Era di Tortoreto, Giulia Di Sabatino: aveva 19 anni. La sera del 31 agosto del 2015, si era recata nel ristorante dove lavorava. Poi, finito il turno, era tornata a casa, in tempo per festeggiare il suo compleanno con i genitori alla mezzanotte. “Avrebbe dovuto”, perchè Giulia con un improvviso cambio di programma uscì di casa, lasciando anche il cellulare e quella valigia semipiena con cui non vedeva l’ora di partire per raggiungere sua sorella a Londra. Aveva già il biglietto Giulia, ed era entusiasta di raggiungere quella grande e vivace città che le avrebbe regalato un nuovo futuro. Non fece più ritorno. La mattina seguente i genitori hanno sporto denuncia per la scomparsa della figlia, poco più tardi vennero convocati per riconoscere alcuni indumenti: la Polizia Stradale di Pescara aveva ritrovato il cadavere della giovane, sull’autostrada A14 fra Giulianova e Mosciano Sant’Angelo, in prossimità di un cavalcavia.
Partirono le indagini: Giulia si era lanciata dal cavalcavia? O qualcuno l'aveva uccisa e poi gettata da li? C'era stata istigazione al suicidio? Alcuni testimoni parlarono di una Fiat Panda di colore rosso in cui Giulia sarebbe stata vista salire all’altezza del cavalcavia dell’autostrada. Dopo mesi di appelli da parte dei genitori di Giulia Di Sabatino e della trasmissione di Rai3 “Chi l’ha visto?”, si scoprì l’identità del misterioso uomo con la Panda rossa, l’ultimo ad aver visto Giulia ancora viva: c’era il suo DNA sugli slip della ragazza. Ammise di essere stato con Giulia quella sera, ma di averla lasciata che stava benissimo.
Le indagini si chiusero, su richiesta della Procura il Gip archiviò il fascicolo per istigazione al suicidio (tre gli indagati, tra cui l’uomo della Panda Rossa); la ragazza venne considerata morta per suicidio. Si aprì però un’altra inchiesta condotta dalla Polizia Postale e coordinata della Procura Distrettuale dell’ Aquila: un trentenne di Giulianova al centro delle indagini, venne poi rinviato a giudizio con l’accusa di induzione alla prostituzione minorile e pornografia minorile. Tra le vittime c'era anche Giulia. Nel computer del trentenne i consulenti dell’accusa trovarono file cancellati, oltre 134.000, con immagini pornografiche e video, in cui compariva Giulia, ed anche altre sue amiche, adolescenti, studentesse, all’epoca delle foto tutte minorenni. Le foto sarebbero state anche diffuse via Whatsapp. Lo stesso giovane era stato indagato insieme ad altre due persone nell' inchiesta (archiviata) per istigazione al suicidio sulla morte della ragazza. Nel cellulare di Giulia i consulenti trovarono oltre 1000 messaggi, risalenti al periodo tra il 2014 e il 2015, scambiati con questo giovane accusato di avere immagini intime sue e di altre ragazze.
La famiglia da sempre si oppone alla ricostruzione della Procura: troppi i dubbi ed i quesiti che la tesi del suicidio ha lasciato senza risposta. Mentre continua il processo presso il tribunale di Teramo per induzione alla prostituzione minorile e pornografia minorile, il legale della famiglia Di Sabatino punta a riaprire il caso per la morte di Giulia. C’è qualcuno che ancora non ha raccontato tutta la verità? C’è qualcuno che ha visto qualcosa ma non ha ancora avuto il coraggio di parlare?
Il 1 settembre 2022, il compleanno di Giulia è stato ricordato con una fiaccolata nel centro di Tortoreto, guidata dallo slogan “Verità e giustizia per Giulia di Sabatino”. La mamma, in un’intervista rilasciata a Veratv news ha dichiarato : “ Andremo avanti, presenteremo a breve un’istanza. E’ stato un omicidio e una mamma non può accettare che ci siano in giro, liberi, gli assassini di sua figlia”.
(fonte foto di copertina, Rai Tre)
La DIA (Direzione Investigativa Antimafia) nella relazione afferente al secondo semestre 2021 parlando della “criminalità organizzata nigeriana” fa riferimento alla crudele uccisione di Pamela: si legge alla pagina 414 “L’estrema pericolosità della criminalità organizzata nigeriana è dimostrata dalla sua capacità di insediarsi proficuamente in ambiti territoriali comunemente caratterizzati da un basso spessore delinquenziale e dalle gravi conseguenze talvolta prodotte nel tessuto sociale. Si fa riferimento a tale proposito all’omicidio della giovane diciottenne romana Pamela Mastropietro uccisa crudelmente a Macerata nel gennaio 2018 dal pusher nigeriano Innocent Oseghele per il quale la Corte di Cassazione si è già pronunciata in modo definitivo in ordine alle sue responsabilità lo scorso 23 febbraio”.
Ad attribuire la connotazione di “mafiosità” alla criminalità organizzata nigeriana è stata in più occasioni la stessa Corte di Cassazione, come riportato nel rapporto DIA: “(...) sotto il profilo della pericolosità economica e sociale assumono predominante rilievo i c.d. secret cults i cui tratti tipici sono l’organizzazione gerarchica, la struttura paramilitare, i riti di affiliazione, i codici di comportamento e più in generale un modus agendi relativamente al quale la Corte di Cassazione si è più volte espressa riconoscendone la tipica connotazione di “mafiosità”.
Come più volte ricordato dal legale della famiglia di Pamela, avvocato Marco Valerio Verni, dai 27 arresti ( quasi tutti i soggetti erano di nazionalità nigeriana) effettuati a Macerata all’indomani dell’udienza preliminare per l’omicidio della giovane, emerse una organizzazione dedita allo spaccio di stupefacenti, a struttura ben organizzata che si era spartita la città di Macerata in zone di spaccio, tre per la precisione, con dei capi al vertice della piramide e a scendere i così detti “manovali”; caratteristiche queste che, insieme all’ intimidazione esercitata e all’ omertà connotano l'organizzazione criminale di stampo mafioso così come definita dalla Suprema Corte.
Il 27 ottobre scorso è stato archiviato il procedimento su due presunti complici di Innocent Oseghale, l’uomo accusato in via definitiva dell’ omicidio di Pamela: per il gip l'ipotesi investigativa che ad aiutare Oseghale potessero esserci stati due gambiani non ha trovato alcun concreto riscontro. Da un lato l’archiviazione, ma dall’altro, nella stessa pronuncia, il gip ha deciso di trasmettere copie degli atti alla Procura per valutazioni di sua competenza riguardo nuovi elementi emersi dalle indagini, contenuti nell’atto di opposizione all’archiviazione presentata dal legale dei familiari di Pamela.
L’Avvocato Verni si è da sempre strenuamente battuto insime ai familiari di Pamela affinchè il terribile omicidio venisse inquadrato in un contesto “più ampio”: pensiero supportato da una serie concreta di elementi che si trovano nelle carte del fascicolo di Pamela. A tale proposito ricordiamo due delle dichiarazioni che già nel 2019 fece il pentito di ‘ndrangheta Vincenzo Marino che era stato detenuto nel carcere di Ascoli insieme ad Oseghale, supertestimone d’accusa contro lo stesso imputato: “Tengo a precisare che a Macerata, da quanto sono venuto a sapere, si è instaurata la mafia nigeriana” ; ed ancora: “So che Oseghale è la figura referente della comunità mafiosa nigeriana a Macerata a livello di prostituzione e stupefacenti”.
Fare luce sul terribile omicidio di Pamela significa fare luce su quel “contesto più ampio” di cui parla l’avvocato Verni, mentre afferma “solo così il martirio di Pamela avrà avuto davvero giustizia”.
Un'intervista al Corriere della Sera torna a far parlare dell’omicido di Meredith Kercher commesso a Perugia la sera del 1 novembre 2007: la studentessa inglese, giunta all’università di Perugia con il progetto Erasmus, venne ritrovata nella casa che condivideva con altre studentesse priva di vita, nella propria camera da letto: dei 47 colpi sferrati con un piccolo coltello, quello alla gola risultò fatale.
A rilasciare le sue dichiarazioni è Rudy Guede, unico condannato in via definitva con rito abbreviato per l'omicidio, da un anno tornato in libertà; vent’enne all’epoca dei fatti, è tornato libero nel novembre del 2021 dopo avere scontato 16 anni di reclusione. Guede fece la sua comparsa nella vicenda 15 giorni dopo il delitto, quando tracce del suo Dna furono trovate sulla scena dell’omicidio.
“L'ho detto quando credevano che mentissi per evitare la condanna, lo ripeto più che mai adesso che ho finito di pagare il mio conto alla Giustizia: io non ho ucciso Meredith”.
"Io c'ero in quella casa, chi lo nega? C'erano le mie tracce sul luogo del delitto, certo. Mica stavo fermo in un angolo. Ero con Meredith, ci siamo scambiati effusioni, abbiamo avuto un approccio sessuale, sono andato al bagno, ho provato a fermare il sangue che le usciva dal collo. Ovvio che ci fossero le mie tracce in giro. La sostanza è che è stato trovato il mio Dna. Dna, non sperma. Come ho sempre detto, stavamo per avere un rapporto sessuale ma ci siamo fermati perché senza preservativi. Eravamo due adulti consenzienti".
Secondo la versione resa da Guede, il ragazzo si trovava in bagno al momento dell’omicidio, con le cuffiette ad ascoltare musica ad alto volume: "Ero uscito dal bagno dopo aver sentito un urlo potente malgrado avessi le cuffiette con la musica a palla, nella penombra avevo visto uno sconosciuto con un coltello in mano". Dice di aver trovato Meredith agonizzante, di averla soccorsa, di aver cercato di tamponare il sangue con gli asciugamani.
"La paura ha preso il sopravvento e sono scappato come un vigliacco lasciando Mez forse ancora viva. Di questo non finirò mai di pentirmi. Ma avevo 20 anni e avevo davanti una ragazza agonizzante”.
Ricordiamo brevemente le tappe di uno dei processi più controversi della storia italiana: condannati, assolti, condannati e ancora assolti! Due ragazzi, Amanda Knox, coinquilina della vittima, e Raffaele Sollecito, legato da una relazione sentimentale alla Knox, furono sin da subito al centro delle indagini: su un coltello trovato nella cucina di Sollecito la polizia scientifica individuò Dna della Knox, sul manico, e Dna di Meredith Kercher sulla lama.
Sul gancio di un reggiseno della Kercher venne invece individuato il DNA di Sollecito. Interrogati nell’immediatezza del fatto, la stessa notte del delitto, molte furono le contraddizioni della Knox.
I due vennero arrestati, accusati dell’omicidio della studentessa inglese ed in primo grado nel 2009 condannati per averla uccisa "mediante strozzamento e dopo averla abusata sessualmente ed attinta da numerose coltellate": 26 anni di carcere ad Amanda Knox e 25 anni a Raffaele Sollecito, in concorso con Rudi Guede (la cui vicenda processuale si separò da quelle dei due ragazzi, poichè aveva optato per il giudizio abbreviato).
Gli imputati impugnarono in appello la sentenza di condanna, e nel 2011 vennero scarcerati ed assolti dalla Corte d'Assise d'Appello per non avere commesso il fatto. Nel corso del processo vennero richieste nuove perizie: "le indagini genetiche esperite nella rinnovata perizia portarono ad escludere, secondo i giudici d’Appello, la presenza del profilo genetico di Meredith Kercher sulla lama del coltello...i nuovi periti incaricati avevano chiaramente affermato la possibilità concreta di contaminazione del reperto; con ciò facendo venir meno l’unico elemento indiziario conclamante la riferibilità di quell’arma al delitto" (cit. Sent. di rinvio da Corte di Cassazione).
La nuova sentenza di assoluzione venne impugnata dal Procuratore Generale di Perugia e dalle parti civili davanti alla Corte di Cassazione: la Suprema Corte annullò con rinvio la sentenza, ordinando che si procedesse ad una nuova valutazione dei fatti da parte della Corte di Assise di Appello di Firenze.
Il 30 settembre 2013 prese così inizio il nuovo processo di appello davanti alla Corte di Assise di appello di Firenze. L’accusa chiese 30 anni per Amanda e 26 per Raffaele. I due ragazzi vennero nuovamente condannati per concorso nell’omicidio di Meredith: Amanda Knox a 28 anni e 6 mesi di carcere, Raffaele Sollecito a 25 anni. Per Amanda, che si trovava negli Stati Uniti, nessuna misura restrittiva; per Raffaele venne disposto il divieto di espatrio con ritiro del passaporto.
Gli imputati impugnarono la sentenza di condanna. Nel 2015 la Cassazione ha annullato, questa volta senza rinvio, le condanne a Raffaele Sollecito e Amanda Knox, assolvendoli per non aver commesso il fatto. La Suprema Corte parlò di "clamorose défaillance o amnesie investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine" e affermando la mancanza di prove certe e la presenza di numerosi errori nelle indagini. Si è posta così la fine al caso giudiziario.
Rudi Guede ancora oggi si chiede, come molti si chiesero e continuano a chiedersi: "nelle mie sentenze c'è scritto: in concorso con Amanda Knox e Raffaele Sollecito, e nessuno dei giudici mi ritiene autore materiale del delitto. Poi loro due vengono assolti. Allora io chiedo: con chi ho concorso?"
Ed ancora si sfoga: "Hanno respinto la revisione del mio processo ma è un controsenso logico. La giustizia italiana dice che ho compiuto un crimine con due persone specifiche ma non come autore materiale; loro escono di scena, quindi il carcere lo sconta una persona che non si capisce di cosa sia colpevole e con chi. Un condannato impossibile. O forse il condannato ideale: il negretto senza famiglia, senza spalle coperte, senza un soldo"
Giovedì intorno alle 18.30, un 46enne incensurato, Andrea Tombolini, ha afferrato un coltello da un espositore del supermercato Carrefour, all'interno del centro commerciale di Assago-Milanofiori, e ha accoltellato sei persone: una è rimasta uccisa, era un dipendente del supermercato, cinque sono state ferite.
Il responsabile è stato arrestato con le accuse di omicidio e tentato omicidio plurimo, e piantonato in stato confusionale ed evidente disagio psichico, nel reparto di psichiatria all'ospedale San Paolo. Non era mai stato sottoposto ad un Tso, non risulterebbe formalmente in cura in una struttura sanitaria.
Durante l’interrogatorio con gli inquirenti della procura e i carabinieri, l’uomo avrebbe affermato: "Ho visto le persone e ho deciso di colpirle per sopprimere la mia rabbia. Se devo descrivere il mio sentimento, era di invidia: perché le persone che ho colpito stavano bene, mentre io stavo male. Ritengo di avere un tumore e di dover morire".
Tombolini già il 18 ottobre, si era autoinferto da solo dei pugni al volto e,dopo essere stato medicato al pronto soccorso era uscito con la prenotazione di una visita psichiatrica per i primi di novembre.
Nella stessa giornata di giovedì, nella Caserma di Asso in provincia di Como, il brigadiere Antonio Milia ha sparato e ucciso il Comandante della Stazione presso cui prestava servizio, Doriano Furceri. Ieri mattina, alle prime luci dell’alba, i carabinieri hanno fatto irruzione nella caserma dopo aver trattato per tutta la notte la resa del brigadiere; arrestato, è accusato di omicidio e del tentato omicidio di un militare del Gis (Gruppo di intervento speiale dell'Arma), che è stato colpito da un proiettile a un ginocchio nelle fasi dell'irruzione.
Il brigadiere era stato sospeso nel febbraio scorso dai vertici della Compagnia di Como per problemi di disagio psicologico; dopo essere stato ricoverato presso il reparto di psichiatria, sarebbe stato dimesso e posto in convalescenza per diversi mesi. Sembra che l’uomo fosse perseguitato da ossessioni e fosse convinto che il mondo ce l’avesse con lui. Anche se gli abitanti del luogo lo descrivono come una persona "mite e sempre gentile", il brigadiere da tempo aveva individuato nel comandante Furceri la causa di tutti i suoi mali.
Le scorse settimane voleva tornare ad occupare il suo posto, avendo ricevuto il "via libera" di una Commissione Medica, che lo avrebbe ritenuto nuovamente idoneo al servizio. Ma il comandante della caserma Furceri non era altrettanto certo della sua idoneità e nutriva dei dubbi circa la sua guarigione, tanto da averlo messo forzatamente in ferie. Proprio questa circostanza sembra essere all’origine della discussione finita in tragedia.
I magistrati che indagano certamente interrogheranno i componenti della Commissione alla quale il 57enne aveva fornito ampia documentazione clinica di consulenti medici privati, che avevano valutato positivamente la possibilità di reintegrarlo in servizio.
In entrambi i casi un odio delirante e patologico sembra abbia armato le mani dei due soggetti, ma solamente una perizia psichiatrica potrà stabilire la loro responsabilità, verificando la compromissione della loro capacità intendere e volere al momento del fatto. Per entrambi i casi, la perizia dovrà stabilire se i soggetti si trovavano in una fase attiva della malattia, e, nel caso, se questa abbia eliminato o grandemente scemato la capacità di intendere e di volere.
Bere una bottiglia di vodka a scuola a metà mattina: bravata che è costata la sospensione dalle lezioni a quasi metà classe di un liceo di Ancona. Durante la ricreazione, i ragazzi hanno girato un video con il telefonino, mostrando orgogliosamente la bottiglia di vodka. Il video sarebbe circolato tanto da venire visualizzato anche dai docenti del liceo, che hanno avvisato i genitori e hanno preso poi i provvedimenti disciplinari necessari nei confronti del gruppo.
Il caso, riportato dal Corriere Adriatico, non è un caso isolato: non è una novità che tra i giovanissimi esista il grave problema dell’abuso di alcol. Non è infrequente leggere nelle notizie di cronaca che minorenni vengano trasportati al Pronto Soccorso in coma etilico per abuso di superalcolici.
Lo sballo, l’emulazione, il sentirsi “grandi” di fronte agli amici sono spesso la causa principale di questo comportamento. Il binge drinking ossia le “abbuffate di alcolici”, “moda” nordeuropea giunta già da anni anche in Italia, è la tendenza a consumare almeno 5 drink alcolici consecutivamente, e coinvolge anche minori di 15 anni. Il fine è quello di ubriacarsi, di perdere il controllo in compagnia.
Inutile dire che la prevenzione di questo fenomeno dovrebbe passare attraverso una corretta informazione soprattutto per i più giovani. Questa pratica nuoce ad ogni individuo indipendentemente dall’età, con effetti a lungo termine sulla salute: i ricercatori hanno accertato che provoca danni al sistema cardio circolatorio, neurologico, ormonale, gastrointestinale, e nei giovanissimi danni biologici irreversibili al cervello .
Oltre a ciò non è di secondaria importanza ricordare che queste abbuffate alcoliche possono determinare irritabilità, violenza, accrescono la probabilità di assumere comportamenti a rischio e provocano una perdita di funzioni cognitive con alta propensione a esporsi a rischi per la propria vita e per quella degli altri (pensiamo al tasso di mortalità da incidenti stradali procurati dallo stato di ebrezza).
"Dopo che mia madre aveva mangiato i muffin che le avevamo preparato con dentro benzodiazepine, iniziammo a cercare di capire come proseguire nel nostro progetto. Io ero convinta di quello che volevo fare. Ero decisa. Sono entrata nella camera da letto di mia madre, ricordo di averle messo le mani attorno al collo, Paola la teneva ferma con il suo peso. Mia madre ha inilziato a rantolare, a quel punto Mirto si è accorto non stava andando come previsto ed è entrato in camera. Ha messo lui le mani sul collo di mia mamma. In un certo senso mi ha dato il cambio".
Le parole sono di Silvia Zani, una delle figlie di Laura Ziliani, ex vigilessa, mamma di 3 figlie, vedova, con la passione per le passeggiate in montagna, scomparsa l’ 8 maggio del 2021 da Temù (Brescia). Il suo corpo venne ritrovato ad agosto del 2021 sepolto tra la vegetazione vicino al fiume Oglio, nel paese dell’Alta Vallecamonica. Ad avvisare i Carabinieri della scomparsa della donna era stata proprio lei, Silvia, preoccupata perchè la madre era uscita da casa per un’escursione senza fare ritorno.
Le indagini, nel giro di pochi mesi portarono all’arresto di Silvia, della sorella Paola e del fidanzato di quest’ultima, Mirto Milani. La loro confessione giunse a maggio del 2022: alcuni stralci della confessione sono stati pubblicati dal Giornale di Brescia, e successivamente dalla trasmissione “Quarto Grado”, a pochi giorni dall’inizio del processo davanti alla Corte d’Assise.
La prima immagine che abbiamo delle due sorelle, è quella di due giovani di fronte alle telecamere della trasmissione “Chi l’ha visto? ” entrambe terribilmente affrante, con le lacrime che scendevano copiose dai loro occhi, mentre lanciavano un appello a chiunque avesse notizie della loro madre scomparsa da pochi giorni: “Chiunque l’abbia vista o la veda si faccia avanti e ci aiuti a trovarla”.
Silvia e Paola Zani nel corso della confessione hanno affermato, quanto al movente, che la madre aveva tentato di ucciderle e che loro, insieme con Mirto Milani, l’hanno ammazzata a propria volta pensando che fosse l’unico mezzo per salvarsi. Gli inquirenti non hanno trovato riscontro ai racconti dettagliati che le figlie hanno fatto dei vari tentativi di uccisione che la loro madre avrebbe messo in atto.
“L’idea che avevamo era che voleva liberarsi di noi. Secondo Mirto dovevamo accoltellarla ma questo a me non piaceva, perché sarebbe rimasto il sangue ed è di difficile gestione cancellarne le tracce”. Quando è stato loro chiesto perché non abbiano denunciato i fatti alle forze dell’ordine, la risposta è stata “Non siamo andate a denunciare perchè eravamo senza prove. Iniziammo a capire come risolvere il problema in estate 2020, guardando un film dove un sicario strozzava le persone”.
“Vedendo il telefilm Dexter abbiamo scoperto che vi era un veleno che non lasciava tracce nel corpo. Abbiamo consultato internet e verificato che quanto appreso dalla serie tv era vero” Il trio avrebbe più volte cercato di uccidere la povera donna “Io e Mirto gli abbiamo messo l'antigelo della macchina nella tisana per due volte. E il terzo tentativo è stato con una torta foresta nera. Ne abbiamo mangiata metà, e nell'altra parte abbiamo messo un veleno dentro, così risultava che era stata lei”
Diversa la ricostruzione del movente per gli inquirenti. Il gip nella motivazione dell’arresto aveva scritto che l’omicidio della povera Laura Ziliani era stato commesso “ Nel chiaro interesse a sostituirsi a Laura Ziliani nell'amministrazione di un vasto patrimonio immobiliare, al fine di risolvere i rispettivi problemi economici”. Convinzione confermata anche successivamente nel corso degli interrogatori.
Inizierà giovedì il processo davanti alla Corte d’Assise per l’omicidio di Laura Ziliani commesso dalle figlie Silvia e Paola Zani e da Mirto Milani. Se l'interesse economico è il movente di questo omicidio, non si può trascurare la probabile presenza di disturbi della sfera emotiva e della personalità.
Ciò, si ribadisce come già fatto in passato, non significa “incapacità di intendere e di volere”. Laddove non ci sia una pregressa diagnosi di un disturbo psicopatologico infatti, le barbare uccisioni del proprio genitore, premeditate e organizzate, parlano di totale assenza di empatia, di una spaventosa aridità di sentimenti: il proprio bisogno individuale, qualsiasi esso sia, prevale su tutto e tutti ed allontana questi soggetti dai tratti fortemente narcisistici dal comune sentire e dalla morale.
Vengono trasportati da un odio distruttivo per l’incapacità, chissà mai appresa durante la crescita, di interiorizzare sentimenti d’amore e di rispetto nei confronti dei propri genitori. Una più o meno latente conflittualità con le figure di riferimento ha esacerbato la rabbia covata nel tempo. Ogni caso andrebbe indagato nella sua multifattorialità. In questo caso probabilmente la presenza di una figura maschile come quella di Mirto Milani ha assunto un ruolo dominante nella psiche delle due sorelle, e ha consolidato il trio nel proposito omicidiario.
Oggi centinaia di persone, cittadini aquilani e non, sono radunate nel cortile del palazzo dell'Emiciclo, alla Villa Comunale dell'Aquila, insieme ai familiari delle vittime del terremoto, per partecipare alla manifestazione pubblica "Le vittime non hanno colpa”. Ci sono tra le altre, le associazioni di familiari delle vittime di Amatrice, Rigopiano, Ponte Morandi e i rappresentanti di tutti gli schieramenti politici.
Come hanno spiegato gli organizzatori nei giorni scorsi, obiettivo della manifestazione è “portare il nostro sdegno e la nostra rabbia nella pubblica piazza, per dire in modo forte che le vittime causate dai crolli del terremoto del 6 aprile 2009 non possono essere reputate colpevoli per il fatto di essere rimaste nelle proprie case”.
Il tribunale civile dell’Aquila ha statuito con sentenza che, nel terremoto del 6 aprile 2009, in riferimento al crollo di uno stabile in via Campo di Fossa, in cui morirono 24 persone sulle 309 complessive del sisma, si è verificato un "concorso di colpa” pari al 30% delle vittime decedute sotto le macerie, perché sono state imprudenti a non uscire dopo la seconda scossa. (Ci furono due forti scosse, una verso le 23 e una verso l'una di notte, prima di quella devastante delle 3.32).
In particolare il passaggio shock della sentenza recita: "È fondata l'eccezione di concorso di colpa delle vittime, costituendo obiettivamente una condotta incauta quella di trattenersi a dormire nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile".
"Concorso che tenuto conto dell'affidamento che i soggetti poi defunti potevano riporre nella capacità dell'edificio di resistere al sisma per essere lo stesso in cemento armato e rimasto in piedi nel corso dello sciame sismico da mesi in atto, può stimarsi nella misura del 30 per cento - si legge ancora -. Ne deriva che la responsabilità per ciascun Ministero è del 15 per cento e per il residuo 40 centro in capo agli eredi del costruttore Luigi Del Beato".
Dopo la tragedia che ha visto famiglie private tragicamente dell’affetto dei loro cari, sepolti dalle macerie, gli eredi avevano citato in giudizio sia i ministeri dell'Interno e delle Infrastrutture e Trasporti per le responsabilità della Prefettura e del Genio Civile nei mancati controlli durante la costruzione; sia il Comune dell'Aquila per responsabilità analoghe, e le eredi del costruttore (nel frattempo deceduto).
Gli eredi avevano in mano perizie che attestavano “irregolarità in fase di realizzazione dell'immobile e una grave negligenza del Genio civile nello svolgimento del proprio compito di vigilanza sull'osservanza delle norme poste dalla legge vigente, in tutte le fasi in cui detta vigilanza era prevista".
ll Tribunale, ha condannato i Ministeri dell'Interno e delle Infrastrutture (15% responsabilità ciascuno) e le eredi del costruttore (40% di responsabilità), mentre ha respinto le domande nei confronti del Comune.
Tra i partecipanti alla manifestazione era presente l'avvocato Maria Grazia Piccinini, madre di Ilaria Rambaldi, studentessa di Ingegneria rimasta uccisa nel crollo della palazzina di via Campo di Fossa: "Mi auguro che questa sentenza non abbia seguito - ha dichiatato -. D'altra parte, si tratta di un provvedimento senza precedenti da parte di un magistrato che più volte si è occupato del terremoto, senza mai peraltro attribuire alle vittime alcuna responsabilità né del 30% né del 15% o del 5%. Sono per questo meravigliata. Le domande che mi faccio, dunque, è per quale motivo questa sentenza? Perché proprio adesso? Perché proprio a noi?".
Esplosione su un’imbarcazione carica di migranti diretta a Lampedusa. Due bambini sono morti a causa delle gravissime ustioni e 8 sarebbero i feriti; tra di loro gravissima una ragazza incinta di 25 anni. E' il drammatico bilancio di questa nuova tragedia verificatasi a bordo di un barchino intercettato al largo dell'isola di Lampedusa dagli uomini della Capitaneria di porto.
È stata aperta un'inchiesta dalla Procura di Agrigento per stabilire cosa abbia innescato l'incendio. Verosimilmente, ma spetterà all'inchiesta chiarirlo, è andato a fuoco uno dei bidoni di benzina che era la scorta di carburante.
Il sindaco Filippo Mannino, appresa la notizia, ha dichiarato all’Adnkronos “Sta diventando un incubo. Non è più possibile accogliere persone morte. Sono sindaco da 100 giorni e ho già dovuto ricevere cinque vittime. L’Europa deve fare immediatamente qualcosa, non è più possibile far morire la gente nel Mediterraneo”.
Diana è la piccola di 18 mesi morta di stenti dopo essere stata lasciata sola in casa dalla mamma per 6 giorni. Le forze dell’ordine avevano trovato la bimba priva di vita in casa, nella sua culla. Accanto a lei una boccetta di En, ansiolitico a base di benzodiazepine. La madre Alessia Pifferi, 37 anni, accusata di omicidio volontario aggravato e in carcere dal 21 luglio, aveva sempre negato di aver somministrato tranquillanti alla figlia prima di abbandonarla, dicendo di averle dato solo delle gocce di paracetamolo.
A smentire la versione della madre è quanto emerge dagli esiti preliminari dell'autopsia sul piccolo corpo della bimba, disposta dalla Procura di Milano, che sarà depositata formalmente nei prossimi giorni:le analisi tossicologiche, sia del sangue che del capello, hanno rivelato che alla piccola sono state fatte assumere benzodiazepine.
La giustificazione della madre per quell’abbandono era stata: "Ci contavo sulla possibilità di avere un futuro con lui (l’attuale compagno), e infatti era proprio quello che in quei giorni stavo cercando di capire; è per questo che ho ritenuto cruciale non interrompere quei giorni in cui ero con lui anche quando ho avuto paura che la bambina potesse stare molto male o morire". Per gli inquirenti la Pifferi "ha consapevolmente abbandonato la piccola mettendo davanti ai bisogni della bambina i suoi interessi personali, come la relazione con il compagno".
Complesse indagini dirette dalla Dda di Venezia contro le infiltrazioni della 'ndrangheta, che vedono impegnati oltre 40 militari ed agenti della Guardia di Finanza e della Direzione Investigativa Antimafia, hanno portato la DIA e i finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Verona ad eseguire quattro misure cautelari e a sequestrare beni per un valore di oltre 9 milioni di euro nelle province di Verona, Mantova e Trento.
Tre soggetti, cui sono contestati reati tributari con l’aggravante del metodo mafioso, sono stati portati in carcere ed il quarto è stato sottoposto ad obbligo di dimora presso il comune di residenza.
Elementi probatori concreti emersi nel corso delle indagini hanno messo in luce la contiguità con la ‘ndrangheta di alcune imprese operanti nel settore dell’edilizia in Veneto ed in Emilia Romagna. L’operazione ha fatto emergere una capillare attività di riciclaggio di denaro per la cosca Arena-Nicoscia di Isola Capo Rizzuto in provincia di Crotone: tramite una società venivano emesse fatture false per operazioni inesistenti, di cui erano beneficiarie imprese riconducibili agli esponenti della criminalità organizzata calabrese, operanti tra il Veneto e l’Emilia Romagna.
Numerose sono le investigazioni che negli ultimi anni hanno rilevato l’infiltrazione della 'ndrangheta nel tessuto imprenditoriale, spostando l’organizzazione criminale in quella “zona grigia” in cui gruppi di professionisti ed imprenditori, in virtù della loro posizione e dei loro contatti, procacciano agevolmente sostegni finanziari e “strade aperte” a nuove iniziative imprenditoriali.
Si pensi una su tutte, all' inchiesta che nel maggio 2017 portò all’ operazione interforze "Johnny": 68 furono gli arresti. Le indagini hanno documentato il fenomeno delle infiltrazioni della 'ndrangheta sul centro di accoglienza per migranti di Isola Capo Rizzuto. Un intreccio tra ndrine e colletti bianchi che ha fatto emergere il controllo mafioso, per almeno un decennio, di tutte le attività imprenditoriali connesse al funzionamento dei servizi di accoglienza del C.A.R.A.( centro accoglienza per i richiedenti asilo) “Sant’Anna”. Su 103 milioni di euro di fondi Ue, che lo Stato ha girato dal 2006 al 2015 per la gestione del centro dei richiedenti asilo, 36 sono finiti alla cosca degli Arena. Tra l'altro proprio l'inchiesta "Johnny" ha scoperto che i flussi di finanziamenti pubblici riservati all’emergenza migranti ha costituto la ragione della pax mafiosa tra le cosche Arena e Niscia, prima rivali.
Questa mattina il procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri, ospite su Radio Capital, parlando dei soldi del Pnrr lanciava l'allarme: “i soldi della ‘ndrangheta che entrano nell’economia legale fanno saltare le regole del libero mercato e della democrazia: dobbiamo iniziare a chiederci se quei soldi cominceranno a essere usati per comprare pezzi di giornali, televisioni o radio. In questo modo inizieranno a influenzare il modo di ragionare delle persone. Non so se questa scalata è già iniziata”.
Una carta prepagata intestata ad una donna: ecco dove finiva il denaro, compenso di quel commercio illegale attraverso il quale i detenuti del carcere di Poggioreale a Napoli, venivano riforniti di cocaina, hashish e telefoni cellulari. All'esito delle indagini, cui hanno partecipato anche la direzione del carcere stesso e la polizia penitenziaria, gli inquirenti hanno arrestato otto persone, sei si trovano in carcere e due ai domiciliari, ritenuti gravemente indiziati a vario titolo dei reati di associazione per delinquere finalizzata all’accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti e corruzione. Coinvolto nell'associazione per delinquere, composta da alcuni reclusi e dalle loro mogli, il garante comunale dei detenuti Pietro Ioia: avrebbe approfittato del suo ruolo e della facilità di accesso in carcere che la sua posizione di garante gli assicurava, per effettuare le consegne illegali. La nomina di Ioia a garante, giunta nel 2019 dall'allora sindaco Luigi De Magistris fu molto contestata, in quanto si trattava di un narcotrafficante che aveva scontato 22 anni di reclusione. In particolare i sindacati della polizia penitenziaria si opposero segnalando la totale assenza dei requisiti di competenza in scienze giuridiche e ancor più dell' integrità morale che quel ruolo avrebbe richiesto. In una nota, il presidente e il segretario regionale dell’Unione dei Sindacati di Polizia Penitenziaria (Uspp), Giuseppe Moretti e Ciro Auricchio oggi commentano così l'arresto: "Noi come sindacato avevamo contestato tale scelta da parte del sindaco Luigi de Magistris, in quanto il garante Pietro Ioia non aveva la comprovata capacità di competenza in materia giuridica e inoltre le qualità morali requisiti indispensabili per assolvere il ruolo di garante figura che andrebbe assegnata ad un operatore impegnato nel sociale con un curriculum professionale adeguato al ruolo. Ci aspettiamo che il Sindaco attuale Manfredi sostituisca subito il garante". De Magistris dal canto suo oggi ha affermato: "Scegliemmo, dopo una riflessione in giunta, Pietro Ioia per dare un segnale di fiducia soprattutto al principio costituzionale della funzione rieducativa della pena". Ed ancora: "Fu una scelta coraggiosa, come tutte le scelte coraggiose dall’esito per nulla scontato, peccato che Ioia abbia tradito, come sembra, la fiducia in chi crede e continuerà a credere nella funzione rieducativa della pena e di poter offrire sempre una chance di riscatto alle persone".
La Procura europea (EPPO) è un organismo indipendente dell'Unione europea incaricato di indagare, perseguire e portare in giudizio i reati che ledono gli interessi finanziari dell'UE, quali frodi, corruzione, riciclaggio, appropriazione indebita.
In una nota ufficiale, la Procura Europea ha confermato “di avere un’indagine in corso sull’acquisizione di vaccini contro il Covid-19 nell’Unione europea”. Ha aggiunto : “Questa eccezionale conferma arriva dopo l’interesse pubblico estremamente elevato” “Nessun ulteriore dettaglio sarà reso pubblico in questa fase”.
Oggetto dell’ indagine è la gestione dei negoziati sui contratti di fornitura di vaccini anti-coronavirus da parte della Commissione europea; non è stato precisato per quale tipo di reato o per quale contratto nello specifico si siano attivati gli inquirenti Ue.
Di certo sappiamo che la procedura di acquisizione di vaccini in Europa è stata centralizzata dalla Commissione europea. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, in carica dal 1° dicembre 2019, è già finita nel mirino della Corte dei Conti europea, organismo che vigila sulla legittimità e la regolarità delle entrate e delle uscite del bilancio dell'Unione Europea e ne accerta la sana gestione finanziaria, perchè avrebbe negoziato personalmente l'acquisizione di vaccini Pfizer con la casa farmaceutica.
Del caso si era iniziato a parlare lo scorso aprile, quando il New York Times aveva rivelato dei contatti informali tra l’amministratore delegato di Pfizer e la presidente della Commissione europea: l’accordo tra Commissione Ue e Pfizer era avvenuto tramite una conversazione su Whatsapp. Secondo la Corte dei Conti europea sarebbe l’ unico “contratto per il quale la squadra di negoziazione congiunta non è stata coinvolta in questa fase della trattativa, contrariamente a quanto stabilito dalla Commissione per gli approvvigionamenti dei vaccini anti-Covid”.
“Abbiamo chiesto alla Commissione di fornire informazioni sui negoziati preliminari di questo accordo, tuttavia, non abbiamo ricevuto riscontro”si legge alle pagine 31, 32 del rapporto speciale della Corte dei conti europea depositato a settembre 2022.
Ed ancora si legge alla pagina 32 “Il 16 settembre 2021 il Mediatore europeo ha aperto un fascicolo sul rifiuto della Commissione europea di concedere l’accesso del pubblico ai messaggi di testo scambiati tra la presidente della Commissione e l’amministratore delegato di Pfizer durante i negoziati preliminari. Nella relazione del 26 gennaio 2022, il Mediatore europeo ritiene che il modo in cui la Commissione ha trattato tale richiesta costituisca un caso di cattiva amministrazione e le raccomanda di “cercare nuovamente messaggi di testo pertinenti” e di “valutare, conformemente al regolamento (CE) n. 1049/2001, se […] possa essere concesso l’accesso del pubblico a tali messaggi”.
In tutto ciò, il presidente di Pfizer, Albert Bourla, non è comparso all’audizione presso il Parlamento europeo del 10 ottobre e indetta dalla Commissione speciale europea che sta indagando sulla trasparenza delle procedure contrattuali inerenti ai vaccini anti-Covid 19. Bourla non ha fornito dettagli sulla sua scelta di non presentarsi in audizione.
Non accettava che la donna avesse un nuovo compagno. Stava provando a sfondare a calci e pugni la porta di casa dell’ex fidanzata l’uomo italiano di 47 anni che è stato arrestato ieri a Bologna, zona colli.
Intorno alle 4 di mattina i carabinieri hanno ricevuto la telefonata di una donna, risvegliata nel pieno della notte dalle urla di un uomo che stava prendendo a pugni la porta di un appartamento accanto al suo. L'appartamento era appunto quello della sua ex fidanzata, dove la stessa viveva insieme al nuovo compagno ed ai due figli di 10 e 13 anni, nati dalla relazione con il 47enne, durata dal 2006 al 2017.
Giunti prontamente sul posto i militari hanno trovato l’uomo sul pianerottolo con le mani sporche di sangue a causa dei colpi dati alla porta, e l’hanno tratto in arresto. Le minacce andavano avanti già da tempo, da quando la donna aveva intrapreso la nuova relazione sentimentale. "Ti voglio vedere morire. Ti intossico la vita. Ti ammazzo. Ti faccio perdere il lavoro. Te la faccio pagare” solo alcune delle frasi che negli ultimi tempi il suo stalker le ha rivolto, facendole temere per l’incolumità sua del nuovo compagno e dei figli di lei.
La condotta dell’uomo è sussumibile sotto la fattispecie di reato di stalking: la reiterazione di comportamenti persecutori provocano nella vittima uno stato d’ansia o paura grave e perdurante al punto di farle cambiare le proprie abitudini di vita: minacce, pedinamenti, appostamenti sotto casa, attenzioni indesiderate, telefonate continue ed ogni altro comportamento molesto reiterato nel tempo (almeno due volte in un breve arco temporale).
Elemento allarmante è che il 75% dei casi di femminicidio è preceduto da atti di stalking. Proprio per questa ragione è fondamentale agire tempestivamente con una denuncia.
Tra gli arrestati a Firenze nell’ambito di un’inchiesta su bancarotta fraudolenta, c’era anche Niccolò Donzelli, fratello del deputato Giovanni Donzelli al quale sarebbe contestata, secondo le prime indiscrezioni di cui è venuta a conoscenza l'Adnkronos, una distrazione patrimoniale a proprio favore. Insieme a lui coinvolti 5 professionisti tra avvocati e commercialisti: due sono in carcere, tre ai domiciliari. Ammonta a 2,4 milioni di euro il valore dei beni confiscati che, secondo gli inquirenti, è pari al valore dei beni distratti dalle società fallite e delle imposte non pagate al fisco.
Trentuno gli illeciti a vario titolo contestati, dalla bancarotta fraudolenta, al favoreggiamento,al falso in bilancio, alla sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte: nel dettaglio, dalle indagini sarebbe emerso che un “team” di prestanome e professionisti avrebbero formato una squadra di intervento per 'l'ultimo miglio', secondo la definizione degli inquirenti: aiutavano amministratori di società sulla via del fallimento a distrarre risorse alle spalle dell’erario e dei creditori.
L’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza di Firenze e coordinata dalla Procura del capoluogo, ha messo in luce la dinamica che ha interessato cinque società: in tutti in casi, poco prima del fallimento, avevano fatto ricorso alla squadra “dell’ultimo miglio”; i magistrati hanno spiegato che prima della dichiarazione di fallimento, la squadra interveniva “ non per individuare soluzioni legittimamente meno dannose per la società avviata alla procedura concorsuale, bensì per nascondere le distrazioni, occultare il dissesto, compiere ulteriori atti distrattivi".
Nell'ambito degli interventi finalizzati al contrasto alle frodi nei settori Ecobonus e Sismabonus, la guardia di finanza - si legge in una nota - ha scoperto una maxitruffa ai danni dello Stato per oltre 11 milioni di euro: un gruppo imprenditoriale teramano avrebbe emesso fatture per opere mai realizzate per un valore di quasi 20 milioni di euro, benficiando così di un credito di imposta da ritenere allo stato inesistente.
Le indagini sono tuttora in corso; al momento denunciati alla locale autorità giudiziaria gli ammministratori delle società coinvolte, proposta l’adozione della misura cautelare reale del sequestro preventivo, anche per equivalente nei confronti degli indagati e nei confronti dell’ente, in ordine al profitto del reato per oltre 11 milioni di euro.
Ostia: 15enne violentata da due fratelli, cugini del suo fidanzatino che ha poi diffuso il video della minore. Il ragazzino di sedici anni, che non solo non ha difeso la ragazza, ma di fatto l'ha consegnata ai suoi cugini, è indagato per pedopornografia. I due ragazzi, poco più che ventenni agli arresti domiciliari con l'accusa di violenza sessuale. Negano di aver toccato la quindicenne, ma l'analisi delle chat dei telefonini proverebbe l'avvenuta violenza.
Milano: ragazzine violentate sul tram. Arrestati due 15enni per violenza sessuale di gruppo, palpeggiamenti e aggressioni verbali. Padova: violenza sessuale di gruppo nei confronti di un ventenne ubriaco, durante una festa tra coetanei. Cinque ventenni, mentre il ragazzo era crollato sotto i fumi dell'alcol, lo avrebbero spogliato e stuprato con un chiavistello. Una ragazza avrebbe ripreso la violenza, diffondendola nelle chat degli amici. Una volta risvegliatosi, la vittima, visualizzati i video, ha denunciato tutto ai carabinieri.
Superfluo dire che queste notizie che si sono susseguite nell'ultima settimana riguardano giovanissimi con gravissime lacune educative. Proprio questo presumibilmente li ha portati ad assumere un atteggiamento di indifferenza quando non anche di sfida di fronte alle regole basilari della convivenza civile.
Stiamo parlando di quindicenni, ventenni, che non solo non si rendono conto della gravità del fatto commesso, negandolo e banalizzando anche di fronte alla vittima, ma esternano all'opposto addirittura autocompiacimento per il reato commesso, attraverso la divulgazione sui social di immagini delle violenze perpetrate.
L'atto delittuoso sembra provocare negli aggressori una sorta di appagamento, tanto da farsene vanto. A questa età, la maggior parte delle volte, si agisce nel gruppo. I singoli componenti traggono forza dall'appartenenza al gruppo, quasi ciò garantisca in qualche modo l'impunità. L'identità del singolo individuo soccombe; il reato commesso in gruppo deresponsabilizza i singoli al punto tale che anche l'eventuale pena futura diventerà più tollerabile perchè condivisa.
Alcune ricerche sul fenomeno dei minori autori di reati a sfondo sessuale hanno messo in luce dati interessanti da leggere: in prevalenza il nucleo familiare di questi ragazzi non è un nucleo problematico o con gravi carenze economiche o materiali, ne' disgregato. Inoltre nell'89% dei casi questi giovani non fanno uso abituale di sostanze stupefacenti. Nell' 82% dei casi non presentano disturbi psichiatrici.
Famiglie dunque che non presentano gravi situazioni di disagio o emarginazione, ma piuttosto che sono assenti nel seguire la crescita dei figli con regole educative consone, o che, ancor peggio, ne tollerano le devianze. Giovani apparentemente "normali", senza disturbi psicopatologici, cresciuti in famiglie "normali", che mancano totalmente di empatia e crescono con un'idea di sessualità deviata.
Ancora una volta gli esperti sono concordi nel ritenere che il ruolo degli educatori e delle figure di riferimento è imprescindibile nella crescita sana dell'individuo, nella trasmissioni di valori quali la non violenza e il rispetto dell'altro, oltre che nell'educazione ad una sessualità consapevole e rispettosa dei limiti imposti dalla volontà della partner.
Il rapporto odierno dell'Istat "Condizioni di vita e reddito delle famiglie" pubblicato dall'Istituto di statistica certifica che sono quasi 15 milioni di persone, ossia il 25,4% della popolazione, gli italiani a rischio povertà o esclusione sociale.
Il 5,6% della popolazione (circa 3 milioni e 300 mila soggetti) si trova in condizioni di grave deprivazione materiale, ossia "presenta almeno quattro dei nove segnali di deprivazione individuati dall'indicatore Europa 2020". A più elevato rischio povertà sono le famiglie numerose e quelle con almeno un componente straniero.
Dall’analisi svolta da Coldiretti nei primi otto mesi dell’anno sui dati Istat, relativi al commercio al dettaglio, emerge che più di un italiano su due, il 51%, costretto dai rincari dei prezzi, riduce la spesa nel carrello; il 18% dichiara di aver ridotto la qualità degli acquisti: ciò è evidente dall'impennata degli acquisti del cibo low cost, con i discount alimentari che nei primi otto mesi dell'anno hanno registrato un sensibile aumento del fatturato.
Due turiste belghe di 24 e 25 anni, Jessy Dewildeman e Wibe Bijls, erano giunte da poco a Roma per una vacanza. Si trovavano sul tratto urbano della A24, all’altezza dello svincolo Tor Cervara in direzione Roma centro, quando hanno deciso di fermarsi e scendere dall’auto per prestare soccorso a delle persone coinvolte in un incidente automobilistico. Mentre erano in strada un mezzo le ha travolte. Sul posto sono arrivate subito le auto mediche e le pattuglie della polizia stradale. Il personale del 118 ha tentato di rianimarle, ma per loro non c'è stato nulla da fare.
Dopo l'impatto, l’investitore è fuggito a piedi abbandonando l’auto nei pressi dell'incidente e dileguandosi nel buio; gli investigatori avrebbero già fermato e interrogato un uomo, sospettato di essere il pirata della strada che ha travolto e ucciso le due ragazze.
Nelle stesse ore, alla periferia di Novara, in un altro tragico incidente sono morte due donne milanesi, mentre viaggiavano in direzione Milano su una Fiat Panda. Anche in questo caso l’investitore si è dato alla fuga. L’autovettura su cui viaggiavano le vittime è stata tamponata da una Mercedes classe C, che viaggiava nello stesso senso di marcia. Alla guida un 25enne che dopo l'incidente è scappato nei campi. Rintracciato poco dopo dai carabinieri e’ stato arrestato per omicidio stradale e omissione di soccorso. Dagli accertamenti l’investitore è risultato senza patente e la vettura senza assicurazione.
Per renderci conto che in Italia la sicurezza stradale è una "situazione critica", basta guardare gli ultimi dati Istat: secondo i numeri dell’Istat, nel 2021 – è la data dell’ultimo rapporto – in Italia ci sono stati 151.875 incidenti stradali (+28,4% rispetto all’anno precedente) hanno provocato 2.875 vittime (+20%) e 204.728 feriti (+28,6%). Distrazione (al primo posto l’uso del cellulare), consumo di alcol eccesso di velocità e colpi di sonno sono le principali cause di incidenti gravi.
Le chiamiamo "stragi del profitto". Ora come allora, la strage di Rigopiano, il crollo del ponte di Genova, parlano di negligenze, omissioni,incuria, errori causati dal perseguire il profitto a tutti i costi, a scapito dell’ambiente e delle vite umane.
59 anni fa, milioni di metri cubi di roccia e terreno si staccarono dal monte Toc, al confine tra Veneto e Friuli, finendo nel lago artificiale creato dalla diga del Vajont. Un’onda impressionante ha sollevato 80 milioni di metri cubi di acqua travolgendo i paesini di Erto e Casso e poi quelli del fondovalle veneto, tra cui Longarone.
Prima della furia dell’acqua un terribile boato, poi uno spostamento d’aria paragonabile quasi all’effetto di una bomba atomica che ha investito e ucciso le persone per strada, quegli stessi abitanti che avevano preannunciato i rischi e la pericolosità idrogeologica senza mai smettere di manifestare i propri timori. Inascoltati. I loro cadaveri trasportati dall’acqua, straziati.
Fu aperta un’inchiesta. Giudice istruttore nell’ inchiesta penale per i responsabili del disastro del Vajont fu il marchigiano dott. Mario Fabbri. Senza di lui, senza la sua tenacia, si sarebbe forse parlato di una catastrofe naturale e non del “disastro prevedibile e imminente causato dall’ avidità dell’uomo”.
Poco più che trentenne, nato a Macerata, gli abitanti del posto lo chiamavano " il nostro giudice". La sua onestà intellettuale, il suo rigore professionale gli fecero costruire un’ istruttoria il cui impianto ha resistito per tutti i tre gradi di giudizio; ben 500 pagine, un lavoro durato quattro anni. Durante le indagini, non convinto dell' imparzialità di una perizia sulle cause della frana, decise di nominare un nuovo collegio di periti. Le nuove relazioni non lasciarono dubbi: la catastrofe era prevedibile.
Tra grandi difficoltà e pressioni di ogni genere, l’irremovibilità del giudice portò al rinvio a giudizio di undici persone tra dirigenti della Sade (Società Adriatica di Elettricità), progettisti e tecnici. In Cassazione furono condannati in via definitiva solo alcuni degli imputati, con pene più lievi di quelle da lui richieste.
La memoria di questa tragedia dovrebbe essere una lezione per il presente; ad oggi sembrerebbe una lezione colpevolmente inascoltata.
E’ diventata un docufilm, presentato a settembre in anteprima mondiale a Milano, la storia di Angelo Massaro, detenuto in carcere per 21 interminabili anni con l’accusa di omicidio, sino a che venne riconosciuto vittima di un clamoroso errore giudiziario.
Il titolo del docufilm è “Peso morto”, realizzato dall’associazione senza fini di lucro errorigiudiziari.com di Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, la cui attività è testimoniata nell’omonimo sito internet, e ripercorre la storia di questo incubo che ha inghiottito un uomo e la sua famiglia.
Angelo Massaro, oggi 51enne della provincia di Taranto, era stato accusato dell'omicidio e occultamento di cadavere di Lorenzo Fersurella, ucciso in provincia di Taranto il 22 ottobre del 1995; è stato tratto in arresto in base ad una intercettazione telefonica e ad una dichiarazione di un collaboratore di giustizia che riferiva di aver saputo da terzi del coinvolgimento dell'uomo nel delitto.
Parlando al telefono con la moglie dopo l’omicidio del Fersurella, Massaro aveva pronunciato una frase in dialetto che venne fraintesa: “Sto portando stu muert”. Massaro voleva in realtà intendere “muers”che in dialetto indica un peso ingombrante attaccato al gancio di una vettura, e che lui stava trainando; mentre chi stava intercettando intese “muert” come il cadavere dell’uomo ucciso una settimana prima.
Il difensore di Massaro, dopo che finalmente la Cassazione nel 2015 accolse la richiesta di revisione del processo, è riuscito a dimostrare con nuove prove che il suo assistito si trovava in una località diversa da quella dell’omicidio. Nel 2017 giunse la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto.
Tra chi subisce un vero e proprio errore giudiziario in senso stretto (quelle persone che, dopo essere state condannate con sentenza definitiva, vengono assolte in seguito a un processo di revisione) e le vittime di ingiusta detenzione (cioè coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi venire assolte), dal 1992 ad oggi sono state più di 29.000 le vittime, con una media costante di 1.000 all’anno.
Veri e propri tunnel della disperazione che le vittime insieme alle proprie famiglie si trovano costretti a percorrere, mentre intorno, le certezze di una vita costruite sino a quel momento, si sgretolano, con inimmaginabili ripercussioni psicologiche che spesso si protraggono ben oltre il riconoscimento della loro innocenza.