di Simonetta Paccagnella Grifi
Folle sfida social tra Youtuber: morto nello schianto un bambino di 5 anni
Un assurdo video-sfida su Youtube; un Suv Lamborghini noleggiato da un ragazzo ventenne da 2 giorni sfrecciava a folle velocità per le strade di Roma sino a ieri pomeriggio, quando l’auto, su una strada di Casal Palocco, come un proiettile si è schiantata contro una Smart, a bordo della quale viaggiavano una giovane mamma di 29 anni con i suoi due figli: una bambina di tre anni ed un bambino di cinque. Per il piccolo l’impatto è stato fatale: quando i soccorsi sono arrivati il bambino era già in arresto cardiaco e ogni tentativo di rianimarlo è stato vano; trasportato d’urgenza all’ospedale Grassi di Ostia, i medici non hanno potuto fare altro che costatarne il decesso. Nell’incidente, che ha letteralmente distrutto la Smart, sono rimaste ferite anche la mamma e la sorellina, trasportate in codice rosso al Sant’Eugenio, non sono in pericolo di vita. Questo il bilancio di quella che sembra essere una “challange”, una sfida lanciata da un gruppo di Youtuber “TheBorderline” : stare al volante per 50 ore, alternandosi alla guida, filmando la folle corsa. I cinque giovani a bordo del Suv al momento dell’incidente, tutti influencer 20enni, sono rimasti illesi; il ventenne alla guida è risultato positivo ai cannabinoidi ed è ora indagato per i reati di omicidio stradale e lesioni. Nessuna traccia di frenata sulla strada. Al vaglio degli inquirenti la posizione degli altri quattro ragazzi presenti nell’auto, cui potrebbe essere contestato il concorso nei reati. L’ ipotesi della sfida sembra confermata da un filmato di 15 secondi comparso in rete in cui uno degli Youtuber afferma: “Secondo giorno Lamborghini, per adesso tutto bene” . Uno dei giovani sarebbe il fondatore di un canale Youtube che conta 600.000 iscritti, milioni di visualizzazioni per i video raccolti, “i più assurdi di You Tube Italia”. Molti sono i testimoni che hanno visto scioccati, prima dell’impatto mortale, l’auto sfrecciare avanti e indietro mentre i ragazzi si riprendevano al cellulare. Una tragedia, un’intera comunità sconvolta da rabbia e dolore; tante le testimonianze di persone indignate, di madri attonite per quella che considerano una società impazzita in cui i modelli di riferimento dei loro figli sono diventati youtuber e tiktoker; tanta superficialità, non solo dei ragazzi ma anche di chi, qualcuno ha giustamente commentato, ha messo nelle mani di ventenni una autovettura di quel tipo. "Io sono preoccupato dei 600mila che dicono essere followers di questa cosa" ha commentato Paolo Crepet, "che probabilmente oggi saranno anche diventati un milione (..) Ci sarà la solita manfrina sui social per cui questi ragazzi saranno crocifissi, perché ieri sera erano idolatrati e adesso crocifissi, e domani saranno idolatrati un’altra volta. "Una generazione che è stata abbandonata. Non c’è un no, non c’è una bocciatura, non c’è niente. Ci sono miliardi di sì, fai come ti pare, va bene così".
Omicidio di Giulia: Alessandro Impagnatiello, la manipolazione è già violenza
Alessandro Impagnatiello è stato, ed è, un manipolatore, prima di essere l'assassino della sua compagna e di suo figlio. Definito dai magistrati un "narcisista manipolatore", attraverso le sue menzogne ha distorto la realtà, piegandola ai suoi scopi, abusando dell’emotività e dei sentimenti di due ragazze. Probabilmente molto persuasivo e convincente, come un manipolatore sa essere, ha manipolato con le sue bugie non solo loro, ma chiunque sia entrato a qualsiasi titolo nella sua sfera d’azione, per i propri vantaggi, per "nutrire" il proprio ego, disinteressandosi delle conseguenze. Sino a quando, con il venire a galla delle sue menzogne e della verità, ha reagito con la stessa violenza insita nella manipolazione psicologica adottata sino a quel momento: ha ucciso una donna, Giulia, un essere umano, deumanizzandola; vedendo in lei e nel figlio che aspettava "solo" un ostacolo frapposto al raggiungimento dei propri interessi. "Non si comincia a essere assassini il giorno in cui si compie il delitto, qualcosa c’è già dietro. Sono certo che se avessi modo di parlare con le ex di un giovane killer, troverei spunti di aggressività in tante altre storie” (Paolo Crepet, intervista su Quotidiano.net).
Ucciso nella sua abitazione a Fabriano, la convivente nega ogni addebito
Durante l'interrogatorio di garanzia che si è tenuto ieri nel carcere di Pesaro, Alessandra Galea, la donna di 49 anni accusata dell'omicidio del 63enne di Fabriano Fausto Baldoni, alla presenza del suo legale ha negato ogni addebito, dichiarando: "Ho dovuto respingerlo e non l'ho mai colpito". La versione che la donna avrebbe dato al pm di turno poche ore dopo il rinvenimento del cadavere, riconfermata ieri al Gip, è quella della reazione ad un approccio sessuale non gradito. La mattina di sabato, sempre secondo la ricostruzione della difesa, la 49enne avrebbe reagito alle avances di Baldoni, spingendolo via da sé per allontanarlo; sarebbe quindi uscita di casa subito dopo per andare dai figli e vi avrebbe fatto rientro la sera, senza essersi resa conto che Baldoni fosse stato ferito e tantomeno fosse morto. Il Gip nel pomeriggio di ieri, a scioglimento della riserva, dopo aver ascoltato durante l'interrogatorio la ricostruzione della donna, ha disposto per Galea la misura cautelare del carcere per il rischio di reiterazione del reato; l'accusa resta quella di omicidio volontario aggravato dalla coabitazione. Si attendono nelle prossime ore i risultati ufficiali dell' autopsia sulla vittima che, per gli inquirenti, sarebbe stata colpita alla testa e al volto con una lampada da camera.
Fabriano, omicidio Baldoni: “Fausto temeva per la sua vita”
Fausto Baldoni, l’uomo di 60anni assassinato a Fabriano nella sua abitazione dalla compagna 49enne Alessandra Galea, nata a Jesi ma residente a Perugia “temeva per la sua vita tanto che da casa aveva fatto sparire anche tutti i coltelli”; questo è quanto dichiarato dai familiari di lui che, proseguono,“temeva di essere avvelenato e spesso si chiudeva in una stanza se in casa c'era anche lei". La compagna, che in un primo momento aveva negato ogni addebito, ha ammesso di aver colpito l’uomo con una lampada in testa sabato sera, ma avrebbe aggiunto di averlo fatto solo per difendersi. "Non c'era nessuna intenzione di ucciderlo", ha detto il legale della donna. Fausto, racconta invece la sorella Rita, viveva nell’angoscia e nella paura, pur cercando, per la mitezza che lo caratterizzava, di non esternare tali stati d’animo. La coabitazione con la Galea durava da due anni, se pur Fausto la conoscesse da quasi 30 anni; le litigate si erano fatte sempre più frequenti,come hanno testimoniato anche i vicini che sentivano spesso le urla, soprattutto di lei, provenire dalla loro casa. All'origine sembra ci fossero motivi economici. Il tragico epilogo sabato mattina, quando l’agente di commercio è crollato sotto dei colpi inferti dalla donna con una lampada, fortissimi, tanto da procurargli una frattura del cranio. Tra poco, alle ore 10, si terrà l'udienza di convalida d'arresto per la Galea nel carcere di Pesaro dove la donna è reclusa da sabato, in stato di fermo per omicidio volontario aggravato dalla coabitazione, mentre a Torrette si svolgerà l’autopsia sul corpo della vittima. Le indagini proseguono per accertare l'esatta dinamica dei fatti e il movente. (Foto Ansa)
Omicidio Pamela, la mamma risponde a Oseghale: "Non paragonare il tuo dolore al mio"
"È disumano e terrificante tutto quello che tu e i tuoi amici avete fatto a mia figlia. È disumano il fatto che tu ancora non sei veramente pentito. Adesso parlo io con te". Con queste parole inizia la lettera inoltrata ad Adnkronos da Alessandra Verni, la mamma di Pamela Mastropietro, in risposta a quella scritta nei giorni scorsi alla stessa agenzia di stampa da Innocent Oseghale, in carcere per aver stuprato, ucciso e fatto a pezzi il corpo di Pamela il 30 gennaio di cinque anni fa. La signora Verni ha pubblicato anche in un post sul suo profilo Facebook la lettera integrale. Infinito dolore e rabbia per le atrocità commesse su sua figlia, per le verità ancora non dette, per i possibili complici di Oseghale ancora non individuati e per quello che ancora non è totalmente emerso di questa terribile vicenda (leggi qui). Un urlo di dolore quello di Alessandra Verni, una madre che ha visto il corpo straziato della propria figlia, fatto a pezzi dall’uomo che aveva scritto "Con la madre sto condividendo lo stesso dolore, anche io ho perso i miei figli". La mamma di Pamela, incrollabile nella fede come lei stessa anche in questa lettera ha ricordato rivolgendosi ad Oseghale: "Sai, io posso dirti che la fede che ho per Dio mi sta aiutando a sopportare questo dolore immane che tu hai provocato. Tu non sai neanche cosa significhi portare un fardello così e affidarsi a Dio. Tu non immagini le lacrime versate, il dolore forte al cuore come fossero tante pugnalate. Tu non immagini la voglia di riabbracciare quel corpo che tu hai stuprato, ucciso, scuoiato, fatto a pezzi accuratamente, tolti degli organi. Perchè tutto questo? Perchè? Poi l’avete lavata con la candeggina, messa in due trolley e lasciata sul ciglio di una strada!Perchè? Perchè?" Prosegue: "Non ti permettere di paragonare il mio dolore, che tu hai causato, con il tuo". Sappi che se un giorno si dovessero presentare alla mia porta i tuoi figli io li abbraccerò, perchè anche a loro tu hai distrutto il cuore". "Tu dici e scrivi" aggiunge riportando le parole di Oseghale : "Oggi in carcere lavoro sette ore al giorno dal lunedì al venerdì, ho fatto un corso di alfabetizzazione, faccio molta attività fisica, ascolto musica, guardo la tv…". Risponde: "Ho sempre immaginato come te la potevi passare in carcere e, da come scrivi, mi sembra bene". "Io penso ogni secondo di ogni giorno a mia figlia, a quello che ha passato e che le hai fatto passare, penso a quei momenti in quella casa, tu li sapresti raccontare meglio se solo dicessi la verità. Penso alla paura che le avrai fatto provare, al dolore, alle sue grida soffocate dalla musica alta che avevi messo, alle sue lacrime mentre la trattenevate per violentarla. Sto male nell’immaginare tutto quello che ha passato mia figlia. Tu non immagini neanche cosa provo io".
Omicidio Renata Rapposelli, condanne definitive per l'ex marito e il figlio
Ieri la Cassazione ha reso definitive le condanne nei confronti dell' ex marito di Renata Rapposelli, Giuseppe Santoleri e del figlio Simone, accusati dell'omicidio della pittrice 64enne originaria di Chieti, ma da anni residente ad Ancona, avvenuto nel 2017. Renata Rapposelli era scomparsa nell'ottobre del 2017 da Giulianova; si era recata nell'abitazione dell' ex marito e del figlio che le avevano richiesto un incontro, con il falso pretesto di gravi problemi di salute di Simone, e da lì si erano perse le sue tracce. Il corpo senza vita della donna venne ritrovato un mese dopo a Tolentino, lungo l'argine del fiume Chienti. I sospetti caddero sin dall'inizio sull'ex marito ed il figlio di lei. (leggi qui) I giudici hanno accertato che Simone Santoleri, di indole violenta, "animato da cupo rancore" e che nutriva un "mai sopito disprezzo per la figura materna", fu l'autore materiale del reato. Il giorno in cui si incontrarono nell'abitazione di Giulianova, scoppiò un'accesa discussione per motivi economici, al culmine della quale il figlio uccise la madre, strangolandola a mani nude. Il padre, presente durante l'omicidio, lo aiutò a disfarsi del cadavere, gettandolo lungo la scarpata del fiume Chienti. I giudici della Suprema Corte ieri hanno confermato la condanna a 27 anni per Simone Santoleri, e a 18 per l'ex marito Giuseppe, dichiarando inammissibile il ricorso presentato dall’ex marito della pittrice e rigettando quello del figlio. Il legale di Simone, avvocato Cristiana Valentini, appresa la sentenza definitiva ha dichiarato al Tgr Abruzzo che chiederà la revisione del processo: "La base investigativa del processo è insufficiente e priva del necessario supporto della scienza, da sette mesi raccolgo nuove e schiaccianti prove sull'innocenza di Simone col sostegno di quattro docenti universitari. Di certo non finisce qui". L'avvocato Mariano Cataldo, che insieme a Federica Di Nicola assiste Giuseppe Santoleri, ha dal canto suo fatto sapere che si rivolgerà alla Corte Europea "perché il mio assistito non c’entra" e comunque, vista l’età e le condizioni di salute dell’ex marito della vittima chiederà per lui gli arresti domiciliari.
"Il Vaticano è stato fin troppo paziente": minacce a Pietro Orlandi in una lettera anonima
Martedì 25 aprile è stata pubblicata da Pietro Orlandi su Facebook una lettera scritta a mano, fatta pervenire all'indirizzo di sua madre che l'ha trovata nella sua cassetta delle lettere in Vaticano. Nel condividerne la foto, il fratello di Emanuela Orlandi ha scritto queste parole."Oggi nella cassetta della posta di mia madre in Vaticano è stata lasciata a mano questa lettera in una busta - si legge nel post -. La stupidità di chi l’ha lasciata e presumo scritta è che voleva far credere che fosse stata spedita da altra città, quindi fuori dal Vaticano, perché si è anche preoccupato di mettere un francobollo ma non c’è nessun timbro, quindi...Peccato lascia solo il nome Luciano Dei (sembra, ma probabilmente falso) e nessun contatto". "Questa è la conseguenza di chi ha voluto giocare a fare il giornalista. Mi si può offendere come vogliono, non mi interessa, ma leggere 'll Vaticano è stato anche troppo paziente..." oppure "dovrai rispondere a Dio delle tue cattiverie"...beh", aggiunge Orlandi. Tutti certamente conoscono la storia di Emanuela Orlandi, della sua scomparsa avvenuta oramai 40 anni fa, e la lotta del fratello Pietro, che da allora, insieme alla sua famiglia, ha fatto della ricerca della verità sul caso di sua sorella una ragione di vita. La lettera accusa Pietro Orlandi di falsità e di aver abusato della "pazienza del Vaticano". Una lettera recapitata ad una madre, a proposito di "pazienza", a cui è stata portatata via una figlia, cittadina vaticana, e che da quarant'anni attende di sapere "perchè" e cosa sia successo. Una madre e un fratello che da 40 anni chiedevano e attendevano risposte. L’indignazione espressa nella lettera riguarda quanto riferito de relato da Pietro su Karol Wojtyla nelle ultime interviste. Più volte Pietro, ufficialmente, aveva ribadito che le sue parole non contenevano un'accusa nei confronti di Wojtyla. Le parole, riportate da molti media fuori contesto, se contestualizzate sono chiaramente da ricondurre ad una narrazione svolta durante l'intervista a DiMartedi su La7 . In particolare Pietro aveva raccontato di come, in sede di audizione con il Promotore di Giustizia Diddi, tra le altre cose avesse invitato il pg a fare luce sulle frasi oggi "incriminate", riferite a Pietro Orlandi da soggetti dell'ambiente Vaticano (leggi qui). Moltissimi i commenti e le reazioni degli utenti al post. Molti i credenti tra di loro, la maggior parte schierata a difesa di Pietro, se pur non manca chi lo ha apertamente contestato.
Melania Rea, 12 anni dall’omicidio: “Il tuo carnefice tra qualche anno sarà libero, questa è la giustizia"
“Sono trascorsi 12 anni dalla tua scomparsa, 12 anni in cui il dolore dentro il nostro cuore non diminuisce mai. In questo giorno la mente ripercorre quei momenti dalla scomparsa al ritrovamento. Momenti di speranza che immediatamente vennero sopraffatti da momenti di disperazione". "A te purtroppo non è concesso di ritornare tra di noi, dalla tua bimba (oggi una bellissima ragazza), mentre al tuo carnefice viene data questa possibilità e tra qualche anno sarà libero perché qualcuno decise che non ci fosse crudeltà nelle 35 coltellate ricevute. Questa è la giustizia. Spero in una giustizia divina". Queste le toccanti le parole che lo zio Gennaro ha rivolto a Melania Rea, su Facebook. Un messaggio che parla di una “ingiusta giustizia”, e insieme di un dolore indelebile. Quel dolore che, dodici anni dopo, è ancora vivo per la famiglia di Melania Rea, che ha sempre vissuto questo atroce strazio in maniera composta, prendendosi cura della figlia Vittoria. Melania venne ritrovata senza vita tre giorni dopo la denuncia di scomparsa del 18 aprile 2011, fatta proprio dal marito, Salvatore Parolisi,: 35 coltellate, nessuna di tali lesioni era stata mortale. La morte era sopraggiunta a causa di anemia emorragica acuta: Melania è morta per dissanguamento, è stata lasciata a terra ancora agonizzante. Salvatore Parolisi, per la giustizia italiana è l’assassino di Melania Rea, condannato a 20 anni di carcere con sentenza definitiva: la riduzione della pena a 20 anni, dopo che nel primo processo d'appello, a L'Aquila, l'imputato era stato condannato a 30 anni, fu dovuta al pronunciamento della Cassazione che, nel confermare la colpevolezza dell'imputato Parolisi, aveva però escluso l'aggravante della crudeltà. Parolisi non ha mai confessato il delitto, quindi non ha mai manifestato una qualsiasi forma di pentimento, nè la necessità di ottenere il perdono: perdono della famiglia di Melania e della figlia sua e di Melania, privata per sempre dell’affetto materno e di una vita insieme a lei. Negli ultimi anni sono circolate sempre più spesso voci che parlavano di uscite dal carcere per permessi premio connessi alla buona condotta tenuta in carcere da Parolisi. Permessi in effetti previsti dalla legge, ma di cui non si ha certezza, come spiega il fratello di Melania. “Purtroppo quella stessa legge che prevede tanti diritti, a noi non consente di sapere nulla su di lui. Non credo che quando uscirà dal carcere verrà a cercare sua figlia perché se ci avesse tenuto a lei, noi adesso non staremmo neanche parlando e Melania sarebbe ancora viva”.
Cocaina a domicilio ordinata tramite call center: 71 indagati
Un call center attraverso il quale veniva ordinata la cocaina che da Marcianise (Caserta) arrivava fino a Milano, gestito da appartenenti al clan camorristico Belforte: è quanto emerso nell’ambito di un’indagine della direzione distrettuale Antimafia di Napoli. Ieri mattina, i militari della Stazione carabinieri di Marcianise hanno dato esecuzione ad un’ordinanza cautelare, emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Napoli, su richiesta della locale direzione distrettuale Antimafia, nei confronti di 28 indagati: 16 sono finiti in carcere, 7 agli arresti domiciliari, altri 5 sottoposti all’obbligo di presentazione alla p.g; sono 71 in totale le persone indagate. Lo spaccio su Milano fruttava al gruppo, che poteva contare su più di 2500 clienti, oltre 100 mila euro al mese. Il sodalizio criminale, operante in Lombardia e facente capo al 42enne boss di Marcianise Giovanni Buonanno, si era organizzato con un vero e proprio call center. Come accertato dagli inquirenti, i “centralinisti”, dotati di cellulari e carte telefoniche intestate a soggetti fittizi, ricevevano le prenotazioni per la droga e l’ordine veniva girato ai pusher per la consegna al domicilio dei clienti tramite un linguaggio in codice via messaggi Whatsapp. Nel corso delle indagini, i carabinieri hanno anche arrestato in flagranza a Milano diversi spacciatori.
Pietro Orlandi replica su Facebook alle accuse: "Sono impazziti, cos'è questo gioco sporco?"
Il caso di Emanuela Orlandi, scomparsa nel nulla il 22 giugno 1983, sta sollevando forti polemiche a seguito dell'intervista rilascita da Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, alla trasmissione DiMartedì su La7 nella serata dell'11 aprile. In quell'occasione Orlandi ha reso note alcune dichiarazioni ricevute nell'ambiente del Vaticano su Giovanni Paolo II e sulle sue presunte abitudini. In particolare durante la trasmissione aveva ripetuto testualmente la frase che si era sentito dire: "la sera se ne usciva con due suoi amici monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case". La stessa frase era stata da lui "consegnata" al promotore di giustizia Diddi, come raccontato in trasmissione, quando è stato chiamato per essere ascoltato e per verbalizzare le sue dichiarazioni sul caso della scomparsa della sorella, insieme a tutti i nomi ed i cognomi emersi nelle indagini condotte privatamente dalla famiglia Orlandi (leggi qui). Stando a quanto riferito dai media vaticani, questa mattina avrebbe avuto luogo un incontro "lampo" tra il Promotore di Giustizia del Vaticano Alessandro Diddi e Laura Sgrò, il legale della famiglia di Emanuela Orlandi. L'obiettivo della Santa Sede era quello di ottenere maggiori informazioni sulla fonte delle accuse a Giovanni Paolo II. Un articolo di Vatican News su tali fatti ha suscitato oggi la rabbia e l'indignazione di Pietro Orlandi: l'articolo è del seguente tenore: “Accuse a Wojtyla, Pietro Orlandi e l’avvocato Sgrò si rifiutano di fare nomi. Il fratello della ragazza scomparsa non ha indicato le fonti delle informazioni al Promotore di Giustizia. Ci si attendeva che lo facesse l’avvocato, che nei mesi scorsi aveva più volte lamentato di non essere stata ancora convocata: ma ha sorprendentemente scelto di opporre il segreto professionale” Vatican News ha proseguito: "Inaspettatamente e sorprendentemente" l'avvocato avrebbe deciso "di non collaborare con le indagini dopo che più volte e pubblicamente, negli scorsi mesi, aveva chiesto di poter essere ascoltata", rifiutandosi di "riferire da chi lei e Pietro Orlandi abbiano raccolto le voci sulle presunte abitudini di Papa Wojtyla”. La reazione di Pietro Orlandi è stata immediata, ed ha affidato il suo sfogo al suo profilo Facebook: “Ma sono impazziti? Ma cos’è questo gioco sporco? Ma chi si rifiuta di fare i nomi? Ma se gli abbiamo dato una lunga lista di nomi, ma perchè? Altro che strumentalizzare parole, qui in questo titolo c’è il peggio del peggio. Ma come, sono andato in primis a verbalizzare proprio per fare i nomi, tra gli altri, riguardo i famosi messaggi whatsapp affinchè fossero convocati e interrogati e ora hanno il coraggio di dire che non ho fatto nomi? Mi auguro solo sia un’incapacità nel riportare le notizie da parte del giornalista e non una dichiarazione del Promotore”. Proprio durante la trasmissione “DiMartedi’”, Orlandi nel fare riferimento alle frasi a lui riportate da persone dell'ambiente Vaticano su Papa Wojtyla, aveva precisato che non stava muovendo e non aveva mosso accuse nei confronti di Giovanni Paolo II, (diversamente da quanto alcuni organi di stampa hanno "forzatamente" sostenuto all'indomani della sua intervista), ma aveva chiesto al pg Diddi di fare luce su tali gravissimi fatti e su tali dichiarazioni ricevute: “Ho chiesto di indagare e Diddi (il promotore di giustizia vaticano) mi ha risposto non possiamo escludere di indagare anche se c’è il nome di Giovanni Paolo II; noi dobbiamo indagare su tutto, Papa Francesco mi ha chiesto di indagare senza fare un minimo di sconto a nessuno”. Anche Sgrò ha replicato all'articolo del Vatican News: "Pietro Orlandi, è stato ascoltato per ben 8 ore I'11 aprile dal Promotore di Giustizia, Alessandro Diddi, al quale ha presentato una corposa memoria corredata da un elenco di 28 persone, chiedendo motivatamente che siano presto ascoltate". Ed ancora: "Per quanto riguarda, invece, una mia personale audizione come persona informata sui fatti, essa è evidentemente incompatibile con la mia posizione di difensore della famiglia Orlandi e dell'attività in favore della ricerca di Emanuela che sto svolgendo. Questo è quello che ho pacificamente rappresentato, come avevo già fatto telefonicamente e via mail, al Promotore di Giustizia e a tutti i presenti". foto Ansa
In carcere per l'omicidio della moglie ex medico della Virtus pallacanestro Bologna
Giampaolo Amato, ex medico della Virtus pallacanestro Bologna , oftalmico e specializzato in medicina sportiva, è entrato sabato scorso in carcere, due anni dopo la morte della moglie Isabella Linsalata, ginecologa 62enne, avvenuta il 31 ottobre 2021. L' uomo, 64 anni, e' accusato di avere ucciso la moglie somministrandole benzodiazepine e un anestetico ospedaliero. "Isabella Linsalata era una donna profondamente e ingenuamente innamorata del marito e anche il suo benessere emotivo dell’ultimo periodo è dovuto proprio al riavvicinamento del primo, che le fa evidentemente sperare di potersi lasciare definitivamente alle spalle il recente passato così carico di dolore". Con queste parole contenute nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, il giudice per le indagini preliminari Claudio Paris ha delineato l' ambito in cui si è consumato il delitto: Isabella Linsalata sarebbe stata uccisa, secondo l' accusa, perché il suo amore era diventato un problema: il marito voleva vivere indisturbato con l' amante e per questo avrebbe premeditato nei dettagli l' omicidio della moglie. Per il gip Amato era pericoloso, con il "desiderio irrefrenabile" di vivere la sua storia extraconiugale con una donna più giovane, conosciuta nel 2018. Secondo gli inquirenti, Isabella sapeva di essere drogata da tempo con dei tranquillanti, se pur non supponeva che il marito volesse ucciderla; taceva per non allarmare i figli e per preservare in loro la figura paterna.“Non le ho dato nulla, mia moglie assumeva quei farmaci da sola” si difende Amato continuando a professarsi innocente. Non aveva mai denunciato l'accaduto Isabella, ma aveva confessato tutto alla sorella e alle amiche, che hanno fornito agli inquirenti le prove relative a tale circostanza. Tra queste una bottiglia di vino che la donna aveva portato a cena dalla sorella nel 2019 ed il sapore era risultato particolarmente amaro: le analisi hanno dimostrato che la stessa era contaminata.
Pietro Orlandi sentito in Vaticano: "Ho fatto nomi e depositato chat"
"Al promotore di giustizia del Vaticano ho consegnato le chat tra due cellulari del Vaticano e ho fatto anche i nomi”. Queste le parole di Pietro Orlandi alla trasmissione DiMartedi su La7, parlando dell'incontro con il pg vaticano Alessandro Diddi su uno dei maggiori misteri della storia italiana e vaticana: la sparizione della sorella Emanuela Orlandi avvenuta ormai 40 anni fa. Da troppo tempo Pietro Orlandi combatteva una battaglia perché il Vaticano aprisse un'indagine sul caso di sua sorella. Finalmente, tre mesi fa è stato ufficialmente aperto un fascicolo sul caso, e nei giorni scorsi il Vaticano ha sentito il fratello della quindicenne, per 8 lunghe ore. "Lo stesso Diddi mi ha detto: ‘Io ho avuto mandato dal segretario e da papa Francesco di fare chiarezza al 100%, di indagare a 360 gradi e non fare sconti a nessuno, dalla base al vertice'" ha dichiarato Pietro Orlandi, aggiungendo "e quello per me già è una cosa positiva. Io poi ho potuto verbalizzare nomi cognomi di tutte le indagini fatte privatamente e lui mi ha assicurato che le indagini andranno avanti sino alla fine, anche perché sono cominciate da parecchio tempo". Pietro Orlandi, da sempre convinto in base alle prove in suo possesso, ed oggi ancor più di prima, che "ci siano delle responsabilità interne al Vaticano" ha ribadito anche al promotore di giustizia Diddi "io sono convinto che Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco siano a conoscenza di quello che è avvenuto e forse c'è stato un cambiamento nella volontà e hanno deciso magari di fare chiarezza". Quella chiarezza che Orlandi chiede instancabilmente da decenni. A DiMartedì Orlandi ha riconfermato i suoi sospetti sulla pedofilia in Vaticano, esternati al pg Diddi chiedendogli a gran voce di verificare alcune gravi circostanze che coinvolgerebbero dei cardinali e di cui, nell'ambiente Vaticano, non si farebbe mistero. Orlandi ha ripetuto quanto già detto nella precedente puntata della trasmissione di Giovanni Floris, lo scorso 4 aprile: "Penso che una delle possibilità è che Emanuela possa aver magari anche subito un abuso, ma che quell'abuso sia stato organizzato. È stata portata da qualcuno per creare l'oggetto del ricatto e siccome il Vaticano da quarant'anni fa di tutto per evitare che possa uscire la verità...".
Chiesta condanna all’ergastolo per due omicidi: l’imputato, pericoloso boss mafioso evaso dal carcere
Proprio ieri, giornata nazionale della memoria delle vittime innocenti di mafia, si è celebrata l’udienza del processo “Omnia Nostra”, sulla mafia garganica, instaurato all’esito del blitz dei carabinieri del dicembre 2021, che portò a 32 arresti e alla richiesta da parte della DDA del rinvio a giudizio di 45 imputati accusati a vario titolo di 57 imputazioni: al centro del processo ci sono i due omicidi e un tentato omicidio. Davanti al gup di Bari dove si sta svolgendo il procedimento con rito abbreviato ad alcuni degli imputati, mentre altri hanno scelto il rito ordinario, ieri i pm della Dda hanno chiesto l'ergastolo per Marco Raduano, per l’omicidio di Giuseppe Silvestri, risalente al marzo 2017, per essere stato il mandante dell’omicidio di Omar Trotta ucciso il 27 luglio 2017 in un ristorante di Vieste, e per aver partecipato al tentato omicidio di Giovanni Caterino che scampò alla morte il 18 febbraio 2018. Fatto sta che Marco Raduano, boss di Vieste di elevata pericolosità, il 24 febbraio è riuscito a fuggire dal carcere di massima sicurezza di Nuoro, dove sono rinchiusi diversi terroristi e mafiosi. L’uomo si trovava in carcere con tre condanne definitive che avrebbe finito di scontare nel 2046; poche settimane prima dell’evasione aveva già ricevuto una ulteriore condanna definitiva a 19 anni in via definitiva per narcotraffico aggravato dalla mafiosità. Raduano è tuttora ricercato in Italia e all'estero: secondo quanto testimoniato dai video di sorveglianza, si è calato con le lenzuola da un muro perimetrale del carcere per poi fuggire correndo e sparendo dalla vista delle telecamere. Per la fuga sono state aperte due inchieste, una da parte del Dap (Dipartiento dell’Amministrazione penitenziaria) e una da parte della Procura. Fuggire da un carcere in regime di massima sicurezza, è operazione tutt'altro che facilmente realizzabile. Nella teoria. Raduano può contare su una fitta rete criminale di fiancheggiatori all’esterno del carcere. L’ex comandante Dirigente Aggiunto di Polizia Penitenziaria Manuela Cojana pare avesse più volte denunciato le numerose criticità all’interno del carcere nuorese, che però sembra fossero rimaste lettera morta; pare avesse denunciato di aver sequestrato in 3 anni 35 cellulari ai detenuti ed avesse evidenziato che il sistema anti scavalcamento (da dove è fuggito Raduano) era vecchio ed il relativo allarme non funzionava. Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato della Polizia Penitenziaria), aveva così commentato la notizia: "Quel che è successo è di inaudita gravità ed è la conseguenza dello scellerato smantellamento delle politiche di sicurezza delle carceri. Il sistema penitenziario, per adulti e minori, si sta sgretolando ogni giorno di più. Il Sappe denuncia da tempo che la sicurezza interna delle carceri è stata annientata da provvedimenti scellerati come la vigilanza dinamica e il regime aperto, l'aver tolto le sentinelle della polizia penitenziaria di sorveglianza dalle mura di cinta delle carceri, la mancanza in organico di poliziotti penitenziari, il mancato finanziamento per i servizi antintrusione e anti-scavalcamento".
Mafia nigeriana, latitante Jeff Joy estradata in Italia. Nel 2006/2007 le Indagini della Squadra Mobile di Ancona
È stata estradata dopo una lunga latitanza e atterrata ieri mattina all'aeroporto di Roma Ciampino Jeff Joy, 48 anni, esponente di spicco della mafia nigeriana, una tra le poche donne inserite nell’elenco della polizia italiana dei 100 latitanti più pericolosi. Indagini svolte dal 2006 al 2007 dalla Squadra Mobile di Ancona, avevano messo in luce il ruolo primario di Jeff Joy nel business criminale della prostituzione: avrebbe favorito l'arrivo in Italia, Olanda e Spagna, di ragazze nigeriane che venivano costrette a prostituirsi con terribili violenze fisiche e minacce di ogni tipo, rivolte anche ai familiari rimasti in patria. Ricercata dal 2010 a livello internazionale con "red notice" per per i reati di associazione a delinquere, riduzione in schiavitù, tratta di persone, sfruttamento della prostituzione, condannata in via definitiva alla pena di 13 anni, il 4 giugno 2022 la latitante era stata arrestata in Nigeria dai locali servizi di intelligence. L’estradizione, giunta grazie all'operazione congiunta tra la polizia italiana e l'intelligence nigeriana, rappresenta, scrive la Polizia in un comunicato, "un unicum nei rapporti fra l'Italia e la Nigeria essendo il primo caso pilota nell'attuazione del Trattato entrato in vigore nel 2020". La mafia nigeriana è la pericolosissima organizzazione che opera a livello internazionale, considerata una delle più potenti al mondo. Molto radicata anche in Italia dove ormai ha stabilito sodalizi con tutte le mafie locali, trae i suoi illeciti profitti principalmente dal traffico di stupefacenti, prostituzione, traffico di esseri e organi umani, sfruttamento del lavoro. Le cosche nigeriane sono radicate in almeno otto regioni italiane: Lazio, Campania, Calabria, Piemonte, Puglia, Emilia Romagna, Sicilia e Veneto; pentiti ed operazioni di polizia hanno rivelato che anche la città di Macerata è entrata a far parte di questo elenco. In tal senso si è espressa la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) nella relazione afferente al secondo semestre 2021 che, parlando della "criminalità organizzata nigeriana" ha fatto riferimento alla crudele uccisione a Macerata di Pamela Mastropietro (leggi qui).
La nuova truffa del pacco e dei falsi corrieri: a Caldarola l'incontro "Impariamo a difenderci"
Si terrà oggi pomeriggio, alle 16.30 nella Sala Tonelli in via Aldo Moro a Caldarola, l'incontro a tema "Impariamo a difenderci". Il personale della Questura darà indicazioni e suggerimenti alla cittadinanza, al fine di prevenire raggiri e truffe. L'ultima truffa "del pacco" martedì scorso, nei confronti di una signora di 81 anni di Macerata: intorno alle 14, un uomo tra i 40 e i 50 anni, ben vestito si è presentato a casa sua, dicendole che doveva consegnare un pacco per suo figlio. La donna l'ha lasciato entrare ed una volta nell'abitazione, un complice dell'uomo l'ha chiamata al telefono, spacciandosi per il figlio e giustificando la voce alterata dicendo di essere raffreddato. "Mamma è un pacco importante, dagli il bancomat con il pin che poi te lo riporto io" . La truffa è stata scoperta quando la signora, dopo qualche ora, ha chiamato il figlio per sapere quando le avrebbe riportato il bancomat. I malviventi erano già riusciti a prelevare 600 euro ad uno sportello di via Cavour. La strategia di prevenzione passa necessariamente per un'informazione chiara e precisa, rivolta non solo agli anziani; le vittime di truffe e raggiri sono spesso persone sole che subiscono, oltre al danno economico, un grave trauma dal punto di vista psicologico. Per questo in un'ottica preventiva, è importante conoscere le strategie che vengono messe in atto dai malviventi, al fine di avere gli strumenti per difendersi di fronte a tali pericoli.