di Maurizio Lombardi
EDITORIALE - Il 2021? Che la politica eserciti il primato sulla scienza
Ci sta per lasciare un 2020 da dimenti-ricordare. Ne scrivo in anticipo rispetto ai tempi, e lo faccio solo per tutelarmi da un eventuale lockdown esteso ai commiati, oltre che ai congiunti di secondo grado. Il dimenticare sviluppa un processo mentale simile (e contrario) al ricordare, e non è un processo collettivo, bensì molto individuale: non tutti noi, infatti, vorremmo dimenticare o ricordare le stesse cose e allo stesso istante. Ognuno ricordi o dimentichi ciò che vuole di questo 2020, trovando solo la forza per ricominciare un 2021 diverso, migliore, altro rispetto a ciò che, con grande fatica, tentiamo tutti - qui sì all’unanimità - di gettarci dietro a spalle molto indebolite. Provo a fare un esercizio semplice di separazione tra una cosa da gettare nel cassonetto nero del dimenticatoio e una da custodire in una teca illuminata, costruita per trarre dalla sola vista la propulsione utile ad affrontare le orbite incerte del futuro. Cosa gettare? Il primato della tecnocrazia. Virologi che fino a ieri mendicavano soldi per ricerche su malattie rare, adesso sono star di programmi di intrattenimento per esibire sullo sfondo l’ultimo instant book dal titolo ammiccante “Tutto sul Covid”. Prima ti correvano dietro col piattino delle elemosine in mano, oggi li cerchi per intervistarli, si fanno negare ma ti fanno contattare dalla PR di turno che ti snocciola tariffe in base al minutaggio della loro presenza in video o alle battute da scrivere nell’intervista (spazi inclusi). “Scienziati” che fanno capo all’Organizzazione Mondiale della Sanità, che prima dicevano una cosa o poi un’altra ancora, meno uguale e più contraria: se il loro pensiero si evolvesse alla stessa velocità del Covid, ne saremmo volentieri ben contagiati fino a morirne. Il 2020, quindi, ci ha insegnato che fidarsi della scienza come maestra di vita, o meglio di governo della nostra di vita, è come credere sulla parola alla terra piatta o affidarci all’umore, all’egocentrismo, all’io e solo io e nessuno più di me, di chi sbarella in TV sulle chiusure dei bar e ristoranti considerati veicoli di contagio, sulle scuole a rotelle e sul lavoro mai stato così “a distanza” dalle reali esigenze dei cittadini. Da ricordare, invece, il ruolo della politica, superiore a tutto e a tutti. Questo ci è davvero mancato, a volte. Lo abbiamo visto: quando la politica è poco trasparente, incerta sulle scelte, contraddittoria, lenta, suddita dei Commissari boiardi di Stato e succube degli pseudo-scienziati dell’ultima ora, ne abbiamo pagato tutti le conseguenze, e non solo economiche. Mai come in questo momento abbiamo bisogno della politica come indirizzo, governo, capacità di scelta: abbiamo bisogno di autorità. Scrolliamoci di dosso questa sindrome da ventennio fascista per approdare ad una politica autoritaria nel senso di adottare scelte drastiche, univoche e chiare per migliorare la vita delle persone. L’autorevolezza verrà dopo, nessuna paura: la democrazia è molto resiliente, ma la maggior parte degli italiani ha bisogno del cane pastore per pascolare in sicurezza. Lo dobbiamo ai giovani, a cui la politica con la “p” minuscola - complice di corpi intermedi fermi all’800 come i “sindacati” e quei governi che hanno pompato una Pubblica Amministrazione monstre - ha scippato lavoro, pensioni, educazione di livello, opportunità per far emergere il proprio unico talento. Insomma: questa politica ha scippato il futuro di tutti noi, occupandosi solo di tutelare se stessa (autorefenzialità massima espressa plasticamente dai vitalizi) e dell’esistente sempre più fragile. L’auspicio è che la politica del 2021, a tutti i livelli, ma soprattutto a quelli che scontano il contatto più diretto con i cittadini (Regioni e Comuni), si riappropri del suo ruolo di indirizzo e scelte, mettendo all’angolo i tecnocrati e i manager delle buonuscite milionarie e dei bonus Covid. La festa è finita prima ancora di cominciare, soprattutto per chi non si convince che solo una politica libera da freni, lacci e pressing da lobbies può disegnare un futuro migliore per tutti noi. PS: per chi considera tutto ciò pura demagogia, continui pure a credere alle favole degli scienziati e ai DPCM ad oltranza, senza ascoltare il borbottio delle pance vuote di un popolo via via sempre più incazzato.
EDITORIALE - Che rivoluzionari questi maceratesi! Vincitori e vinti non deludano la voglia di cambiamento
Una battaglia vinta? Di più: una rivoluzione. Marche e Macerata al centro destra (non facciamo gli schizzinosi distinguendo Lega e centro destra, altrimenti questi ricominciano a bisticciare e si ritorna a votare a febbraio), il PD e molta parte della sua galassia frantumata, polverizzata, in ginocchio. Eserciti di candidati lasciano il terreno per ritornare alle proprie faccende, ma per chi resta “dentro” la politica è giunto il momento di fare un paio di conti, e questo vale sia per i vincitori che per i vinti. “Vae victis”, guai ai vinti, diremmo. Vero, ma solo se non facciano subito autocritica e non comprendano che dalle nostre parti siamo davvero entrati nell’era del “niente sarà più come prima”. Si parte dalla disfatta di Ancona. Maurizio Mangialardi ha poco da recriminare. Forse s’è troppo fidato dei guru della comunicazione che avevano contribuito alla vittoria di Bonaccini in Emilia Romagna, senza considerare che nelle Marche è meglio gustare una fumante porchetta nostrana che una piadina riscaldata. Le belle narrazioni su Sanità, infrastrutture e sulla ricostruzione post sisma, non potevano celare gli errori dei Governi precedenti, per quanto si potessero raccontare con un modernissimo quanto subdolo marketing politico, una tecnica che ha fatto poca breccia nel cuore solido e concreto dei marchigiani. Mangialardi ha coinvolto Sindaci, s’è speso in lungo e in largo, c’ha messo la faccia ed ha recuperato un gap notevole in partenza, frutto di errori ripetuti in serie dal PD, non ultimo quello di non ricandidare il Governatore uscente, il Professor Luca Ceriscioli, oggi unico vincitore morale della compagine di centro sinistra e che pertanto meriterebbe la Segreteria del partito come risarcimento per non aver avuto la possibilità del bis, una prassi che ha ripagato tutti gli altri Governatori italiani, da De Luca a Zaia, passando per Emiliano e Toti. Autocritica? Ancora poca, in realtà. Ci diranno che si riuniranno, che è troppo presto per analizzare con precisione il voto, che ci si deve rimboccare le maniche, e così via. Ma non se ne andranno. E allora ci ritorna ancora in mente la battuta di Nanni Moretti, il regista di “Ecce Bombo” che a Piazza Navona nel 2002 piena di “girotondini” tuonava contro l’Ulivo: “Con questa classe dirigente non vinceremo mai”. E via con il solito sport di dare la colpa agli altri, una moda diffusa, dalla Cina per Trump, alla pioggia per Mazzarri quando allenava l’Inter, alle mezze stagioni che non ci sono più. Accusare il Movimento Cinquestelle regionale di “narcisismo” - come ha detto lo stesso Mangialardi - per non aver stilato un accordo fotocopia del Governo Conte, è sembrato ai più un pò ingeneroso: primo perché, la somma dei due elettorati non sarebbe stata così “matematica”, e poi perché neanche questa mossa last minute avrebbe colmato i quasi 100mila voti di distanza dal neo Governatore Francesco Acquaroli. Perché, invece, non averci provato in tempo con il Professor Sauro Longhi, che forse avrebbe rassicurato i grillini e garantito un accordo più equilibrato con il PD? Per questo, più che narcisismo direi proprio “voto d’espressione”, quello del M5S, voto il cui risultato non può aver soddisfatto i pentastellati, che hanno registrato l’ennesima picchiata rispetto alle passate consultazioni elettorali. A proposito di narcisismo, parliamo del nostro Narciso, il maceratese Ricotta che, a capo della coalizione di centro sinistra, s’è fermato al 32% circa di consensi, spianando la strada alla storica vittoria di Sandro Parcaroli, l’outsider imprenditore, sognatore, persona perbene e chi-più-ne-ha-più-ne-metta, il quale in meno di due mesi ha squassato il panorama politico di una cittadina gattopardesca. Lo skyline politica della città capoluogo non sarà più lo stessa di prima: il cambiamento ha vinto. Non era facile: perché un conto che si abbia la voglia di cambiare, un altro è che si abbia il coraggio per cambiare, facendo davvero voltare pagina a ciò che si considera vecchio ma che ancora permane inossidabile e insostituibile. I cittadini hanno espresso la voglia di cambiare ed hanno quindi fatto il primo passo per una “nuova Macerata”. Ma attenzione: questa voglia non ha schieramento politico e va coltivata giorno dopo giorno. Perché, se il neo Sindaco è una figura nuova e la coalizione che guida governerà per la prima volta dopo 20 anni il Comune, anche tra i “vinti” abbiamo registrato una gran voglia di novità. Basti solo citare due nomi: Cicarè e Sigona. Il candidato Sindaco Alberto Cicarè ha sfiorato il 5% concentrandosi su green e sostenibilità, due tematiche che anche in altre compagini sono state premiate dai maceratesi e che, quindi, il neo eletto Sindaco non può non tenerne conto. L’altra novità riguarda il risultato di Macerata Rinnova, la lista a supporto di Ricotta più votata in assoluto e plasticamente rappresentata da Marco Sigona, che ha saputo offrire “a sinistra” l’espressione chiara di ciò che chiedevano i cittadini: discontinuità nell’essere rappresentati da persone lontane dai partiti e che abbiano maturato, attraverso la loro vita professionale, una profonda passione civile da condividere. Sarebbe un peccato davvero se questi elementi di novità, questi segni concreti di voglia di cambiamento, proveniente dall’elettorato di entrambi gli schieramenti, andassero dispersi solo perché hanno fallito solo nei numeri la loro prima competizione politica. Il campionato è lungo e ritirarsi dopo la prima giornata sarebbe davvero sciocco, perché la vera sfida ora è un’altra: essere all’altezza dell’esito rivoluzionario delle urne, dato che l’unica certezza per il futuro di Macerata e delle Marche è che si cambia sempre, e anche il cambiamento voluto oggi sarà da cambiare domani.
EDITORIALE - A Torrette di notte, più veloce l'ambulanza che l'elicottero: la follia della riforma Sanità di Ceriscioli
Incidente al calare del sole, allertata l’eliambulanza, direzione Ospedale regionale di Torrette: nessun problema, dal 16 di settembre c’è il volo notturno del 118, in pratica “come avere Torrette sotto casa”, come sottolineò il Governatore uscente Luca Ceriscioli, il Deus Ex Machina della riforma sanitaria targata PD che ha chiuso Ospedali pensando di sostituirli con tanti Icaro in volo. Ma a pochi giorni dai primi voli di notte ecco la sorpresa: è più veloce l’ambulanza su strada che l’elicottero in volo. Il paradosso è stato fatto notare sul suo profilo Facebook dal candidato di Fratelli d’Italia Francesco Baldelli, Vice Presidente nazionale dell’ANCI, già Sindaco di Pergola e che da sempre si è contraddistinto per le sue battaglie in difesa della Sanità Pubblica, in regione e soprattutto nella sua provincia, Pesaro Urbino. Difficile crederlo, ma in una recente riunione operativa dei tecnici del 118 regionale, si sono fatti due conti sui tempi di percorrenza, e si è concluso che i tempi di trasferimento di un paziente grave in volo notturno sono superiori rispetto a quelli tradizionali su strada con una normale ambulanza. La base operativa per i voli notturni del 118 è stata individuata a Fabriano, da dove si alzerebbero gli elicotteri con personale medico a bordo per raggiungere le altre elisuperfici attrezzate che, per la nostra provincia, attualmente sono quelle di Camerino, San Severino e Macerata. Ebbene, in base ai calcoli, il tempo impiegato per la pianificazione del volo, il decollo da Fabriano verso una delle tre elisuperfici attrezzate, la presa in carico del paziente sul mezzo, il volo verso l’Aeroporto di Falconara ed il trasferimento in ambulanza a Torrette, risulterebbe superiore rispetto ad un trasferimento diretto su strada direttamente dal luogo del soccorso. Da Camerino in elicottero ci si impiega 90 minuti contro gli 84 dell’ambulanza tradizionale, da San Severino 88 contro 71, e da Macerata 81 contro addirittura 52: e tutto ciò in condizioni meteo ottimali e senza considerare il tempo impiegato da una barella all’altra e il trasferimento del paziente dentro e fuori l’elicottero. Siamo di fronte all’ennesima follia della politica sulla Sanità Pubblica massacrata da un PD che ha saputo chiudere 13 Ospedali in regione, depotenziandone altrettanti, impoverendo altre strutture efficienti di servizi fondamentali specialmente nelle aree interne, avvantaggiando in ultima istanza la sanità privata. E poi, a poche ore dalla chiusura della campagna elettorale, la notizia degli sprechi su elisuperfici ed elicotteri attrezzati per il volo notturno più “lenti” di un’ambulanza e, soprattutto, che non potranno mai sostituire un vero Ospedale “sotto casa”. LEGGI ANCHE: LA REPLICA DELL'OSPEDALE RIUNITI DI ANCONA
EDITORIALE - Da Crippa alla Schlein: le stonature elettorali che ingrossano il partito degli indecisi e i “No Voto”
“S'ode a destra uno squillo di tromba; a sinistra risponde uno squillo: d'ambo i lati calpesto rimbomba da cavalli e da fanti il terren”. Mi scuserà il Manzoni se sono costretto a prendere in prestito le primissime strofe del Coro dell’Atto II del suo “Conte di Carmagnola”, ma desidero dare un tono aulico alle stonature che s’odono ad una manciata di giorni dalle elezioni, quelle che regaleranno ai maceratesi il prossimo Sindaco e ai marchigiani il Governatore delle Marche fino al 2025. Il terreno di battaglia è pieno zeppo di cavalli e fanti, ma s’odono squilli acutissimi di bizzarre “note” elettorali da parte di alcuni leader nazionali (o presunti tali) su cui vale la pena riflettere. “S’ode a destra uno squillo di tromba …” è quello del Vice Segretario della Lega, Andrea Crippa, il quale, ospite qualche giorno fa ad un incontro organizzato dal candidato Sindaco per il centro destra, ha dichiarato che in alcuni quartieri di Macerata sembra di essere in Nigeria, prendendosela poi con gli immigrati che vorrebbero imporci usi e costumi, nonché cibi e loro fedi religiose. D’accordo: i cibi etnici, pur essendo una specialità ricercatissima, effettivamente non piacciono a tutti. Va bene: oramai (purtroppo) Dio è morto un pò dappertutto, quindi imporcene uno nuovo sarebbe complicato, oltre che un sopruso bell’e buono (non so per chi: come ci siamo ridotti noi “occidentali” forse neanche il Dio più “tribale” del mondo ci vorrebbe). E infine: il linguaggio dell’esponente del partito di Salvini è più o meno in linea con il “già detto e sentito”, anche se è passato da “un voto in più alla Lega, un Albanese in meno” di qualche anno fa, al recentissimo “prima gli italiani”, salvo poi accorgersi che molti di quegli albanesi sono diventati cittadini italiani a tutti gli effetti, e quindi la declinazione è approdata a “prima i marchigiani, i veneti, ecc., cioè dalla cittadinanza alla residenza/domicilio. Quindi tutto normale? Non proprio, e una riflessione in più è d’obbligo. Perché, a proposito di cavalli che galoppano nel manzoniano terreno di battaglia, verrebbe da dire che il tema dell’immigrazione mixato a quello della sicurezza, è un vero cavallo di battaglia della Lega e non solo, ma come ogni cavallo bisogna saperlo montare meglio di quanto facciano molti parvenue della politica, scesi dal Nord in una città che ha poco a che vedere con Lagos. A Macerata, al contrario, ricordiamo le “lotte” storiche tra i quartieri fondatori della città, Cairoli e Fosse, i quartieri “rovinati” dalle strade troppo trafficate, come Santa Lucia, Santa Croce, le Vergini e Rione Pace, quelli nuovi e popolosi come le Frazioni spesso imbottigliate tra superstrade e centri commerciali, infine i quartieri nati come funghi e trainati dal baby boom degli anni Sessanta-Settanta, come Via Barilatti e Collevario. Di quartieri nigeriani, in realtà, non ne conosciamo qui a Macerata, e ci sarebbe piaciuto che qualcuno all’incontro fosse intervenuto per chiedere lumi su quella che possiamo considerare una infelice battuta, frutto di un cliché ben noto ai raduni leghisti, un pò meno a quelli maceratesi. “… a sinistra risponde uno squillo”, continua nel Carmagnola il Manzoni. E’ quello di Elly Schlein, recentemente ospite di Marche Coraggiose a Macerata, e che da quando è stata eletta Vice del Governatore dell’Emilia-Romagna Bonaccini è più in giro in Italia a fare campagna elettorale a sé stessa, che curarsi dei problemi della sua regione (è in corsa per un ruolo di spicco per l’oramai probabilissimo dopo-Zingaretti). La Schlein ci dice che dobbiamo investire più su una mobilità green (ma qualcuno le ha detto che su 28 autobus dell’APM, azienda del Comune, ben 27 sono a metano?), che dobbiamo sostenere la sanità pubblica (ma qualcuno le ha detto che il PD di Ceriscioli e Mangialardi ha chiuso nelle Marche 13 Ospedali e ne ha depotenziato altrettanti favorendo la sanità privata?), che dobbiamo puntare sul cicloturismo come fanno in Trentino (ma qualcuno le ha detto che in quella regione governa anche la Lega?), che dobbiamo frenare l’emorragia di giovani talenti (ma qualcuno le ha detto che questa regione perde 6mila giovani all’anno a causa delle rovinose politiche del lavoro delle sinistre?). E mi fermo qui, anche se la Schlein ne ha detta una che dovrebbe fare ancora di più riflettere, quando ha accusato Giorgia Meloni di voler relegare le donne al ruolo di casalinghe: ma se questo concetto l’avesse espresso un uomo, non sarebbe stato accusato di sessismo? E perché questo concetto può essere espresso solo da una donna “contro” un’altra donna, e solo da una donna di sinistra? Gli squilli stonati del duo Crippa-Schlein non hanno né indignato e né scaldato gli animi degli elettori maceratesi, che conoscono bene i loro problemi e le loro risorse, sicuramente di più degli ospiti “stranieri”. “Chi son essi? - continua ancora Manzoni nel Carmagnola - Alle belle contrade qual ne venne straniero a far guerra, qual è quei che ha giurato la terra dove nacque far salva, o morir? D'una terra son tutti: un linguaggio parlan tutti”. Le “smarronate” dei presunti big di una politica lontanissima dal nostro di linguaggio, dovrebbero far riflettere i principali sfidanti, Parcaroli e Ricotta, a selezionare meglio i propri sostenitori “arringa-folle o, quanto meno, regalare loro una Tombola della città di Macerata realizzata da Roberto Cherubini per capire meglio dove si trovino a recitare le solite strofe stonate e avulse dal contesto locale.
EDITORIALE - Mangialardi si veste da mendicatore ambulante, ma il giovane fortunato Acquaroli sfonda il 50%
Impietosi i sondaggi di fine agosto Winpoll-Cise per Il Sole 24 Ore: il candidato del centro sinistra Maurizio Mangialardi ne esce con le ossa rotte e un distacco di circa 16 punti su Francesco Acquaroli, l’uomo su cui il centro destra compatto ha scommesso fin da subito e che oggi viaggia ben oltre il 50%. Terzo, a distanza siderale (9%), il candidato dei Cinque Stelle Gian Mario Mercorelli, il “duro e puro” che non ne vuol sentire di fare accordi col “Partito di Bibbiano” (cit. Di Maio). A meno di tre settimane dalle elezioni sarà difficile ribaltare il risultato già scritto in partenza, ma che nessuno pensava fosse di queste dimensioni. Eppure, non tutto è scontato, e poi, come direbbe il cantautore Bennato, i sondaggi “sono solo canzonette”, soprattutto per i perdenti e per chi ha paura di vincere. Con il centro destra che s’avvia a celebrare un successo storico in una roccaforte rossa e fare il bis dopo la vicina Umbria, l’altra Stalingrado italiana oggi in mano alla Lega, iniziano a circolare i distinguo dentro un PD regionale alle prese con una crisi di nervi e di consensi. La “remuntada pazzesca” del Segretario Dem Giovanni Gostoli, il suo urlo di battaglia da citazione calcistica sfoderato il 24 luglio scorso per arringare i 30 candidati PD, suona oggi come un fremito disperato di chi sapeva già di aver contratto la “sconfittite” acuta, fin dalla scelta di un candidato non all’altezza del suo predecessore. Basti guardare anche fuori regione: tutti i Governatori ri-candidati (Zaia, Toti e De Luca) riscuotono enormi consensi dai sondaggi e la scelta di non puntare su un Ceriscioli bis si sta rivelando un fantozziano autogol pazzesco. Ebbene sì,con Luca Ceriscioli il PD avrebbe avuto più chance di vittoria, come dimostrano, ultimi in ordine di pubblicazione, i sondaggi del più autorevole quotidiano economico italiano. Il giudizio sul suo operato in emergenza Covid è, infatti, risultato ai marchigiani molto efficace: l’88% dell’elettorato PD, il 52% di quello Cinque Stelle, il 51% di quello di Forza Italia e addirittura un quinto di quello di Lega e Fratelli d’Italia, ha promosso Ceriscioli per come ha saputo governare l’emergenza nella nostra regione, anche in contrasto con il Governo Conte. La domanda allora è legittima: perché non si è puntato sul secondo mandato di un candidato già vincente proprio contro lo stesso Acquaroli nel 2015 e, soprattutto, in forte ascesa di consensi? Forse perché c’era “troppo PD” e meno leadership da coalizione in Ceriscioli? Un sospetto ci era sorto quando l’incolpevole Mangialardi era stato gettato nella mischia come candidato alla regione, esordendo con una campagna di comunicazione senza il simbolo del suo partito di appartenenza, un “distanziamento” più emotivo che politico, peraltro già ribadito qualche giorno fa, quando ha tenuto a precisare di essere il candidato di una coalizione e non (solo) del PD. Una mossa che può produrre effetti estremamente dannosi per la strategia di una “remuntada” da trasformare oggi, sempre secondo i sondaggi, in “sconfitta onorevole”. Perché ora il candidato del centro sinistra dovrà “mendicare” quello che in gergo di una politica da primissima Repubblica si definisce “voto utile”, che, tradotto ai tempi del 2020, significa di non sprecarlo mettendo la “croce” sul simbolo dei Cinque Stelle. Mentre le truppe di Di Maio & C. resistono sul voto “d’espressione”, più che su quello di opportunità politica, Mangialardi raccoglie le ultime forze tentando anche di coinvolgere gli indecisi (che sono, secondo il sondaggio, al 22% del totale degli elettori) e soprattutto chi ha già deciso di non andare a votare (24%). Sfida difficile, se non impossibile, quando oramai l’estate agli sgoccioli, l’autunno nero alle porte ed un malcontento dilagante per le politiche del Governo PD-M5S, stanno lì a rappresentare ostacoli insormontabili per il Sindaco di Senigallia. Mangialardi, in sostanza, paga colpe di un partito che ha sbagliato la mossa di non ricandidare un Ceriscioli in grande spolvero di consensi, e soprattutto di una classe dirigente locale incapace di chiarire le sue posizioni su temi chiave, quali la ricostruzione post sisma (3 Commissari su 4 sono stati nominati dal PD e con esiti sotto gli occhi di tutti), le infrastrutture (l’ultima che ci ricordiamo dalle nostre parti è la Quadrilatero voluta e realizzata dal centro destra) e soprattutto la Sanità Pubblica, distrutta da una politica di chiusure di Ospedali (ben 13 nelle Marche) e depotenziamento di servizi alla salute in tutto il territorio regionale. Prova ne è che le stime sui consensi per il PD sono ancor più impietose del dato generale della coalizione di centro sinistra: il 35% di Ceriscioli nel 2015, con Mangialardi (e suo malgrado) scende al 22% nel 2020. E Acquaroli? Giorgia Meloni, reincarnazione pura del Napoleone vincente, ha scelto il suo Generale più fortunato, proprio in un momento in cui l’effetto della politica nazionale, con uno spostamento dell’asse dei consensi verso il centro destra, pesa moltissimo anche sulle scelte locali, e quindi anche nelle Marche. Lo stesso quotidiano economico non può fare a meno di sottolineare come il successo della coalizione FdI-Lega-FI-UDC sia attribuibile soprattutto al “profondo mutamento degli orientamenti politici degli elettori marchigiani”. Il “giovane fortunato” Acquaroli dovrà saper gestire bene questo vantaggio che emerge dai sondaggi, soffocando sul nascere “prove” di competizioni interne tra i suoi alleati, come ad esempio quella della Lega che, per voce del Commissario Riccardo Augusto Marchetti intervenuto recentemente a Fermo, già sembra aver messo in tasca l’Assessorato all’Agricoltura. Per vincere è necessario giocare, e la partita deve ancor iniziare: siamo solo al riscaldamento, mentre il fischio d’inizio è per il 20 settembre. Nel frattempo, le prossime mosse sono: per Mangialardi “voto utile al PD”, per Acquaroli (ai suoi alleati) “state buoni, se potete”. Appuntamento al prossimo sondaggio.
Ricotta vs Parcaroli: e che Macerata diventi una spa a cielo aperto
All’elettore maceratese non sarà sfuggito questo scontro tra le diverse visioni di benessere che i candidati Sindaco stanno lanciando sul web a suon di slogan. Cosa scegliere tra la ricottiana “Città per stare bene” e la parcaroliana “Macerata dove amerai vivere e lavorare” ? Trovare le differenze è difficile, ma ci sono eccome specie nella strategia di comunicazione. Narciso Ricotta, diciamolo apertamente, ha cambiato strategia di comunicazione da quando è sceso in campo l’outsider Parcaroli: è passato dagli slogan tipo “un campetto in ogni quartiere” a una visione di Macerata da Eden Tibetano, snocciolando classifiche sulla qualità della vita e scommettendo, nero su bianco, di riportare Macerata nella top ten delle città dove si vive meglio. Questo cambio di rotta non è casuale e fa del candidato Sindaco della coalizione di centro sinistra uno stratega coi fiocchi, degno del suo DNA democristiano. Perché - avrà pensato - è meglio confrontarsi con l’avversario sul proprio terreno, quello delle “visioni”, malattie tipiche di un imprenditore, che non su quello delle “promesse”, il vero cancro della politica. Ricotta ha radunato l’armata più fedele ed ha indossato le vesti di Napoleone per traslocare dall’angusto campetto di quartiere alle praterie dei sogni: non sarà sfuggito a molti, infatti, lo sfondo della bandiera francese sull’immagine del condottiero della nuova “rive gauche” maceratese. Essendo, dunque, Parcaroli un visionario, un Messia giunto a spartire le acque per farci approdare all’altra riva (quella destra), ha ben fatto Ricotta ad impossessarsi dello slogan ammiccante al benessere. Lo “starbene” ricottiano, in verità, Parcaroli lo aveva anticipato con gli slogan sulla città “dove si possa trovare lavoro e si ami lavorare”, una consecutio temporum da brividi che ha fatto sobbalzare dalla sedia i puristi facebookiani, sempre pronti a sottolineare la “a” senza “acca” altrui e a riflettere poco sulle idiozie che scrivono. Di fatto, Parcaroli non ha cambiato strategia, ma sicuramente il ghost writer e gli pseudo-consulenti in comunicazione che disegnano per Macerata un benessere incerto almeno dal punto di vista della sintassi. Ma tant’è, il lifestyle da “Salus Per Aquam” impera anche tra Cherubini e Cicarè, due bravi ragazzi che ancora in tempi non sospetti la buttano a “caciara” per una Macerata più green, “più bella e più grande che pria” (“Bravo!”, “Grazie”, cit. Ettore Petrolini). Quindi siamo tutti contenti, oltreché ansiosi, di ascoltare le proposte più originali per “stare meglio”, anche se sappiamo che al meglio - come d’altronde al peggio - non c’è mai fine. E comunque, per noi maceratesi resilienti, l’importante non è solo vivere in un centro benessere a cielo aperto e “stare meglio”, ma avere la certezza che “ci statessimo”.
Se la montagna va da Maometto, ma trova invece la Morani
Che spocchia questo PD “pesarese”: la sottosegretaria al MISE (verrebbe a dire mise-ria per la situazione economica in cui ci troviamo), Alessia Morani, la supergriffata amica del trio Ceriscioli-Mangialardi-Ricci, riceve a Roma la delegazione di alcuni Sindaci e rappresentanti del mondo della produzione e delle professioni maceratesi (parole sconosciute ai burocrati della sinistra marchigiana) per parlare di Zes come soluzione per il rilancio dell’entroterra duramente colpito dal terremoto del 2016. Ma invece di far transumare 20 persone a Roma, non sarebbe stato più elegante, nonché meno dispendioso, venire qui nel cratere sismico, anche con l’auto blu (perché no?), ad incontrare chi ancora sta lavorando tra le macerie, in mezzo a famiglie fiaccate dal terremoto pre-pandemico? Perché non porti i suoi sandali “tacco 12” qui per verificare di persona il livello fluviale delle promesse dei Commissari, tra cui quelle dell’attuale Ministra dei Trasporti De Micheli, la stessa che ha ancora affidato la continuità della gestione di Autostrade ai Benetton, e che inaugurò la scuola fantasma di San Ginesio? Zes, per essere gentile con la Morani, non è una marca di scarpe, bensì l’acronimo di Zona Economia Speciale, una sorta di Isola Cayman pensata per favorire l’afflusso di capitali, attività ed altro ancora e far ripartire aree storicamente svantaggiate e colpite quasi a morte da un sisma che non fa molto parlare di sé nei palazzi romani. L’unico beneficio che ebbero queste zone fu il completamento della Statale 77 che collega Foligno a Civitanova Marche, il pezzo forte del progetto Quadrilatero, i cui meriti vanno riconosciuti in larghissima parte all’allora vice Ministro Mario Baldassarri, a Ermanno Pupo e Gennaro Pieralisi, uomini non certo di tessera PD. La stessa Sottosegretaria al Ministero dello Sviluppo Economico Morani non è nuova a promesse e gaffe, basti ricordare solo l’ultima, tratta da un suo twitter (maledetti social): “I dati sulla produzione industriale di maggio +42% sono incoraggianti!“. Poi però qualcuno, come Osho, le faceva notare che“il +42 è rispetto ad aprile, quando era tutto chiuso, ma è -20 rispetto a un anno fa…daje!”. Se il futuro dei terremotati, delle imprese e dei professionisti dell’entroterra maceratese si trova in queste mani, sarebbe meglio affidarsi allo Zen orientale - inteso come meditazione - piuttosto che sperare che qualcuno a Roma o a Pesaro e dintorni ci regali la promessa di uno Zes.
Quando la sinistra fa la destra, può vincere. Anche nelle Marche tre indizi, una prova
Dal cinismo alla Totò all’autolesionismo di Nanni Moretti, cos’è cambiato nell’ex più grande partito comunista d’Europa, oggi PD grazie alla fusione con l’ex più grande partito europeo di centro, la grande Balena Bianca della DC? Cos’è cambiato da “E poi uno si butta a sinistra” del Marchese De Curtis al “Con questi dirigenti la sinistra non vincerà mai”, pronunciato nel 2010 a Piazza Navona dal regista di “Ecce Bombo”? Dalle ultime vicende c’è ancora molta strada da fare, nonostante una mutazione politica avviata da tempo e passata attraverso Prodi, Bersani, rottamatori e rottamati. Il dna cinico-masochistico, infatti, è tutt’oggi ben presente nel patrimonio genetico dei figli dell’incestuoso rapporto tra post PCI ed ex DC, oggi all’anagrafe P più D = PD, senza nulla togliere a chi è rimasto fedele agli ideali originari, i veri comunisti e i veri democristiani. Anzi, sono proprio costoro la testimonianza vivente che la formula “il risultato è sempre superiore alla somma delle singole parti” spesso non è applicabile a tutti i campi, uno fra questi la politica. Guardiamo, ad esempio, in casa nostra, in quelle ridenti Marche sempre più una regione del Sud, d’Italia e figuriamoci d’Europa. I dirigenti del PD delle Marche, oggi, fanno di tutto per perdere le elezioni di settembre: prima non concedono il bis a Luca Ceriscioli, un Governatore in crescita di consensi per la gestione Covid spesso “controcorrente” rispetto al Governo Conte, poi affidano il comando a Maurizio Mangialardi, di certo non all’altezza del suo compagno di partito, non fosse altro perché ha fatto il Sindaco per 20 anni in un Comune - Senigallia - a cui la riforma sanitaria dello stesso PD ha “scippato” l’Ospedale, mentre oggi ha il coraggio, per non dire altro, di proporsi come paladino della Sanità Pubblica nelle Marche. In molti, infatti, da Pesaro ad Ascoli, si chiedono: uno che non è stato capace di difendere l’Ospedale dei cittadini che lo hanno votato Sindaco, come può difendere da Governatore il mio? Ma i dirigenti del PD fanno ancora di più per perdere: prima accusano gli avversari di calare dall’alto il proprio candidato - l’Acquaroli “benedetto” da Giorgia Meloni - poi fanno bisticciare la “base”, soprattutto a Pesaro e Macerata, imponendo nelle liste nomi non condivisi dai militanti, sempre più delusi dal dna dirigistico da far impallidire il vecchio soviet supremo. Sarà forse per questo motivo che, per il momento, Mangialardi preferisce presentarsi senza simboli di partito? I dirigenti del PD, però, fanno il massimo per perdere, soprattutto sul versante della strategia della campagna elettorale: di fronte alle emergenze di una popolazione, quella marchigiana, fiaccata dalla crisi e dalle conseguenze della pandemia, in un territorio già impoverito dalla “decrescita infelice” degli ultimi governi a guida PD, il giovanissimo segretario regionale arringa i suoi “vecchi di partito” spostando la linea del conflitto tra europeisti (loro) e sovranisti (gli altri). E cioè: tra europeisti rappresentati da un Paese, come l’Olanda, che per dirla come Marco Rizzo del Partito Comunista “è un paradiso fiscale di 17 milioni di abitanti, ricco di coffee shop e mignotte in vetrina”, e sovranisti che, valli a cercare, non li trovi dalle parti di un “fascistoide” come Orban che ha salvato Conte dalla sconfitta certa, ma proprio tra quelli che “più europeisti non si può”, in Germania e in Francia. E nelle valli e tra le coste adriatiche siamo solo curiosi di sapere come i consiglieri del PD marchigiano - i magnifici 30 scelti dall’altobassismo partitico - riusciranno a tradurre questa linea “Europa Sì - Europa No” durante gli incontri con i terremotati, i cassintegrati, i giovani senza lavoro, le imprese senza fatturato, i negozianti senza clienti e così via, che di Europa hanno solo in mente un “chissenefrega” grande come una casa. Eppure, al di là di questa povertà di tematiche concrete e soprattutto “locali”, qualcosa di buono si muove nel PD, e il dibattito politico inizia a sfiorare cose più serie degli annunci: sanità, infrastrutture e sicurezza. Ed è qui che i geni trasformisti stile Houdini offrono il loro meglio per incantare le folle votanti a settembre. Prendiamo la Sanità. Il Governatore Ceriscioli, con la complicità dei Sindaci irregimentati del PD, tra cui appunto il candidato Mangialardi, ha operato la più grande operazione di smantellamento della Sanità Pubblica dal dopoguerra ad oggi, chiudendo decine di Ospedali nel piccoli comuni, specie nell’entroterra, smantellando e depotenziando molte strutture d’eccellenza, intasando gli Ospedali nelle poche grandi città della regione, generando lunghe liste di attesa, disservizi e storture che già ben prima della pandemia erano sotto gli occhi di tutti. Un caso emblematico di qualche giorno fa: una mamma ha un incidente stradale con passeggera sua figlia di 15 mesi, la prima trasportata in ambulanza a Pesaro, la piccola a Fano. E perché? Semplice: perché nell’Ospedale di un capoluogo di Provincia di 90mila abitanti come Pesaro il reparto di Ginecologia, Ostetricia e Pediatria è stato chiuso e trasferito a Fano, con la scusa del Covid, ma di fatto come compensazione di altri reparti chiusi in quest’ultima struttura. La cosa più curiosa però è che il consigliere regionale del PD, Biancani, “interroga” il suo Presidente, nonché compagno di partito, per chiedere il ripristino del reparto a Pesaro, ricevendo come risposta “picche” o poco più, fino a dichiarare in aula: “Non sono soddisfatto della risposta, e metterò in campo tutte le iniziative necessarie a garantire il ripristino della piena funzionalità del dipartimento materno infantile del San Salvatore di Pesaro”. Un episodio, un indizio: che il PD si sia accorto del disastro perpetuato nella Sanità regionale? “E poi uno si butta a destra”. Altra questione: infrastrutture. Al nord la Fano-Grosseto è l’incompiuta delle incompiute delle Marche, e Ceriscioli che fa? In piena campagna elettorale scrive una lettera alla Ministra De Micheli, quella dei Benetton ancora in Autostrade per intenderci, “lamentandosi” dei ritardi nel completamento della strada di collegamento col centro Italia, ma dimenticando che è del suo stesso partito, e che esistono anche email, whatsapp e compagnia digitando, oltre che una cosa semplice: la competenza e la volontà politica di fare le cose promesse da 25 anni (chissà se poi, per una crisi di coscienza, l’infrastruttura è stata inserita last minute tra le priorità italiane?). Al sud, invece, i maceratesi si godono la Foligno-Civitanova, emblema di quel capolavoro targato Mario Baldassarri, Ermanno Pupo, Gennaro Pieralisi, individui non certo di tessera PD, che ebbero la visione e il coraggio di pensare e realizzare un’infrastruttura fondamentale anche per le popolazioni terremotate, e che oggi ha lanciato Civitanova Marche - non a caso a guida centro destra - a divenire la “Rimini delle Marche”. E a sud del sud? Ancora alle prese con i 30 e oltre scambi di corsia nell’A14 dopo Porto Sant’Elpidio, le file chilometriche da tangenziale romana e che nessuno riesce a sbloccare, con danni inestimabili per la mobilità d’affari e per il turismo della regione. Un secondo episodio, un secondo indizio: che il PD si sia accorto del disastro perpetuato nelle infrastrutture regionali? “E poi uno si butta a destra”. Infine, la sicurezza. La DIA denuncia infiltrazioni mafiose nella regione, aggressioni e violenze aumentano anche in orari diurni, da Pesaro a San Benedetto, lo spaccio di stupefacenti in città di piccole dimensioni non si è mai fermato neanche durante il lockdown, mentre le difficoltà di imprenditori e partite IVA accrescono le attività criminali, come ad esempio l’usura. E allora vedi un Comune come Macerata che accende le telecamere della video sorveglianza, con tanto di taglio del nastro e parata di chi, fino a ieri, aveva sempre rigettato questa bieca “cosa di destra” modello ronde digitali, appellandosi alla privacy dei benpensanti e trincerandosi dietro ai pericoli della società orwelliana, ma dimenticando il desiderio di sicurezza di cittadini ancora sotto shock per il caso Pamela e lo sguazzo di stipendiati dalle mafie nigeriane. Episodio tre, terzo indizio. Ma tre indizi, dirà qualcuno, non fanno una prova? Allora conviene, sì, “buttarsi a sinistra”, solo quando la sinistra decide di fare la destra.
Macerata, il futuro Sindaco? Rimetta la Chiesa al centro del villaggio
Mentre il candidato del centro sinistra Narciso Ricotta, tra yoga e pedalate elettriche gioca “fuori casa” sul “green” dei Pentastellati, scatenando le ire del candidato M5S Roberto Cherubini, che invoca lo “ius primae electrics”, quello del centro destra, il parvenu della politica Sandro Parcaroli, scalda i muscoli giocando in casa dei commercianti, da sempre sul piede di guerra contro gli amministratori del Capoluogo. Confronti a distanza, termine molto in voga nel post Covid, prime lievi schermaglie: piccole cose, orfane persino del suo assessore dedicato. I candidati devono ancora mettere al centro del villaggio la Chiesa, secondo un vecchio proverbio francese (“On a remise l’église au milieu du village”), oggi in voga nell’ambito sportivo, che starebbe a significare “ottenere una vittoria che metta le cose al loro posto”, proprio come quando nell’antichità si edificavano intere città intorno ad una Chiesa, il cuore dell’intera comunità e non solo di quella religiosa. I temi elettorali, invece, escono ed entrano confusamente come in una porta scorrevole, senza che la questione fondamentale prenda il sopravvento e si piazzi al centro della battaglia elettorale, mettendo nelle condizioni, da un lato, ogni singola compagine di comunicare i propri caratteri distintivi, e dall’altro lato, i cittadini elettori di scegliere al di là dell’appartenenza a questo o a quel partito. E la questione fondamentale, la “Chiesa” appunto, ha un solo nome: sviluppo. Cari candidati Sindaci, non ci frega nulla di cene nostalgiche o di pranzi presso cooperative che lavorano con le amministrazioni pubbliche, di mancanza di cultura politica, di nani, giganti e ballerine: i cittadini, le famiglie, i giovani maceratesi, le Partite IVA e chi tira su ogni mattina la saracinesca, desiderano conoscere quale idea di sviluppo ha chi vuole governare la città per i prossimi 5 anni, e soprattutto come metterà in pratica quell’idea con iniziative concrete e adeguate risorse. Per dirla con Woody Allen: ci interessa “da dove veniamo, dove andiamo, ma soprattutto cosa mangiamo stasera”. E non si può parlare di sviluppo oggi se non si parte dalla situazione in cui ci troviamo. Per questo ci viene in soccorso il quotidiano economico Il Sole 24 Ore, che proprio lo scorso dicembre ha celebrato i 30 anni della sua classifica delle oltre 100 province italiane dove si vive meglio, la “bibbia” per chi ama capire il livello della qualità della vita in un determinato territorio. La classifica generale per Macerata è impietosa: era al 12mo posto nel 1990 (l’anno delle notti magiche di Totò Schillaci), ed oggi è scivolata al 32mo, perdendo ben 20 posizioni. Il Sindaco di allora era Carlo Ballesi, a cui subentrò nel 1992 Carlo Cingolani; poi, dopo la breve parentesi del Commissario Verrecchia, Gian Mario Maulo fino al 1997; seguì la breve esperienza di Anna Menghi, con parentesi commissariale, che aprì al ventennio dei Governi di centro sinistra e alla staffetta Giorgio Meschini (2000-2010) - Romano Carancini (2010-2020). In questo “quarto e passa” di secolo, Macerata ha manifestato segni evidenti di un lento e inesorabile declino, registrando dati spesso al di sotto la media nazionale e smentendo la sua innata vocazione all’aurea mediocritas, un valore ambiguo ma che ci attestava dignitosamente fra gli “ultimi dei primi”, tra piccolo è bello, benessere diffuso e modello di sviluppo a misura d’uomo che ci avevano illuso di poter vivere nel cuore di una “grandezza perenne”. Oggi, quella “grandezza” e quell’orgoglio di rappresentare un Capoluogo di una provincia attrattiva, dove valga la pena investire, lavorare e vivere, sono sentimenti nostalgici che inteneriscono gli over 40 anni, e rappresentano ben poca cosa per vincere le nostre disillusioni. E questo declino fa ancora più male se paragonato alla situazione delle altre province della regione, una istituzione quest’ultima, sempre guidata dal centro - centro sinistra (dopo il democristiano Rodolfo Giampaoli ed il socialista Gaetano Recchi, dal 1995 ad oggi ha governato il trio Vito D’Ambrosio, Gian Mario Spacca e Luca Ceriscioli). Fatta eccezione per Pesaro, passata da 39ma a 53ma, alle altre province delle Marche è andata, infatti, decisamente molto meglio: Ancona e Ascoli in 30 anni, tra alti e bassi, hanno fatto un balzo in avanti di ben 15 posizioni, attestandosi, rispettivamente, a quota 31 e 26. Cosa è successo in questo trentennio per determinare un declino così marcato di Macerata? Lo si capisce meglio se si analizza le singole aree che vanno a determinare i numeri della classifica generale. Prendiamo quella più importante, “Ricchezza e consumi”, una voce che raduna dati significativi, quali, tra gli altri, il PIL pro capite, i depositi bancari, la spesa delle famiglie per beni durevoli e il reddito medio dei contribuenti. Macerata era addirittura al primo posto nel 1990, mentre oggi è drasticamente scivolata al 60mo, ben al di sotto della media nazionale e invischiata a non “retrocedere” nelle retrovie, da sempre dominate dalle province del Sud. Si peggiora alla voce “Ambiente e servizi” (dal 10mo al 22mo posto), mentre stabili sono i dati di “Giustizia e sicurezza”, anche se ce la battiamo sempre tra le ultime 30 posizioni, e “Affari e lavoro” (qui Macerata era 36ma nel 1990 e si trova 34ma oggi, in pratica “tempo nuvoloso, ma stabile, o viceversa”). A quest’ultima voce ci sono dati in chiaroscuro: la disoccupazione è sotto all’8%, ma preoccupa il fatto che 1 individuo su 3, per lo più, under 30 anni, non lavora, non studia o si forma, e né cerca lavoro. Quali prospettive, se non quelle di emigrare, possiamo offrire ad un giovane diplomato o laureato? Le imprese non crescono come una volta (sono 12 ogni 100 abitanti), anzi il tasso di mortalità di quelle iscritte alla Camera di Commercio è sempre elevato, mentre anche il turismo, che ha fatto balzi in avanti in altre zone della regione, non si mantiene all’altezza delle aspettative: basti pensare che, nel nostro territorio abbiamo 12 posti letto ogni chilometro quadrato, contro, ad esempio, i 21 di Pesaro. E le nuove tecnologie digitali? Il 4.0 è realtà dentro le aziende più importanti, ma spesso è un sogno per le piccole imprese e per molti cittadini della provincia. Solo lo 0,3% del totale delle imprese ha un portale e-commerce, le start up innovative sono pochissime (8 ogni 1000 società di capitale), mentre la copertura della banda larga non arriva al 41%. Sono numeri preoccupanti, che dimostrano nella loro freddezza come Macerata e il suo territorio, abbiano perso quella spinta propulsiva che ci aveva affrancato dalla povertà post bellica, aperto al baby boom degli anni ’60 e alla crescita impetuosa dei distretti industriali diffusi, dall’entroterra alla costa, con il Capoluogo destinato ad arenarsi a poco più di 40mila abitanti, infrangendo i sogni visionari dei tifosi dei 100mila. Macerata ha bisogno ancora di questi “visionari”, in grado di riaccendere, non solo le speranze, ma soprattutto il motore di una città che deve essere un alto valore aggiunto di rappresentanza, politica e istituzionale, a sostegno della crescita di un terziario realmente innovativo, di un commercio di qualità, di un’offerta culturale e di vita sociale adeguate alle esigenze di un mondo che sta cambiando ad una velocità supersonica. In attesa di questa “visione”, confidiamo tutti che nelle prossime settimane i candidati alla guida dell’Atene delle Marche, ci “dicano qualcosa di sviluppo”, che non è né di destra e né di sinistra. Ma semplicemente “è”.
Massimiliano Bianchini tra i piccoli alleati di Mangialardi. Baldelli (FDI): "Rinascimarche? Un abbraccio mortale"
Massimiliano Bianchini non molla, anzi triplica con i Verdi e + Europa e si candida a diventare il modello perfetto di eterno candidato. E’ di qualche giorno fa la presentazione ad Urbino della lista “Rinascimarche”, che aggrega Verdi, + Europa e Civici, quest’ultima compagine appunto di Bianchini, per sostenere la candidatura di Maurizio Mangialardi al Governo regionale. Nel corso della presentazione della lista a “offerta speciale tre per uno”, il coordinatore dei Verdi Gianluca Carrabs ha dichiarato che “non può esserci sviluppo senza sostenibilità”, concetto condivisibile per l’esponente di punta di Fratelli d’Italia, il pesarese Francesco Baldelli, ma solo al contrario. Baldelli, infatti, ha scritto nel suo commento social che “invece, non può esserci sostenibilità senza sviluppo, altrimenti andremo tutti a vivere nel deserto del Sahara, il luogo più ‘sostenibile’ al mondo”. “Questi tifosi della decrescita infelice - continua nel suo post Baldelli - si sono uniti nella sigla Rinascimarche, facendo il più clamoroso degli autogol: si rinasce solo quando si muore, dimenticando che il certificato di morte per noi marchigiani lo hanno firmato proprio i Governi delle sinistre che ora vogliono sostenere”. Baldelli lancia l’affondo ricordando come sia paradossale che, proprio da parte di chi ha a cuore la tutela e la conservazione del territorio, affidarsi a quel PD di Ceriscioli e Mangialardi che “tira fuori il fascino ancestrale del ‘green’ solo in campagna elettorale. Perché - aggiunge - chi ha davvero a cuore il nostro territorio non può sostenere quel partito che ha creato nell’entroterra cittadini di serie B, desertificando luoghi meravigliosi privando i suoi cittadini di servizi vitali, come Ospedali, strade, giovani e lavoro proprio da chi ora vorrebbe replicare maldestramente la brutta copia del Duca di Montefeltro”, che da Urbino promosse l’unico Rinascimento che oggi possiamo vantare.
Sandro Parcaroli? No, non ci voleva proprio un ribelle per Macerata
Sandro Parcaroli? No, non ci voleva proprio. I maceratesi si erano già “rassegnati” a votare Narciso Ricotta, mettendosi magari la coscienza a posto siglando l’altra “X” sulla fiamma di Fratelli d’Italia per spedire il maceratese Francesco Acquaroli alla guida di una Regione da sempre in mano a pesaresi e anconetani. E invece arriva questo individuo, a tutt’oggi nei sondaggi da bar sport dato come “perdente di successo”. Si presenta questo imprenditore “illuminato”, come dicono quelli di sinistra che amano gli imprenditori solo per le loro sponsorizzazioni sportive e culturali. Irrompe questo “uomo nuovo” che ha messo d’accordo le anime del centrodestra, da sempre con-dannate (alla sconfitta a tavolino). Ecco, quindi, Sandro Parcaroli, che prima ancora di dirci una riga di programma per Macerata, è riuscito a scompigliare in poche ore tutti i piani del “vincente facile” di turno di un PD sempre più sottosopra, tra la deglutizione atipica delle smarronate dei 5 stelle a Roma, e i rigurgiti acidosi di possibili alleanze con i grillini sui territori. No, Sandro Parcaroli, non ci voleva proprio. Per un semplice motivo: perché è un uomo di successo. In una società come la nostra, “conservatrice” - nel senso gattopardesco del termine - e “provincialotta” - nel senso maceratese del termine - il successo non può essere frutto di sacrifici misti a talento, né tanto meno un “dono divino”, bensì una colpa da espiare, un merito da occultare, una sorta di condanna a “fare del bene e non farlo sapere”. Una certa cultura presente da anni nel nostro Paese, che mette d’accordo vecchi intellettuali snob da salotto e giovani dei centri sociali, cova un forte scetticismo nei confronti degli uomini di successo, arrivando persino a godere per le loro sciagure economiche e personali. E’ quella cultura anti-industriale che ogni tanto emerge intorno a noi, si alimenta del supporto popolare degli eterni “protetti”, rappresentati plasticamente dai “bidelli in smart working”, coloro i quali durante il lockdown hanno trascorso il tempo ad annaffiare i fiori in terrazzo e guardare la TV a spese dello Stato, mentre commercianti, professionisti, Partite Iva e imprese (loro dipendenti compresi) lottavano per pagare e farsi pagare, sorbendosi fiumi di DPCM caotici e lunghi monologhi di Commissari e Ministri che spiegavano quante risme di carta utilizzare per avere i 600 euro o la CIG. No, Sandro Parcaroli, questo uomo di successo, questo ribelle dalla bianca chioma, non ci voleva proprio. Questo imprenditore che ama la sua città, sponsorizza cultura e sport, non potrebbe più farlo senza - dicono quelli di cui sopra - “esercitare una sorta di conflitto di interessi”; ma se poi smettesse di farlo - dicono sempre gli stessi in un insanabile conflitto interiore - chi curerebbe poi gli “interessi” dei cittadini maceratesi affamati di lirica e sport? Dove lo trovano un altro imprenditore-bancomat disposto ad investire in una città che alcuni, non troppi per fortuna, vorrebbero “addormentata”, prona nel suo coma farmacologico perenne, che solo efferatissimi fatti di cronaca nera hanno fatto schizzare nelle prime pagine dei giornali di tutto il mondo? No, Sandro Parcaroli, non ci voleva proprio. In molti iniziano a credere che può essere quel “Cavaliere Bianco” che possa sconfiggere il male oscuro che penetra ben oltre le mascherine dei maceratesi: quel fascino subdolo del declino, che ha sempre pervaso questa città, oramai da anni in preda alla “kebabizzazione” delle sue mura più antiche, un processo erosivo più rapido della desertificazione di un’autentica vita comunitaria. Quella “vita comunitaria” - nella migliore delle ipotesi condannata come “movida” universitaria (che Dio benedica l’Università!) - che vetrine di negozi chiusi tappezzati di colorati “Affittasi” e “Vendesi”, stanno impietosamente a ricordarci, quasi fossero autentici sepolcri non più imbiancati, che ci troviamo in una piccola necropoli moderna, tramortita dai Centri Commerciali e da una classe dirigente conservatrice e poco coraggiosa. No, Sandro Parcaroli, non ci voleva proprio. Chi glielo fa fare a lottare per questo distillato dell’Italia “fuori dall’autostrada”, una città sorta dai ruderi di Helvia Recina, eppure da essi mai affrancatasi? E’ vero, nei secoli quelle pietre informi sono diventate mura, palazzi, teatri ed edifici, ma i ruderi più resistenti sono sempre lì; o meglio le loro polveri sottilissime sono entrate nei polmoni dei maceratesi e si sono solidificate via via ogni giorno di più. Quei ruderi “dentro” hanno alimentato questo tifo masochistico per un imminente declino, un clima da fine impero per chi si sente ancora cittadino di un capoluogo che non attira a sé neanche le sue popolose frazioni e che fortunatamente sopravvive grazie soprattutto al dinamismo di un’Università che svolge un ruolo strategico chiave per il suo sviluppo. Macerata è una città dove impera la povertà intellettuale di chi, sentendosi inferiore (ma forse non lo è), snobba nel senso più autentico del termine la novità, il talento, l’essere non normale, ribelle. E già, perché la classe dirigente di Macerata, custode di una polverosa normalità, ha sempre schiacciato le novità, soffocato gli slanci coraggiosi e anche temerari, privilegiato la conservazione dei ruderi rispetto al pericoloso rinnovamento, non aprendo mai seriamente ai giovani ma tentando di inglobarli nella finta cultura “sociale” delle “cooperative”, veri e propri bacini “elettorali”. No, Sandro Parcaroli, non ci voleva proprio. Dovrà fare i conti con una Macerata che, nel breve volgere di un ventennio, si è trovata orfana di tutto ciò che fa di una città un vero capoluogo: le caserme dell’esercito e dell’aeronautica, la Cassa di Risparmio, Bankitalia, la Lube, le piscine, la Maceratese, le discoteche, i luoghi ideati per le giovani generazioni dei Millennials. E non si cada nell’errore di dare la colpa all’ultimo Sindaco di turno e di puntare alla “discontinuità” e al “cambiamento”: il prossimo Sindaco non dovrà essere più quello a cui il Sindaco successivo dovrà addossare tutte le colpe dell’ulteriore declino di Macerata. No, Sandro Parcaroli, non ci voleva proprio. Un ribelle a Macerata? Uno che è abituato a guardare sempre al futuro e fare i conti col presente, come fa ogni imprenditore che rischia per sé ogni giorno? E chi glielo racconta adesso a quelli già pronti a votare la “discontinuità” e il “cambiamento”?
Parcquaroli vs Mangiaricotta: quella discontinuità che unisce il “tutti contro”
Parcaroli e Acquaroli, da un lato. Mangialardi e Ricotta, dall’altro. C’è uno strano asse Macerata-Marche che traccia il solco di una campagna elettorale sotto l’ombrellone, tra volti semi-nascosti dalle mascherine e sempre più profondi distanziamenti “politici”. Già, perché la parola più gettonata in questa fase è appunto “discontinuità”: Ricotta da Carancini, Mangialardi da Ceriscioli (unico Governatore a cui il Partito Democratico, nonostante il crescente appeal nella covidiana Fase 1, non abbia offerto la chance del double), il centro destra, infine, che arde, come la fiamma di Fratelli d’Italia, dal desiderio di mandare in soffitta definitivamente il passato (anche il proprio, visto che per la prima volta i candidati corrono uniti “da vincenti”). Discontinuità anche lato Movimento 5 Stelle, con il duo Roberto Cherubini a Macerata e Mario Mercorelli per la Regione, che per il momento corrono da terzi “comodi”: insomma, come riscriverebbe Joseph Cronin, “Le 5 stelle stanno a guardare” (in inglese il titolo è curiosamente molto evocativo: “The Stars Look Down”). In quale scenario locale si inserisce, dunque questa “discontinuità”, parola che letteralmente significa “interruzione nel tempo e nello spazio”? Direi che s’inserisce in un tempo che si è fermato per Macerata, e in uno spazio, le Marche, sempre più angusto, entro cui riporre fiducia per uno sviluppo che oramai sembra appartenere ad un glorioso passato, quando il nostro modello economico di industria a misura d’uomo, benessere diffuso ed elevati livelli della qualità della vita, portava studiosi da tutto il mondo per studiarci e imitarci. Ed è con questo declino spazio-temporale che dovranno fare i conti gli uomini che guideranno i Governi locali, a Macerata e ad Ancona, declino che incombe anche sulla perdita di “peso” nei consessi che “contano”. Se, infatti, in un tempo andato il Sindaco di Macerata andava diritto al Senato, oggi ci dobbiamo, più modestamente, accontentare di Palazzo Raffaello ad Ancona, non sappiamo se ai piani alti o nelle sedute occupate dall’opposizione. E se prima il Governatore della Regione Marche era un punto di riferimento per l’asse adriatico Nord-Sud (bei tempi i progetti di Giammario Spacca sulla Macroregione Adriatica), oggi non ci filano più neanche quei “nordisti” del PD, come il Governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, il quale fa accordi con i colleghi leghisti di Veneto e Friuli, Zaia e Fedriga, per portare turisti tedeschi sulle coste romagnole, con un treno che, come il Cristo di Carlo Levi, per i balneari, i ristoratori e gli albergatori della nostra regione si ferma a Eboli-Rimini. Sarà durissima, per la compagine di centro sinistra in pista, convincere gli elettori marchigiani della bontà delle proposte per il rilancio di una regione che più di altre sta subendo i disastri post Covid (vedi l’impietosa e amara Relazione di Bankitalia e la classifica che pone Ceriscioli al terzultimo posto tra i Governatori più amati d’Italia), proprio perché il virus ha trovato terreno fertile in un tessuto economico già debole con distretti industriali in forte crisi da oltre 10 anni. E neanche Roma, né tanto meno Bruxelles, ci corrono in soccorso: basti pensare alle sanzioni UE contro la Russia, che penalizzano da anni l’export dei nostri calzaturifici, sanzioni imposte a causa dell’intervento militare di Putin in Ucraina, mentre poi, gli stessi politici seguaci del “politically correct” dalle due morali, si sperticano per accordarsi con quella Cina che opprime con la violenza le libertà più elementari ad Hong Kong. Nelle Marche Nord il dibattito politico verte sulle infrastrutture mancate: lo stesso Governatore Ceriscioli ha scritto una lettera alla Ministra dei Trasporti e Infrastrutture Paola De Micheli per lamentarsi dei ritardi dell’incompiuta Fano-Grosseto (ma tra colleghi di partito ci si scrive ancora lettere con carta e penna?), inserita last minute nelle opere da sbloccare dal recentissimo decreto semplificazione, anche se in molti, come il Sindaco di Sant’Angelo in Vado, dicono che è l’ennesima promessa mai mantenuta, anzi una “fregatura, perché è così ogni volta che si avvicinano le elezioni”. A dicembre sarà nominato un Commissario, si spera non di arcuriana competenza, che avrà il compito di riattivare i lavori dell’importante infrastruttura che collega le Marche Nord al Centro Italia: tra Fano e Pesaro, molti confidano su Babbo Natale in persona. Nelle Marche Sud, invece, la pseudo-ricostruzione Post Sisma è quella che la fa da padrona, con un numero di Commissari che tenta di raggiungere presto il numero degli edifici ristrutturati, memori anche che la stessa Ministra De Micheli, era proprio quel Commissario che inaugurò la Scuola di San Ginesio, con tanto di ruspa noleggiata per il taglio del nastro, salvo poi arenarsi nelle burocrazie di questa Italia dei veti. L’attuale Commissario Legnini ce la sta mettendo tutta mostrando un piglio diverso e più pragmatico, un cambio di passo riconosciuto anche da molti Sindaci del territorio: poi, però, la mazzata della Commissione Bilancio che si è “dimenticata” di occuparsi dei provvedimenti a favore delle zone colpite dal sisma, ha rimesso tutto in discussione, lasciando tutti increduli e a bocca asciutta. Dunque, andrà al voto la popolazione di una Regione sempre più fiaccata dalla crisi, isolata e abbandonata al destino degli eterni “post” (Sisma, Covid, eccetera), per scegliere tra candidati Sindaco e Governatore che fanno a gara per “auto-isolarsi” dal proprio passato, dentro e fuori il proprio partito (per chi ce l’ha), ripetendo fino allo sfinimento la parola magica “discontinuità” (ma anche con “cambiamento” non si scherza). Ma nell’era del distanziamento sociale, un pò di distanziamento politico non guasta, e tra gli elettori nostrani, in base ad un sondaggio poco scientifico ma molto vicino alla realtà, emerge sempre più una nuova prospettiva (non per tutti, visto che molti Comuni non dovranno eleggere il proprio Sindaco): tra le accoppiate tra “congiunti”, secondo il neologismo coniato dagli esperti nominati dal Premier Conte, Parcquaroli e Mangiaricotta, molti sceglieranno l’Acquaricotta, dando il consenso a Narciso Ricotta al Comune di Macerata e al “maceratese” Francesco Acquaroli alla Regione. Si vota chi vince, da sempre. E in questo caso sarebbe una doppia vittoria per Macerata, in attesa anche di conoscere quali saranno le truppe, da destra a sinistra, che oggi sgomitano per seguire le sorti dei presunti “vincenti”.
“Ho perso il brand”, la folle estate della promozione turistica
Sarà forse per l’overdose di webinair (nel solo mese di marzo, 32 milioni di italiani sono stati appiccicati ai telefonini per più di 4 ore al giorno - Dati Audiweb); sarà forse per la naturale predisposizione di politici e amministratori ad improvvisarsi “esperti” e promuovere con il classico “fai-da-te” la sagra della patata viola in internet; sarà anche perché, dopo i flop dei vari Arcuri, Colao & C. - frutto della bulimia da task force del Premier Conte - è meglio non fidarsi ciecamente dei curricula degli pseudo-esperti, se non per la celerità con cui somministrano le parcelle al Committente Pubblico (in pratica, a noi). Sarà … ma la prima estate post Covid, tra cali di presenze, alberghi mezzi chiusi, cuochi, baristi e camerieri a spasso, con mezza Europa che apre e noi italiani ancora a gareggiare tra chi porta più iella e la spara più grossa sulla seconda ondata del virus, registriamo con stupore una crescita esponenziale di proposte creative sulla promozione turistica di regioni e comuni. Questo proliferare di spot e testimonial la dice lunga sull’assenza totale di una programmazione seria sul Turismo, tipica del nostro procedere attraverso la non-strategia del “tutti separati appassionatamente”, dove i viaggi inutili per promuovere nel mondo le nostre bellezze sono l’emblema degli sprechi, come i biglietti aerei in business class per funzionari italiani a Dubai stanziati negli 11 milioni di euro del Decreto Rilancio. Turismo, la prima industria italiana (senza un Ministero). Il turismo è la prima industria del Paese, ma non ha neanche un Ministero dedicato, considerato che il Ministero del Turismo, istituito nel 1959, fu soppresso con il Referendum del 1993 su proposta di 10 regioni, tra cui le Marche. Ora, mentre si può capire perché le Regioni volessero “decentrare” una competenza chiave come la promozione turistica dei propri territori, meno si capiscono le lamentele italiche sul flop di strategie efficaci, quando quel referendum fu un autogol pazzesco provocato da ben 28 milioni di italiani che votarono per il “Sì”. Cancellare un Ministero chiave per la nostra economia, delegando agli Enti locali la programmazione, la promozione, la ricerca di risorse, ha fatto sì che oggi parliamo solo di “turismi” e non di turismo italiano: una ricchezza di proposte disarticolate - e in alcuni casi demenziali - che impoverisce tutti gli operatori economici, senza per altro soddisfare appieno chi va in vacanza prenotando su Booking o acquistando biglietti su Ryanair. E così, noi orfani di una strategia nazionale che non c’è, anche per colpa nostra, allora ci muoviamo in ordine sparso, mettendo in campo tutto il meglio (e il peggio) della creatività improvvisata. Il bonus vacanze, buona l’idea, un pò meno l’applicabilità. Creativi, ad esempio, gli ideatori del bonus vacanze, che già il primo giorno ha fatto registrare un boom di domande, con 150mila nuclei famigliari che hanno richiesto il contributo fino a 500 euro per soggiornare in alberghi, campeggi, villaggi turistici, agriturismi e bed & breakfast in Italia. Soddisfatto il Ministro Dario Franceschini (sì, perché, nonostante la sua soppressione, il Turismo ha un suo Dipartimento al MIBACT), un pò meno i diretti interessati: italiani alle prese con app e isee, albergatori che dovranno anticipare lo “sconto” dell’80% per vederselo riconosciuto in credito d’imposta, Booking & C. vietati, quando oggi le prenotazioni viaggiano solo grazie a questi colossi del web (non sarebbe stato meglio farci un accordo?). Procedure complesse che mettono in fibrillazione anche i commercialisti, ma tant’è, il bazooka di questo Governo non ha una grande mira e sulle tasche degli italiani arriva poco e tardi. Domanda: se il bonus vacanze avrebbe dovuto rilanciare il turismo italico, perché gli alberghi nei loro siti internet e nelle loro campagne di comunicazione non lo citano come leva attrattiva, almeno quanto un ingresso gratuito in piscina o nella spa? Forse perché, sostanzialmente, non lo è? Sembrerebbe così, visto che se cerchi una camera doppia nel periodo dall’1 al 15 agosto nel portale www.italyhotels.it di Federalberghi, solo 900 strutture ricettive su 28mila accettano il bonus. Ma se il flop s’annida a Roma, anche in periferia non si scherza. I nostri talenti sprecati. Nelle Marche ancora ci crogioliamo per gli encomi della “Bibbia dei viaggiatori”, la rivista Lonely Travel che indica la regione adriatica tra i luoghi più belli da visitare al mondo; ci appassioniamo per la ricerca del testimonial più trendy, per cui in pochi anni passiamo dallo sport allo spettacolo in un “batter di spot”, da Mancini a Nibali, da Dustin Hoffmann a Neri Marcorè. Aspettando la prima testimonial donna (richiesta formulata in diretta durante “Giù la maschera” all’Assessore Regionale Moreno Pieroni che si è detto disponibile a valutarla, ndr), ci accontentiamo con il turismo di prossimità e i “mini-bonus” a famiglie marchigiane che decidono di trascorrere un weekend in strutture ricettive fuori dalla propria provincia. In verità, le risorse messe in campo sono notevoli, e la loro efficacia avrà più peso nel brevissimo che nel medio-lungo periodo: sui 22 milioni di euro, ben 6 sono andati a 3mila operatori del settore, quello che è stato denominato un “tesoretto anti-Covid”, ma i nodi verranno al pettine già da settembre. Il coraggio che manca. Preoccupano, soprattutto, la mancanza di coraggio e l’assenza di coordinamento con le altre regioni dell’Adriatico che hanno isolato le Marche con la loro politica di promozione turistica. “Con Luca Zaia e la Regione Veneto, Massimiliano Fedriga e la Regione Friuli-Venezia Giulia (entrami leghisti, ndr), abbiamo presentato la campagna di promozione dell’alto Adriatico e delle nostre bellissime spiagge sul mercato tedesco. Proponiamo le nostre eccellenze e i servizi di straordinaria qualità che possiamo offrire. Al via accordo triennale perché il comparto turistico non conosce differenza geografiche, ne’ politiche. Le nostre regioni unite per rilanciare il settore turistico, tra i più colpiti durante la pandemia, assieme ai nostri imprenditori e operatori”. Il post è del Governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, stesso partito di Luca Ceriscioli (PD), che ha deciso di accordarsi con la Lega veneta e friulana facendo affogare le Marche nel Basso Adriatico, e ridisegnando la geografia “declassandoci” a prima regione del Nord del Sud. L’accordo Friuli-Veneto-Emilia Romagna prevede tre cose semplici: uno spot di 20 secondi sul portale seguitissimo del meteo tedesco, wetter.com, passaggi sul network di canali TV locali, treni carichi di tedeschi che scenderanno (ahimè per i marchigiani) a Rimini. Totale: 900mila euro diviso tre, in 3 anni. Una briciola rispetto ai nostri 22 milioni, una parte dei quali poteva anche essere dirottata verso una iniziativa congiunta con le regioni adriatiche “del nord”. Chissà cosa ne pensa il candidato Governatore del centro sinistra, Maurizio Mangialardi, su questo accordo “nordista” promosso dal suo compagno di partito Bonaccini? Alla ricerca del brand perduto. Di iniziative mancate, però, ce ne sono state anche altre, specie quelle che si sono distinte per una “mancanza” di buonsenso. Prendiamo lo spot della Regione Calabria. E’ quanto di meglio ci si potesse aspettare da chi ama la discriminazione territoriale: il video invita i turisti a venire in Calabria perché, in pratica, non ci si ammala come nelle spiagge affollate del Nord, come Jesolo, Rimini e Rapallo, dove “il distanziamento sociale è una chimera”. Ma anche in Sardegna non si scherza, con il Governatore che invita tutti a registrarsi per ottenere il “patentino sanitario” d’ingresso all’isola, o il Sindaco di Bari che in pieno lockdown si è trasformato in drone umano per cacciare le persone che passeggiavano in spiaggia. La creatività, piuttosto, è mancata anche a chi si limita al “copia e incolla” di campagne viste e riviste, anche a costo zero: è il caso delle regioni che amano presentarsi con le scritte multicolori che denotano l’appiattimento totale di fantasia da chi dovrebbe attrarre per le bellezze naturalistiche e storiche e non per gli scarabocchi dei pennarelli Carioca. Quando si confonde lo scopo con il mezzo (e viceversa). Infine, i Comuni che si misurano con il fascino del “particulare” modello Guicciardini, tentando di valorizzare le tipicità confondendo il mezzo con lo scopo, facendo della comunicazione una scienza poco esatta. E’ il caso dell’iniziativa promozionale “Lo Vello de Macerata”, più facile a pronunciarsi che a capirsi se finalizzata ad attrarre turisti italiani amanti del trekking urbano e non una commedia dialettale, per di più con assonanze civitanovesi (per questo lo scopo è confuso col mezzo utilizzato). E gli stranieri che ne pensano? Chimere, ma anche sporadici eroi post Covid se si azzardano a visitare i luoghi più belli di noi “untori” italiani. Passeggiando, circondato da manifesti con su la scritta “Vello”, un turista tedesco ha digitato il termine su Google traduttore per capire cosa significasse nella sua lingua, scoprendo che il “vello” altro non è che “manto lanoso che ricopre il corpo di un animale”. Incuriosito, il malcapitato teutonico, mi chiedeva dove si potesse visitare questa “coperta di peli” praticando il trekking urbano. Sorridendo, l’ho invitato a leggere la Divina Commedia, il passo del Canto XXXIV in cui Dante descrive il suo passaggio al centro della terra mentre striscia sul corpo peloso di Lucifero: “di vello in vello giù discese poscia tra il folto pelo e le gelate croste”. Poi però, fortunatamente, il Canto si conclude con il bene augurante “e quindi uscimmo a riveder le stelle”. Ma per il Paradiso, dobbiamo ancora attendere.
Fase 2, fine lockdown? Aumentano le scappatelle
Con un dibattito ancora in corso sulla natura giuridica del termine “congiunti” e le stampanti oramai in debito d’inchiostro per produrre la versione 6.0 dell’autocertificazione, ecco un primo dato significativo su cui riflettere: il primo giorno di (parziale) libertà fa registrare al portale Incontri-ExtraConiugali.com oltre 900 nuove iscrizioni in un solo giorno. Incontri ExtraConiugali.com, primo portale 100% italiano per le “scappatelle”, ha infatti registrato, in pieno lockdown, un paradossale aumento dell’infedeltà coniugale, soprattutto quella virtuale. “Dal momento che non si poteva uscire da casa, nonostante la presenza del partner, la propensione degli italiani a tradire è salita esponenzialmente. In molti casi è stato solo un tradimento virtuale, che si è consumato su siti di incontri, ma ora - dopo la quarantena - ci sarà modo di incontrare nella vita reale la persona che ci ha aiutato a superare questo momento di stress”, spiega in una nota Alex Fantini, fondatore di Incontri-ExtraConiugali.com. Il portale ha infatti registrato durante l’intero periodo di lockdown una media di circa 600 nuovi iscritti al giorno, il doppio rispetto alla media di circa 300 iscrizioni giornaliere relativa all’anno precedente. Il primo giorno di libertà - seppure non totale - ha poi generato un ulteriore e molto più incisivo aumento delle registrazioni: basti pensare che solo il 4 maggio 2020, con la fine imminente del lockdown, questo numero si è addirittura triplicato, superando i 900 contatti in un solo giorno. Ma è proprio vero che fino ad ora il tradimento degli italiani si è limitato ad essere virtuale? Non sembrerebbe proprio visto anche l’alto numero di italiani multati durante il lockdown, oltre 200 mila su un totale di oltre 3 milioni di controlli, molti dei quali sicuramente usciti per fare una “corsetta” dall’amante. Il caso più eclatante è la notizia apparsa ull’edizione online del quotidiano “Leggo” che ha titolato “Sesso in auto nonostante il lockdown: amanti violano la quarantena, sorpresi e multati dai vigili”, ottenendo un consenso di ben 1.200 share. Insomma, l’argomento è senz’altro un “tema caldo” ed è stato proprio il lockdown a far crescere la voglia di evadere, mentre la stessa definizione generica presente nell’autocertificazione aiuta ad incrementare ulteriormente le scappatelle, trovando facilmente un pretesto per organizzare un incontro con l’amante, considerato che basterà dichiarare che si sta andando a trovare un parente, senza neanche essere obbligati ad indicarne il nominativo. Sicuramente, al di là della notizia e dei toni ironici che possono rivelarsi anche irriverenti nei confronti della situazione, ci vuole prudenza anche nella eccessiva proliferazione burocratica dei “congiunti”, per non diffondere il virus della “congiuntivite” che rischierebbe di vanificare gli sforzi fin qui fatti per combattere il virus e ritornare al più presto alla normalità.
Covid-19, Non ci resta che "scendere in Politica" contro i "simulatori" del cambiamento
Tra le prime bugie che negli anni ’80 ci raccontavano i docenti nelle Business School, i papà dei tecnocrati che bisticciano da mesi in TV sul virus, è l’ambivalente significato cinese di “crisi”, che racchiude la dicotomia “minaccia/opportunità”, concetto più italianamente noto come “non tutti i mali vengono per nuocere”. A parte il fatto che del Covid-19 ne avremmo fatto tutti volentieri a meno, bisogna sottolineare come, in realtà, nel termine cinese non c’è traccia del concetto di “opportunità”, bensì ci si limita all’ambivalenza più sottile “pericolo/momento cruciale”, senza peraltro offrire elementi di positività e garanzie sul buon esito della situazione. Neanche i cinesi, autori dell’ideogramma dal duplice significato (e fors’anche del Covid-19), sono convinti del fatto che non tutte le crisi abbiano necessariamente un lieto fine. Il perché è semplice: una crisi vera e propria, come quella “pandeconomica” che stiamo vivendo, non si supera in maniera naturale o affidandoci solo ai tecnocrati, da cui magari spunta quello che s’inventa il vaccino. Ma richiede due qualità individuali spesso assopite da tempo: consapevolezza del “momento cruciale” e senso di responsabilità, cioè capacità di risposta. Ne aggiungo una terza, non meno importante della altre: il coraggio delle scelte. Ci vuole consapevolezza, responsabilità e coraggio. Ci vuole, in un termine solo, Politica, ma quella vera e con la “P” maiuscola. Puntare al buon esito della crisi - esito né naturale né scontato - significa chiedere a tutti noi un ruolo più attivo come Persone (ancora una “P” maiuscola), e quindi, decisivo per un cambiamento che segni davvero un solco profondo tra il “prima” e il “dopo” Covid-19. In altre parole, dobbiamo “scendere” in Politica, intesa nel significato più raggiante del termine, e cioè: quel modo di agire in vista del raggiungimento di un determinato fine, sia nell’ambito pubblico sia in quello privato (cfr, Treccani). Fuggire dalla Politica, nostro costume da decenni, o affidare tutto alla politica (quella con la “p” stavolta minuscola) oggi significherebbe avviare una falsa ripartenza, disegnando il classico scenario gattopardesco ove “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima”: il nostro lavoro e le nostre abitudini, i nostri stili di vita ed il nostro modo di rapportarci con gli altri. Perché un pericolo silenzioso è quello di fare il gioco dei mille Principi di Salina che sguazzano nelle varie crisi che abbiamo vissuto, anche di recente. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, è la celebre frase tratta dal “Gattopardo” di Tommasi di Lampedusa, che oggi suona come un monito a non simulare l’adattamento al Covid-19 o ad innamorarsi di una resilienza ad oltranza, ma puntare diritti verso un vero cambiamento giocato dalla Politica. Perché il vero cambiamento promosso - non imposto - dalla crisi “pandeconomica”, ci deve far entrare davvero in un “dopo” e azzerare le storture del “prima”, ma a condizione di immettere sul “mercato” quanta più Politica possibile, per non fare di questa crisi l’ennesima occasione perduta. Ed il pericolo - che poi non vada poi così tutto tanto bene - è latente ma molto concreto, specie se si assiste alle migliaia di webinair che stanno intasando le nostre giornate, ove spesso si cerca di trasformare il freddo (e falso) concetto “crisi/opportunità” nel più romantico “niente sarà più come prima”. Sicuramente sempre meglio dei mielosi cantori de “il cosa al tempo del coronavirus”, dove il “cosa” è sostituibile con “amore”, “lavoro”, “aperitivo” e così via, condivisi sui profili social di leoni da tastiera, oggi relegati in gabbia tra le mura domestiche e non per questo meno aggressivi (me compreso). Ma siamo sicuri che valga la pena ancora ragionare con schemi logici tardo-novecenteschi, quando la saggezza cinese, modello “yin e yang”, affascinava i salotti benpensanti del Vecchio Occidente ricchi di gattopardeschi Principi di Salina? O forse ci siamo un pò troppo innamorati di un falso concetto di crisi (e di conseguenza di un falso concetto di opportunità), al punto tale che quelle che noi tutti abbiamo ritenuto fossero “crisi” non siano state poi cosi “realmente critiche”, tali cioè da farci diventare qualcosa di nuovo e chiudere definitivamente col passato? Eppure ne abbiamo vissute di quelle fratture, quasi sempre associate ad eventi catastrofici, che hanno segnato solchi profondi allo scorrere naturale della nostra vita, sociale e professionale, e che ci hanno dato l’illusione di un “ieri che non c’è più definitivamente”. Ma era tutto un’illusione, e non ce n’eravamo accorti, perché - e ne è la prova - continuiamo ad essere gli stessi di ieri. La generale riluttanza a mettere il naso più in là della nostra brevissima esperienza di vita, ci limita ad elencarne solo alcune di queste presunte crisi, e solo quelle ovviamente più recenti. Pensiamo all’11 settembre. Ognuno di noi ricorda dov’era quel maledetto giorno e le immagini degli aerei che si schiantavano su grattaceli ed altri obiettivi, mietendo vittime innocenti, colpendo al cuore i simboli dell’Occidente e la sua bandiera più rappresentativa, gli Stati Uniti d’America. Poi le guerre successive, le uccisioni dei terroristi più pericolosi, le restrizioni alla nostra libertà di viaggiare, la paura. Questo evento, che avrebbe dovuto cambiare per sempre le nostre vite, aprendoci ad un mondo più libero, sicuro e orfano del terrore, è stato sempre visto come una frattura tra un “prima” e un “dopo”, un simbolo macabro di una crisi che ci avrebbe reso tutti diversi dal “prima” e si sarebbe trasformata nello “yang” dell’opportunità. Eppure, le guerre che hanno seguito l’11 settembre non hanno risolto il problema del terrorismo, anzi lo hanno recapitato dentro le nostre città europee, nel cuore della nostra vita quotidiana, con camion e auto che si lanciavano sulle folle, accoltellatori e kamikaze che facevano irruzione in luoghi più rappresentativi della nostra vita quotidiana da Occidentali. Idem per i viaggi: non abbiamo cambiato le nostre abitudini a viaggiare, ci siamo adattati alle misure di sicurezza ed abbiamo ripreso a girare il mondo forse più di prima, proprio come volevano i tanti Principi di Salina. Insomma: dalle primissime convinzioni che il crollo delle Torri Gemelle ci avrebbe reso diversi, ci siamo dovuti ricredere e considerare che le opportunità che seguirono, scaturite da episodi tragici, non fossero mai state colte in pieno. E ancora oggi inconsapevolmente, tutti noi siamo più che convinti del fatto che siamo gli stessi di prima e, se possibile, in molti casi, peggiori (non sta a me fare la classifica dei mali, ma basti pensare alle guerre, al terrorismo e all’immigrazione, fenomeni ancora presenti e sempre più frequenti). Quindi, in altre parole, domandiamoci: l’11 settembre - e quello che ne seguì - fu vera crisi, intesa nel senso di potersi poi trasformare in opportunità per cambiare? Stessa sorte per l’altra “crisi” che ricordiamo come tale perché vissuta in prima persona: chiamatela come volete - Lehman Brothers, Finanziaria, Subprime, Mercato Immobiliare -, ma quella del 2008 ha sconvolto le nostre vite come nessun’altra crisi economica dal 1929 (che, non avendola vissuta se non nelle immagini in bianco e nero, poteva contare ben poco, se non come lettori e appassionati di storia). Milioni di posti di lavoro persi, risparmi bruciati, famiglie divenute povere in meno di 24 ore, aziende e attività chiuse dall’oggi al domani, benessere sociale sconvolto dal calo dei consumi e da una crisi di liquidità senza precedenti. Eppure, a distanza di pochissimi anni e nonostante che molti suoi effetti siano ancora in atto, abbiamo ripreso a giocare in borsa, ad investire in immobili, a produrre beni e servizi allo stesso modo di prima, “consumando” in pieno stile da società del benessere, inquinando peggio di prima, facendo più debiti di prima e così via. Possiamo dire, senza paura di essere smentiti, di aver cambiato stile di vita, e che oggi siamo diversi - e non solo per un fatto anagrafico - dal 2001 o dal 2008? Furono tutte “vere” crisi quelle generate da quegli eventi sconvolgenti, su cui ancora si producono film, trasmissioni e Serie TV, articoli, paragoni da talk show della sera con quella attuale? In altre parole: possiamo davvero dire con certezza che ci sia stato per noi un “prima” e un “dopo”, una vera crisi a cui è seguita una altrettanto vera opportunità, e che siamo davvero cambiati rispetto al passato, che siamo cioè davvero “nuovi”? Viste così, le due più recenti, assomiglierebbero più ad occasioni perdute o crisi irrisolte, considerato che, per alcuni aspetti, sono ancora in corso, ma sicuramente sono “false” se non hanno prodotto quello scatto decisivo per cambiare. False crisi su cui incombe su noi italiani “medi”, e spesso a livello inconscio, una sorta di Sindrome di Stoccolma nei confronti del nostro passato, e che ci fa troppo procedere in avanti con la sicurezza che tanto lo “stellone” d’Italia prima o poi ci salverà, come sempre. Da anni, infatti, ci siamo abituati - forse troppo - a credere ai lunghi sermoni sul secondo Rinascimento, sulle bellezze artistiche di un Paese bello, sul nostro primato in molti settori della creatività artigianale e industriale, su tutto ciò in cui primeggiamo nel mondo e che qualche volta ci fa dimenticare l’orgoglio di essere italiani, salvo poi arrabbiarci quando ci sfottono dall’estero. E’ l’abitudine a pensare di poter vivere a lungo con un passato che spesso non ci meritiamo, se non per il fatto di condividere la nazionalità con scienziati, poeti, Santi e navigatori: come se tutto ciò ci appartenesse solo per la fortuna di averlo ereditato, senza alcun merito e senza consapevolezza e responsabilità. E questa abitudine non agevola quel desiderio di cambiamento che tutti dovremmo provare specialmente a seguito di crisi ed eventi catastrofici come quello che stiamo vivendo oggi. Resta più comodo adagiarci sulle subdole nostalgie di questi primati perduti, soffocando sul nascere il desiderio di cambiare facendo tesoro delle crisi, per trasformarle in autentiche opportunità, essere diversi da quelli di prima e immaginare davvero un “dopo” migliore. Prima di attendere in maniera passiva l’avvento di un nuovo Rinascimento (e magari il vaccino) e meritarci ciò che di bello ci ha trasmesso il nostro passato, partendo proprio da questa ennesima crisi, potremmo fare subito Politica attraverso le armi della consapevolezza, della responsabilità e del coraggio. Consapevolezza dell’autentico valore delle cose, quelle che ci sono più mancate nella Fase 1 dell’isolamento e le altre che abbiamo riscoperto: le passeggiate, il lavoro che ci dava più soddisfazione, le amicizie vere e gli affetti familiari, i lavori domestici, la vicinanza ed il gioco con i figli. Responsabilità intesa come azione che genera effetto positivo non solo su noi stessi, ma anche su chi ci circonda ed il nostro ambiente. A questo proposito, prioritario, e non più rinviabile, sarebbe abbracciare un’economia green che tenga conto dell’impatto delle nostre azioni sul territorio che ci ospita, e che dialoghi con le altre sue parole chiave, e cioè sviluppo sostenibile e responsabilità sociale. Un concetto “green”, lontanissimo dai salotti dei finti ambientalismi, e che va declinato anche nei nuovi modi di relazionarsi con gli altri, per ascoltare di più e parlare di meno, per avere più forte la consapevolezza delle nostre abilità e ricchezze che ci hanno tramandato, quelle cose che avevamo trascurato ma che ci sono enormemente mancate in questi giorni di isolamento, forse più di aperitivi e cene, o di vacanze e auto di lusso. Un “green” che deve puntare al chilometro zero della burocrazia, vera nemica dello sviluppo e foriera di intenti malavitosi e criminali, alle capacità di far crescere le nuove generazioni in un ambiente sano e ricco di potenzialità. Infine, il coraggio, quello che ci spinge a non attendere passivamente la scoperta del vaccino, e che ci salvi subito dalle tentazioni di adagiarsi su un passato che non passa mai, e ci spinga a cambiare davvero senza continuare a fare finta che tutto cambi. Il coraggio, soprattutto, di disfarci dei mille simulatori del cambiamento e degli innamorati della resilienza ad oltranza, quelli che vorrebbero davvero non cambiare mai e continuare a difendere i propri privilegi, sia nei Palazzi romani che nelle periferie più periferie d’Italia. Solo così avremo la certezza che quando il Covid-19 passerà ed entreremo a pieno titolo nel “dopo”, non saremo più costretti a dirci: “Ma fu vera crisi?”