Non ci sarà un nuovo processo per Antonio Logli, condannato in via definitiva a 20 anni per l’omicidio della moglie Roberta Ragusa e per la distruzione del suo cadavere. La terza sezione penale della Corte d’appello di Genova ha dichiarato inammissibile l’istanza di revisione della sentenza presentata il 5 dicembre dalla difesa dell'uomo.
Roberta Ragusa, 44 anni, sposata, due figli, gestiva una scuola-guida adiacente alla propria abitazione a San Giuliano Terme in provincia di Pisa. Il marito riferì di essersi svegliato la mattina del 13 gennaio 2012 senza la moglie accanto, di averla vista per l’ultima volta la sera precedente intorno alla mezzanotte, intenta a scrivere la lista della spesa.
Logli aveva precisato che Roberta poteva essere uscita di casa in stato confusionale a seguito di un’amnesia causata da un trauma subìto alla testa dopo una caduta accidentale dalle scale, alcuni giorni prima della sua scomparsa.
Ben presto, diversamente da quanto emerse dalle prime dichiarazioni dell’uomo, si delineò un quadro di crisi familiare sullo sfondo della scomparsa di Roberta, peggiorata dalla relazione clandestina tra il Logli e Sara, la babysitter dei loro figli. Alcune amiche di Roberta durante le indagini riferirono di aver raccolto i suoi sfoghi, legati alla crisi del suo matrimonio: la donna avrebbe confidato alle amiche di essere a conoscenza della relazione del marito (ma non anche dell’identità dell’amante).
Tra i comportamenti sospetti del Logli, ci fu quello di chiedere alla sua amante di cancellare tutte le prove della loro relazione la mattina dopo la scomparsa di Roberta, e di disfarsi del cellulare con cui comunicavano. Poco dopo la scomparsa si è inoltre rapidamente disfatto della macchina della moglie e ad un solo anno di distanza dalla scomparsa, ha dato inizio alla convivenza con Sara (alla quale, nel 2019, ha chiesto di sposarlo), proprio nella casa dove aveva vissuto con la moglie.
La lunga inchiesta portò all'arresto del marito, che nel tempo ha sempre respinto ogni accusa. La condanna giunse sulla base di "una lunga serie di indizi convergenti e rilevanti in ordine all'omicidio della moglie"; la sentenza ritenne Logli colpevole di averla uccisa per motivi sostanzialmente economici, quali la perdita della scuola guida, gestita in società con la moglie, o della casa di famiglia, qualora lei avesse chiesto, come sembrava intendesse fare, la separazione.
Alla base della condanna ci fu anche il racconto di un super testimone, Loris Gozzi, che dichiarò di aver visto marito e moglie discutere violentemente nella notte della scomparsa, fuori di casa, in macchina. In un periodo successivo però lo stesso testimone era finito in carcere per furto e avrebbe confessato a due compagni di cella di essersi inventato le accuse contro Logli. Da qui la richiesta di revisione del processo presentata dal Logli che però è stata respinta.
Il difensore del marito di Roberta Ragusa ha già preannunciato di voler ricorrere in Cassazione, chiedendo l'assegnazione di un'altra Corte per la discussione dell'istanza di revisione per motivi procedurali.
Sono stati celebrati ieri mattina nella chiesa di San Giuseppe a Villabate (Palermo), i funerali di Giovanna Bonsignore, assassinata giovedì sera dal suo ex compagno Salvatore Patinella. Giovanna era una donna di 44 anni, madre di una ragazza di 15 anni, impegnata nel sociale: proprio le sue colleghe, volontarie dell'associazione Archè, con le quali la vittima svolgeva attività di cura ai bisognosi del paese, ieri l'hanno accompagnata per l'ultima volta, indossando una maglietta rossa per denunciare la violenza contro le donne.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Patinella si era recato a casa della donna intorno all’ora di cena e ha portato a compimento il suo proposito criminoso, annunciato poco prima con un post nella sua pagina Facebook. L’ex compagno di Giovanna, dopo essersi scagliato contro di lei colpendola con molteplici fendenti probabilmente al culmine dell'ennesima lite, si è suicidato con un unico colpo mortale alla giugulare, utilizzando lo stesso bisturi che aveva rivolto contro la vittima.
Un amico dell'uomo, leggendo il post, aveva intuito la gravità della situazione ed ha allertato i carabinieri che sono giunti immediatamente sul posto: purtroppo il delitto si era già consumato. Secondo quanto raccontano alcuni conoscenti, Giovanna Bonsignore e Salvatore Patinella si erano lasciati, ma l’uomo, 41 anni, non aveva accettato la separazione.
Nel messaggio lasciato al social, l’assassino, con parole terribilmente lucide, ha preannunciato il gesto che stava per compiere. Un messaggio espressione di un soggetto che come ultimo gesto di controllo sulla partner ha scelto di ucciderla: il messaggio fa pensare alla sua frustrazione per la perdita del possesso su qualcosa che gli apparteneva.(..) “Per tutto ciò che probabilmente hai già fatto o avresti potuto fare, le stesse cose che hai fatto con me, con un altro uomo, mi hai fatto letteralmente squilibrare”(..).
Un amore finito provoca dolore, fa male lasciare andare. Quando però subentrano esplosioni di rabbia, ritorsioni, minacce, violenza verbale o fisica, sino al gesto estremo di uccidere, queste emozioni parlano al massimo di amore (patologico) verso se stessi, più che di amore verso l’altra/o. In questi casi sono l’incapacità di affrontare il rifiuto, la frustrazione che povocano “dolore”.
Dipendenza, immaturità, scarsa autostima sono alla base di questi omicidi. L’amore degno di essere chiamato tale non conosce violenza, costrizione e sopraffazione. Impariamo a non chiamare "amore" ciò che non lo è.
Ancona, 20 anni lei, 40 anni lui. Una breve relazione la scorsa estate, poi la scelta di lui di interrompere il rapporto per iniziare una storia con un’altra donna: decisione che la 20enne non avrebbe accettato. La ragazza avrebbe tentato più volte di riconquistare l’uomo che, approfittando del suo stato emotivo, si sarebbe fatto consegnare in più circostanze diverse somme di denaro.
In una di queste occasioni, l’uomo avrebbe invitato la ragazza a salire in casa sua dopo aver ricevuto i soldi richiesti, e lì l’avrebbe costretta, con una violenza documentata dalle ecchimosi rilevate sul corpo della giovane, ad un rapporto sessuale forzato. Per l’uomo, accusato di violenza sessuale aggravata e lesioni, il Gip del Tribunale di Ancona, su richiesta della Procura della Repubblica, ha disposto la misura cautelare degli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico.
Il questore di Ancona, Cesare Capocasa, ha riportato l’attenzione sull’importanza di affrontare il tema della violenza sulle donne da un punto di vista culturale: “Continua la mattanza domestica che ci restituisce una società incapace di liberare le donne dal loro inferno privato. La battaglia deve essere affrontata prima di tutto con la Forza della Cultura che sia cioè più forte dell’indifferenza, dell’intolleranza, dell’ignoranza dettata dal pregiudizio”.
Nelle relazioni spesso c’è la tendenza alla svalutazione della donna: svalutazione che parte molto spesso dalla donna stessa, da quell’ “annullarsi” in nome dell’amore, che spesso è tale solo per lei. Nella realtà si traduce in un rapporto disfunzionale: comportamenti prevaricatori, dinamiche logoranti e distruttive. In questi casi più la ragazza è giovane, più il rischio di diventare vittima di queste dinamiche è alto.
D'altro canto alcuni uomini crescono in un contesto nel quale i comportamenti di prevaricazione vengono acquisiti "naturalmente". La violenza fisica prima di diventare tale è sempre psicologica e viene appresa. Gli uomini violenti spesso si trovano tra quelli che conducono una vita "open minded", apparentemente libera da pregiudizi, che non hanno alcun problema a relazionarsi con le donne, se non fosse che in realtà le usano narcisisticamente solo per esaltare loro stessi; sono impregnati di stereotipi sessisti ben più estremi e radicati di quanto la loro vita in apparenza dimostri: per rendersene conto basterebbe ascoltarli quando parlano tra di loro in contesti eclusivamente maschili.
La rivoluzione culturale contro la violenza sulle donne, deve coinvolgere gli uomini, al loro fianco.
Ancora una storia di bullismo ai danni di un ragazzo di 14 anni di Gragnano (Napoli), che per almeno tre anni è stato vittima di un gruppo di bulli di età compresa tra i 15 ed i 18 anni.
Tra di loro, sarebbero coinvolti anche due minori indagati nel procedimento penale relativo al suicidio di Alessandro Cascone, il 13enne che si tolse la vita il primo settembre proprio a Gragnano. Il gip del tribunale per i minorenni di Napoli, su richiesta della procura, ha disposto per i cinque giovani la misura del collocamento in comunità.
Le violenze subite, le persecuzioni, le aggressioni verbali e fisiche, veri e propri atti persecutori sono stati tali negli anni al punto che la vittima 14enne avrebbe manifestato la volontà di togliersi la vita.
Proprio lo scorso mercoledì (14 dicembre) si è tenuto un convegno presso il Senato della Repubblica di Roma, “Bullismo on line e Baby Gang. Crisi valoriale, comportamentale e identitaria delle giovani generazioni”, che ha avuto ad oggetto il confronto tra esperti, prefetti, psichiatri e operatori del settore per fare il punto sul fenomeno.
Il quadro che è emerso è quello di una violenza esagerata nei bulli, figlia del fallimento sociale di quella “base solida” che dovrebbe essere la famiglia, e della poca incisività scolastica nell’educazione degli adolescenti.
In Italia i dati Istat e Ocse in merito al bullismo sono allarmanti: più del 50% dei ragazzi fra gli 11 e i 17 anni subisce offese e violenze da parte di altri ragazzi, spesso proprio nel contesto scolastico.
Per arginare il problema, la famiglia e la scuola sono fondamentali per cogliere segnali di disagio o dinamiche aggressive, al fine di intervenire preventivamente impartendo un’educazione affettiva e relazionale tesa al rispetto dell’altro e a scoraggiare comportamenti prevaricatori e di prepotenza, dilaganti, in primis, tra gli stessi adulti.
Un caccia Eurofighter dell’aeronautica militare è precipitato nel tardo pomeriggio di ieri a nord di Marsala mentre faceva rientro a Trapani dopo un’esercitazione . Era sparito dai radar della torre di controllo interrompendo il contatto. Nella notte è stato recuperato il corpo del pilota, il capitano Fabio Antonio Altruda: 33 anni, di Caserta in forza al 37mo Stormo di Trapani, aveva all'attivo centinaia di ore di volo effettuate anche in operazioni fuori dai confini nazionali in attività di air policing Nato.
Il 37esimo Stormo è uno dei reparti dell’Aeronautica Militare che assicura la sorveglianza e la difesa dello spazio aereo nazionale grazie a un sistema di radar, velivoli e sistemi missilistici, integrato sin dal tempo di pace con quelli degli altri paesi appartenenti alla Nato.
In un primo momento sembrava che il pilota si fosse lanciato dall' aereo pochi attimi prima dello schianto e si fosse salvato. Successivamente la notizia è stata smentita e purtroppo è giunta la comunicazione del rinvenimento del corpo senza vita del giovane capitano all'interno del velivolo nell'alveo di un fiume.
Non è stato ancora possibile stabilire l’esatta dinamica dell’accaduto, maggiori dettagli si avranno dopo il recupero della scatola nera del caccia. A quanto noto sino ad ora, sembra che dal velivolo non sia stato lanciato nessun allarme.
La procura di Trapani è al lavoro per chiarire le cause dell'incidente. Le ipotesi avanzate in queste ore sono state diverse, dall’esplosione in volo al malore del pilota. Una telecamera di sorveglianza di un’abitazione della zona ha ripreso lo schianto dell’Eurofighter, il video è stato acquisito dai pm.
Nelle immagini si vede chiaramente il bagliore dell’esplosione in aria del caccia, che volava insieme a un altro velivolo, rientrato regolarmente alla base. Anche l’Aeronautica Militare ha annunciato l’avvio di un’indagine di sicurezza del volo sull’episodio.
Sulla pagina Facebook dell’Aeronautica Militare sono stati migliaia i messaggi di stima, affetto per il capitano, di grande dolore per la sua perdita e di vicinanza alla famiglia ed ai colleghi del giovanissimo pilota . “Cieli blu” è il saluto dell’Aeronautica e dei colleghi di Fabio che lo ricordano con una foto in cui il capitano, sorridente, è ai comandi del suo Eurofighter.
Era il 14 dicembre 2021, esattamente un anno fa, quando Liliana Resinovich, 63 anni, ex dipendente della Regione, è scomparsa dalla sua casa di Trieste dove viveva con il marito Sebastiano Visintin; non ha portato con se cellulare, né soldi né documenti.
Quella mattina Liliana, per tutti Lilli, avrebbe dovuto incontrare un amico, Claudio Sterpin, ma non si presentò mai all'appuntamento. Gli scrisse un messaggio per avvisarlo che avrebbe tardato perché doveva passare in un negozio di telefoni, negozio dove però non risulta essere mai stata.
Il suo corpo venne ritrovato il 5 gennaio nel parco dell'ex ospedale psichiatrico di Trieste, a poca distanza dalla sua abitazione, avvolto in due sacchi neri da spazzatura, la testa chiusa in due buste di plastica, un cordino attorno alla gola. Omicidio o suicidio? Ad oggi nessuna risposta certa è stata data a questo quesito.
La tesi del suicidio. la tesi più plausibile per Procura. Secondo la consulenza disposta dalla Procura, il decesso sarebbe sopraggiunto per “morte asfittica in spazio confinato, senza importanti legature o emorragie presenti al collo”. Risalirebbe "a 48-60 ore circa prima del rinvenimento del cadavere stesso". “Il cadavere non presenta lesioni traumatiche possibili causa o concausa di morte, con assenza per esempio di solchi e/o emorragie al collo, con assenza di lesioni da difesa, con vesti del tutto integre e normalmente indossate senza chiara evidenza di azione di terzi”.
Dunque per gli inquirenti Lilli si è tolta la vita legandosi in testa due sacchetti di plastica ed è morta per asfissia poco prima che il suo corpo venisse ritrovato. Ma se le cose stanno così, dove ha trascorso i 20 giorni intercorsi tra la scomparsa e il ritrovamento del suo corpo, mentre erano state già attivate le ricerche? Come mai gli indumenti che indossava al momento del ritrovamento sono gli stessi con cui è uscita da casa parecchi giorni prima? Possibile che Lilli non sia stata avvistata da nessuno in quel periodo, né ripresa da una delle molte telecamere di videosorveglianza della città?
La tesi dell’omicidio. Per il fratello di Lilli, Sergio Resinovich, e per le persone che le erano vicine, la strada del suicidio non è quella giusta da percorrere. La verità sostenuta nella perizia incaricata dalla Procura, "è una verità di plastica", che "non convince me e i miei familiari" ha detto Sergio. Nel referto autoptico effettuato dopo il ritrovamento del cadavere erano stati segnalati dal medico legale alcuni segni sul volto della donna, cui i consulenti della Procura non avrebbero dato la giusta rilevanza.
Segni che, secondo l'avvocato Nicodemo Gentile, presidente dell’associazione “Penelope” e avvocato del fratello della vittima, sarebbero invece da valorizzare come tracce di una colluttazione: Liliana potrebbe essere stata "intercettata, accompagnata o comunque sorpresa da una visita da parte di qualcuno che la ben conosceva. Da qui si sarebbe sviluppata un'accesa discussione, Liliana sarebbe stata percossa e strattonata", forse ha subìto un'occlusione delle vie respiratorie, magari con una sciarpa, un cappello o un giubbotto, "che ha determinato uno scompenso cardiaco".
Negli ultimi giorni sono stati risentiti dagli investigatori il marito di Lilli, Sebastiano, Claudio Sterpin, 82 anni, l'amico della 63enne che fin dall'inizio ha sempre raccontato: “ lei voleva rifarsi una vita con me”. Dal canto suo Sebastiano ha più volte dichiarato di non essere a conoscenza del legame così profondo che univa la moglie all’amico Claudio. E laddove Claudio parla di una crisi matrimoniale importante, Sebastiano nega ed ha sempre negato tale circostanza. L’unica certezza su tali aspetti deriva dagli accertamenti effettuati sui telefoni: Liliana cercava informazioni su internet su “come divorziare senza avvocato”. C’è poi quell’ultimo messaggio, inviato da Lilli all’amico Claudio poche ore prima di scomparire: “In relax pensando a te amore mio”.
L indagine sulla vita emotiva e sull’aspetto personologico di Liliana sono molto importanti, come in tutti i casi in cui ci si trova di fronte ad una morte sospetta. Il dato scientifico deve necessariamente essere letto integrandolo con una valutazione globale di ogni aspetto della vita della vittima.
Ad oggi probabilmente non si è fatto tutto in questa direzione, ed è’ molto probabile che la procura di Trieste stia per concludere le indagini e la direzione, salvo colpi di scena, sia quella dell’archiviazione per suicidio, cui verosimilmente si opporrà il fratello della vittima.
Oggi si celebra la "Giornata dedicata alle persone scomparse", promossa dall'Associazione Penelope che si occupa da anni di persone scomparse e di assistenza ai familiari che attendono di sapere notizie. L’associazione è nata nel 2002 da un’idea di Gildo Claps, fratello di Elisa Claps, scomparsa a Potenza nel 1993, il cui corpo fu ritrovato 17 anni dopo nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, luogo dal quale si erano perse le sue tracce.
Presente su tutto il terrritorio nazionale con sezioni regionali, la sezione Penelope Marche è nata sulla scia del dramma della Famiglia Isidori: il piccolo Sergio Isidori scomparve misteriosamente nel 1979 da Villa Potenza a soli 5 anni e mezzo. La sorella, Giorgia Isidori, insieme alla sua famiglia non si è mai arresa, così ha fondato la rete territoriale di Penelope.
La situazione degli scomparsi in Italia è allarmante: dal report del primo semestre 2022 dell'Ufficio del Commissario Straordinario per le persone scomparse è emerso che le denunce di persone scomparse presentate dal 1° gennaio al 30 giugno 2022, sono state 9.599, pari ad una media di 53 al giorno. Nella maggior parte dei casi si tratta di minorenni: 6.312 i minori scomparsi in questo periodo.I ritrovamenti sono stati 5.024, per una media di 28 al giorno, con una percentuale complessiva del 52,3% rispetto a tutte le denunce presentate nel primo semestre 2022.
Oggi l’Associazione Penelope Italia si rivolge a tutti cittadini, “affinché si facciano portatori di un gesto di solidarietà e di vicinanza alle famiglie di persone scomparse”, lanciando un’iniziativa dai social: al calare del sole, “in tutta Italia, palazzi pubblici e privati, si illumineranno di color verde speranza, in segno di vicinanza e solidarietà alle famiglie delle persone scomparse. Un gesto di sensibilizzazione in un momento, come quello delle festività natalizie, dove assumono importanza le parole: amore, famiglia, unione e calore. Vi invitiamo, anche questo anno, a mettere una candela verde su un davanzale, per illuminare la strada del loro ritorno".
Il prefetto di Macerata, Flavio Ferdani, d'intesa con numerosi sindaci (Macerata, Civitanova Marche, Tolentino, San Severino Marche, Mogliano, Esanatoglia, Potenza Picena, Cingoli e Matelica), ha aderito all'iniziativa: i monumenti più rappresentativi dei comuni verranno illuminati con il verde, il colore della speranza, un gesto simbolico per tenere alta l'attenzione su questa delicatissima problematica che presenta elementi di complessità e che mette in evidenza una questione anche di natura sociale.
"Devo ammettere sia a voi sia a me stesso, le responsabilità che ho sull'accaduto": queste le parole pronunciate in aula questa mattina da Marco Eletti, 34 anni, durante la seconda udienza del processo che lo vede unico imputato per l’omicido del padre e per il tantato nei confronti della madre, avvenuti il 24 aprile 2021 presso la casa di famiglia. Impiegato in un’agenzia di comunicazione con la passione per la scrittura, aveva sino ad oggi negato ogni addebito.
"In tutto questo tempo” - ha aggiunto - “ mi sono state vicine molte persone, familiari e avvocati, che mi hanno aiutato a riflettere sul fatto. E grazie a queste riflessioni, posso dire a voi e a me stesso, che devo ammettere sia a voi sia a me stesso, le responsabilità che ho sull'accaduto. Un peso con il quale non è facile confrontarsi, un peso che ti opprime e che ti spinge in un baratro".
La sera di quel 24 aprile, lui stesso aveva chiamato i soccorritori, per un incendio scoppiato nell’abitazione dei suoi genitori. Giunte sul luogo, le forze dell’ordine hanno scoperto il corpo senza vita di Paolo Eletti, il padre, con il cranio fracassato a martellate, ed hanno trovato la moglie della vittima riversa in un lago di sangue con i polsi tagliati, in stato di semi-incoscienza, narcotizzata. Inizialmente la scena del crimine aveva fatto pensare ad un omicidio-suicidio, ma già dopo l’interrogatorio condotto nella stessa notte, il figlio della coppia è diventato il principale sospettato; venne arrestato e poi rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio e tentato omicidio, aggravati dalla premeditazione, dai futili motivi, dall’uso di sostanze venefiche.
Per l’accusa il movente dell’omicidio sarebbe da rintracciare nella scoperta “della presunta doppia vita del padre legata ad un’altra identità di genere”, ma ci sarebbero state anche delle questioni patrimoniali che generavano una importante conflittualità: la casa dei nonni paterni era rimasta vuota da qualche mese per il decesso della nonna, Marco avrebbe voluto ereditarla ed occuparla sin da subito mentre i genitori non erano d’accordo.
La prima udienza si è tenuta il 18 novembre scorso innanzi alla Corte d’ Assise del Tribunale di Reggio Emilia; al termine la mamma di Marco, che era stata in coma alcune settimane dopo l’aggresione del figlio, lo aveva perdonato, abbracciandolo, e dichiarando ai giornalisti di credere nell’innocenza del figlio e di non ricordare nulla di quanto accaduto quella sera.
E' stato un 'colpo di scena' quello della confessione resa con dichiarazioni spontanee, visto che il 34enne aveva sempre professato la sua innocenza. La difesa ha parlato di “un percorso sofferto che ha portato Marco a questa decisione, gli elementi da scoprire sono tanti”. Il processso proseguirà in sede dibattimentale, anche se sarà 'abbreviato' da questa confessione che di fatto verosimilmente ne accorcerà i tempi, considerando che i testimoni ammessi sono stati 140 (80 della difesa e 40 della Procura), e che probabilmente, dopo le dichiarazioni dell’imputato, non ci sarà necessità di ascoltarli tutti.
(foto Marco Eletti concorrente nella trasmissione "l'Eredità")
Cinzia Luison è stata uccisa il 6 dicembre nella sua casa di San Stino di Livenza (Venezia) dal marito Giuseppe Pitteri, che ha confessato il reato nell'immediatezza del fatto: è stato lui che, dopo il delitto, ha chiamato la centrale dei Carabinieri dicendo di aver ucciso la moglie.
Giunti sul posto, i carabinieri - insieme ai soccorritori del 118 - non hanno potuto fare null'altro se non constatare il decesso della donna. L’uomo è stato tratto in arresto per omicidio aggravato.
Il movente è ancora al vaglio degli inquirenti, ma secondo le prime ricostruzioni, il delitto potrebbe essere scaturito da una lite per questioni di soldi: sembrerebbe che Pitteri, autista in pensione, avesse un problema di ludopatia, e per questo fosse affiancato da un amministratore di sostegno voluto dalla sua famiglia, per la gestione delle sue finanze.
La sua rabbia per l'impossibilità di attingere ai conti a lui interdetti, sarebbe sfociata in quella che gli inquirenti hanno definito "una violenza inaudita", emersa dai colpi inferti dall'uomo al volto della sua vittima.
La tragedia nella tragedia è che restano senza madre due figlie poco più che ventenni, e una delle due, nel rientrare in casa l’altro ieri, ha trovato la madre a terra ricoperta di sangue. Sotto shock, mentre il padre cercava di andarle incontro, è scappata per rifugiarsi da un vicino e chiedere aiuto.
I figli delle vittime di femminicidio, che spesso sono testimoni oculari dell’omicidio stesso, devono affrontare traumi psicologici e fisici importanti. Perdere un genitore di per sè segna la vita, ma perdere la propria madre perchè uccisa dal proprio padre è un trauma nel trauma.
Sono loro le vittime che dovranno fare i conti con il dolore e la rabbia, la solitudine, le notti in bianco, con lo stravolgimento dello stile di vita, l’allontanamento dalla propria abitazione, spesso con le difficoltà economiche, e imparare giorno per giorno a sopravvivere per reinventarsi un nuovo futuro.
A livello normativo, la legge n. 4 dell’11 gennaio 2018, (e in seguito la legge di bilancio 2019 e il Decreto 21 maggio 2020, n. 71) oltre a prevedere una tutela processuale ed economica per i bambini e i ragazzi rimasti soli dopo l'uccisione della madre da parte del padre, per la prima volta ha affrontato anche i problemi quotidiani degli orfani della violenza domestica, prevedendo aiuti per l'assistenza medica e psicologica oppure per "orientamento, formazione e sostegno" a scuola e nell’inserimento al lavoro.
Se un passo è stato fatto con la presa di coscienza, da parte dell’ordinamento giuridico, che lo Stato non può lasciare soli gli orfani di femminicidio, purtroppo da un punto di vista applicativo la norma presenta ancora diverse criticità: accedere agli aiuti previsti è molto complesso per via della burocrazia: condizioni limitanti, requisiti specifici, un iter burocratico che spesso neppure gli avvocati conoscono, tempistiche lunghe e impossibilità di avere un'immediata presa in carico della situazione da parte di servizi e strutture qualificate, anche con interventi psicologici di supporto sin dai primi momenti.
Come testimoniano le storie e i racconti di questi figli, sono molti ancora i gap da colmare e su cui concentrare l’attenzione per poter rispondere efficacemente ai bisogni di queste giovanissime vittime, uno su tutti quello della gestione dell’emergenza.
Caso Emanuela Orlandi: esisterebbe la registrazione di una conversazione avvenuta in un luogo pubblico, effettuata dal giornalista editore Alessandro Ambrosini, fondatore del blog d’inchiesta Notte Criminale. È stato proprio lui a darne la notizia, annunciando la pubblicazione dell’audio nei prossimi giorni.
La registrazione risalirebbe al 2009 e conterrebbe accuse sconvolgenti al Vaticano (ne avevamo parlato qui). L'uomo che parla è rimasto anonimo ma, scrive “Il Giornale” che ha avuto modo di ascoltare l'audio in anteprima, “sappiamo che si tratta di un vecchio sodale di Enrico De Pedis, uno dei capi storici della banda della Magliana”.
De Pedis venne accusato dalla sua compagna dell'epoca, Sabrina Minardi, del sequestro di Emanuela Orlandi; il probabile ruolo di De Pedis, come esecutore del rapimento di Emanuela insieme ad altri elementi della banda, aveva trovato riscontro nella ricostruzione svolta dal magistrato Giancarlo Capaldo, che da Procuratore in Roma si spese in anni di indagini per la ricerca della Verità sul caso, in seguito archiviato dal Procuratore Pignatone.
L’uomo vicino a De Pedis, che è stato registrato a sua insaputa da Ambrosini, avrebbe parlato proprio delle affermazioni rese dalla Minardi, e avrebbe puntato il dito verso esponenti del Vaticano, facendo nomi e cognomi. L’audio potrebbe far riaprire il caso a distanza di 40 anni.
Il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, che ha dedicato e sta dedicando la vita insieme alla sua famiglia, a far luce sulla scomparsa della sorella, ieri ha pubblicato un post sui social, probabilmente proprio in concomitanza con la diffusione della notizia: “Illusioni, disillusioni, illusioni, disillusioni, illusioni, disillusioni… da quarant’anni si va avanti così, eppure c’è chi sa, più di uno dentro e fuori dal Vaticano, e continua a mettere la testa sotto la sabbia per continuare a nascondere".
"A farne le spese una semplice ragazza che voleva vivere la sua vita, cantando , ridendo, sognando… ma qualcuno ha voluto scegliere per lei negandogli la libertà..”
“Vendevo Ghb a persone del mondo religioso, politici e in generale ai ceti sociali più alti. Non serviva che mi proponessi io per vendere, tante volte avevo un contatto che mi chiamava quando gli serviva".
Questa la confessione di un ex tossicodipendente e spacciatore pentito, alle telecamere di “Striscia la notizia”, in un servizio in cui si è trattato di un'operazione della Procura di Roma, partita un anno e mezzo fa, che ha portato all’arresto di più di 90 persone e al sequestro di oltre 200 chili di droga.
L’uomo, intervistato da Jimmy Ghione, ha raccontato di come, in occasione delle feste organizzate della “Roma bene”, la droga venisse venduta a religiosi, politici e così detti “vip”; acquistata all’estero, veniva poi portata in Italia all’interno di flaconi di collutorio.
In America è conosciuta come Drug-facilitated sexual assault (Dfsa), nella maggior parte dei casi si tratta di GHB. Inizialmente il ghb sintetico era usato come anestetico in ambito chirurgico. Molto conosciuta in Europa ed in America, se ne parla meno in Italia, anche se il fenomeno negli ultimi anni ha assunto dimensioni allarmanti. Insieme ad altre droghe sintetiche è diffusa nelle discoteche e nei festini privati.
La sostanza viene utilizzata spesso anche all’insaputa dell’assuntore, essendo idrosolubile e praticamente inodore: versata nel bicchiere di una qualsiasi consumazione, l’effetto è quello di rendere la vittima manipolabile e priva di volontà. Il GHB, è diventato noto come “droga dello stupro” perché associato a numerosi casi di violenza sessuale.
È, infatti, una sostanza che fa perdere i freni inibitori e la resistenza fisica: provoca un rilassamento muscolare nella vittima che si sente come se fosse “ubriaca” al punto da poter perdere conoscenza. A dosi elevate, il GHB può rallentare la respirazione e causare convulsioni e coma, talvolta portando alla morte. L’associazione di GHB con altri sedativi, in particolare l’alcol, è estremamente pericolosa. La maggior parte delle morti è dovuta all’assunzione contemporanea di GHB e alcol.
Provoca totale amnesia poichè vengono manipolati i centri del ricordo. Non esistono stime accurate del numero di Dfsa (aggressioni sessuali facilitate dalle droghe) che si verificano ogni anno, poichè molti casi continuano a non venire denunciate. Le vittime sono riluttanti a farlo a causa di imbarazzo, senso di colpa; spesso inoltre, proprio a causa dell'amnesia indotta, le persone aggredite non ricordano i dettagli della violenza subita e l’identità dei loro aggressori, quindi non sporgono querela temendo di non essere credute.
Una campagna di sensibilizzazione sui pericoli cui possono andare incontro ignare e spesso giovanissime vittime è importante per adottare comportamenti preventivi: uno su tutti quello di non lasciare incustoditi i propri drink, proprio per evitare che vi vengano versate droghe, ed evitare di accettare con leggerezza quelli offerti da sconosciuti, soprattutto quando vengono versati da bottiglie non sigillate o direttamente nel bicchiere.
foto da tgcom24
Il corpo che si ritiene sia quello di Saman Abbas è stato recuperato in un casolare diroccato a Novellara, a tre metri di profondità sotto uno strato di detriti e macerie. Il luogo, che dista poche centinaia di metri dalla casa dove viveva la sua famiglia, è stato indicato dallo zio di Saman, uno dei cinque imputati per l'omicidio della 18enne pakistana scomparsa nella notte tra il 30 aprile e il 1 maggio 2021 da Novellara.
Ieri sera intorno alle 22, dopo l’esumazione, il corpo è stato portato al laboratorio di medicina legale dell'Università di Milano dove i periti incaricati dalla Corte d'Assise del tribunale di Reggio Emilia eseguiranno gli accertamenti necessari.
Il procuratore capo di Reggio Emilia, Gaetano Calogero Paci, ha parlato stamattina a Rai e Telereggio: "E' emerso un corpo sostanzialmente integro, che si è ben conservato considerata la profondità nella quale è stato interrato per oltre un anno e mezzo. Indossava gli stessi abiti al momento dell'interramento. Ora si tratta di verificare l'integrità degli organi interni" ha proseguito il procuratore, "perché attraverso e su di essi saranno svolte le indagini di tipo autoptico per capire esattamente l'identità del corpo stesso".
"Certo è che il contesto in cui il corpo è stato ritrovato e anche qualche elemento peculiare già consentono di formulare una probabilità di identificazione, ma la prova regina è quella del Dna e solo attraverso una comparazione positiva sarà possibile dire che si tratti del corpo di Saman" ha puntalizzato.
Subito i sospetti degli inquirenti si erano concentrati sulla famiglia di Saman che, nel frattempo, aveva fatto in gran fretta rientro in Pakistan. Le indagini, anche sulla base di un video indiziario recuperato da una telecamera nei pressi della loro casa, si focalizzarono su cinque persone: i genitori, uno zio e i due cugini.
Anche grazie al fidanzato di Saman, che dopo la sparizione aveva contribuito a far luce sul caso con la sua testimonianza, emersero le paure della giovane, "colpevole", per la sua famiglia, di essere fuggita e di aver rifiutato il matrimonio combinato in Pakistan, con un suo cugino connazionale.
Saman temeva per la sua vita: "Ho sentito che dicono uccidiamola, una cosa del genere. L’ho sentito con le mie orecchie, ti giuro che stavano parlando di me, non sono fiduciosa, se non mi faccio sentire per due giorni allerta le forze dell’ordine". Questo era stato uno dei messaggi che la ragazza aveva inviato al fidanzato prima di sparire da casa sua.
Accusati dell’omicidio il padre, la madre, lo zio e due cugini di Saman. Il padre di Saman è stato di recente arrestato in Pakistan, mentre la madre Nazia Shaheen è latitante. Lo zio e i cugini sono in carcere in Italia, in attesa del processo con udienza fissata per il 10 febbraio 2023.
La ragazza aveva denunciato gli abusi da parte della famiglia già nel 2020. Era stata ospitata in una casa famiglia per minorenni, ma una volta raggiunta la maggiore età era tornata a casa per riprendere i documenti che il padre invece continuava a negarle.
La vita che sognava era una vita libera dalle costrizioni e dagli obblighi imposti dalla sua famiglia, dalle minacce e dalla paura. Una nuova vita da iniziare lontano, insieme al fidanzato che oggi, dopo il ritrovamento del corpo, chiuso in un doloroso silenzio attende sia fatta giustizia.
La vittima ha 11 anni, risiede con i suoi genitori nel trevigiano. Stremato dopo i continui atti di bullismo andati avanti per mesi da parte di alcuni compagni di scuola, si è rivolto ai genitori con queste drammatiche parole: "Meglio morire che andare a scuola".
La mamma ha così deciso, dopo aver ritirato il fglio dall'istituto in cui era iscritto, di sporgere denuncia ai carabinieri: il giovane sarebbe stato picchiato per diversi mesi e preso di mira con insulti, aggressioni e lancio di petardi, mentre il tutto veniva filmato con il cellulare. L’ultimo grave episodio: una crudele e terrificante sfida, quella di togliersi la vita: “gettati nel Piave”. I tre autori sarebbero 3 compagni di scuola del ragazzino, tutti tra gli 11 ed i 14 anni.
Deludente, per il padre, la posizione dell'autorità scolastica: "Ai miei tempi avrebbero convocato i ragazzi e gli avrebbero parlato, anzi gli avrebbero fatto una vera e propria ramanzina con i genitori presenti. E invece tutto quello che ci hanno saputo dire è il percorso che intendono seguire. Una strada che ritengo impregnata di burocrazia".
Spesso le giovani vittime di bullismo fanno fatica ad esprimere l'angosciante condizione in cui si trovano: per vergogna, per timore di peggiorare la situazione. L’osservazione attenta e la comunicazione con i propri figli sono il primo imprescindibile passo per riconoscere ed affrontare questo fenomeno, in crescita esponenziale. Alcuni segnali da cogliere possono essere il calo del rendimento scolastico o il rifiuto di andare a scuola, l’isolamento sociale, irascibilità improvvisa, introversione, o sintomi fisici come mal di testa, perdita di appetito, disturbi del sonno.
Molti sono gli sportelli di ascolto e le associazioni per la prevenzione ed il contrasto ad ogni forma di bullismo, verbale, fisico ed informatico. Ma creare degli spazi per un dialogo aperto e sereno in casa resta pur sempre il primo importante step per comprendere i figli, i loro pensieri, le loro emozioni, e per riconoscere un malessere prima che giunga a conseguenze talvolta purtoppo irrimediabili.
La Corte di Assise d’Appello di Perugia ha accolto la richiesta della Procura Generale di ascoltare i due testimoni indicati dall’accusa; due uomini con cui Pamela aveva avuto rapporti prima di incontrare Oseghale.
È quanto si è stabilito oggi, alla prima udienza del processo d’Appello "bis" a carico di Innocent Oseghale, già condannato per aver ucciso e fatto a pezzi Pamela Mastropietro, i cui resti furono ritrovati chiusi in due trolley a Pollenza il 30 gennaio 2018.
La prima sezione penale della Cassazione, rigettato il ricorso dei difensori dell'imputato e per l’effetto confermata la condanna del nigeriano per omicidio volontario, vilipendio e distruzione di cadavere, aveva tuttavia deciso per il rinvio "limitatamente all’aggravante relativa alla violenza sessuale, che andrà rivalutata in un processo d’appello bis a Perugia". La Corte di Assise d'Appello di Perugia dovrà quindi giudicare Oseghale in merito all'accusa di violenza sessuale.
La prima udienza bis si è celebrata questa mattina, con rinvio al 25 gennaio per l’escussione testimoniale. Se l'aggravante della violenza sessuale dovesse cadere, per Oseghale, condannato all'ergastolo in primo e secondo grado, potrebbe esserci uno sconto di pena.
La famiglia di Pamela, continua a lottare e a sperare nella Giustizia. La mamma, comprensibilmente distrutta da un dolore che si rinnova di volta in volta in questo lungo iter giudiziario, ieri in un’intervista all’Adnkronos ha esternato la sua sofferenza, pur continuando a confidare nelle istituzioni: "La condanna per violenza sessuale c’è già stata in primo e secondo grado. E spero venga confermata anche stavolta: mia figlia è stata violentata. Io spero sempre ci sia una condanna all’ergastolo a vita".
Benno Neumair è stato codannato all'ergastolo e ad un anno di isolamento diurno per aver ucciso, a gennaio 2021, i suoi genitori Peter Neumair e Laura Perselli, poi gettati nel fiume Adige. Oggi, nel tardo pomeriggio, la Corte dopo oltre cinque ore di camera di consiglio ha accolto le richieste formulate ieri dai pm Federica Iovene e Igor Secco (leggi qui). Il 31enne dovrà anche pagare una provvisionale alle parti civili: 200.000 euro alla sorella Madè e 80.000 euro alla sorella di Laura Perselli, Carla.
"Questa non è una vittoria. Non è un traguardo. È la fine di un capitolo che è stato molto doloroso" ha commentato la sorella Madè, aggiungendo: "Non è che questa pena o le motivazioni che leggeremo ci ridaranno la mamma e il papà. Però forse ci darà un po' di pace per quanto si possa avere pace dopo questo sconvolgimento. Penso che la giuria abbia deciso quello che in questo momento è sembrato giusto. Penso che sia giusto. Non so se lo perdonerò, è una domanda così difficile che non ci sto pensando. Non sto pensando a lui in questo momento ma alla mamma e al papà"
La difesa di Neumair, che aveva chiesto l'applicazione delle attenuanti generiche ed aveva sempre sostenuto la sua incapacità di intendere e di volere, ha dichiarato: “Aspetteremo le motivazioni della sentenza, e a seconda delle motivazioni decideremo se impugnare. Era difficile evitare l'ergastolo a Benno, ma noi andremo avanti con la nostra battaglia”.
“Durante il litigio con il padre, Benno ha sperimentato uno scoppio di rabbia narcisistico, non psicopatologico. Non tutti quelli che commettono crimini terribili sono pazzi. (...) Benno è così bravo ad entrare in empatia con gli altri che è in grado di manipolarli ed è in grado di controllare il suo comportamento, ma semplicemente non vuole”.
Con queste parole ieri, il pm Igor Secco ha concluso la sua requisitoria al processo che vede Benno Neumair imputato reo confesso del duplice omicidio dei genitori, Peter Neumair e Laura Perselli, avvenuto il 4 gennaio 2021. Il 31enne altoatesino uccise i genitori e buttò i loro corpi nel fiume Adige; i pm in Corte d’Assise a Bolzano hanno richiesto l’ergastolo per omicidio plurimo aggravato con isolamento diurno per un anno, poichè il duplice omicidio è stato commesso con “piena coscienza e volontà”.
“La società ha bisogno di essere rassicurata e vuole pensare che un delitto come questo sia stato compiuto da un matto. Ma così come tutti i matti non sono delinquenti, dobbiamo dire che non tutti i delinquenti sono matti” ha detto il sostituto procuratore.
Come approfondito negli articoli precedenti in cui abbiamo trattato questo caso, il profilo di Benno è stato indicato come quello di un ragazzo con tratti narcisistici di personalità, borderline; ciò non significa che la sua capacità di intendere e di volere al momento della commissione del reato fosse necessariamente compromessa. Questo è un equivoco in cui spesso si cade: i disturbi della personalità non coincidono automaticamente con l’incapacità di intendere e di volere, e quindi con la non imputabilità.
Questa mattina è stata la volta del difensore della sorella dell’imputato, avvocato Carlo Bertacchi, legale di parte civile; anche lui ha sostenuto la capacità di intendere e volere dell’imputato. Successivamente si terranno le arringhe degli avvocati difensori di Benno. La Corte dovrebbe ritirarsi già domani in camera di consiglio così da poter dare lettura del dispositivo della sentenza nella serata dello stesso giorno.
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La Procura di Genova ha iscritto nel registro degli indagati tre pubblici ministeri titolari del fascicolo sulla morte di David Rossi, in seguito alla testimonianza alla Commissione parlamentare d’inchiesta resa dal colonnello dei Carabinieri di Siena, Pasquale Aglieco.
L'accusa per i tre magistrati, Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi è quella di “falso ideologico”, "aggravato" perchè sarebbe stato commesso in un verbale d’inchiesta. Secondo l’accusa i tre pm avrebbero omesso di redigere verbale del loro accesso sulla scena del crimine, l'ufficio di Rocca Salimbeni, sede storica di Banca Mps a Siena, luogo dove si è consumata la morte di David Rossi; accesso che sarebbe avvenuto proprio la stessa sera in cui l’uomo venne trovato morto, prima che la polizia scientifica intervenisse sul posto per "cristallizzare" con foto e video lo stato dei luoghi.
Inoltre i magistrati insieme alla polizia giudiziaria avrebbero inquinato la scena senza seguire le procedure richieste in questi casi,e senza averne titolo. David Rossi era il capo comunicazione di Monte dei Paschi; la notte tra il 6 e il 7 marzo 2013 venne trovato morto nel vicolo accanto alla sede della banca in cui lavorava, dopo un misterioso volo dalla finestra del suo ufficio.
Due indagini sulla morte di David Rossi sono già state chiuse dai gip, con la conclusione che l’uomo si è suicidato. Questa terza indagine a carico dei pm è partita, come detto, grazie alla testimonianza del colonnello Aglieco: l’accusa per loro è quella di aver "manipolato e spostato oggetti senza redigere alcun verbale delle operazioni compiute e senza dare atto del personale di polizia giudiziaria che insieme a loro aveva proceduto a questo sopralluogo". I tre magistrati saranno sentiti mercoledì nella caserma della Guardia di Finanza di Genova.
Che David Rossi non avesse voluto togliersi la vita, ma fosse stato vittima di omicidio, è stata da sempre convinzione della famiglia: la moglie e la figlia sono convinte che il loro caro sia stato ucciso “perchè custodiva segreti inconfessabili”.
La tesi dell’omicidio è stata avvalorata dalle risultanze della consulenza svolta dai periti della famiglia Rossi che, sulla base elementi scientifici, hanno escluso l’ipotesi del suicidio. In particolare la presenza di alcune lesioni sul volto e sugli avambracci del manager di Monte Paschi, non autoinferte né causate dall’impatto con il suolo, sarebbero state provocate da una colluttazione.
Al contrario, i periti incaricati dalla commissione parlamentare d’inchiesta (reparti speciali dei carabinieri e collegio medico legale) hanno confermato con la loro maxi perizia di quasi 1000 pagine, l’ipotesi del suicidio. Ma allora come spiegano le ferite incompatibili con la caduta? La perizia non ha potuto escludere con assoluta certezza che le altre ferite siano state provocate da una mano terza, rispetto a quella di David Rossi .
“Alcune lesività sul volto, sull'arto superiore destro e sinistro di Rossi non sono da noi fatte risalire al meccanismo di caduta, urto e proiezione del corpo al suolo”, aveva spiegato uno dei professionisti incaricati, dottor Vittorio Fineschi, ordinario di medicina legale presso l'Università degli studi di Roma "La Sapienza". Lesioni che dalla perizia, risultano tra l’altro datate ad ore precedenti rispetto alla caduta.
Ci sono poi le immagini video che avrebbero ripreso due persone uscire da un ingresso secondario della banca. Il video è riemerso grazie ai lavori della Commissione d’inchiesta sulla morte di David Rossi, poichè era stato cancellato. Sulla circostanza la banca aveva sempre affermato che a quell’ora non c’erano dipendenti nella sede di via.
Troppi i misteri che hanno avvolto e continuano ad avvolgere questo caso: a questo punto, l’auspicio è che la Procura di Genova apra una nuova indagine: "L'altra notizia che ci aspettiamo” ha dichiarato l’avvocato della famiglia Rossi ad Adnkronos, “e che, incomprensibilmente, non è ancora arrivata, è quella relativa alla riapertura delle indagini su quanto accaduto la notte del 6 marzo 2013 e, in particolare, su chi e come ha provocato su Rossi, ancora in vita, quelle lesioni che la Commissione d'inchiesta ha certificato come incompatibili con l'ipotesi suicidiaria e come e quanto tali lesioni, più precisamente, l'aggressione che ha dato luogo a tali lesioni, ha influito sulle reali cause della caduta di Rossi dalla stanza del suo ufficio". Un caso che aspetta risposte da quasi 10 anni, con una moglie ed una figlia che hanno finalmente il diritto di conoscere la Verità.
Forse Emanuela Orlandi, prima di sparire, aveva ricevuto delle “particolari attenzioni” da un alto prelato. La 15enne scomparsa a Roma il 22 giugno 1983 dopo essere uscita di casa per andare a lezione di flauto in piazza Sant'Apollinare, era figlia di un commesso della Prefettura della casa pontificia e viveva felicemente con la sua famiglia all' interno delle mura vaticane. Dal 20 ottobre un docufilm su Netflix “Vatican girl” ripercorre i 39 lunghi anni trascorsi dalla sua scomparsa, seguendo le ipotesi principali che hanno come minimo comune denominatore il Vaticano.
È Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, che ha dedicato e sta dedicando la vita insieme alla sua famiglia, a far luce sulla scomparsa della sorella, che racconta in un’intervista: “La ragazza che ha ricevuto questa confessione è un’amica di Emanuela. Una settimana prima della sua scomparsa, Emanuela le ha raccontato che mentre passeggiava nei giardini del Vaticano, “uno molto vicino al Papa ci ha provato”. “ Era un’attenzione sessuale”; parliamo del 1983, la pedofilia nella Chiesa all’ epoca era tabù, nessuno poteva parlarne.” La ragazza protetta dall’anonimato, che seppur molto timorosa ha rivelato l’accadimento, non era mai stata interrogata dalla polizia, e neppure la famiglia Orlandi era al corrente dell’episodio.
Furono seguite tante piste per cercare di capire cosa fosse successo ad Emanuela: la pista del terrorismo internazionale, quella del rapimento per ottenere uno scambio con Ali Agca, esponente del movimento nazionalista turco dei “Lupi Grigi” che all’epoca della sparizione si trovava in carcere per aver attentato alla vita del Papa Giovanni Paolo II, la pista dei bulgari, quella del KGB.
Ma il giornalista Andrea Purgatori, che sin dall’inizio si è occupato della sparizione di Emanuela e che insieme al fratello di Emanuela è il narratore del docufilm, insieme agli autori è convinto che la strada da seguire sia un’altra: quella di qualche segreto avvenuto all’interno del Vaticano.
La Banda della Magliana - Un commando di uomini, su ordine di Renatino de Pedis, boss della banda della Magliana, avrebbe rapito Emanuela nel 1983. De Pedis potrebbe aver agito per ordine ricevuto all’interno del Vaticano. A sostegno del coinvolgimento della banda della Magliana, oltre alle deposizioni dell’allora compagna di De Pedis, Sabrina Minardi , c’è la ricostruzione svolta da un grande magistrato, Giancarlo Capaldo, che da Procuratore in Roma, si spese in anni di indagini per la ricerca della Verità sul caso di Emanuela Orlandi.
Facciamo un passo indietro: nel 2005, giunse una telefonata alla trasmissione “Chi l’ ha visto”: suggeriva di andare a vedere chi era stato sepolto in una tomba nella basilica di Sant’Apollinare e di “controllare il favore che “Renatino” fece al cardinale Poletti”, per capire il movente della scomparsa di Emanuela. Il riferimento era alla tomba in cui era stato sepolto il boss De Pedis, dopo la sua morte avvenuta nel 1990, proprio all’interno della basilica di Sant’Apollinare. Fatto inspiegabile e al limite della credibilità.
Il racconto pubblico di quella insolita sepoltura venne fatto per la prima volta nel 1997 dal Messaggero. Ci furono interrogazioni in Parlamento, la cripta venne chiusa al pubblico e su di essa calò il silenzio sino al 2005. Nel 2012 venne ufficializzata la notizia: fu il cardinale Ugo Poletti (all'epoca presidente della Cei e vicario generale della diocesi di Roma )a concedere il nulla osta della Santa Sede il 10 marzo 1990 alla tumulazione della salma del boss della banda della Magliana, Enrico “Renatino” De Pedis nella basilica.
Alcuni sostennero che Poletti doveva dei favori a De Pedis, altri sostennero che Poletti fu pagato per questo “regalo”; alcuni esponenti della banda (Mancini e Abbatino) raccontarono che De Pedis avrebbe avuto un compito direttamente dal Vaticano di rapire la ragazza o, se non direttamente dal Vaticano, da qualcuno che voleva mandare un “messaggio” al Vaticano.
Un rapimento commissionato da un altro prelato pedofilo all’interno del Vaticano? Un rapimento che fu usato da “un’organizzazione mafiosa” come ricatto allo Ior, l’Istituto finanziario vaticano, per la restituzione del denaro consegnato affinché venisse riciclato, ed invece sparito nel crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi?
Una possibile svolta sul caso nel 2012 con il Procuratore Giancarlo Capaldo. Intorno al 2012, sembrò di essere vicini ad una svolta sul caso di Emanuela, e alla concreta possibilità di dare qualche risposta alla famiglia. Il dottor Capaldo, nell’intervista televisiva del 2021 al giornalista Purgatori nella trasmissione Atlantide, rivelò che nel 2012 in Vaticano vi fu un grande imbarazzo per l’esplosione del caso di De Pedis sepolto dentro la Basilica di Sant’Apollinare.
L’ex magistrato riferì che tra il 2011 e il 2012 due alte personalità del Vaticano si erano presentate nel suo ufficio della procura di Roma chiedendo la traslazione della salma del boss De Pedis da Sant’Apollinare, per calmare il pubblico dissenso che si stava alzava sul Vaticano. Il dottor Capaldo chiese in cambio di avere informazioni certe sulle sorti di Emanuela, cui la famiglia in primis aveva diritto, anche se ciò avesse significato ritrovare solamente i resti della ragazza.
I due emissari pochi giorni dopo avrebbero risposto che “la disponibilità era quella di mettere a disposizione ogni loro conoscenza e indicazione per arrivare a questa conclusione”. Inspiegabilmente di lì a poco ci fu un brusco arresto delle trattative. Infatti l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone chiese e ottenne l'archiviazione del caso, cui si oppose solo il dottor Capaldo.
I tre faldoni del Sismi spariti nel nulla - Sarebbero spariti tre faldoni top secret del Sismi (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare) oggi sostituito dall’AISE (Agenzia per le informazioni e la sicurezza esterna) che riguardano Emanuela e Mirella Gregori (scomparsa il 7 maggio 1983). Il Sismi aveva condotto delle indagini sul caso di Emanuela; la documentazione sarebbe stata acquisita dalla Procura, ma mai consegnata negli atti d'indagine alla famiglia. L’ennesimo mistero. L’Appello di Pietro: “chi sa parli”.
Il fratello di Emanuela ha un’idea ben precisa: “Per me la sepoltura di De Pedis in quella Basilica di Sant’Apollinare ha sempre rappresentato simbolicamente quel sistema Stato-Chiesa e criminalità che, in qualche modo, ha occultato la verità sul rapimento di Emanuela al di là del movente che può esserci dietro la sua sparizione”. Una cosa è certa: l’amore per Emanuela non fermerà mai la ricerca di Giustizia e Verità del fratello Pietro: "Finché non avrò un corpo, ho il dovere di cercarla viva. Non smetterò mai”.
Maria Teresa, per tutti “Sissy” aveva 27 anni, veniva da Taurianova, Calabria, era una giovane agente della Polizia penitenziaria, di stanza da 7 anni nel carcere femminile della Giudecca, a Venezia.
Ma prima di questo Sissy era una giovane donna solare, sempre sorridente, innamorata della sua famiglia, dei suoi amici, del mare e dei viaggi, nel pieno della felicità; così la descrivono non solo i genitori, ma anche le tante foto e video rese pubbliche nel corso di trasmissioni come “Le Iene”, “Chi l' ha visto?”, che da anni seguono il caso cercando di dare un apporto alle indagini.
Il 1 novembre 2016, un colpo sparato dalla pistola d’ordinanza di Sissy la raggiunse alla testa: venne ritrovata agonizzante nell’ascensore dell’ospedale civile di Venezia, dove si trovava in servizio esterno per controllare le condizioni di una detenuta che aveva appena da poco partorito. Dopo aver lottato per due anni e due mesi in coma, Sissy non ce l’ha fatta, e se ne è andata nel gennaio 2019.
Le ultime immagini di Sissi sono quelle registrate dalle telecamere dell’ospedale di Venezia, trasmesse da “Chi l’ha visto?” : si vede Sissy mentre esce dalla stanza della detenuta al piano terra, ed invece di dirigersi verso l’uscita, si dirige nella zona ascensori. Prima verso quello di sinistra, poi verso quello di destra: da un fermo immagine sembra stia parlando al telefonino. Poi nulla, sino a che non verrà ritrovata già a terra sul pianerottolo dell’ascensore da una signora che viene ripresa da una telecamera mentre arretra visibilmente scossa da quella zona, verso cui era inizialmente diretta.
Omicidio o suicidio? La famiglia Trovato Mazza non ha dubbi: secondo le indagini condotte dai consulenti della famiglia, ci sarebbero molteplici elementi a supporto della tesi dell’omicidio. "Mia figlia non si è suicidata, voglio che si sappia la verità il dolore è sempre quello del primo giorno. Non passa”. Un dolore disperato, irraccontabile per i suoi genitori, diventato un motivo per proseguire nella battaglia per la Verità che li ha portati ad opporsi ad ogni richiesta di archiviazione della Procura, convinta invece della tesi del suicidio.
Il primo mistero è quello del telefonino di Sissy, che verrà ritrovato nell’armadietto del carcere della Giudecca. Eppure nel fermo immagine delle riprese in ospedale, nonostante la scena non sia del tutto nitida, sembrerebbe proprio che Sissy abbia il cellulare in mano, appoggiato al volto. Come dunque sarebbe finito quel telefonino nell’armadietto di Sissy (trovato aperto) del carcere della Giudecca? “Sissy dormiva con il telefonino, non si staccava mai dal telefonino” ricorda il papà.
C'è poi l’apporto scientifico che contrasterebbe la teoria del suicidio; apporto fornito dai risultati della BPA (Bloodstain Pattern Analysis) tecnica che studia le tracce ematiche presenti sulla scena del crimine, per ricostruire il delitto.
Le analisi, secondo la consulenza di parte dell'ex capo dei RIS, Luciano Garofano, avrebbero rivelato la totale assenza di tracce di sangue sulla manica della giubba di Sissy e sulla sua mano che, per chi sostiene il suicidio, avrebbe impugnato la ‘Beretta' calibro nove.
Inoltre, seconto la dinamica balistica, ci sarebbe un vuoto di schizzi di sangue sulle pareti dell’ascensore, e ciò, secondo la perizia di parte, sarebbe conseguenza della presenza di almeno un soggetto accanto a Sissi .Oltre ciò sulla pistola non è stata rinvenuta nessuna impronta, nemmeno la sua. Eppure dalle immagini si vede chiaramente che quel giorno Sissy non indossava i guanti.
Il Gip del Tribunale di Venezia ha già respinto per tre volte, l’ultima volta a luglio di quest’anno, la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura, accogliendo l'opposizione presentata dagli avvocati della famiglia. Nell’ultima udienza ha disposto nuovi accertamenti, anche sul cellulare. In particolare ha richiesto la geolocalizzazione del telefono, oltre ad un’approfondimento della dinamica balistica.
Vivendo quello che ad oggi è un giallo ancora irrisolto, la famiglia di Sissy non si da pace; solo il bisogno di Verità e Giustizia fa andare avanti i genitori della giovane agente, in attesa delle prossime udienze fissate per il primo semestre del 2023.
Ancora due tragici incidenti sul lavoro. Nella notte, poco prima delle 3, Nicoletta Paladini di 50 anni, ha perso tragicamente la vita in un terribile incidente nella vetreria di Borgonovo, in provincia di Piacenza, durante il turno di lavoro.
Secondo le prime ricostruzioni la donna sarebbe rimasta incastrata e schiacciata tra un nastro trasportatore e un macchinario porta bancali. La dinamica dell’incidente è ancora al vaglio dei Carabinieri coordinati dalla Procura di Piacenza. Questa mattina, in un’azienda del torinese, i vigili del fuoco sono intervenuti per estrarre il corpo senza vita di un operaio marocchino di 41 anni, residente a Torino, che è stato travolto da una catasta di tubi metallici.
Nella vetreria di Borgonovo dove lavorava Nicoletta le colleghe e i colleghi sono "in assemblea permanente per chiedere che mai più si debba piangere una donna o un uomo che esce da casa per lavorare non vi fa più ritorno".
L'Anmil, l'Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invali di del Lavoro, in occasione della 72esima edizione della Giornata Nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro del 9 ottobre scorso, ha diffuso gli ultimi dati Inail: da gennaio a settembre di quest'anno i morti sono stati 677 con una media di quasi tre vittime al giorno.
Nel periodo tra gennaio e agosto 2022 la media è stata di 84 vittime al mese. Il totale è di 95 decessi in meno rispetto allo stesso periodo del 2021 - che però risentiva dei tanti morti per Covid. I decessi non legati alla pandemia sono aumentati del 32%. Sono cresciute anche le denunce di infortunio totali: sono state 484.561, +38,7% rispetto al 2021. Il maggior numero di infortuni mortali si è registrato nel settore delle costruzioni. Un bilancio tutt’altro che confortante, che parla non di numeri ma di persone!