Maxi operazione della Guardia di Finanza che ha condotto all’arresto di 36 persone, accusate di avere gestito un traffico internazionale di sostanze stupefacenti, con l’aggravante della finalità di agevolare la 'ndrangheta. La base logistica è il porto di Gioia Tauro, in Calabria. L’operazione, “allo stato del procedimento e fatte salve successive valutazioni in merito all’effettivo e definitivo accertamento della responsabilità”, si legge in una nota della G.d.F., ha portato al sequestro di oltre 4 tonnellate di cocaina che con la vendita al dettaglio avrebbe raggiunto oltre 800 milioni di euro, e di beni per 7 milioni di euro.
Con il coordinamento della Procura della Repubblica di Reggio Calabria- Direzione Distrettuale Antimafia, informa sempre la nota G.d.F., la collaborazione di Europol e della Dcsa (Direzione centrale per i servizi antidroga), nonché della Drug enforcement administration (Dea) americana, sono stati impiegati trecento militari del Comando Provinciale di Reggio Calabria della G.d.F. in 8 regioni da Nord a Sud tra le province Bari, Napoli, Roma, Terni, Vibo Valentia, Vicenza, Milano e Novara.
Tra gli arrestati anche un funzionario dell’Agenzia delle dogane in servizio nell’ufficio istituito nel porto di Gioia Tauro, che aveva collaborato più volte in passato con la Guardia di finanza in occasione dei numerosi sequestri di sostanza stupefacente effettuati nel porto. Il suo ruolo era quello di ‘bonificare’ i container che contenevano la droga proveniente dal Sud America, eludendo i controlli degli scanner.Il “compenso” pattuito per il suo servizio sarebbe stato il 3% del valore della droga custodita nei container: quasi nove milioni di euro.
Tra i nomi degli arrestati spunta anche quello del campano Raffaele Imperiale, boss della camorra, è uno dei più grossi trafficanti di droga del mondo. Al 48enne campano l'ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip distrettuale di Reggio Calabria è stata notificata in carcere dove stava scontando una pena definitiva di 8 anni e 4 mesi di reclusione per il traffico di droga. Era stato estradato nel mese di marzo in Italia da Dubai, dove ha vissuto per anni da latitante.
La 'ndrangheta calabrese ormai da tempo ha contatti con i maggiori cartelli del Centro e Sudamerica. Ingenti quantitativi di droga nascosti nelle navi portacontainer dal Sudamerica giungono in Calabria per poi essere spediti nel resto d’Europa. Il traffico interazionale dal Porto di Gioia Tauro ha assunto dimensioni di portata così vasta che ha portato le divisioi antidroga italiane a parlare di una “nuova rotta del Mediterraneo”.
“I sodalizi calabresi”, si legge nella relazione al Parlamento della Dia del secondo semestre 2021 depositato a fine settembre, “si confermano interlocutori privilegiati con le più qualificate organizzazioni sudamericane garantendo una sempre più solida affidabilita’”. Le inchieste concluse nel secondo semestre del 2021 trasmettono l’immagine di una ndrangheta “silente ma più che mai pervicace nella sua vocazione affaristico-imprenditoriale, nonché costantemente leader nel narcotraffico”.
Quindi narcotraffico da un lato, mondo degli affari ed imprenditoriale dall’altro, sono gli ambiti in cui la 'ndrangheta e con lei tutte le mafie dirigono il loro raggio d’azione: "sempre meno legato a eclatanti manifestazioni di violenza e rivolto invece verso l'infiltrazione economico-finanziaria".
La difesa di Davide Fontana ha depositato la richiesta di rito abbreviato per il suo assistito, assassino reo confesso della giovane mamma Carol Maltesi, con la quale l’uomo aveva avuto una breve relazione. L’ex bancario è detenuto nel carcere di Busto Arsizio, con l’accusa di omicidio volontario, distruzione di cadavere ed occultamento, sevizie e crudeltà. Il 13 ottobre prossimo presso il Tribunale di Brescia si celebrerà l’udienza in cui si deciderà sull’istanza. La richiesta dei difensori punta ad escludere le aggravanti e quindi ad ottenere uno sconto di pena pari ad un terzo della condanna.
L’atroce delitto aveva sconvolto tutta Italia per la sua efferatezza. Carol 26 anni, originaria di Varese ma residente nel milanese, è stata uccisa a gennaio di quest’anno. La giovane aveva comunicato al Fontana la decisione di lasciare il comune di Rescaldina dove entrambi vivevano, vicini di casa, per trasferirsi in Veneto ed essere così più vicina al suo bimbo di 6 anni, avuto da una precedente relazione.
L’uomo che non si era rassegnato alla fine di quel rapporto, la uccise colpendola ripetutamente in testa con un martello. Ha quindi sezionato il corpo in 15 parti e lo ha conservato nel frigorifero per mesi, durante i quali, impossessatosi del cellulare della vittima, rispondeva ai messaggi dei suoi amici e dei genitori per tranquillizzarli. Infine ha deciso di disfarsi del corpo mettendolo in 4 sacchi di plastica gettati in un dirupo in montagna, nel Comune di Borno, località dallo stesso conosciuta poiché vi trascorreva le vacanze in gioventù, dove vennero ritrovati.
Il giudizio abbreviato richiesto dai legali di Fontana è un procedimento speciale alternativo al giudizio ordinario. Di fatto, con questo rito l’imputato rinuncia alla fase del dibattimento, ed il processo viene definito in sede di udienza preliminare allo stato degli atti. In virtù di ciò è previsto per i delitti uno sconto di pena pari ad un terzo. La legge 33/2019 ha riformato i requisiti di ammissibilità di questo rito : dall’aprile 2019 il rito abbreviato non è più ammesso per i delitti puniti con l’ergastolo. Per l' omicidio, è previsto l’ergastolo quando ricorrano delle aggravanti e negli altri casi ex articolo 577 codice penale.
Verosimilmente, soltanto attraverso la dichiarazione dell’incapacità di intendere e di volere la difesa potrebbe riuscire nel tentativo di far escludere le aggravanti, mentre i legali dell’accusa certamente insisteranno proprio sulla premeditazione, le sevizie e la crudeltà.
Per le famiglie delle vittime, la richiesta dei riti premiali, la concessione degli sconti di pena, è comprensibilmente irrispettosa ed offensiva della memoria dei loro cari.
In tal senso ha manifestato tutto il suo sconforto e la sua rabbia la madre di un’altra giovane vittima uccisa barbaramente da suo marito. Giulia Galiotto è stata uccisa a Sassuolo nel 2009: l’uomo l’ha attirata nel garage dei genitori di lui e lì l’ha colpita alla testa, fracassandole il cranio con una pietra, per poi gettarla in un fiume, inscenarne il suicidio e crearsi un alibi con depistaggi e bugie. Bugie che tuttavia, sono durate molto poco, sino alla confessione e poi all’arresto.
All’assassino con sentenza emessa nel 2013 "non è stata riconosciuta la premeditazione” (aggravante ndr) ha raccontato Giovanna, la mamma di Giulia, intervistata da Fanpage nel 2019, “nonostante abbia compiuto una serie di azioni articolatissime subito dopo l'omicidio per inscenare il suicidio".
Condannato a 19 anni e 4 mesi confermati in Cassazione, ha ottenuto di scontare i suoi ultimi tre anni in regime di semilibertà: dopo neppure 13 anni di carcere (dal 2009), da febbraio di quest’anno si trova in prova ai servizi sociali. Per lui un nuovo lavoro ed una nuova vita. Quella che Giulia, come Carol, come tutte le altre vittime, non potranno più avere.
È di pochi minuti fa la notizia che l’uomo barricato in casa da ieri pomeriggio con il figlio di 4 anni ha permesso ai carabinieri di entrare nell’abitazione: il bambino sta bene. Notte di trattative quella appena trascorsa, tra i carabinieri e un padre separato che si è barricato in casa con il figlio di 4 anni a Roncadelle, comune del Bresciano.
Il bambino in sede di separazione era stato affidato dal Tribunale alla madre a causa di "comportamenti violenti del padre", con diritto per l’uomo di vederlo esclusivamente in incontri protetti. Il 35enne, di origine rumena, avrebbe precedenti di violenza domestica.
Ieri pomeriggio l’uomo, nel corso di uno di questi incontri protetti presso la casa della madre, avrebbe strappato il figlio dalle mani dell’assistente sociale, minacciandolo con una pistola, che a tuttora non si ha la certezza sia vera, per poi darsi alla fuga sino a raggiungere la propria abitazione.
I carabinieri, l’unità antiterrorismo e un negoziatore presenti sul posto sin da ieri pomeriggio, hanno accertato che le condizioni del bambino fossero buone. Dopo una lunga notte di trattative hanno potuto parlare con il piccolo solo questa mattina intorno alle 8.30.
Chiusa ogni possibile via di fuga per evitare che l’uomo potesse allontanarsi, le trattative si sono protratte per tutta la mattinata. È di poco fa la notizia che l’uomo ha permesso ai carabinieri di entrare in casa, aprendo loro la porta. I militari hanno trovato il bambino in buone condizioni di salute e l’hanno portato fuori, insieme al padre.
In casi di sequestro di ostaggi come questo, è fondamentale il ruolo estremamente delicato del negoziatore: di vitale importanza è stabilire una efficace comunicazione con il sequestratore. L’ ascolto empatico, che serve a comprendere la tipologia di persona che ci si trova di fronte e le sue motivazioni, è fondamentale tanto quanto la capacità persuasiva necessaria per mantenere sempre aperto il contatto.
Vasta esperienza e preparazione anche in ambito psicologico, flessibilità nell’accogliere le richieste, disponibilità all’ascolto, comunicazione con tono della voce calmo e pacato sono alcune delle caratteristiche imprenscindibili in queste figure professionali per concludere positivamente la contrattazione, come accaduto oggi, al fine di evitare l’intervento degli agenti con la forza.
(Credit foto: LocalTeam)
È di questi giorni la notizia dell’ordinanza con cui il gip di Milano ha respinto l'istanza dei difensori di Alessia Pifferi che chiedevano un accertamento neuro psichiatrico in carcere per la loro assistita.
Alessia Pifferi è accusata di omicidio volontario aggravato, per aver lasciato morire di stenti la sua piccola Diana di 16 mesi: l’ha abbandonata in casa da sola per 6 lunghi giorni per trascorrere del tempo in tranquillità con il suo compagno.
Secondo l’avvocato della donna, la 37enne non sarebbe ancora del tutto consapevole di quello che ha fatto: per questo la difesa ha avanzato, per la seconda volta, la richiesta di perizia in carcere, per valutare il grado di intenzionalità con cui la Pifferi ha agito.
La richiesta è stata tuttavia respinta dal gip, per la seconda volta, in quanto, scrive nella motivazione "si è sempre dimostrata consapevole, orientata e adeguata, nonché in grado di iniziare un percorso, nei colloqui psicologici periodici di monitoraggio, di narrazione ed elaborazione del proprio vissuto affettivo ed emotivo, anche dopo l’ingresso in carcere, come attestano le relazioni del Servizio di psichiatria interna".
La consulenza richiesta, quindi, "non si aggancerebbe ad alcun elemento fattuale", anche perché Pifferi non ha alcuna "storia di disagio psichico" nel suo passato. Sono trascorsi 20 anni dal delitto di Cogne, e secondo gli ultimi dati forniti dall’Eures - Ricerche economiche e sociali, dal 2010 a oggi in Italia sono stati commessi 268 figlicidi. Le madri risultano le autrici prevalenti del reato contro i figli di età compresa tra gli 0-5 anni, mentre dopo i 5 anni nella maggior parte dei casi l'autore dei figlicidi è il padre.
Il professor Vincenzo Mastronardi, psichiatra e criminologo clinico che nel 2007 ha pubblicato un libro dal titolo "Madri che Uccidono", ha spiegato che, laddove non sia presente una pregressa grave patologia psichiatrica tale da annullare la capacità di intendere e di volere, tra le madri che agiscono razionalmente "il raptus vero e proprio non esiste, alla base ci sono sempre ragioni precise".
Tali ragioni affondano radici nel quotidiano e possono così riassumersi:
– life stressor event (eventi di grande perdita affettiva: lutti, abbandoni reali o amplificati, separazione);
– pietas (omicidio altruistico, nella convinzione di risparmiare al figlio sofferenze nella vita);
– immaturità della madre;
– perché il bambino è iperattivo (bambino maltrattato);
– perché figlio della colpa;
– per sindrome di Medea (per vendetta nei confronti del compagno viene ucciso il figlio);
– per disturbo (dipendente, narcisistico oppure istrionico) di personalità;
– perché figlio indesiderato;
– per depressione (non maggiore) in soggetto narcisista;
– per disturbi comportamentali dovuti all’assunzione di alcool e droga.
In tali casi il figlicidio è un atto "razionale, lucido e consapevole" che nella maggior parte dei casi poteva essere evitato, spiega Mastronardi. Ecco perché in un’ottica preventiva la famiglia ha un ruolo importante nel fare attenzione a quei campanelli d’allarme che denunciano che la situazione di benessere della donna è gravemente compromessa.
Si sono concluse le indagini sull’omicidio del piccolo Alex, il bimbo di due anni ucciso dalla mamma con sette coltellate: secondo la ricostruzione della Procura di Perugia la donna lo avrebbe colpito "in rapida sequenza sette volte al collo, al torace e all'addome con un coltello”.
Alla donna è stata altresì contestata l’aggravante della premeditazione, dedotta sia dalle minacce che la stessa aveva fatto nel tempo, di uccidere il figlio, sia dal depistaggio messo in atto subito dopo l’omicidio. Per il collegio dei periti nominati dal Gip la donna avrebbe avuto la consapevolezza della grave azione posta in essere.
Il terribile delitto avvenne un anno e quattro giorni fa. La donna, in evidente stato confusionale, il primo ottobre 2021 entrava nel negozio Lidl di una frazione di Città della Pieve, e, dopo aver vagato tra le corsie in stato confusionale chiedendo aiuto, aveva adagiato sul nastro trasportatore della cassa il corpicino di un bambino, già morto, raccontando di averlo trovato all’esterno del supermercato.
I sanitari del 118, immediatamente allertati, giunti sul posto hanno constatato la morte del piccolo. Numerose le ferite al collo e all’addome procurate dai fendenti di un coltello, successivamente ritrovato nella borsa della stessa donna, dichiaratasi solo in un momento successivo madre del piccolo. Si trattava della 43enne ungherese Katalina Erzsebet Bradacs.
Sin da subito gli indizi a carico della 43enne erano gravi precisi e concordanti: la donna ha messo in atto depistaggi e raccontato bugie facilmente riconoscibili per gli inquirenti: dal possesso del coltello in borsa, giustificato per "difendersi dagli immigrati, che violentano le donne e uccidono i bambini" all’accusa di un fantomatico “uomo nero” che avrebbe aggredito ed ucciso il piccolo fuori dal supermercato, di cui neppure le telecamere di sorveglianza hanno rilevato la presenza.
Ben presto è emerso che il bimbo di due anni viveva in Ungheria con i genitori. Dopo una lunga battaglia legale tra i coniugi in fase di separazione, era stato affidato dal Tribunale al papà; l’uomo, solo qualche giorno prima del terribile delitto, aveva denunciato l'ex moglie in Ungheria per essersi allontanata con il loro figlio: "Lo ha rapito".
Il movente plausibilmente va rintracciato nelle poche parole che la donna aveva inviato ad un amico, insieme alla foto del corpicino del bimbo insanguinato, poche ore pima di entrare nel supermercato: “Non apparterrà a nessuno di noi ora”.