Ragazzi ormai non più abituati a pensare, che agiscono, credendo di vivere in una canzone o in un reality show e perdono il contatto con la realtà. Giovanissimi che emulano i comportamenti "di un mondo adulto autocentrato, dove io mi sento offeso e quindi reagisco, senza rendermi conto di avere davanti una persona e non un ostacolo che posso buttare sotto al treno", e con un atteggiamento verso la donna che dovrebbe essere ormai superato per le nuove generazioni, "che è una persona e non un oggetto di contesa".
Queste sono state le parole del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Milano, Ciro Cascone, sulla grave vicenda verificatasi tre giorni fa a Monza: due minorenni italiani, di 14 e 15 anni, della provincia di Monza, hanno aggredito un coetaneo spingendolo contro un treno in corsa, rischiando di ucciderlo. I due sono ora accusati di tentato omicidio; la giovane vittima, immediatamente soccorsa e trasportata all’ospedale, ha riportato una ampia ferita alla testa, oltre a una frattura alla caviglia, ma non rischia la vita.
Secondo le indagini della Squadra Mobile di Monza, la vicenda è stata scatenata da un messaggino whatsapp che la vittima avrebbe inviato ad una ragazzina; uno dei due aggressori, interessato alla stessa giovane destinataria di quel messaggio, avrebbe raggiunto insieme ad un amico il coetaneo, nella stazione ferroviaria dove stava aspettando il treno per fare rientro a casa, al fine di “fargliela pagare” per aver “osato tanto”: insulti, accuse, sino alla richiesta di una felpa firmata per “saldare i conti” , avendo mandato quel messaggio a chi “non doveva toccare”.
Quando il giovane ha opposto il rifiuto a questa richiesta ed è scappato verso il binario dove avrebbe dovuto prendere il treno, è scattata l’aggressione fisica, l’inseguimento, sino alla violenta spinta che lo ha fatto cadere su un treno in transito. Il giovane per miracolo è rimasto incastrato tra la banchina e le ruote della carrozza e non è finito sotto il treno.
Gli autori dell’aggressione sono fuggiti, per poi venire rintracciati nel tardo pomeriggio, grazie all'analisi delle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza. Portati in Questura a Monza, sono stati interrogati dal pm della Procura minorile, che ha poi emesso il provvedimento di fermo per tentata rapina aggravata e tentato omicidio in concorso.
Il continuo aumento di reati sempre più violenti, commessi dai giovanissimi, è oramai argomento diffusamente trattato: non può non far riflettere il riferimento fatto del Procuratore di Milano all’emulazione di “un mondo adulto autocentrato”. Secondo le ricerche condotte dagli esperti, proprio la esorbitante visione narcisistica del “sé”, negli adulti come nei ragazzi, provoca reazioni abnormi di rabbia e violenza, ogni volta che la propria autostima viene minacciata; la competizione diventa incessante, e con tutti: anche con sé stessi.
(fonte e foto Ansa)
La Procura di Pavia ha chiuso le indagini per il delitto del 60enne Luigi Criscuolo, detto "Gigi Bici". Accusata dell’omicidio è la fisioterapista 40enne Barbara Pasetti, in carcere da oltre un anno dopo che il 20 dicembre 2021 venne ritrovato in un campo vicino alla sua villa, il cadavere di Criscuolo. I capi di imputazione sono quello di omicidio volontario, occultamento di cadavere e tentata estorsione aggravata; caduta l’aggravante della premeditazione, inizialmente contestata, poichè, come spiega la Procura "i fatti si sono svolti in modo repentino e sostanzialmente occasionale, attraverso un’arma che lo stesso Criscuolo aveva consegnato a Barbara Pasetti".
Nella comunicazione della chiusura delle indagini, firmata dal procuratore Fabio Napoleone, viene ricordato che il 5 ottobre, in un interrogatorio chiesto dalla stessa Pasetti, "l’indagata ha ammesso gli addebiti". Oggi emergono i dettagli.
Secondo le ricostruzioni l'uomo è stato ucciso dalla Pasetti, che aveva inizialmente dichiarato di non conoscerlo nemmeno, il giorno stesso in cui è scomparso, con un colpo di pistola sparato alla tempia. Per un mese, sino a quando venne ritrovato il suo corpo, i familiari, e una delle figlie in particolare, si erano rivolti alla tv per ritrovare il padre scomparso. La figlia incontrò anche la Pasetti, in quanto fu colei che aveva ritrovato il cadavere, ma la donna non smise mai di mentire dicendo di non conoscere quell’uomo.
In realtà, come accertato dagli inquirenti nel corso delle indagini, i due si conoscevano. L’arma con cui venne ucciso Criscuolo era stata consegnata dalla vittima alla Pasetti che lo aveva incaricato di uccidere il suo ex marito; l’uomo però aveva rifiutato. Secondo quanto dichiarato dalla donna le continue richieste di denaro del Criscuolo l’avrebbero portata ad ucciderlo.
(foto Ansa)
Un grave episodio di violenza sessuale di gruppo ai danni di una studentessa americana, si è consumato in centro a Milano lo scorso marzo. Particolare riflessione merita ciò che è stato scritto dal gip nell' ordinanza di custodia cautelare con cui, due giorni fa, sono stati posti agli arresti domiciliari i due ragazzi “gravemente indiziati del reato”: "Emerge invero nitidamente dai video che riprendono la violenza e dagli ulteriori atti di indagine, in particolare le intercettazioni ambientali, l'incapacità degli indagati di comprendere appieno il disvalore delle proprie condotte, e la conseguente possibilità che gli stessi reiterino nei propri comportamenti delittuosi, convinti della propria innocenza".
“L' incapacità di comprendere appieno il disvalore delle proprie condotte” di cui scrive il gip è l’elemento su cui soffermarsi, al di là dei nomi dei soggetti raggiunti dal povvedimento che, essendo due calciatori del Livorno, hanno forse distratto l'attenzione dalla gravità dei dettagli posti in luce nell'ordinanza. Si tratta di due ragazzi di soli 22 e 23 anni che, in concorso con altri tre giovani indagati, secondo la ricostruzione della Procura, si sarebbero offerti di riaccompagnare a casa la giovane americana, al termine di una serata in discoteca; ma una volta in macchina, invece di riaccompagnarla, l' avrebbero condotta in un appartamento in centro città e la avrebbero costretta a subire violenza, uno dopo l'altro.L' abuso sarebbe avvenuto approfittando dello stato di inferiorità psichica della vittima, che quella sera aveva bevuto "dei drink" e che aveva "vuoti di memoria, intervallati da flash", come lei stessa ha raccontato agli investigatori. I fatti sono stati ricostruiti dagli inquirenti anche sulla base del racconto di alcuni testimoni, e di quanto recuperato dai telefoni cellulari della vittima e dei presunti autori: la violenza sessuale di gruppo è stata infatti in parte registrata, conservata e ritrovata nei telefoni cellulari degli arrestati.
Come descritto nell' ordinanza di custodia cautelare disposta per “l’assai probabile reiterazione di analoghi comportamenti”, i giovani che hanno partecipato alla violenza erano ben consci dello stato di menomazione psicofisica della ragazza, provocata dall'assunzione di una quantità eccessiva di alcol nel corso della serata, ed hanno anzi utilizzato proprio quello stato nella consapevolezza di poter vincere qualsiasi tipo di resistenza per "concretizzare la violenza sessuale collettiva" .
L’avvocato di uno dei due giovani posti ai domiciliari ha già annunciato che presenterà ricorso al Riesame per chiedre la revoca dei domiciliari; scrive che il suo assistito è “devastato e incredulo e dice che non c’è stata alcuna violenza”.
Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. L'inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Tp) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido.È quanto apprende l'Ansa da fonti qualificate. Matteo Messina Denaro sarebbe stato arrestato all'interno di una clinica privata di Palermo, dove si era recato "per sottoporsi a terapie". Il capomafia trapanese è stato condannato all'ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell'acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del '92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del '93 a Milano, Firenze e Roma. Fonte Ansa
Martina Scialdone era una giovane avvocatessa di Roma, aveva 35 anni, lavorava in uno studio del quartiere Parioli dove trascorreva la maggior parte del suo tempo: una vita tra tribunale e studio. Stava investendo professionalmente su sé stessa, rari gli spazi da dedicare al tempo libero. Aveva perso il papà ed era legatissima alla mamma e al fratello.
Venerdi sera Martina si era fatta convincere dal suo ex, un ingegnere dell’Enav, Ente Nazionale per l’Assistenza al Volo, di 61 anni, Costantino Bonaiuti, ad incontrarlo per un chiarimento. I due avevano avuto una relazione durata 2 anni, poi la decisione della ragazza di interrompere quel rapporto: si era resa conto che quell’uomo non era adatto a lei.
L’incontro è avvenuto in Viale Amelia all'Appio Latino, in un ristorante che si chiama "Brado" e si è concluso con l’ennesima tragedia: non un raptus, non follia, ma la violenza omicida di un uomo che considera la donna al pari di una proprietà privata, e che non ha accettato il rifiuto della sua ex fidanzata.
Quell’incontro nelle aspettative dell’uomo doveva portare a riaprire quella relazione, ormai conclusa da qualche mese; ma forse sapeva che il finale sarebbe stato diverso, visto che si era recato all’appuntamento con una pistola, regolarmente denunciata per uso sportivo.
Il rifiuto di Martina alla riconciliazione ha scatenato la furia del 61enne: secondo le testimonianze, a fine cena si sarebbe scatenata un’accesa discussione che ha indotto la giovane avvocatessa a rifugiarsi nel bagno del ristorante. Lui l’ha inseguita, prendendo a pugni la porta chiusa a chiave, urlandole di uscire.
A quel punto secondo alcune testimonianze, entrambi sarebbero stati allontanati dal locale per non creare ulteriore scompiglio tra i clienti. Il ristorante Brado smentisce questa ricostruzione, dichiarando di aver fatto tutto il possibile per aiutare la ragazza, allertando le autorità sin dal primo momento.
Di fatto, una volta usciti, di fronte agli occhi di tutti, si è consumata la tragedia: Bonaiuti ha puntato la pistola ed ha sparato. Martina ha percorso qualche metro, per poi accasciarsi a terra. Inutile l’intervento di una dottoressa che era nel locale e degli immediati soccorsi giunti sul posto, in contemporanea con il fratello della giovane: la 34enne si è spenta tra le braccia del fratello.
Bonaiuti, che subito dopo aver sparato era scappato a piedi verso la sua auto, è stato rintracciato dagli agenti della squadra mobile nel suo appartamento a Fidene, dove si era rifugiato, ed è stato posto in arresto.
ll sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ha commentato la vicenda in un post su Facebook: "Il brutale assassinio di Martina Scialdone uccisa senza pietà dal suo ex-compagno ci sconvolge tutti. Roma si stringe al dolore dei familiari, degli amici, di tutti colleghi di questa giovane brillante avvocata, che nella sua attività professionale si occupava di diritto di famiglia, e anche di violenza di genere".
"Quella stessa violenza criminale di cui è rimasta vittima innocente, e che è un fenomeno drammatico e preoccupante - ha aggiunto - che va contrastato con tutte le forze, a tutti i livelli, dappertutto. A mio avviso, a questo dovremmo aggiungere una riflessione sulla necessità di limitare il possesso delle armi, riducendone il numero in circolazione, per aumentare la sicurezza di tutte e di tutti.”
Il sindaco Gualtieri a conclusione del post ha sollecitato ciascuno a "fare la propria parte", poichè le azioni messe in campo dalle Istituzioni non sono sufficienti "se non alziamo l’asticella dell’attenzione rispetto a comportamenti che possono sfociare nella violenza, se non abbiamo il coraggio di intervenire davanti a situazioni che vedono le donne in pericolo. Dobbiamo a Martina tutto il nostro impegno, in prima persona, affinché simili atroci tragedie non accadano mai più".
foto Ansa
Circa due mesi fa Alessandra Verni, la mamma di Pamela Mastropietro, la 18enne romana brutalmente uccisa a Macerata 5 anni fa, aveva scritto tre lettere: al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla presidente del consiglio Giorgia Meloni e al ministro della Giustizia Carlo Nordio, chiedendo di essere ascoltata e di dare voce al suo dolore di donna e di madre che, dopo 5 anni dall'atroce, macabro delitto della figlia, sta ancora attendendo che giustizia sia fatta.
Ieri è stata ricevuta dal sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia, Andrea Ostellari, nella sede del ministero in via Arenula, a Roma, che si è dimostrato interessato al caso. Alessandra Verni ha trovato l’incontro di ieri molto costruttivo: ha dichiarato di aver messo al corrente il sottosegretario Ostellari "di molte cose che non sono andate bene in questi cinque anni durante le indagini, gli ho riferito di indagini non fatte, di mancanze da parte di alcune istituzioni, quindi vediamo ora il prosieguo".
La prima sezione penale della Cassazione, confermata la condanna del nigeriano Innocent Oseghale per l'omicidio volontario di Pamela, vilipendio e distruzione di cadavere, aveva deciso di annullare la sentenza d’appello con riferimento al reato di violenza sessuale, disponendo su questo un appello bis. La prima udienza del processo d’Appello "bis" si è celebrata il 23 novembre a Perugia, con rinvio al 25 gennaio prossimo, ore 9.30, per l’integrazione dell’istruttoria, con l’escussione testimoniale due uomini che la ragazza aveva incontrato prima di Oseghale.
Per la Procura gli elementi documentali, testimoniali, logici, emersi in dibattimento a sostegno del reato di violenza sessuale sono chiari, e proprio la violenza sessuale commessa dal nordafricano sarebbe stata il movente dell'omicidio di Pamela. La ragazza sarebbe stata brutalmente uccisa da Oseghale poichè temeva che, una volta ripresasi, lo avrebbe potuto denunciare per la violenza subita.
Tale circostanza avrebbe trovato riscontro anche in alcune frasi intercettate dagli inquirenti nel 2018 nel carcere di Ancona, tra due nigeriani che erano stati co-indagati nell'inchiesta per l'omicidio di Pamela, per poi definitivamente uscirne per assenza di riscontri alle accuse. "Il 30 gennaio Innocent mi telefonò chiedendomi se volevo andare a stuprare una ragazza che dormiva" riferì uno dei due all’altro. Ed ancora, in un'altra conversazione avrebbe poi detto di aver saputo che Pamela era stata stuprata.
In primo e in secondo grado c'era già stata la condanna per violenza sessuale. Ora i giudici, a conclusione del rinnovato dibattimento, dovranno emettere la nuova decisione: se l'aggravante della violenza sessuale dovesse cadere, per Oseghale, condannato all'ergastolo in primo e secondo grado, potrebbe esserci uno sconto di pena. Un supplizio per la famiglia di Pamela, per la mamma che sopravvive grazie alla fede, e che chiede giustizia per sua figlia "e per tutte le donne violentate e massacrate da individui liberi di agire".
“Nessun potere, per quanto forte sia, potrà fermare la verità, anche se rimarrà una sola persona a difenderla e a pretenderla”. Con queste parole Pietro Orlandi aveva commentato la decisione della sesta sezione penale della Cassazione che confermava l’archiviazione dell’inchiesta sulla sorella 15enne Emanuela Orlandi, scomparsa il 22 giugno 1983: i giudici dichiararono inammissibile il ricorso presentato dalla famiglia Orlandi contro l’ordinanza con cui il gip di Roma aveva disposto l’archiviazione dell’indagine della Procura.
A distanza di 40 anni in questi giorni il promotore di giustizia vaticano, Alessandro Diddi, e la Gendarmeria hanno deciso di riaprire le indagini, “aprire un fascicolo” sulla vicenda, con il dichiarato intento di scandagliare di nuovo tutti i fascicoli, i documenti, le segnalazioni, le informative, le testimonianze. Sono emersi elementi nuovi nelle investigazioni? O forse il silenzio protratto per 40 anni dal Vaticano si è fatto insostenibile di fronte alla pressione mediatica, soprattutto degli ultimi tempi? "Forse hanno capito che altrimenti noi non ci fermeremo mai nella ricerca della verità" ha commentato Pietro Orlandi, impegnato da sempre nella ricerca della sorella.
La decisione del Vaticano è giunta a distanza di poche settimane dall’iniziativa di alcuni parlamentari che hanno chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta sui casi Orlandi, Gregori e Cesaroni, ormai chiusi da anni. È giunta immediatamente dopo la morte di Papa Ratzinger avvenuta solo qualche giorno fa, il 31 dicembre 2022; dopo gli attacchi rivolti a Papa Francesco dal segretario di Ratzinger, monsignor Georg Gänswein, ricevuto in udienza privata per un primo chiarimento il 9 gennaio 2023.
È giunta pochi giorni prima dalla pubblicazione del libro di memorie dello stesso segretario di Ratzinger, scritto a quattro mani con il vaticanista Saverio Gaeta e intitolato “Nient’altro che la verità. La mia vita al fianco di Benedetto XVI”, nel quale, tra l’altro, un ampio capitolo è dedicato proprio al mistero di Emanuela; dopo l'onda mediatica del docufilm "Vatican Girl" che ha acceso i riflettori sulla vicenda in tutto il mondo. Dopo la testimonianza del fratello di Emanuela sulla cartellina gialla con su scritto "Rapporto Emanuela Orlandi" che era stata vista negli uffici del Palazzo Apostolico dal cosiddetto "Corvo", (Paolo Gabriele ex maggiordomo del papa Benedetto XV), circostanza smentita da mons. Gänswein, se pur un paio d’anni fa fu proprio lui a dire alla famiglia Orlandi, secondo la testimonianza di Pietro “il fascicolo c’è”. Solo coincidenze?
Pietro Orlandi nel tempo ha sempre dichiarato di avere un’unica certezza, suffragata da elementi d’indagine concreti: “ in Vaticano , e non solo, ci sono persone a conoscenza di quanto accaduto". "Il silenzio li ha resi complici", è lo slogan apposto nella locandina in cui compaiono gli ultimi tre papi che si sono succeduti dalla scomparsa della ragazza fino ad oggi, con la quale Pietro ha indetto un sit-in di protesta che si terrà in Largo Giovanni XXIII il 14 gennaio.
Per Pietro Orlandi, ma anche per tutti quelli che credono nella Verità e nella Giustizia “ è il momento di mettere fine a questa vicenda: per noi, ma anche per loro, per la Chiesa, il Vaticano stesso”.
(Foto Facebook)
"I gravissimi scontri avvenuti ieri sull’ autostrada A1 confermano che questi criminali travestiti da tifosi rappresentano un rischio grave e concreto per i cittadini e per le forze dell’ordine. I poliziotti che hanno agito ieri con professionalità e sangue freddo, a Badia al Pino, sono stati costretti, infatti, a intervenire nelle corsie autostradali aperte alla circolazione e a fare i conti con persone armate di tutto punto, con bastoni e bombe carta, nonché abbigliate in modo da rendere difficile la loro identificazione".
La dichiarazione giunge dal segretario generale del sindacato di Polizia Coisp, Domenico Pianese, che ha proseguito con la richiesta al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, di "valutare la sospensione delle trasferte fino alla fine del campionato per le tifoserie che si macchiano di episodi di violenza.
E per coloro che saranno identificati quali autori degli scontri di ieri, auspichiamo l’applicazione del Daspo a vita. Di fronte a vicende del genere, infatti, l’unica via da applicare è quella dell’assoluta severità".
Sulla stessa linea il sindacato di Polizia Siulp, con la richiesta al ministro Piantedosi di valutare urgentemente "la reintroduzione di tutti gli strumenti già sperimentati per prevenire queste forme di violenza. A partire dalla tessera del tifoso sino alle partite a porte chiuse per quelle squadre le cui tifoserie si evidenziano per violenza e intolleranza".
Gli scontri in autostrada avvenuti ieri tra gli ultras del Napoli, diretti a Genova per la sfida contro la Sampdoria, ed i tifosi della Roma, in viaggio per Milano per l’incontro a San Siro tra il Milan e i giallorossi, si sono verificati sull’autostrada A1 ed all’interno dell’area di servizio Badia al Pino est, vicino ad Arezzo.
La Digos di Arezzo, insieme a quella di Napoli e di Roma, stanno lavorando incessantemente cercando di fare chiarezza su quella che sembra sia stata una guerriglia organizzata: secondo la ricostruzione delle forze dell’ ordine: “circa 350 tifosi del Napoli diretti a Genova, si sono fermati nell’area di servizio Badia al Pino direzione nord".
Dopo la morte, nel 2014, del tifoso napoletano Ciro Esposito, raggiunto da un colpo di pistola esploso da un tifoso della Roma al termine della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, si è cercato di tenere le tifoserie a distanza per evitare possibili incidenti: ai romanisti era impedito di andare in trasferta a Napoli, così come ai napoletani di vedere la propria squadra allo stadio Olimpico.
Ieri è stato impossibile evitare l'incontro: sembrerebbe che i romanisti potessero contare su alcuni ultrà in avanscoperta con il compito di informarli sulla presenza dei rivali negli autogrill toscani: avrebbero deciso di fermarsi all’altezza dell’area di sosta proprio per la presenza della tifoseria partenopea. L'autostrada A1 si è trasformata così in un campo di battaglia.
Gli investigatori stanno conducendo le indagini per ricostruire la dinamica, sulla base dell’analisi delle telecamere di sorveglianza dell’autogrill ed anche delle chat e delle comunicazioni telefoniche dalle quali emergerebbe che gli ultras abbiano iniziato a minacciarsi proprio in chat.
Lo scontro sulla carreggiata nord della A, che li ha visti tutti vestiti di nero ed incappucciati, coinvolti nel lancio di sassi, bottiglie, coltelli, bastoni, fumogeni, non sarebbe stato quindi casuale.
A oggi sono oltre 200 i tifosi identificati dalla polizia, tra quelli che per almeno 15 minuti hanno messo a ferro e fuoco la carreggiata della A1 attentando alla sicurezza dei trasporti, oltre che delle forze dell’ordine e dei cittadini.
Il ministro per lo Sport e i Giovani, Andrea Abodi è intervenuto sui gravi fatti: “C'è una differenza abissale tra i tifosi che vanno allo stadio, in casa o in trasferta, per cantare, abbracciarsi, gioire o soffrire per la propria squadra e i delinquenti che si scontrano in una stazione di servizio autostradale, creando problemi alle persone perbene. Non c'è cosa peggiore che definire tifosi quest'ultimi, non c'è errore più grande del fare di tutta l'erba un fascio”.
Foto Adnkronos
È triste parlare di "primo femminicidio del 2023", ma purtroppo questa è la tragica realtà. La vittima è Giulia Donato, una ragazza di 23 anni, uccisa con un colpo di pistola dal fidanzato Andrea Incorvaia, guardia giurata di 32 anni, che poi ha deciso di farla finita, rivolgendo l’arma di servizio contro sé stesso.
A dare l’allarme sarebbe stata la sorella di Andrea, che, non avendo più sentito la coppia dalla sera prima, il 4 gennaio intorno alle 17:30 avrebbe deciso di andare a verificare di persona se fosse accaduto qualcosa. Quando è arrivata nell’abitazione dove viveva la coppia nessuno le ha aperto.
Si è fatta quindi dare le chiavi da un'amica e ha trovato i due corpi in camera da letto. Gli investigatori della Squadra Mobile e gli agenti del Commissariato di Cornigliano che indagano sull’accaduto, ipotizzano che la giovane sia stata colpita a morte nel sonno.
Al momento non si sa se la tragedia si sia consumata al culmine di un litigio o se l’omicidio/suicidio sia stato premeditato; dalle prime ricostruzioni sembrerebbe che tra i due avvenissero scontri e litigi quasi quotidianamente.
Le amiche di Giulia avrebbero riferito di un rapporto malato, di continui controlli da parte di lui, un uomo eccessivamente possessivo, di una gelosia morbosa, al punto che la ragazza sembra stesse decidendo di porre fine alla storia. Giulia era già stata segnata tragicamente dalla perdita della bambina avuta con un altro compagno nel 202, dopo un mese dal parto.
Mentre la giovane cercava di uscire da quel vuoto così doloroso, certamente con un gran bisogno di amore e di serenità, ha incontrato il suo assassino. Dalle indagini condotte dalla squadra mobile è emerso un elemento ulteriore: Andrea aveva intrapreso un percorso terapeutico per una forma di depressione e sembra assumesse degli psicofarmaci. Era ancora in condizioni ottimali per detenere l’arma d’ordinanza?
Ancora una volta, è tardivo porsi delle domande: la tragedia si è consumata ed ora il dolore terribile è di chi resta, familiari, amici, in queste ore stretti in una morsa di sgomento ed incredulità. Un senso di impotenza pervade, di fronte a questi delitti, che parlano dell’idea di possesso che ancora certi uomini hanno delle donne.
I modelli sociali sono i primi a dover cambiare: se da un lato negli ultimi anni in Italia è aumentata l’attenzione per la violenza sulle donne, dall’altro i modelli che la società ci rimanda parlano di potere sugli altri, prevaricazione, facile successo, denaro a tutti i costi, "frenando" il percorso verso una società più giusta, indispensabile per giungere ad una parità di genere.
Modelli imperanti, rappresentazioni stereotipate di uomini e donne che per primi devono essere scardinati, per poter attuare quella rivoluzione culturale che, di fronte a questi episodi, sembra ancora troppo lontana.
Iseo. La sera del 31 dicembre, poco prima della mezzanotte, alcuni giovani riuniti nella piazza cittadina dove era stato organizzato il veglione di fine anno, hanno allertato una pattuglia di Carabinieri segnalando l’episodio di violenza a cui stavano assistendo: un uomo di 41 anni stava aggredendo e picchiando la compagna, coetanea, davanti al figlio della coppia di soli 5 anni, che la madre teneva abbracciato a sé.
I carabinieri sono subito intervenuti ed hanno arrestato il 41enne in flagranza di reato. Da quanto emerso la donna era già stata picchiata e maltrattata, così come confermato dai precedenti specifici rilevati a carico del 41enne che si trovava al lago d’Iseo con la famiglia per trascorrere le festività.
Pistoia. Una donna insanguinata, con il volto tumefatto, intorno alle 8 di mattina del 1 gennaio è fuggita dalla propria abitazione per chiedere aiuto in strada. Accorsi alcuni residenti della zona hanno immediatamente allertato i soccorsi e le forze dell’ordine, che, giunte tempestivamente sul posto, hanno trovato la vittima riversa a terra, in pigiama, con numerose escoriazioni, la più preoccupante provocata da un violento pungo inferto al volto. Dalle prime ricostruzioni, secondo quanto riportato dal quotidiano “La Nazione”, è emerso che il compagno della donna l’avrebbe aggredita selvaggiamente, probabilmente al culmine di un litigio.
In entrambi gli episodi i testimoni avrebbero riferito di uno stato di ebrezza alcolica negli aggressori, causato verosimilmente dalle numerose bevute durante i festeggiamenti dell' ultima notte dell'anno: ciò non deve indurre nell’errore di pensare che l’eccesso di alcolici abbia da solo provocato le aggressioni. Che il consumo di alcol aumenti la propensione ad atti di violenza è un fatto accertato: l’alcol agisce nella corteccia perifrontale del cervello, deputata tra le altre cose al controllo degli impulsi, a regolare le emozioni, ed alle capacità decisionali. Proprio per questo, come accertato da numerosi studi italiani ed esteri, l’eccessivo consumo di alcol in adolescenza danneggia gravemente il cervello “promuovendo l'assottigliamento della corteccia prefrontale dato che nei ventenni il cervello è ancora in via di sviluppo”.
Tuttavia sarebbe errato affermare che l’abuso di alcol, da solo ed esso solo conduca alla commissione di crimini violenti del tipo di quelli sopra riportati, se pur certamente è stato un fattore scatenante o facilitatore del reato: non sempre il consumo di alcol porta a violenza e non tutta la violenza è dovuta all'alcol.
Il senso etico delle persone non cambia con le bevute, a dirlo è la scienza. Laddove le ricerche evidenziano che l'alcol è associato alla commissione di diversi reati, occorre precisare che nella maggior parte dei casi non si tratta di crimini commessi da soggetti dall’indole mite e calma che improvvisamente si trasformano dopo aver bevuto, quanto piuttosto di casi in cui esiste una propensione all' aggressività ed alla violenza. A conferma di ciò, secondo le ricostruzioni,le due donne vittime delle aggressioni di Capodanno avevano già subito precedenti violenze dai loro compagni.
Secondo i dati di “Ossigeno per l’Informazione” (Osservatorio Su informazioni giornalistiche e notizie oscurate) nel 2022 in Italia sono stati minacciati il doppio di giornalisti rispetto al 2021: 564 giornalisti nei primi nove mesi del 2022, il 100 per cento più dei 288 dello stesso periodo del 2021. Contestualmente è cresciuto il numero di querele e cause per diffamazione a mezzo stampa temerarie e strumentali. Per “querela temeraria” si intende una querela sporta senza i necessari presupposti, con mala fede o colpa grave, cioè con la consapevolezza di avere torto.
Affrontare una causa per un giornalista, ancor più se da freelance, non è semplice, anche qualora essa risulti infondata, e richiede oltretutto un importante investimento in termini economici: i freelance non hanno un vincolo di lavoro dipendente con le testate giornalistiche per cui scrivono, e quindi non vengono sostenuti nelle spese legali; il loro compenso si aggira intorno ai 40 euro lordi per articolo, quindi la tendenza sarà in molti casi quella di evitare di correre il rischio di resistere in causa, autocensurandosi.
Questo meccanismo inevitabilmente si traduce in un vulnus per la libera informazione. Quasi sempre la minaccia di una causa giunge per tacitare il cronista che possa scrivere di fatti scomodi per il querelante: un danno non solo per il professionista, ma anche e soprattutto per i cittadini che finiscono per avere notizie che i reporter hanno spesso censurato alla fonte per non rischiare denunce.
Uno studio dell’Unesco, tradotto in italiano da “Ossigeno per l’informazione” reso noto il 9 dicembre 2022, ha rilevato che “la libertà di espressione non gode buona salute e negli ultimi anni ha perso terreno pressoché ovunque”. In particolare ha condannato un “uso scorretto del sistema giudiziario per attaccare la libertà di espressione” : di fatto anche in Italia è solo con la sentenza che viene accertata la lite temeraria; ciò significa che il giornalista dovrà affrontare tutto il gravoso iter processuale per dimostrare di essere esente da colpa.
"Ossigeno", ha dichiarato il presidente Alberto Spampinato, "si augura che l'allarme venga raccolto, che ciò spinga a capire meglio l'andamento del fenomeno e a intensificare le attività per sensibilizzare il mondo del giornalismo, le forze politiche, il Parlamento, il Governo ad adottare opportune contromisure, ognuno per la propria parte. È triste - prosegue - chiudere il 2022 osservando che anche quest'anno è trascorso senza che si sia fatto alcun passo avanti. Le intimidazioni e le minacce ai giornalisti sono innegabilmente una malattia che indebolisce la libertà di informazione e danneggia la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Le malattie trascurate, non curate possono degenerare e produrre danni peggiori all'organismo. Ed è forse ciò che sta accadendo".
Pelli liscissime, labbra carnose, fisici scolpiti: realtà o finzione? Sono i "beauty filters", ossia delle “maschere digitali” che ciascun utente applica alla propria immagine per apparire sui social. Non solo teenagers, ma anche donne adulte che entrano in competizione con le loro coetanee e uomini di ogni età.
L’uso smodato dei filtri, iniziato nel 2010 con il lancio di Instagram, uno dei primi social media che li ha introdotti, non ha distinzione di sesso nè anagrafica.
Per ogni difetto, reale o supposto che sia, basta applicare a sé stessi un filtro e si cancella immediatamente ogni imperfezione. Per molti l’omologazione del proprio corpo ai “finti canoni” stabiliti dai social con Photoshop e altre applicazioni, è il normale strumento con cui presentarsi all’altro nel mondo virtuale.
Salvo poi il sopraggiungere dell’ansia da prestazione per somigliare il più possibile a quel "falso sé”" alterego social, e del senso di inadeguatezza per non poterci (ovviamente) riuscire.
Sociologi, psicologi e psichiatri già da tempo denunciano che l’uso del fotoritocco è diventato la nuova normalità, a scapito di gravi risvolti psicologici e disturbi della personalità. Utilizzare quotidianamente i filtri e le app di editing può portare a sviluppare la "selfie dismorfia", una condizione in cui non si è più in grado di distinguere la propria immagine reale da quella postata sui social network.
Chi soffre di questa condizione può arrivare a non riconoscere più il proprio volto allo specchio, tanto è abituato a quello ritoccato online. Da qui al vero e proprio "disturbo mentale da dismorfismo corporeo" inserito nel DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali) nel capitolo dei "disturbi ossessivo compulsivi e correlati", la distanza è breve.
Si tratta di un disturbo che comporta eccessiva preoccupazione per un presunto difetto fisico (che in alcuni casi può essere del tutto inesistente) causando nel soggetto problemi nel funzionamento sociale, emotivo, relazionale e in altre importanti aree di vita.
La reazione a questo imperante quanto stressante stile di vita ha trovato voce in alcune giovani influencer che hanno scelto di mostrarsi sui social con i propri difetti: acne, smagliature e cellulite, e tutte quelle imperfezioni, ammesso che lo siano, con le quali nel quotidiano reale ciascuno si rapporta.
È di Faye Dickinson, influencer londinese, l’idea del tool su Instagram creato nel 2021, “Filter vs Reality”: uno strumento che applica il filtro di abbellimento solo su metà viso, lasciando naturale l’altra, con l’obiettivo di evidenziare la differenza tra l’immagine costruita sui social e quello che è nella realtà.
Lo strumento è stato creato per mettere in luce le problematiche connesse con la non accettazione del proprio vero sé. Siamo ancora lontani dall’abbandonare l'oramai standardizzata "falsa perfezione", ma i segnali che giungono in controtendenza, fanno sperare che tra tante “maschere” di pirandelliana memoria, i "pochi volti" diventino sempre più numerosi.
(Foto: Instagram goar_avetisyan)
Durante un’attività di controllo del territorio, i carabinieri della Compagnia Roma Parioli hanno arrestato due ragazzi di 19 anni, sorpresi con dosi di hashish e cocaina nascoste in alcuni cartoncini con l'immagine di Babbo Natale.
Si legge in una nota che i militari, insospettiti dai movimenti dei due giovani, "hanno proceduto di iniziativa alla perquisizione personale e dell'auto, rinvenendo 40 dosi di droga, alcune delle quali riportanti l'effige di Babbo Natale, suddivise in 44 grammi di cocaina e 30 di hashish”.
“Nelle abitazioni i carabinieri hanno trovato altri sei grammi di hashish, due di marijuana, il materiale utile per tagliare, pesare e confezionare la droga e 140 euro in contanti, ritenuti provento della pregressa attività".
I dati statistici purtroppo parlano di un continuo aumento dei casi di criminalità compiuti da giovanissimi, anche minorenni, nel territorio nazionale e le Marche confermano tale andamento: furti, spaccio di droga, violenze sessuali, stalking, sono alcuni dei reati più preoccupanti commessi dai minorenni di tutta la regione.
Spesso si associa la criminalità minorile a contesti di degrado economico, sociale e familiare; in realtà una percentuale piuttosto alta di tali reati viene commessa da adolescenti incensurati, appartenenti a famiglie di estrazione sociale medio alta, che per la “noia” di avere tutto, vanno contro tutto ciò che le regole da seguire impongono.
Inutile ribadire che in questi casi spesso alle spalle di questi adolescenti latita la figura genitoriale che educhi alle regole, ponendo limiti e punizioni a fronte di comportamenti sbagliati.
Non ci sarà un nuovo processo per Antonio Logli, condannato in via definitiva a 20 anni per l’omicidio della moglie Roberta Ragusa e per la distruzione del suo cadavere. La terza sezione penale della Corte d’appello di Genova ha dichiarato inammissibile l’istanza di revisione della sentenza presentata il 5 dicembre dalla difesa dell'uomo.
Roberta Ragusa, 44 anni, sposata, due figli, gestiva una scuola-guida adiacente alla propria abitazione a San Giuliano Terme in provincia di Pisa. Il marito riferì di essersi svegliato la mattina del 13 gennaio 2012 senza la moglie accanto, di averla vista per l’ultima volta la sera precedente intorno alla mezzanotte, intenta a scrivere la lista della spesa.
Logli aveva precisato che Roberta poteva essere uscita di casa in stato confusionale a seguito di un’amnesia causata da un trauma subìto alla testa dopo una caduta accidentale dalle scale, alcuni giorni prima della sua scomparsa.
Ben presto, diversamente da quanto emerse dalle prime dichiarazioni dell’uomo, si delineò un quadro di crisi familiare sullo sfondo della scomparsa di Roberta, peggiorata dalla relazione clandestina tra il Logli e Sara, la babysitter dei loro figli. Alcune amiche di Roberta durante le indagini riferirono di aver raccolto i suoi sfoghi, legati alla crisi del suo matrimonio: la donna avrebbe confidato alle amiche di essere a conoscenza della relazione del marito (ma non anche dell’identità dell’amante).
Tra i comportamenti sospetti del Logli, ci fu quello di chiedere alla sua amante di cancellare tutte le prove della loro relazione la mattina dopo la scomparsa di Roberta, e di disfarsi del cellulare con cui comunicavano. Poco dopo la scomparsa si è inoltre rapidamente disfatto della macchina della moglie e ad un solo anno di distanza dalla scomparsa, ha dato inizio alla convivenza con Sara (alla quale, nel 2019, ha chiesto di sposarlo), proprio nella casa dove aveva vissuto con la moglie.
La lunga inchiesta portò all'arresto del marito, che nel tempo ha sempre respinto ogni accusa. La condanna giunse sulla base di "una lunga serie di indizi convergenti e rilevanti in ordine all'omicidio della moglie"; la sentenza ritenne Logli colpevole di averla uccisa per motivi sostanzialmente economici, quali la perdita della scuola guida, gestita in società con la moglie, o della casa di famiglia, qualora lei avesse chiesto, come sembrava intendesse fare, la separazione.
Alla base della condanna ci fu anche il racconto di un super testimone, Loris Gozzi, che dichiarò di aver visto marito e moglie discutere violentemente nella notte della scomparsa, fuori di casa, in macchina. In un periodo successivo però lo stesso testimone era finito in carcere per furto e avrebbe confessato a due compagni di cella di essersi inventato le accuse contro Logli. Da qui la richiesta di revisione del processo presentata dal Logli che però è stata respinta.
Il difensore del marito di Roberta Ragusa ha già preannunciato di voler ricorrere in Cassazione, chiedendo l'assegnazione di un'altra Corte per la discussione dell'istanza di revisione per motivi procedurali.
Sono stati celebrati ieri mattina nella chiesa di San Giuseppe a Villabate (Palermo), i funerali di Giovanna Bonsignore, assassinata giovedì sera dal suo ex compagno Salvatore Patinella. Giovanna era una donna di 44 anni, madre di una ragazza di 15 anni, impegnata nel sociale: proprio le sue colleghe, volontarie dell'associazione Archè, con le quali la vittima svolgeva attività di cura ai bisognosi del paese, ieri l'hanno accompagnata per l'ultima volta, indossando una maglietta rossa per denunciare la violenza contro le donne.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Patinella si era recato a casa della donna intorno all’ora di cena e ha portato a compimento il suo proposito criminoso, annunciato poco prima con un post nella sua pagina Facebook. L’ex compagno di Giovanna, dopo essersi scagliato contro di lei colpendola con molteplici fendenti probabilmente al culmine dell'ennesima lite, si è suicidato con un unico colpo mortale alla giugulare, utilizzando lo stesso bisturi che aveva rivolto contro la vittima.
Un amico dell'uomo, leggendo il post, aveva intuito la gravità della situazione ed ha allertato i carabinieri che sono giunti immediatamente sul posto: purtroppo il delitto si era già consumato. Secondo quanto raccontano alcuni conoscenti, Giovanna Bonsignore e Salvatore Patinella si erano lasciati, ma l’uomo, 41 anni, non aveva accettato la separazione.
Nel messaggio lasciato al social, l’assassino, con parole terribilmente lucide, ha preannunciato il gesto che stava per compiere. Un messaggio espressione di un soggetto che come ultimo gesto di controllo sulla partner ha scelto di ucciderla: il messaggio fa pensare alla sua frustrazione per la perdita del possesso su qualcosa che gli apparteneva.(..) “Per tutto ciò che probabilmente hai già fatto o avresti potuto fare, le stesse cose che hai fatto con me, con un altro uomo, mi hai fatto letteralmente squilibrare”(..).
Un amore finito provoca dolore, fa male lasciare andare. Quando però subentrano esplosioni di rabbia, ritorsioni, minacce, violenza verbale o fisica, sino al gesto estremo di uccidere, queste emozioni parlano al massimo di amore (patologico) verso se stessi, più che di amore verso l’altra/o. In questi casi sono l’incapacità di affrontare il rifiuto, la frustrazione che povocano “dolore”.
Dipendenza, immaturità, scarsa autostima sono alla base di questi omicidi. L’amore degno di essere chiamato tale non conosce violenza, costrizione e sopraffazione. Impariamo a non chiamare "amore" ciò che non lo è.
Ancona, 20 anni lei, 40 anni lui. Una breve relazione la scorsa estate, poi la scelta di lui di interrompere il rapporto per iniziare una storia con un’altra donna: decisione che la 20enne non avrebbe accettato. La ragazza avrebbe tentato più volte di riconquistare l’uomo che, approfittando del suo stato emotivo, si sarebbe fatto consegnare in più circostanze diverse somme di denaro.
In una di queste occasioni, l’uomo avrebbe invitato la ragazza a salire in casa sua dopo aver ricevuto i soldi richiesti, e lì l’avrebbe costretta, con una violenza documentata dalle ecchimosi rilevate sul corpo della giovane, ad un rapporto sessuale forzato. Per l’uomo, accusato di violenza sessuale aggravata e lesioni, il Gip del Tribunale di Ancona, su richiesta della Procura della Repubblica, ha disposto la misura cautelare degli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico.
Il questore di Ancona, Cesare Capocasa, ha riportato l’attenzione sull’importanza di affrontare il tema della violenza sulle donne da un punto di vista culturale: “Continua la mattanza domestica che ci restituisce una società incapace di liberare le donne dal loro inferno privato. La battaglia deve essere affrontata prima di tutto con la Forza della Cultura che sia cioè più forte dell’indifferenza, dell’intolleranza, dell’ignoranza dettata dal pregiudizio”.
Nelle relazioni spesso c’è la tendenza alla svalutazione della donna: svalutazione che parte molto spesso dalla donna stessa, da quell’ “annullarsi” in nome dell’amore, che spesso è tale solo per lei. Nella realtà si traduce in un rapporto disfunzionale: comportamenti prevaricatori, dinamiche logoranti e distruttive. In questi casi più la ragazza è giovane, più il rischio di diventare vittima di queste dinamiche è alto.
D'altro canto alcuni uomini crescono in un contesto nel quale i comportamenti di prevaricazione vengono acquisiti "naturalmente". La violenza fisica prima di diventare tale è sempre psicologica e viene appresa. Gli uomini violenti spesso si trovano tra quelli che conducono una vita "open minded", apparentemente libera da pregiudizi, che non hanno alcun problema a relazionarsi con le donne, se non fosse che in realtà le usano narcisisticamente solo per esaltare loro stessi; sono impregnati di stereotipi sessisti ben più estremi e radicati di quanto la loro vita in apparenza dimostri: per rendersene conto basterebbe ascoltarli quando parlano tra di loro in contesti eclusivamente maschili.
La rivoluzione culturale contro la violenza sulle donne, deve coinvolgere gli uomini, al loro fianco.
Ancora una storia di bullismo ai danni di un ragazzo di 14 anni di Gragnano (Napoli), che per almeno tre anni è stato vittima di un gruppo di bulli di età compresa tra i 15 ed i 18 anni.
Tra di loro, sarebbero coinvolti anche due minori indagati nel procedimento penale relativo al suicidio di Alessandro Cascone, il 13enne che si tolse la vita il primo settembre proprio a Gragnano. Il gip del tribunale per i minorenni di Napoli, su richiesta della procura, ha disposto per i cinque giovani la misura del collocamento in comunità.
Le violenze subite, le persecuzioni, le aggressioni verbali e fisiche, veri e propri atti persecutori sono stati tali negli anni al punto che la vittima 14enne avrebbe manifestato la volontà di togliersi la vita.
Proprio lo scorso mercoledì (14 dicembre) si è tenuto un convegno presso il Senato della Repubblica di Roma, “Bullismo on line e Baby Gang. Crisi valoriale, comportamentale e identitaria delle giovani generazioni”, che ha avuto ad oggetto il confronto tra esperti, prefetti, psichiatri e operatori del settore per fare il punto sul fenomeno.
Il quadro che è emerso è quello di una violenza esagerata nei bulli, figlia del fallimento sociale di quella “base solida” che dovrebbe essere la famiglia, e della poca incisività scolastica nell’educazione degli adolescenti.
In Italia i dati Istat e Ocse in merito al bullismo sono allarmanti: più del 50% dei ragazzi fra gli 11 e i 17 anni subisce offese e violenze da parte di altri ragazzi, spesso proprio nel contesto scolastico.
Per arginare il problema, la famiglia e la scuola sono fondamentali per cogliere segnali di disagio o dinamiche aggressive, al fine di intervenire preventivamente impartendo un’educazione affettiva e relazionale tesa al rispetto dell’altro e a scoraggiare comportamenti prevaricatori e di prepotenza, dilaganti, in primis, tra gli stessi adulti.
Un caccia Eurofighter dell’aeronautica militare è precipitato nel tardo pomeriggio di ieri a nord di Marsala mentre faceva rientro a Trapani dopo un’esercitazione . Era sparito dai radar della torre di controllo interrompendo il contatto. Nella notte è stato recuperato il corpo del pilota, il capitano Fabio Antonio Altruda: 33 anni, di Caserta in forza al 37mo Stormo di Trapani, aveva all'attivo centinaia di ore di volo effettuate anche in operazioni fuori dai confini nazionali in attività di air policing Nato.
Il 37esimo Stormo è uno dei reparti dell’Aeronautica Militare che assicura la sorveglianza e la difesa dello spazio aereo nazionale grazie a un sistema di radar, velivoli e sistemi missilistici, integrato sin dal tempo di pace con quelli degli altri paesi appartenenti alla Nato.
In un primo momento sembrava che il pilota si fosse lanciato dall' aereo pochi attimi prima dello schianto e si fosse salvato. Successivamente la notizia è stata smentita e purtroppo è giunta la comunicazione del rinvenimento del corpo senza vita del giovane capitano all'interno del velivolo nell'alveo di un fiume.
Non è stato ancora possibile stabilire l’esatta dinamica dell’accaduto, maggiori dettagli si avranno dopo il recupero della scatola nera del caccia. A quanto noto sino ad ora, sembra che dal velivolo non sia stato lanciato nessun allarme.
La procura di Trapani è al lavoro per chiarire le cause dell'incidente. Le ipotesi avanzate in queste ore sono state diverse, dall’esplosione in volo al malore del pilota. Una telecamera di sorveglianza di un’abitazione della zona ha ripreso lo schianto dell’Eurofighter, il video è stato acquisito dai pm.
Nelle immagini si vede chiaramente il bagliore dell’esplosione in aria del caccia, che volava insieme a un altro velivolo, rientrato regolarmente alla base. Anche l’Aeronautica Militare ha annunciato l’avvio di un’indagine di sicurezza del volo sull’episodio.
Sulla pagina Facebook dell’Aeronautica Militare sono stati migliaia i messaggi di stima, affetto per il capitano, di grande dolore per la sua perdita e di vicinanza alla famiglia ed ai colleghi del giovanissimo pilota . “Cieli blu” è il saluto dell’Aeronautica e dei colleghi di Fabio che lo ricordano con una foto in cui il capitano, sorridente, è ai comandi del suo Eurofighter.
Era il 14 dicembre 2021, esattamente un anno fa, quando Liliana Resinovich, 63 anni, ex dipendente della Regione, è scomparsa dalla sua casa di Trieste dove viveva con il marito Sebastiano Visintin; non ha portato con se cellulare, né soldi né documenti.
Quella mattina Liliana, per tutti Lilli, avrebbe dovuto incontrare un amico, Claudio Sterpin, ma non si presentò mai all'appuntamento. Gli scrisse un messaggio per avvisarlo che avrebbe tardato perché doveva passare in un negozio di telefoni, negozio dove però non risulta essere mai stata.
Il suo corpo venne ritrovato il 5 gennaio nel parco dell'ex ospedale psichiatrico di Trieste, a poca distanza dalla sua abitazione, avvolto in due sacchi neri da spazzatura, la testa chiusa in due buste di plastica, un cordino attorno alla gola. Omicidio o suicidio? Ad oggi nessuna risposta certa è stata data a questo quesito.
La tesi del suicidio. la tesi più plausibile per Procura. Secondo la consulenza disposta dalla Procura, il decesso sarebbe sopraggiunto per “morte asfittica in spazio confinato, senza importanti legature o emorragie presenti al collo”. Risalirebbe "a 48-60 ore circa prima del rinvenimento del cadavere stesso". “Il cadavere non presenta lesioni traumatiche possibili causa o concausa di morte, con assenza per esempio di solchi e/o emorragie al collo, con assenza di lesioni da difesa, con vesti del tutto integre e normalmente indossate senza chiara evidenza di azione di terzi”.
Dunque per gli inquirenti Lilli si è tolta la vita legandosi in testa due sacchetti di plastica ed è morta per asfissia poco prima che il suo corpo venisse ritrovato. Ma se le cose stanno così, dove ha trascorso i 20 giorni intercorsi tra la scomparsa e il ritrovamento del suo corpo, mentre erano state già attivate le ricerche? Come mai gli indumenti che indossava al momento del ritrovamento sono gli stessi con cui è uscita da casa parecchi giorni prima? Possibile che Lilli non sia stata avvistata da nessuno in quel periodo, né ripresa da una delle molte telecamere di videosorveglianza della città?
La tesi dell’omicidio. Per il fratello di Lilli, Sergio Resinovich, e per le persone che le erano vicine, la strada del suicidio non è quella giusta da percorrere. La verità sostenuta nella perizia incaricata dalla Procura, "è una verità di plastica", che "non convince me e i miei familiari" ha detto Sergio. Nel referto autoptico effettuato dopo il ritrovamento del cadavere erano stati segnalati dal medico legale alcuni segni sul volto della donna, cui i consulenti della Procura non avrebbero dato la giusta rilevanza.
Segni che, secondo l'avvocato Nicodemo Gentile, presidente dell’associazione “Penelope” e avvocato del fratello della vittima, sarebbero invece da valorizzare come tracce di una colluttazione: Liliana potrebbe essere stata "intercettata, accompagnata o comunque sorpresa da una visita da parte di qualcuno che la ben conosceva. Da qui si sarebbe sviluppata un'accesa discussione, Liliana sarebbe stata percossa e strattonata", forse ha subìto un'occlusione delle vie respiratorie, magari con una sciarpa, un cappello o un giubbotto, "che ha determinato uno scompenso cardiaco".
Negli ultimi giorni sono stati risentiti dagli investigatori il marito di Lilli, Sebastiano, Claudio Sterpin, 82 anni, l'amico della 63enne che fin dall'inizio ha sempre raccontato: “ lei voleva rifarsi una vita con me”. Dal canto suo Sebastiano ha più volte dichiarato di non essere a conoscenza del legame così profondo che univa la moglie all’amico Claudio. E laddove Claudio parla di una crisi matrimoniale importante, Sebastiano nega ed ha sempre negato tale circostanza. L’unica certezza su tali aspetti deriva dagli accertamenti effettuati sui telefoni: Liliana cercava informazioni su internet su “come divorziare senza avvocato”. C’è poi quell’ultimo messaggio, inviato da Lilli all’amico Claudio poche ore prima di scomparire: “In relax pensando a te amore mio”.
L indagine sulla vita emotiva e sull’aspetto personologico di Liliana sono molto importanti, come in tutti i casi in cui ci si trova di fronte ad una morte sospetta. Il dato scientifico deve necessariamente essere letto integrandolo con una valutazione globale di ogni aspetto della vita della vittima.
Ad oggi probabilmente non si è fatto tutto in questa direzione, ed è’ molto probabile che la procura di Trieste stia per concludere le indagini e la direzione, salvo colpi di scena, sia quella dell’archiviazione per suicidio, cui verosimilmente si opporrà il fratello della vittima.
Oggi si celebra la "Giornata dedicata alle persone scomparse", promossa dall'Associazione Penelope che si occupa da anni di persone scomparse e di assistenza ai familiari che attendono di sapere notizie. L’associazione è nata nel 2002 da un’idea di Gildo Claps, fratello di Elisa Claps, scomparsa a Potenza nel 1993, il cui corpo fu ritrovato 17 anni dopo nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, luogo dal quale si erano perse le sue tracce.
Presente su tutto il terrritorio nazionale con sezioni regionali, la sezione Penelope Marche è nata sulla scia del dramma della Famiglia Isidori: il piccolo Sergio Isidori scomparve misteriosamente nel 1979 da Villa Potenza a soli 5 anni e mezzo. La sorella, Giorgia Isidori, insieme alla sua famiglia non si è mai arresa, così ha fondato la rete territoriale di Penelope.
La situazione degli scomparsi in Italia è allarmante: dal report del primo semestre 2022 dell'Ufficio del Commissario Straordinario per le persone scomparse è emerso che le denunce di persone scomparse presentate dal 1° gennaio al 30 giugno 2022, sono state 9.599, pari ad una media di 53 al giorno. Nella maggior parte dei casi si tratta di minorenni: 6.312 i minori scomparsi in questo periodo.I ritrovamenti sono stati 5.024, per una media di 28 al giorno, con una percentuale complessiva del 52,3% rispetto a tutte le denunce presentate nel primo semestre 2022.
Oggi l’Associazione Penelope Italia si rivolge a tutti cittadini, “affinché si facciano portatori di un gesto di solidarietà e di vicinanza alle famiglie di persone scomparse”, lanciando un’iniziativa dai social: al calare del sole, “in tutta Italia, palazzi pubblici e privati, si illumineranno di color verde speranza, in segno di vicinanza e solidarietà alle famiglie delle persone scomparse. Un gesto di sensibilizzazione in un momento, come quello delle festività natalizie, dove assumono importanza le parole: amore, famiglia, unione e calore. Vi invitiamo, anche questo anno, a mettere una candela verde su un davanzale, per illuminare la strada del loro ritorno".
Il prefetto di Macerata, Flavio Ferdani, d'intesa con numerosi sindaci (Macerata, Civitanova Marche, Tolentino, San Severino Marche, Mogliano, Esanatoglia, Potenza Picena, Cingoli e Matelica), ha aderito all'iniziativa: i monumenti più rappresentativi dei comuni verranno illuminati con il verde, il colore della speranza, un gesto simbolico per tenere alta l'attenzione su questa delicatissima problematica che presenta elementi di complessità e che mette in evidenza una questione anche di natura sociale.