoli, diretti a Genova per la sfida contro la Sampdoria, ed i tifosi della Roma, in viaggio per Milano per l’incontro a San Siro tra il Milan e i giallorossi, si sono verificati sull’autostrada A1 ed all’interno dell’area di servizio Badia al Pino est, vicino ad Arezzo.
La Digos di Arezzo, insieme a quella di Napoli e di Roma, stanno lavorando incessantemente cercando di fare chiarezza su quella che sembra sia stata una guerriglia organizzata: secondo la ricostruzione delle forze dell’ ordine: “circa 350 tifosi del Napoli diretti a Genova, si sono fermati nell’area di servizio Badia al Pino direzione nord".
Dopo la morte, nel 2014, del tifoso napoletano Ciro Esposito, raggiunto da un colpo di pistola esploso da un tifoso della Roma al termine della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, si è cercato di tenere le tifoserie a distanza per evitare possibili incidenti: ai romanisti era impedito di andare in trasferta a Napoli, così come ai napoletani di vedere la propria squadra allo stadio Olimpico.
Ieri è stato impossibile evitare l'incontro: sembrerebbe che i romanisti potessero contare su alcuni ultrà in avanscoperta con il compito di informarli sulla presenza dei rivali negli autogrill toscani: avrebbero deciso di fermarsi all’altezza dell’area di sosta proprio per la presenza della tifoseria partenopea. L'autostrada A1 si è trasformata così in un campo di battaglia.
Gli investigatori stanno conducendo le indagini per ricostruire la dinamica, sulla base dell’analisi delle telecamere di sorveglianza dell’autogrill ed anche delle chat e delle comunicazioni telefoniche dalle quali emergerebbe che gli ultras abbiano iniziato a minacciarsi proprio in chat.
Lo scontro sulla carreggiata nord della A, che li ha visti tutti vestiti di nero ed incappucciati, coinvolti nel lancio di sassi, bottiglie, coltelli, bastoni, fumogeni, non sarebbe stato quindi casuale.
A oggi sono oltre 200 i tifosi identificati dalla polizia, tra quelli che per almeno 15 minuti hanno messo a ferro e fuoco la carreggiata della A1 attentando alla sicurezza dei trasporti, oltre che delle forze dell’ordine e dei cittadini.
Il ministro per lo Sport e i Giovani, Andrea Abodi è intervenuto sui gravi fatti: “C'è una differenza abissale tra i tifosi che vanno allo stadio, in casa o in trasferta, per cantare, abbracciarsi, gioire o soffrire per la propria squadra e i delinquenti che si scontrano in una stazione di servizio autostradale, creando problemi alle persone perbene. Non c'è cosa peggiore che definire tifosi quest'ultimi, non c'è errore più grande del fare di tutta l'erba un fascio”.
Foto Adnkronos
È triste parlare di "primo femminicidio del 2023", ma purtroppo questa è la tragica realtà. La vittima è Giulia Donato, una ragazza di 23 anni, uccisa con un colpo di pistola dal fidanzato Andrea Incorvaia, guardia giurata di 32 anni, che poi ha deciso di farla finita, rivolgendo l’arma di servizio contro sé stesso.
A dare l’allarme sarebbe stata la sorella di Andrea, che, non avendo più sentito la coppia dalla sera prima, il 4 gennaio intorno alle 17:30 avrebbe deciso di andare a verificare di persona se fosse accaduto qualcosa. Quando è arrivata nell’abitazione dove viveva la coppia nessuno le ha aperto.
Si è fatta quindi dare le chiavi da un'amica e ha trovato i due corpi in camera da letto. Gli investigatori della Squadra Mobile e gli agenti del Commissariato di Cornigliano che indagano sull’accaduto, ipotizzano che la giovane sia stata colpita a morte nel sonno.
Al momento non si sa se la tragedia si sia consumata al culmine di un litigio o se l’omicidio/suicidio sia stato premeditato; dalle prime ricostruzioni sembrerebbe che tra i due avvenissero scontri e litigi quasi quotidianamente.
Le amiche di Giulia avrebbero riferito di un rapporto malato, di continui controlli da parte di lui, un uomo eccessivamente possessivo, di una gelosia morbosa, al punto che la ragazza sembra stesse decidendo di porre fine alla storia. Giulia era già stata segnata tragicamente dalla perdita della bambina avuta con un altro compagno nel 202, dopo un mese dal parto.
Mentre la giovane cercava di uscire da quel vuoto così doloroso, certamente con un gran bisogno di amore e di serenità, ha incontrato il suo assassino. Dalle indagini condotte dalla squadra mobile è emerso un elemento ulteriore: Andrea aveva intrapreso un percorso terapeutico per una forma di depressione e sembra assumesse degli psicofarmaci. Era ancora in condizioni ottimali per detenere l’arma d’ordinanza?
Ancora una volta, è tardivo porsi delle domande: la tragedia si è consumata ed ora il dolore terribile è di chi resta, familiari, amici, in queste ore stretti in una morsa di sgomento ed incredulità. Un senso di impotenza pervade, di fronte a questi delitti, che parlano dell’idea di possesso che ancora certi uomini hanno delle donne.
I modelli sociali sono i primi a dover cambiare: se da un lato negli ultimi anni in Italia è aumentata l’attenzione per la violenza sulle donne, dall’altro i modelli che la società ci rimanda parlano di potere sugli altri, prevaricazione, facile successo, denaro a tutti i costi, "frenando" il percorso verso una società più giusta, indispensabile per giungere ad una parità di genere.
Modelli imperanti, rappresentazioni stereotipate di uomini e donne che per primi devono essere scardinati, per poter attuare quella rivoluzione culturale che, di fronte a questi episodi, sembra ancora troppo lontana.
Iseo. La sera del 31 dicembre, poco prima della mezzanotte, alcuni giovani riuniti nella piazza cittadina dove era stato organizzato il veglione di fine anno, hanno allertato una pattuglia di Carabinieri segnalando l’episodio di violenza a cui stavano assistendo: un uomo di 41 anni stava aggredendo e picchiando la compagna, coetanea, davanti al figlio della coppia di soli 5 anni, che la madre teneva abbracciato a sé.
I carabinieri sono subito intervenuti ed hanno arrestato il 41enne in flagranza di reato. Da quanto emerso la donna era già stata picchiata e maltrattata, così come confermato dai precedenti specifici rilevati a carico del 41enne che si trovava al lago d’Iseo con la famiglia per trascorrere le festività.
Pistoia. Una donna insanguinata, con il volto tumefatto, intorno alle 8 di mattina del 1 gennaio è fuggita dalla propria abitazione per chiedere aiuto in strada. Accorsi alcuni residenti della zona hanno immediatamente allertato i soccorsi e le forze dell’ordine, che, giunte tempestivamente sul posto, hanno trovato la vittima riversa a terra, in pigiama, con numerose escoriazioni, la più preoccupante provocata da un violento pungo inferto al volto. Dalle prime ricostruzioni, secondo quanto riportato dal quotidiano “La Nazione”, è emerso che il compagno della donna l’avrebbe aggredita selvaggiamente, probabilmente al culmine di un litigio.
In entrambi gli episodi i testimoni avrebbero riferito di uno stato di ebrezza alcolica negli aggressori, causato verosimilmente dalle numerose bevute durante i festeggiamenti dell' ultima notte dell'anno: ciò non deve indurre nell’errore di pensare che l’eccesso di alcolici abbia da solo provocato le aggressioni. Che il consumo di alcol aumenti la propensione ad atti di violenza è un fatto accertato: l’alcol agisce nella corteccia perifrontale del cervello, deputata tra le altre cose al controllo degli impulsi, a regolare le emozioni, ed alle capacità decisionali. Proprio per questo, come accertato da numerosi studi italiani ed esteri, l’eccessivo consumo di alcol in adolescenza danneggia gravemente il cervello “promuovendo l'assottigliamento della corteccia prefrontale dato che nei ventenni il cervello è ancora in via di sviluppo”.
Tuttavia sarebbe errato affermare che l’abuso di alcol, da solo ed esso solo conduca alla commissione di crimini violenti del tipo di quelli sopra riportati, se pur certamente è stato un fattore scatenante o facilitatore del reato: non sempre il consumo di alcol porta a violenza e non tutta la violenza è dovuta all'alcol.
Il senso etico delle persone non cambia con le bevute, a dirlo è la scienza. Laddove le ricerche evidenziano che l'alcol è associato alla commissione di diversi reati, occorre precisare che nella maggior parte dei casi non si tratta di crimini commessi da soggetti dall’indole mite e calma che improvvisamente si trasformano dopo aver bevuto, quanto piuttosto di casi in cui esiste una propensione all' aggressività ed alla violenza. A conferma di ciò, secondo le ricostruzioni,le due donne vittime delle aggressioni di Capodanno avevano già subito precedenti violenze dai loro compagni.
Secondo i dati di “Ossigeno per l’Informazione” (Osservatorio Su informazioni giornalistiche e notizie oscurate) nel 2022 in Italia sono stati minacciati il doppio di giornalisti rispetto al 2021: 564 giornalisti nei primi nove mesi del 2022, il 100 per cento più dei 288 dello stesso periodo del 2021. Contestualmente è cresciuto il numero di querele e cause per diffamazione a mezzo stampa temerarie e strumentali. Per “querela temeraria” si intende una querela sporta senza i necessari presupposti, con mala fede o colpa grave, cioè con la consapevolezza di avere torto.
Affrontare una causa per un giornalista, ancor più se da freelance, non è semplice, anche qualora essa risulti infondata, e richiede oltretutto un importante investimento in termini economici: i freelance non hanno un vincolo di lavoro dipendente con le testate giornalistiche per cui scrivono, e quindi non vengono sostenuti nelle spese legali; il loro compenso si aggira intorno ai 40 euro lordi per articolo, quindi la tendenza sarà in molti casi quella di evitare di correre il rischio di resistere in causa, autocensurandosi.
Questo meccanismo inevitabilmente si traduce in un vulnus per la libera informazione. Quasi sempre la minaccia di una causa giunge per tacitare il cronista che possa scrivere di fatti scomodi per il querelante: un danno non solo per il professionista, ma anche e soprattutto per i cittadini che finiscono per avere notizie che i reporter hanno spesso censurato alla fonte per non rischiare denunce.
Uno studio dell’Unesco, tradotto in italiano da “Ossigeno per l’informazione” reso noto il 9 dicembre 2022, ha rilevato che “la libertà di espressione non gode buona salute e negli ultimi anni ha perso terreno pressoché ovunque”. In particolare ha condannato un “uso scorretto del sistema giudiziario per attaccare la libertà di espressione” : di fatto anche in Italia è solo con la sentenza che viene accertata la lite temeraria; ciò significa che il giornalista dovrà affrontare tutto il gravoso iter processuale per dimostrare di essere esente da colpa.
"Ossigeno", ha dichiarato il presidente Alberto Spampinato, "si augura che l'allarme venga raccolto, che ciò spinga a capire meglio l'andamento del fenomeno e a intensificare le attività per sensibilizzare il mondo del giornalismo, le forze politiche, il Parlamento, il Governo ad adottare opportune contromisure, ognuno per la propria parte. È triste - prosegue - chiudere il 2022 osservando che anche quest'anno è trascorso senza che si sia fatto alcun passo avanti. Le intimidazioni e le minacce ai giornalisti sono innegabilmente una malattia che indebolisce la libertà di informazione e danneggia la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Le malattie trascurate, non curate possono degenerare e produrre danni peggiori all'organismo. Ed è forse ciò che sta accadendo".
Pelli liscissime, labbra carnose, fisici scolpiti: realtà o finzione? Sono i "beauty filters", ossia delle “maschere digitali” che ciascun utente applica alla propria immagine per apparire sui social. Non solo teenagers, ma anche donne adulte che entrano in competizione con le loro coetanee e uomini di ogni età.
L’uso smodato dei filtri, iniziato nel 2010 con il lancio di Instagram, uno dei primi social media che li ha introdotti, non ha distinzione di sesso nè anagrafica.
Per ogni difetto, reale o supposto che sia, basta applicare a sé stessi un filtro e si cancella immediatamente ogni imperfezione. Per molti l’omologazione del proprio corpo ai “finti canoni” stabiliti dai social con Photoshop e altre applicazioni, è il normale strumento con cui presentarsi all’altro nel mondo virtuale.
Salvo poi il sopraggiungere dell’ansia da prestazione per somigliare il più possibile a quel "falso sé”" alterego social, e del senso di inadeguatezza per non poterci (ovviamente) riuscire.
Sociologi, psicologi e psichiatri già da tempo denunciano che l’uso del fotoritocco è diventato la nuova normalità, a scapito di gravi risvolti psicologici e disturbi della personalità. Utilizzare quotidianamente i filtri e le app di editing può portare a sviluppare la "selfie dismorfia", una condizione in cui non si è più in grado di distinguere la propria immagine reale da quella postata sui social network.
Chi soffre di questa condizione può arrivare a non riconoscere più il proprio volto allo specchio, tanto è abituato a quello ritoccato online. Da qui al vero e proprio "disturbo mentale da dismorfismo corporeo" inserito nel DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali) nel capitolo dei "disturbi ossessivo compulsivi e correlati", la distanza è breve.
Si tratta di un disturbo che comporta eccessiva preoccupazione per un presunto difetto fisico (che in alcuni casi può essere del tutto inesistente) causando nel soggetto problemi nel funzionamento sociale, emotivo, relazionale e in altre importanti aree di vita.
La reazione a questo imperante quanto stressante stile di vita ha trovato voce in alcune giovani influencer che hanno scelto di mostrarsi sui social con i propri difetti: acne, smagliature e cellulite, e tutte quelle imperfezioni, ammesso che lo siano, con le quali nel quotidiano reale ciascuno si rapporta.
È di Faye Dickinson, influencer londinese, l’idea del tool su Instagram creato nel 2021, “Filter vs Reality”: uno strumento che applica il filtro di abbellimento solo su metà viso, lasciando naturale l’altra, con l’obiettivo di evidenziare la differenza tra l’immagine costruita sui social e quello che è nella realtà.
Lo strumento è stato creato per mettere in luce le problematiche connesse con la non accettazione del proprio vero sé. Siamo ancora lontani dall’abbandonare l'oramai standardizzata "falsa perfezione", ma i segnali che giungono in controtendenza, fanno sperare che tra tante “maschere” di pirandelliana memoria, i "pochi volti" diventino sempre più numerosi.
(Foto: Instagram goar_avetisyan)