Covid-19, Non ci resta che "scendere in Politica" contro i "simulatori" del cambiamento
Tra le prime bugie che negli anni ’80 ci raccontavano i docenti nelle Business School, i papà dei tecnocrati che bisticciano da mesi in TV sul virus, è l’ambivalente significato cinese di “crisi”, che racchiude la dicotomia “minaccia/opportunità”, concetto più italianamente noto come “non tutti i mali vengono per nuocere”.
A parte il fatto che del Covid-19 ne avremmo fatto tutti volentieri a meno, bisogna sottolineare come, in realtà, nel termine cinese non c’è traccia del concetto di “opportunità”, bensì ci si limita all’ambivalenza più sottile “pericolo/momento cruciale”, senza peraltro offrire elementi di positività e garanzie sul buon esito della situazione.
Neanche i cinesi, autori dell’ideogramma dal duplice significato (e fors’anche del Covid-19), sono convinti del fatto che non tutte le crisi abbiano necessariamente un lieto fine.
Il perché è semplice: una crisi vera e propria, come quella “pandeconomica” che stiamo vivendo, non si supera in maniera naturale o affidandoci solo ai tecnocrati, da cui magari spunta quello che s’inventa il vaccino.
Ma richiede due qualità individuali spesso assopite da tempo: consapevolezza del “momento cruciale” e senso di responsabilità, cioè capacità di risposta.
Ne aggiungo una terza, non meno importante della altre: il coraggio delle scelte.
Ci vuole consapevolezza, responsabilità e coraggio. Ci vuole, in un termine solo, Politica, ma quella vera e con la “P” maiuscola.
Puntare al buon esito della crisi - esito né naturale né scontato - significa chiedere a tutti noi un ruolo più attivo come Persone (ancora una “P” maiuscola), e quindi, decisivo per un cambiamento che segni davvero un solco profondo tra il “prima” e il “dopo” Covid-19.
In altre parole, dobbiamo “scendere” in Politica, intesa nel significato più raggiante del termine, e cioè: quel modo di agire in vista del raggiungimento di un determinato fine, sia nell’ambito pubblico sia in quello privato (cfr, Treccani).
Fuggire dalla Politica, nostro costume da decenni, o affidare tutto alla politica (quella con la “p” stavolta minuscola) oggi significherebbe avviare una falsa ripartenza, disegnando il classico scenario gattopardesco ove “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima”: il nostro lavoro e le nostre abitudini, i nostri stili di vita ed il nostro modo di rapportarci con gli altri.
Perché un pericolo silenzioso è quello di fare il gioco dei mille Principi di Salina che sguazzano nelle varie crisi che abbiamo vissuto, anche di recente.
“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, è la celebre frase tratta dal “Gattopardo” di Tommasi di Lampedusa, che oggi suona come un monito a non simulare l’adattamento al Covid-19 o ad innamorarsi di una resilienza ad oltranza, ma puntare diritti verso un vero cambiamento giocato dalla Politica.
Perché il vero cambiamento promosso - non imposto - dalla crisi “pandeconomica”, ci deve far entrare davvero in un “dopo” e azzerare le storture del “prima”, ma a condizione di immettere sul “mercato” quanta più Politica possibile, per non fare di questa crisi l’ennesima occasione perduta.
Ed il pericolo - che poi non vada poi così tutto tanto bene - è latente ma molto concreto, specie se si assiste alle migliaia di webinair che stanno intasando le nostre giornate, ove spesso si cerca di trasformare il freddo (e falso) concetto “crisi/opportunità” nel più romantico “niente sarà più come prima”.
Sicuramente sempre meglio dei mielosi cantori de “il cosa al tempo del coronavirus”, dove il “cosa” è sostituibile con “amore”, “lavoro”, “aperitivo” e così via, condivisi sui profili social di leoni da tastiera, oggi relegati in gabbia tra le mura domestiche e non per questo meno aggressivi (me compreso).
Ma siamo sicuri che valga la pena ancora ragionare con schemi logici tardo-novecenteschi, quando la saggezza cinese, modello “yin e yang”, affascinava i salotti benpensanti del Vecchio Occidente ricchi di gattopardeschi Principi di Salina?
O forse ci siamo un pò troppo innamorati di un falso concetto di crisi (e di conseguenza di un falso concetto di opportunità), al punto tale che quelle che noi tutti abbiamo ritenuto fossero “crisi” non siano state poi cosi “realmente critiche”, tali cioè da farci diventare qualcosa di nuovo e chiudere definitivamente col passato?
Eppure ne abbiamo vissute di quelle fratture, quasi sempre associate ad eventi catastrofici, che hanno segnato solchi profondi allo scorrere naturale della nostra vita, sociale e professionale, e che ci hanno dato l’illusione di un “ieri che non c’è più definitivamente”.
Ma era tutto un’illusione, e non ce n’eravamo accorti, perché - e ne è la prova - continuiamo ad essere gli stessi di ieri.
La generale riluttanza a mettere il naso più in là della nostra brevissima esperienza di vita, ci limita ad elencarne solo alcune di queste presunte crisi, e solo quelle ovviamente più recenti.
Pensiamo all’11 settembre.
Ognuno di noi ricorda dov’era quel maledetto giorno e le immagini degli aerei che si schiantavano su grattaceli ed altri obiettivi, mietendo vittime innocenti, colpendo al cuore i simboli dell’Occidente e la sua bandiera più rappresentativa, gli Stati Uniti d’America. Poi le guerre successive, le uccisioni dei terroristi più pericolosi, le restrizioni alla nostra libertà di viaggiare, la paura.
Questo evento, che avrebbe dovuto cambiare per sempre le nostre vite, aprendoci ad un mondo più libero, sicuro e orfano del terrore, è stato sempre visto come una frattura tra un “prima” e un “dopo”, un simbolo macabro di una crisi che ci avrebbe reso tutti diversi dal “prima” e si sarebbe trasformata nello “yang” dell’opportunità.
Eppure, le guerre che hanno seguito l’11 settembre non hanno risolto il problema del terrorismo, anzi lo hanno recapitato dentro le nostre città europee, nel cuore della nostra vita quotidiana, con camion e auto che si lanciavano sulle folle, accoltellatori e kamikaze che facevano irruzione in luoghi più rappresentativi della nostra vita quotidiana da Occidentali.
Idem per i viaggi: non abbiamo cambiato le nostre abitudini a viaggiare, ci siamo adattati alle misure di sicurezza ed abbiamo ripreso a girare il mondo forse più di prima, proprio come volevano i tanti Principi di Salina.
Insomma: dalle primissime convinzioni che il crollo delle Torri Gemelle ci avrebbe reso diversi, ci siamo dovuti ricredere e considerare che le opportunità che seguirono, scaturite da episodi tragici, non fossero mai state colte in pieno.
E ancora oggi inconsapevolmente, tutti noi siamo più che convinti del fatto che siamo gli stessi di prima e, se possibile, in molti casi, peggiori (non sta a me fare la classifica dei mali, ma basti pensare alle guerre, al terrorismo e all’immigrazione, fenomeni ancora presenti e sempre più frequenti).
Quindi, in altre parole, domandiamoci: l’11 settembre - e quello che ne seguì - fu vera crisi, intesa nel senso di potersi poi trasformare in opportunità per cambiare?
Stessa sorte per l’altra “crisi” che ricordiamo come tale perché vissuta in prima persona: chiamatela come volete - Lehman Brothers, Finanziaria, Subprime, Mercato Immobiliare -, ma quella del 2008 ha sconvolto le nostre vite come nessun’altra crisi economica dal 1929 (che, non avendola vissuta se non nelle immagini in bianco e nero, poteva contare ben poco, se non come lettori e appassionati di storia).
Milioni di posti di lavoro persi, risparmi bruciati, famiglie divenute povere in meno di 24 ore, aziende e attività chiuse dall’oggi al domani, benessere sociale sconvolto dal calo dei consumi e da una crisi di liquidità senza precedenti.
Eppure, a distanza di pochissimi anni e nonostante che molti suoi effetti siano ancora in atto, abbiamo ripreso a giocare in borsa, ad investire in immobili, a produrre beni e servizi allo stesso modo di prima, “consumando” in pieno stile da società del benessere, inquinando peggio di prima, facendo più debiti di prima e così via.
Possiamo dire, senza paura di essere smentiti, di aver cambiato stile di vita, e che oggi siamo diversi - e non solo per un fatto anagrafico - dal 2001 o dal 2008?
Furono tutte “vere” crisi quelle generate da quegli eventi sconvolgenti, su cui ancora si producono film, trasmissioni e Serie TV, articoli, paragoni da talk show della sera con quella attuale?
In altre parole: possiamo davvero dire con certezza che ci sia stato per noi un “prima” e un “dopo”, una vera crisi a cui è seguita una altrettanto vera opportunità, e che siamo davvero cambiati rispetto al passato, che siamo cioè davvero “nuovi”?
Viste così, le due più recenti, assomiglierebbero più ad occasioni perdute o crisi irrisolte, considerato che, per alcuni aspetti, sono ancora in corso, ma sicuramente sono “false” se non hanno prodotto quello scatto decisivo per cambiare.
False crisi su cui incombe su noi italiani “medi”, e spesso a livello inconscio, una sorta di Sindrome di Stoccolma nei confronti del nostro passato, e che ci fa troppo procedere in avanti con la sicurezza che tanto lo “stellone” d’Italia prima o poi ci salverà, come sempre.
Da anni, infatti, ci siamo abituati - forse troppo - a credere ai lunghi sermoni sul secondo Rinascimento, sulle bellezze artistiche di un Paese bello, sul nostro primato in molti settori della creatività artigianale e industriale, su tutto ciò in cui primeggiamo nel mondo e che qualche volta ci fa dimenticare l’orgoglio di essere italiani, salvo poi arrabbiarci quando ci sfottono dall’estero.
E’ l’abitudine a pensare di poter vivere a lungo con un passato che spesso non ci meritiamo, se non per il fatto di condividere la nazionalità con scienziati, poeti, Santi e navigatori: come se tutto ciò ci appartenesse solo per la fortuna di averlo ereditato, senza alcun merito e senza consapevolezza e responsabilità.
E questa abitudine non agevola quel desiderio di cambiamento che tutti dovremmo provare specialmente a seguito di crisi ed eventi catastrofici come quello che stiamo vivendo oggi.
Resta più comodo adagiarci sulle subdole nostalgie di questi primati perduti, soffocando sul nascere il desiderio di cambiare facendo tesoro delle crisi, per trasformarle in autentiche opportunità, essere diversi da quelli di prima e immaginare davvero un “dopo” migliore.
Prima di attendere in maniera passiva l’avvento di un nuovo Rinascimento (e magari il vaccino) e meritarci ciò che di bello ci ha trasmesso il nostro passato, partendo proprio da questa ennesima crisi, potremmo fare subito Politica attraverso le armi della consapevolezza, della responsabilità e del coraggio.
Consapevolezza dell’autentico valore delle cose, quelle che ci sono più mancate nella Fase 1 dell’isolamento e le altre che abbiamo riscoperto: le passeggiate, il lavoro che ci dava più soddisfazione, le amicizie vere e gli affetti familiari, i lavori domestici, la vicinanza ed il gioco con i figli.
Responsabilità intesa come azione che genera effetto positivo non solo su noi stessi, ma anche su chi ci circonda ed il nostro ambiente. A questo proposito, prioritario, e non più rinviabile, sarebbe abbracciare un’economia green che tenga conto dell’impatto delle nostre azioni sul territorio che ci ospita, e che dialoghi con le altre sue parole chiave, e cioè sviluppo sostenibile e responsabilità sociale.
Un concetto “green”, lontanissimo dai salotti dei finti ambientalismi, e che va declinato anche nei nuovi modi di relazionarsi con gli altri, per ascoltare di più e parlare di meno, per avere più forte la consapevolezza delle nostre abilità e ricchezze che ci hanno tramandato, quelle cose che avevamo trascurato ma che ci sono enormemente mancate in questi giorni di isolamento, forse più di aperitivi e cene, o di vacanze e auto di lusso.
Un “green” che deve puntare al chilometro zero della burocrazia, vera nemica dello sviluppo e foriera di intenti malavitosi e criminali, alle capacità di far crescere le nuove generazioni in un ambiente sano e ricco di potenzialità.
Infine, il coraggio, quello che ci spinge a non attendere passivamente la scoperta del vaccino, e che ci salvi subito dalle tentazioni di adagiarsi su un passato che non passa mai, e ci spinga a cambiare davvero senza continuare a fare finta che tutto cambi.
Il coraggio, soprattutto, di disfarci dei mille simulatori del cambiamento e degli innamorati della resilienza ad oltranza, quelli che vorrebbero davvero non cambiare mai e continuare a difendere i propri privilegi, sia nei Palazzi romani che nelle periferie più periferie d’Italia.
Solo così avremo la certezza che quando il Covid-19 passerà ed entreremo a pieno titolo nel “dopo”, non saremo più costretti a dirci: “Ma fu vera crisi?”
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