Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate da ogni parte della nostra provincia, soprattutto dall’entroterra maceratese, hanno interessato principalmente la tematica riguardante l’applicazione da parte del distributore dei quotidiani ed in genere dei prodotti editoriali di costi aggiuntivi all’edicolante per la loro consegna al fine di scongiurare la sospensione della stessa fornitura in danno del rivenditore e della comunità territoriale. Di seguito l’analisi del legale Oberdan Pantana.
È il caso di dire “piove sul bagnato”! Difatti, non sono bastate le due gravi calamità che hanno colpito la nostra provincia quali il terremoto e la pandemia da COVID-19 tanto da causare dei danni irreparabili al nostro tessuto economico-sociale, ma nell’entroterra maceratese è venuto meno anche il diritto all’informazione a causa della mancata consegna dei quotidiani e delle riviste editoriali, circostanza questa non del tutto garantita anche in altre zone del nostro territorio, causa l’illegittima condotta tenuta dal distributore nei riguardi degli edicolanti nel momento in cui ha condizionato, pur in presenza di una scrittura privata tra le parti, la consegna dei prodotti editoriali con il pagamento di costi aggiuntivi per la loro consegna, tanto da mettere a repentaglio la stessa sopravvivenza dell’attività dei rivenditori con successivo ed ulteriore danno alla nostra comunità.
A tal proposito, la disciplina della diffusione della stampa quotidiana e periodica è stata riordinata con D. Lgs. n. 170/2001 con la specificazione apportata dal D.L. 24.04.2017 n. 50 convertito in L. 21.6.2017 n. 96, il quale disciplina all’art. 5 le modalità di vendita stabilendo, per quel che qui interessa che:“Le imprese di distribuzione territoriale dei prodotti editoriali garantiscono a tutti i rivenditori l’accesso alle forniture a parità di condizioni economiche e commerciali; la fornitura non può essere condizionata a servizi, costi o prestazioni aggiuntive a carico del rivenditore”; ed inoltre:“Le clausole contrattuali fra distributori ed edicolanti, contrarie alle disposizioni del presente articolo, sono nulle per contrasto con norma imperativa di legge e non viziano il contratto cui accedono”. La norma, esplicitamente ispirata da esigenze di garanzia del pluralismo informativo a tutela del diritto di matrice costituzionale della libera manifestazione del pensiero, pone in ciascuno dei commi riportati precetti rilevanti per la definizione di tale illegittimo comportamento tenuto dal distributore nei riguardi dei nostri edicolanti; difatti, essa stabilisce, in primo luogo, che le condizioni economiche e le modalità commerciali di cessione alla rivendita della stampa, sia essa quotidiana o periodica, devono essere identiche indipendentemente dalla qualificazione del punto vendita come esclusivo o non esclusivo e sanziona con la nullità le clausole contrattuali tra distributori ed edicolanti contrarie alle disposizione dell’articolo medesimo, a maggior ragione la possibile clausola che prevede il pagamento di costi aggiuntivi per la consegna da parte del distributore. Tutto ciò viene ancor meglio esplicato dalla Corte di Appello di Palermo con la sentenza n. 1027/2019 del 21.05.2019, la quale, nel respingere l’atto preposto dal distributore, statuiva quanto segue:“La normativa del D. Lgs. n. 170/2001, esplicitamente ispirata da esigenze di garanzia del pluralismo informativo a tutela del diritto di matrice costituzionale della libera manifestazione del pensiero, pone in ciascuno dei commi riportati precetti rilevanti per la definizione della controversia. Essa stabilisce, in primo luogo, che (non solo il prezzo finale di vendita al pubblico della stampa, come previsto al comma 1 lett. a, ma anche) le condizioni economiche e le modalità commerciali di cessione alla rivendita della stampa, sia essa quotidiana o periodica, devono essere identiche indipendentemente dalla qualificazione del punto vendita come esclusivo o non esclusivo e sanziona con la nullità parziale le clausole contrattuali tra distributori ed edicolanti contrarie alle disposizione dell’articolo medesimo. Il dettato normativo (che con la specificazione apportata dal D.L. 24..4.2017 n. 50 convertito in L. 21.6.2017 n. 96 a tenore del quale “d-sexies le imprese di distribuzione territoriale dei prodotti editoriali garantiscono a tutti i rivenditori l’accesso alle forniture a parità di condizioni economiche e commerciali; la fornitura non può essere condizionata a servizi, costi o prestazioni aggiuntive a carico del rivenditore” ha acquisito ulteriore chiarezza) consente di respingere le affermazioni della società appellante così come il suo atto di appello.
Se dunque anche la distribuzione, per quanto disciplinata -come nel caso di specie- con autonomo contratto, deve essere assicurata con modalità identiche indipendentemente dalla natura di punto vendita esclusivo o non esclusivo del rivenditore finale, corretta appare la conclusione del primo giudice secondo cui l’imposizione di un contributo alle spese di trasporto all’edicolante viola il principio di parità di trattamento e incorre nella sanzione di nullità relativa. Ininfluente, alla stregua del carattere imperativo della disposizione di legge, è poi la circostanza che, in assenza di contributo economico diretto dei rivenditori finali, la distribuzione avverrebbe in perdita, giacché è l’intero sistema della diffusione della stampa ad essere imperniato sulla remunerazione agganciata al venduto e non anche ai costi effettivi di immissione sul mercato del prodotto editoriale. Non è inopportuno, in ultimo, evidenziare come la soluzione della nullità relativa, che preserva l’efficacia del contratto di distribuzione, cancellando unicamente la clausola discriminatoria e il compenso ivi previsto, è soluzione imposta dal legislatore tesa, all’evidenza, a sanzionare pratiche discriminatorie mantenendo inalterata l’articolazione della rete di distribuzione dei prodotti di stampa”.
Pertanto, in risposta ai nostri lettori, e tenendo conto della sentenza del Giudice di Pace di Camerino che ha correttamente respinto il ricorso del distributore nei riguardi dell’ingiunzione di pagamento comminata dal Comune di Esanatoglia che ha legittimamente sanzionato il distributore per aver applicato dei costi aggiuntivi per la consegna dei prodotti editoriali nei riguardi di un edicolante del proprio Comune, risulta corretto affermare che, “Appare al Giudicante che la domanda non possa essere accolta, invero dalla documentazione e dagli accertamenti si evince che vi è stata l’applicazione in violazione come contestata. Nel contratto di fornitura prodotto si contempla il contributo rivenditore sotto la voce di “servizi accessori”di € 40,00 settimanali oltre ad € 200,00 una tantum, pertanto, in palese violazione della normativa vigente di riferimento e così come da orientamento giurisprudenziale di merito”(Giudice di Pace di Camerino, sentenza del 16.01.2020, n. 13/20 Reg. Sent.).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante la possibile responsabilità da parte del datore di lavoro in caso di contagio del dipendente da Coronavirus. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Montelupone che chiede: “In caso di contagio del dipendente da COVID-19 il datore di lavoro può andare incontro a delle responsabilità?
La delicatezza di tale argomentazione ci porta a fare la premessa che, il datore di lavoro risponde della mancata osservanza delle norme a tutela dell'integrità fisica dei propri dipendenti in quanto titolare di una posizione di garanzia che discende in primo luogo dall’art. 2087 c.c., secondo il quale “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”; inoltre, abbiamo il D.Lgs. n. 81/2008 (T.U. Salute e Sicurezza sul lavoro) il quale coordina, all’interno di un unico testo, tutte le norme in materia di salute e di sicurezza dei lavoratori nel luogo di lavoro che stabilisce una serie di interventi da osservare per il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori.
Tutto ciò anche in riferimento al contagio da Coronavirus quale malattia infettiva e parassitaria e, come tale, è senza dubbio meritevole di copertura Inail per gli assicurati che la contraggono “in occasione di lavoro”,così come sancito dal Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 cd “Decreto Cura Italia” all'art. 42 comma 2 nonché dalla stessa Circolare Inail n. 13 del 3 aprile 2020.
Nello specifico, infine, abbiamo l’articolo 2, comma 6, del DPCM 26 aprile 2020, che impone a tutte le imprese che non hanno sospeso o ripreso la propria attività di osservare il protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali ed aggiornato lo scorso 24 aprile 2020.
Tale documento impone, in primo luogo, in capo al datore di lavoro un obbligo di informazione, attraverso le modalità più idonee ed efficaci, circa le disposizioni delle Autorità e l'obbligo della rilevazione della temperatura, ed oltre a ciò deve prevedere una seria di misure relative alla protezione individuale, alla igiene e sanificazione dei luoghi di lavoro nonché alla gestione di eventuali persone sintomatiche e sulla sorveglianza sanitaria.
Detto ciò, la semplice mancata osservanza di una delle norme sopra citate sarebbe già in astratto sufficiente a determinare in capo al datore di lavoro una responsabilità penale nel caso di un dipendente che affermi di aver contratto la malattia, anche rimanendo asintomatico, sul luogo di lavoro.
Il datore di lavoro che non osserva le norme antinfortunistiche, infatti, è punibile ai sensi dell'art. 40 c.p., in quanto “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”; nello specifico, il datore di lavoro risponde del reato di lesioni di cui all’art. 590 c.p., oppure di omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p. qualora al contagio sia seguita la morte, oltre alla circostanza aggravante della violazione delle norme antinfortunistiche, ex art. 590, co. 3, c.p..
Per quanto concerne quest'ultima aggravante, nei delitti colposi derivanti da infortunio sul lavoro, non occorre che siano violate norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, essendo sufficiente che l’evento dannoso si sia verificato a causa della violazione del sopra menzionato art. 2087 c.c. che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.
Per quanto riguarda, poi, l'onere della prova, la circolare n. 13/2020 dell'Inail chiarisce che in linea generale,“Nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico.
Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il Coronavirus. A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari”.
Per tutti gli altri lavoratori, la copertura assicurativa è riconosciuta a condizione che la malattia sia stata contratta durante l’attività lavorativa stabilendo l’onere della prova a carico dell’assicurato. Considerando che il periodo di tempo che intercorre tra il contagio ed il manifestarsi dei sintomi può arrivare fino a 14 giorni, risulta estremamente difficile sostenere per il lavoratore che il luogo del contagio possa essere individuato con certezza all'interno della sede di lavoro; a causa della virulenza della malattia, infatti, sarebbe difficile escludere altre possibili cause di contagio quali la vicinanza ad altre persone positive nei luoghi di aggregazione necessaria come supermercati o mezzi pubblici o altrimenti il contatto con familiari conviventi contagiati.
Pertanto, anche in risposta al nostro lettore, al datore di lavoro potrebbe essere sufficiente dimostrare di aver adottato tutti i presidi indicati dalla legge per escludere in capo a sé ogni responsabilità, tanto da apparire, quindi, molto difficile per il lavoratore fornire la prova “al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533 c.p.p.) e corroborare la tesi della colpevolezza del datore di lavoro escludendo con sufficiente certezza l’esistenza di altre cause di contagio esterne alla responsabilità datoriale.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante l’infortunio sul lavoro del dipendente e la responsabilità di tale evento. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Recanati che chiede: “In caso di infortunio sul lavoro del dipendente quando l’azienda risulta responsabile?
Bisogna innanzitutto far chiarezza sul fatto che, la vittima di un infortunio sul lavoro risulta esclusivamente responsabile solamente in una circostanza, ovvero, quando abbia tenuto un “contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute” (così, tra le altre, Cass. Civ. Sentenza n. 19494 del 10/09/2009), secondo il principio che il datore di lavoro risponde dei rischi professionali propri (vale a dire insiti nello svolgimento dell’attività lavorativa) e di quelli impropri (cioè derivanti da attività connesse a quella lavorativa), ma non di quelli totalmente scollegati dalla prestazione che il lavoratore rende in quanto tale (cd. rischio elettivo). Perché sussista il rischio elettivo, dunque, occorrono tre elementi concorrenti: 1) un atto del lavoratore volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; 2) la direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; 3) la mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa. Difatti, la norma di riferimento è evidentemente l’art. 1227, comma 1, del codice civile, secondo la quale, “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate”, che peraltro va bilanciata, in ambito giuslavoristico, con il potere di direzione e controllo del datore di lavoro, unitamente al dovere di salvaguardare l’incolumità dei lavoratori. Conseguentemente, anche in ipotesi di condotta imprudente del lavoratore va escluso il concorso di colpa a carico dello stesso in tre ipotesi: a) se l’infortunio sia stato causato dalla puntuale esecuzione degli ordini ricevuti dal datore di lavoro (in questo caso l’imprudenza del lavoratore degrada a mera “occasione” dell’infortunio); b) se l’infortunio sia avvenuto a causa della organizzazione stessa del ciclo lavorativo, impostata con modalità contrarie alle norme finalizzate alla prevenzione degli infortuni, o comunque contraria ad elementari regole di prudenza; c) se l’infortunio sia avvenuto a causa di una carenza di formazione od informazione del lavoratore, ascrivibile al datore di lavoro.
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che, “Nel caso di infortunio sul lavoro, è responsabile l’azienda, tanto da escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell’art 1227, comma 1, c.c., quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza; oppure abbia egli stesso impartito l’ordine, nell’esecuzione puntuale del quale si sia verificato l’infortunio; o ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi, ricorrendo, in tali ipotesi, l’eventuale condotta imprudente della vittima degradata a mera occasione dell’infortunio, ed è perciò giuridicamente irrilevante (Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 8988/20; depositata il 15 maggio).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante l’impatto che la pandemia da Covid-19 ha avuto sul lavoro e la sua organizzazione. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Monte San Giusto che chiede: “Se un lavoratore contrae malattie psichiche a seguito della diversa organizzazione del proprio lavoro dovuta al Covid-19 può essere risarcito?
Il Covid-19 ha avuto un impatto devastante su ogni aspetto della nostra vita tra i quali quello lavorativo riferito anche all’organizzazione dell’attività di ogni lavoratore tanto da causare in alcuni casi anche l’insorgere di alcune malattie psico-fisiche derivanti proprio da rischi del lavoro.
A tal proposito è bene ricordare che, se la malattia del lavoratore è conseguenza dell’attività lavorativa deve ritenersi coperta dall’assicurazione INAIL, pure se non è indicata tra le malattie o tra i rischi tabellati: in tal caso il lavoratore deve solo dimostrare il nesso di causalità tra la lavorazione patogena e la malattia.
La copertura assicurativa per le malattie non tabellate e comunque per le malattie connesse ai rischi organizzativi è coerente al principio costituzionale previsto dall’art. 38 comma II della Costituzione: in caso di infortuni e malattie devono essere assicurati mezzi adeguati di vita ai lavoratori. Coerentemente a questi principi la stessa Corte di Cassazione ha consolidato e confermato l’orientamento attuale (tra gli altri quello della stessa Corte, ordinanza n. 5066/2018) per il quale la tutela apprestata da INAIL rileva sia per i rischi specifici della lavorazione che per quelli impropri e collegati alla prestazione, tra cui quelli organizzativi.
Tra l’altro, la moderna organizzazione del lavoro prevede sollecitazioni organizzative sempre più complesse e l’INAIL deve assicurare i rischi effettivi; difatti, oggigiorno le aziende di ogni dimensione hanno strutture sempre più fluide e slegate dagli ordinari cicli di lavoro e le prestazioni vengono svolte spesso al di fuori dei locali aziendali, in smart-working e in organizzazioni che prevedono l’abolizione dell’ordinario sinallagma contrattuale dello “scambio delle ore di lavoro” dietro “pagamento delle retribuzione”.
In questo contesto, dove le sollecitazioni psico-fisiche che espongono il lavoratore al rischio di malattie derivano da rischi organizzativi endogeni come il mobbing ed esogeni, tra cui possiamo individuare il Covid-19 che ha impattato sulla vita delle organizzazioni imponendo l’adozione immediata del lavoro agile sottoponendo ad un grande stress emotivo i dipendenti, l’INAIL deve farsi carico di ogni rischio connesso e anche solo occasionato dall’attività lavorativa, pure dei rischi derivanti dalle carenze o dagli errori organizzativi che comportano mobbing e le eventuali malattie psico-fisiche.
Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore si può affermare che, “Sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione” (Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza n. 8948/20; depositata il 14 maggio).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le locazioni ai tempi del Coronavirus e pertanto gli interventi governativi intrapresi. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Tolentino che chiede: “Ai fini del calcolo dell'ammontare del credito d'imposta riconosciuto al conduttore dal d.l. Cura Italia, si deve tenere conto anche delle spese condominiali addebitate al conduttore?”
Il d.l. n. 18/2020 (c.d. Cura Italia) ha previsto (art. 65, d.l. n. 18/2020), in favore del conduttore un credito di imposta pari al 60% dell'ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1– Negozi e botteghe. Su tale aspetto, la Circolare 8/E dell'Agenzia delle Entrate del 3 aprile 2020, tra i chiarimenti sulle norme del Decreto Cura Italia, ha fornito anche delle delucidazioni sul credito di imposta per le locazioni commerciali: il credito d'imposta, pari al 60% del canone di locazione del mese di marzo 2020, è riconosciuto solo sui canoni effettivamente pagati; un canone di locazione non pagato non produrrà il credito d'imposta in quanto la norma intende ristorare il conduttore del canone versato a fronte della sospensione dell'attività di impresa in questo periodo.
Premesso quanto innanzi esposto, in merito ai quesiti in esame, con la Circolare numero 11/E del 6 maggio 2020, il Fisco ha chiarito che qualora le spese condominiali siano state pattuite come voce unitaria con il canone di locazione e tale circostanza risulti dal contratto, si ritiene che anche le spese condominiali possano concorrere alla determinazione dell'importo sul quale calcolare il credito d'imposta. Tutto ciò varrà anche con il nuovo “bonus affitto” del “Decreto Rilancio” approvato col Consiglio dei Ministri del 13 maggio 2020, che prevede la formula rinnovata del credito di imposta sugli affitti contenuta nel precedente Decreto “Cura Italia”; difatti il nuovo bonus affitto assume tre diverse forme:
1) ai soggetti esercenti attività d’impresa, arte o professione, con ricavi o compensi non superiori a 5 milioni di euro nel periodo d’imposta precedente a quello in corso alla data di entrata in vigore del testo spetta un credito di imposta pari al 60% per il canone di locazione, di leasing o di concessione di immobili ad uso non abitativo, non più solo C1, destinati allo svolgimento dell’attività industriale, commerciale, artigianale, agricola, di interesse turistico o all’esercizio abituale e professionale dell’attività di lavoro autonomo, in caso di una diminuzione del fatturato o dei corrispettivi di almeno il 50 per cento rispetto all’anno precedente. Questa tipologia di agevolazione spetta anche agli enti non commerciali, compresi gli enti del terzo settore e gli enti religiosi civilmente riconosciuti, in relazione al canone di locazione, di leasing o di concessione di immobili ad uso non abitativo destinati allo svolgimento dell’attività istituzionale;
2)un credito di imposta del 30% in caso di contratti di servizi a prestazioni complesse o di affitto d’azienda, comprensivi di almeno un immobile a uso non abitativo destinato allo svolgimento dell’attività industriale, commerciale, artigianale, agricola, di interesse turistico o all’esercizio abituale e professionale dell’attività di lavoro autonomo, come nel caso precedente, la diminuzione del fatturato o dei corrispettivi è un requisito fondamentale;
3) un credito di imposta del 30% o del 60%, secondo le distinzioni evidenziate in precedenza, per le strutture alberghiere indipendentemente dal volume di affari registrato nel periodo d’imposta precedente.
Quindi, chi ha i requisiti previsti potrà beneficiare del novo bonus affitto per i tre mesi di marzo, aprile e maggio 2020, non cumulabile però con quello previsto dal DL Cura Italia per il mese di marzo; il credito di imposta maturato, del 30% o 60%, potrà essere utilizzato nella dichiarazione dei redditi del periodo d’imposta di sostenimento della spesa ovvero in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, solo dopo aver effettivamente pagato i canoni di locazione.
Pertanto, dopo aver analizzato gli interventi governativi in tema di agevolazioni sulle locazioni, in risposta alla domanda della nostra lettrice, si può affermare che se soddisfatte entrambe le condizioni quali, le spese condominiali rientrano in un'unica voce con il canone di locazione, e tale circostanza risulti dal contratto, si ritiene che anche le spese condominiali possano concorrere alla determinazione dell'importo sul quale calcolare il credito d'imposta.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti tra condomini ai tempi del Coronavirus e nello specifico i comportamenti eccedenti che si tramutano in rumori molesti. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: “In tempo di isolamento da Covid-19 sono diventati popolari i flash mob sul terrazzino di casa per cantare, applaudire, conversare a distanza e che possono essere anche fonte di disturbo per i vicini. Nonostante l'emergenza, queste condotte sono lecite?
L'emergenza da Coronavirus ha modificato le abitudini di vita degli italiani, ora costretti a rimanere il più possibile all'interno delle mura domestiche per arginare la diffusione del virus. L'impossibilità di spostarsi da casa, se non per determinate ragioni di necessità, ha inevitabilmente ridotto i rapporti tra le persone, ora limitati alle conversazioni virtuali con gli amici e i parenti e agli occasionali incroci “a distanza” tra vicini di casa. Nonostante tali premesse, alla luce dell'attuale scenario di emergenza nazionale, ad oggi, non esistono disposizioni che hanno considerato lecite le “attività fonte di disturbo e rumore per i vicini del condominio”. Pertanto, nel caso in cui l'attività disturbante arrechi solo fastidio e immissioni intollerabili a danno di singoli condomini (si pensi ad esempio alla musica ad alto volume che danneggi solo i condomini confinanti con lo stabile in cui e non determini rumori fastidiosi all'interno dell'atrio condominiale), sono solo loro ad essere legittimati ad agire ed in questo caso civilmente, diversamente integra reato penale, ai sensi dell’art. 659 c.p., le urla e i rumori di un condomino le cui emissioni sonore siano potenzialmente idonee a disturbare un numero indiscriminato di persone secondo il parametro della normale tollerabilità, indipendentemente da quanti se ne possano in concreto lamentare (Cass. Pen., sez. II,1 marzo 2018, n. 9361). La pronuncia in esame ha avuto origine dal fatto che il Giudice, nel ritenere il singolo condomino responsabile del reato di cui all'art. 659 c.p. per avere mediante rumori, urla e schiamazzi durante l'orario notturno all'interno di un edificio condominiale disturbato il riposo dei condomini, desumendo dalla diffusività del rumore, percepibile al di fuori dell'edificio da cui proveniva, la sua la capacità di propagarsi all'interno dell'intero stabile condominiale, arrecando così potenziale disturbo ad un numero indeterminato di persone, costituite dai condomini residenti e da chiunque altro si trovasse in quel frangente nell'immobile, e non soltanto agli occupanti degli appartamenti ubicati in prossimità del luogo in cui il prevenuto stava dando sfogo ai suoi impeti iracondi.
Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che il lockdown forzato non deve essere motivo di gestire la quarantena violando i principi generali di legge in tema di rumori, art. 844 c.c. e art. 659 c.p., altrimenti si rischia di andare incontro a delle responsabilità civili e/o penali.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante la tanto annunciata Fase 2 del Governo e nello specifico le novità in tema di autocertificazione per gli spostamenti. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Corridonia che chiede: “Dal 4 maggio sarà consentito incontrare i prossimi congiunti, ma nello specifico chi sono?”.
“Carneade chi era costui?” Questa oltre ad essere la domanda che nell’ottavo capitolo dei Promessi Sposi don Abbondio si fa a proposito del filosofo greco Carneade, sarà anche l’interrogativo che i cittadini si porranno dal 04 maggio prossimo, a seguito del D.P.C.M. del 26.04.2020 che ha reso ancora obbligatoria la compilazione dell’autocertificazione per gli spostamenti, il cui modulo prevederà quale ulteriore e nuovo legittimo motivo quello dell’incontro con i congiunti all’interno della Regione purché venga rispettato il divieto di assembramento, il distanziamento di almeno un metro e l’utilizzo di protezioni del sistema respiratorio.
Difatti, nonostante che le fonti normative in cui si legge di “prossimi congiunti” sono, oramai, più di un centinaio, chiunque s’immaginerebbe una precisa definizione di cosa significhi nello specifico, e, perciò, di chi possa considerarsi congiunto prossimo, ma così non è, in quanto, una definizione normativa generale di tale locuzione, viceversa, è ravvisabile solo per la materia penalistica.
Unicamente l’art. 307, 4° comma, c.p., per l’appunto, definisce “prossimi congiunti”, gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un'unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado con coniuge vivente e/o con prole, gli zii e i nipoti, e ciò, sì, in generale, ma soltanto “agli effetti della legge penale”; al di fuori della legge penale, invece, non è per nulla chiaro o, almeno, non è definito normativamente, cosa si debba intendere quando il legislatore ci parla di “prossimi congiunti”, poiché, in verità, alcuni spunti definitori sono ravvisabili, qua e là, nelle fonti normative.
Ove si guardi al significato che alla locuzione in esame è stato dato dalla giurisprudenza non penalistica, ancora, si nota come, nel tempo, il concetto abbia subito una netta estensione; in passato, infatti, per “prossimi congiunti” si erano intesi “soggetti uniti fra loro non solo da un vincolo meramente affettivo…ma affettivo-giuridico, che riposi cioè su rapporti che costituiscono fonti di reciproci diritti-doveri” (così, ad es., T. Trento, 19.5.1995. Si veda, altresì, Cass. civ., 1845/1976).
Di recente, viceversa, si è chiarito che il riferimento ai prossimi congiunti della vittima primaria dell’illecito civile, deve essere inteso nel senso che, in presenza di un saldo e duraturo legame affettivo, si possa “prescindere dall’esistenza di rapporti di parentela o affinità giuridicamente rilevanti come tali” (Cass. Pen., 46351/2014), che fa rientrare, ai fini del risarcimento, tra i “prossimi congiunti” la fidanzata della vittima primaria dell’illecito (Cfr., inoltre, T. Firenze, 26.3.2015).
Ciò che emerge da questo elenco, seppure sommario, è in sostanza che la nozione di “prossimi congiunti” è chiara e netta con riferimento alla sola legislazione penale, mentre in tutti gli altri ambiti dell’ordinamento, tale nozione si presenta come incerta, talvolta opaca e certamente mutevole.
Detto ciò, ed in risposta alla domanda della nostra lettrice, si può affermare che dal 04.05.2020 saranno possibili gli spostamenti per incontrare: genitori, nonni, fratelli e sorelle, consorte, convivente, suoceri, genero, nuora, cognati, zii, nipoti, fino ad arrivare ai fidanzati; pertanto, giuridicamente parlando, per gli amici e le amiche… è ancora troppo presto.
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante la regolamentazione della comunicazione in tale periodo di Coronavirus, e, soprattutto, quelle tramite l’utilizzo delle chat di gruppo. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di San Severino Marche che chiede: “A quali responsabilità va incontro chi offende uno dei partecipanti alla chat di gruppo?”.
Tale circostanza ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo ad una fattispecie molto dibattuta all’interno delle aule dei Tribunali, a maggior ragione oggi, causa il COVID-19, dove i rapporti interpersonali sono “forzatamente” intrattenuti tramite l’utilizzo dei social tra i quali anche le chat di gruppo, le cui modalità non sempre avvengono nel reciproco rispetto dei partecipanti.
A tal proposito, è bene ricordare che l’art. 594 c.p. che puniva l’ingiuria è stato abrogato dal decreto legislativo n. 7 del 15 gennaio 2016, comportando così la sua depenalizzazione, tanto da far divenire l’ingiuria stessa un “illecito civile” a cui corrisponde oltre che alle restituzioni ed al risarcimento del danno anche il pagamento di una sanzione pecuniaria di competenza del giudice civile e non più penale.
Infatti, l’art. 4 del decreto legislativo n. 7/2016 dispone, tra le altre cose, che: “Soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro cento a euro ottomila […] chi offende l’onore o il decoro di una persona presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa”.
Il significato dell’illecito rimane sostanzialmente lo stesso: l’offesa all’onore e al decoro di una persona presente; quando viene commessa in modo non verbale o con mezzi di comunicazione a distanza (anche informatici o telematici), essa deve consistere in una comunicazione diretta alla persona offesa, altrimenti, potremmo essere di fronte ad un fatto di diffamazione, il cui contravventore andrebbe incontro ad una responsabilità penale ai sensi dell’art. 595 c.p. .
Ritornando ora al nostro caso, e precisamente all’offesa pronunciata all’interno di una chat di gruppo ad una partecipante, le espressioni offensive in questo caso sarebbero pronunciate mediante comunicazione telematica diretta alla persona offesa, ed alla presenza, altresì, di altre persone ‘invitate’ nella chat; al riguardo va ricordato che l’elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, mentre nella diffamazione l’offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore.
Logico, quindi, qualificare l’episodio in discussione come ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, reato quindi ormai depenalizzato, punibile in questo caso oltre che con le restituzioni ed il risarcimento del danno anche con la relativa sanzione pecuniaria civile aggravata che va da euro duecento ad euro dodicimila.
Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità ed in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: “Non è punibile penalmente l’offesa rivolta ad una persona all’interno di una chat di gruppo. Impossibile parlare di diffamazione, più logico parlare, invece, di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, reato che è stato ormai depenalizzato e punito, pertanto con una sanzione pecuniaria civile. (Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 10905/20, depositata il 31 marzo).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante gli affitti in tale periodo di Coronavirus, e, soprattutto, se gli stessi sono dovuti pur per attività commerciali chiuse a seguito dei provvedimenti governativi a seguito della pandemia da COVID-19. Ecco l’analisi proposta dall’avvocato Oberdan Pantana.
Preliminarmente, alla luce dell’attuale scenario di emergenza nazionale, occorre effettuare alcune precisazioni. Ebbene, non esistono disposizioni che hanno imposto la sospensione del pagamento del canone locativo nella locazione di immobili destinati ad uso diverso dall'abitazione; a tal proposito, il D.L. n. 18/2020, c.d. Cura Italia, ha previsto nello specifico quanto segue:
- art. 65, d.l. n. 18/2020, in favore del conduttore un credito di imposta pari al 60% dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1– Negozi e botteghe. Su tale aspetto, l’Agenzia delle Entrate (Ag. Entrate, circ. 3 aprile 2020, n. 8/E), tra i chiarimenti sulle norme del Decreto Cura Italia, ha fornito anche delle delucidazioni sul credito di imposta per le locazioni commerciali di negozi e botteghe di cui all’art. 65, d.l. n. 18/2020: il credito d’imposta, pari al 60% del canone di locazione del mese di marzo 2020, è riconosciuto solo sui canoni effettivamente pagati; un canone di locazione non pagato non produrrà il credito d’imposta in quanto la norma intende ristorare il conduttore del canone versato a fronte della sospensione dell’attività di impresa in questo periodo.
- art. 91, comma 6-bis, d.l. n. 18/2020, una norma in base alla quale “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti".
Alla luce di quanto innanzi esposto, interpretando le citate disposizioni, il conduttore di una attività commerciale non è autorizzato a sospendere il canone di locazione; salvo poi, in ambito contrattuale, valutare le conseguenze dell’inadempimento/ritardo del debitore ai sensi degli artt. 1218 e 1223 c.c.
Ed ancora, tra le altre norme, vi è la previsione dell’art. 103, comma 6, d.l. n. 18/2020, in base al quale “l'esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo, è sospesa fino al 30 giugno 2020”. Quest’ultima disposizione ha una portata assai ampia ed è destinata a trovare applicazione relativamente all'esecuzione di ogni provvedimento giudiziario che disponga il rilascio di qualsiasi immobile, non solo abitativo ma anche non abitativo.
In conclusione, ad oggi, le attuali norme non prevedono alcuna sospensione generalizzata dei canoni né per i contratti a uso commerciale o “diverso”, né per i contratti a uso abitativo, tantoché le relative mensilità risultano dovute ed esigibili dal locatore.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le tutele del lavoratore in tale periodo di Coronavirus, e, soprattutto, nel successivo periodo di malattia. Ecco l’analisi proposta dall’avvocato Oberdan Pantana.
Dal punto di vista del lavoratore, tralasciando, pertanto, le possibili responsabilità amministrative e penali del datore di lavoro per la violazione sulle norme del distanziamento sociale e/o delle misure sulla messa in sicurezza da attuare sul luogo di lavoro anche in riferimento al Coronavirus, è intervenuto il Decreto “Cura Italia” che, tra le altre cose, ha disposto quanto segue:
- a decorrere dal 23 febbraio 2020 e sino al 1° giugno 2020 il decorso dei termini di decadenza relativi alle prestazioni previdenziali, assistenziali e assicurative erogate dall'INAIL (e dall'INPS) è sospeso di diritto e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione (artt. 34 e 42, c. 1, DL 18/2020);
- nei casi accertati di infezione da coronavirus in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all'INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato. Questo tipo di prestazione è erogata anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell'infortunato con la conseguente astensione dal lavoro (art. 42, c. 2, DL 18/2020).
A tal proposito l’INAIL ha fornito le prime istruzioni operative in merito, secondo le quali, nei casi accertati di infezione da Coronavirus in occasione di lavoro, l'INAIL eroga le prestazioni previste per l'infortunio sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta; tali prestazioni spettano ai lavoratori, dipendenti, parasubordinati, sportivi professionisti dipendenti ed appartenenti all'area dirigenziale.
Con riferimento alle categorie di lavoratori che seguono vige la presunzione semplice di origine professionale, considerata la elevatissima probabilità che gli stessi, per la natura del loro lavoro, vengano a contatto con il Coronavirus: operatori sanitari, lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all'interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi.
Una volta accertato il contagio, il medico competente deve trasmettere telematicamente il certificato medico, necessario ai fini dell'erogazione delle prestazioni INAIL, che deve riportare: i dati anagrafici completi del lavoratore e del datore di lavoro, la data dell'evento/contagio, la data di astensione dal lavoro per inabilità temporanea assoluta conseguente al contagio da virus o la data di astensione dal lavoro per quarantena o permanenza domiciliare fiduciaria del lavoratore sempre legata all'accertamento dell'avvenuto contagio; per le fattispecie per le quali non opera la presunzione semplice dell'avvenuto contagio in relazione al rischio professionale specifico, anche le cause e circostanze, la natura della lesione e il rapporto con le cause denunciate.
Solo dalla conoscenza positiva, da parte del datore di lavoro, dell'avvenuto contagio decorrono i termini per la trasmissione telematica della denuncia di infortunio all'INAIL; la tutela INAIL decorre dal primo giorno di astensione dal lavoro attestato da certificazione medica o per avvenuto contagio coincidente con l'inizio della quarantena, sempre per contagio da nuovo Coronavirus (contagio che può essere accertato anche successivamente all'inizio della quarantena). Pertanto, a seguito di tale Decreto Legge, dal 23 febbraio 2020 e sino al 1° giugno 2020, sono sospesi: il decorso dei termini di decadenza relativi alle richieste di prestazioni erogate dall'INAIL, i termini di decadenza e prescrizione delle prestazioni INAIL, ed i termini di revisione della rendita su domanda del titolare, nonché su disposizione dell'INAIL, che scadano nel periodo indicato.
Inoltre, nel caso di decesso del lavoratore, spetta ai familiari anche la prestazione economica una tantum prevista dal Fondo delle vittime di gravi infortuni sul lavoro (art. 1, c. 1187, L. 296/2006); la prestazione è prevista sia per i soggetti assicurati con INAIL sia per quelli per i quali non sussiste il predetto obbligo.
Infine, gli eventi di contagio da Coronavirus accaduti durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro sono configurabili come infortunio in itinere (art. 12 D.Lgs. 38/2000); in merito all'utilizzo del mezzo di trasporto, poiché il rischio di contagio è molto più probabile in aree o a bordo di mezzi pubblici affollati, al fine di ridurne la portata, per tutti i lavoratori addetti allo svolgimento di prestazioni da rendere in presenza sul luogo di lavoro è considerato necessario l'uso del mezzo privato per raggiungere dalla propria abitazione il luogo di lavoro e viceversa: tale deroga vale per tutta la durata del periodo di emergenza epidemiologica.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le direttive date dal Governo in materia di Coronavirus ed ancora quella riferita alla gestione dei minori. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “Il semplice accordo tra genitori in assenza di alcun provvedimento e/o procedimento giudiziale vale come titolo legittimante lo spostamento anche tra Comuni per il diritto di visita del figlio?”
Da quando si è manifestata l'esigenza di assumere una disciplina emergenziale per limitare gli spostamenti delle persone, ci si è posti il problema della regolamentazione dei tempi di permanenza dei figli minori con il genitore con il quale non convivono. Il Governo era già intervenuto chiarendo la legittimità di detti spostamenti, se giustificati da un provvedimento giudiziale, reso in un procedimento di separazione, divorzio, ovvero di disciplina dell'affidamento di figli di coppia non unita in matrimonio.
Nel frattempo è intervenuta anche la giurisprudenza, a cominciare dalla prima pronuncia resa dal Tribunale di Milano, la quale statuiva quanto segue: “Le disposizioni limitative degli spostamenti per effetto del Coronavirus non sospendono il calendario dei tempi di frequentazione genitori/figli, che dunque deve proseguire con le modalità previste dai provvedimenti di separazione/divorzio” (Trib. Milano del 11 marzo 2020).
Il problema ha continuato tuttavia a porsi in quelle situazioni nelle quali manca un provvedimento del giudice: si pensi ad una separazione di fatto tra coniugi, ovvero alla cessazione della convivenza tra due partner, ma anche ad una coppia di coniugi in attesa di separazione, senza che sia stata ancora assunta alcuna decisione. È subito parso irragionevole operare una discriminazione tra i figli minori di età, ovvero tra i loro genitori, a seconda dell'esistenza o meno di un provvedimento giudiziale, provvisorio o definitivo, relativo all'affidamento.
La questione, su cui già ci si era interrogati, è stata risolta con un criterio di buon senso dal Governo, all'interno delle FAQ pubblicate il 1 aprile 2020, e precisamente col ribadire che gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l'altro genitore o comunque presso l'affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono consentiti anche da un Comune all'altro, nel rispetto di tutte le prescrizioni di tipo sanitario, precisando che ciò può avvenire "secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio", ma anche "in assenza di tali provvedimenti, secondo quanto concordato tra i genitori".
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: “un accordo tra i genitori può supplire alla mancanza di una pronuncia giudiziale. Ovviamente, tale accordo dovrà risultare da un atto scritto, che potrà essere sostituito da uno scambio di mail tra i genitori o i loro Legali, con cui individuare in maniera precisa tempi e modalità degli spostamenti del figlio minorenne
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le misure già attuate dal Governo in tema di repressione delle condotte a tutela dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 e le innovazioni portate dal successivo D.L. n. 19/2020 entrato in vigore il 26 marzo; di seguito l’analisi posta in essere dall’avvocato Pantana.
Il nuovo plesso della saga emergenziale, propone l’ulteriore decreto legge in meno di un mese, e precisamente il sesto, costituito dal D.L. n.19/2020, che va a riordinare a quanto confusamente in precedenza adottato in materia penale dal Governo in tema di repressione della terribile pandemia che sta attraversando il nostro Paese, il cui art. 4 del decreto reca un vera e propria depenalizzazione (su ciò, però, già non penalmente rilevante), introducendo a livello sanzionatorio una misura sicuramente più onerosa a livello economico qual è la “multa”, come quelle previste per la violazione delle regole del codice della strada, e, pertanto, anch’essa ricorribile in presenza dei presupposti.
Difatti, tale norma prevede che la condotta del disobbediente alle 28 restrizioni previste dall’art. 1, comma 2, costituisce un illecito amministrativo, la multa, punito con la sanzione pecuniaria da € 400 a € 3.000 da pagare entro 60 giorni dalla contestazione della violazione, mentre se ciò avviene entro i 5 giorni è prevista la riduzione dell’importo del 30%, con pagamento della sanzione di € 280.
Nell’ipotesi in cui la violazione avvenga mediante utilizzo di un veicolo, a tal proposito si ricorda che in tale classificazione, ai sensi dell’art. 47 C.d.S., rientra anche la bicicletta, la sanzione è aumentata fino a 1/3; ne deriva che, ai fini del pagamento scontato del 30%, si dovrà, prima, procedere all’aumento e, poi, alla riduzione.
In caso di violazione delle misure concernenti la sospensione o la limitazione di determinate attività, si applica altresì la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio da 5 a 30 giorni, irrogata dall’Autorità competente; mentre in caso di reiterazione specifica della violazione, la sanzione pecuniaria è raddoppiata con pagamento in misura minima pari a 800 euro, e scontata del 30% pari a 560 euro, e quella accessoria è applicata nella misura massima, pari a 30 giorni.
Per quanto concerne le violazioni antecedenti al 26 marzo, il comma 8 dell’art. 4, a fronte dell’elevato numero, oltre 100.000, di violazioni commesse anteriormente, stabilisce che la depenalizzazione si applica retroattivamente, con sanzione amministrativa applicata nella misura minima ridotta alla metà pari a € 200.
Resta, infine, penalmente sanzionata la sola violazione commessa dal soggetto in quarantena, ai sensi dell’art. 260 R.D. 27/7/1934 n. 1265, recante Testo Unico delle leggi sanitarie, il cui assetto punitivo, appositamente modificato, prevede l’arresto da 3 a 18 mesi e l’ammenda da € 500 a € 5.000.
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante il pagamento delle utenze durante il periodo del coronavirus e nello specifico le procedure attuabili in caso di morosità.
Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore-Amministratore di condominio di Macerata che chiede: “A causa della morosità condominiale, la società di somministrazione del servizio idrico, da tempo, ha avviato la procedura per la sospensione del servizio. Allo stesso tempo, a causa dell'emergenza da COVID-19, nel condominio sono state sospese tutte le attività riguardanti le assemblee e, di conseguenza, eventuali decisioni da intraprendere per regolarizzare la morosità e, quindi, possibili soluzioni per evitare il distacco. Ebbene, in questa situazione di emergenza nazionale, esiste una disciplina normativa a tutela dei condomini?”
In argomento, giova ricordare che la gestione dell'azienda-Condominio registra, in buona sostanza, somme in uscita e somme in entrata: da un lato, le spese condominiali, ossia gli esborsi che vengono effettuati dall'Amministratore per la manutenzione dei beni comuni e per la prestazione dei servizi essenziali, e, dall'altra, i contributi condominiali, vale a dire gli importi a carico di ciascun partecipante per far fronte a dette spese; dunque, tutti i condomini sono tenuti a partecipare, nella percentuale diversa a seconda dei casi alle spese per la conservazione ed il godimento delle parti comuni.
In tema, inoltre, si osserva che il disposto normativo dell'art. 63, comma 3, disp. att. c.c. attribuisce all'Amministratore condominiale - in via di autotutela e senza ricorrere previamente al giudice - il potere di sospendere al condomino moroso l'utilizzazione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato, e, dopo la modifica normativa che ha eliminato la previsione «ove il regolamento lo consenta», l'esercizio di tale potere configura un potere-dovere dell'Amministratore condominiale il cui esercizio è legittimo ove la sospensione sia effettuata intervenendo esclusivamente sulle parti comuni dell'impianto, senza incidere sulle parti di proprietà esclusiva del condomino moroso (Trib. Modena 5 giugno 2015).
In altro provvedimento, invece, i giudici hanno evidenziato che l'Amministratore di Condominio può chiedere un provvedimento d'urgenza al giudice al fine di ottenere l'autorizzazione alla sospensione dell'erogazione del servizio di fornitura dell'acqua nei confronti dei condomini morosi, in virtù di quanto sancito dall'art. 63 disp. att. c.c., potendo tale sospensione dell'afflusso dell'acqua riguardare le sole unità immobiliari dei condomini morosi (Trib. Brescia 27 gennaio 2014).
Premesso quanto innanzi esposto, alla luce dei poteri riconosciuti all'Amministratore e, in particolare, alla situazione di urgenza indicata dall'utente, si precisa che proprio a causa dell'emergenza nazionale da COVID-19, l'ARERA (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente), attraverso un proprio comunicato stampa del 12 marzo 2020, ha deciso di bloccare i distacchi per morosità per elettricità, gas e acqua.
Nel dettaglio, tutti i distacchi per morosità per l'elettricità di clienti in bassa tensione e, per il gas, tutti quelli con consumo non superiore a 200.000 Smc/anno. Per il settore idrico, la sospensione interessa tutte le utenze domestiche e non domestiche e dunque anche i servizi fruiti da condomìni.
Nel proprio comunicato, l'Autorità ha evidenziato che “Tutte le eventuali procedure di sospensione delle forniture di energia elettrica, gas e acqua per morosità - di famiglie e piccole imprese - vengono rimandate dal 10 marzo scorso e fino al 3 aprile 2020. Viene inoltre istituito un conto presso la Cassa per i servizi energetici e ambientali, con disponibilità fino a 1 miliardo, per garantire la sostenibilità degli attuali e futuri interventi regolatori a favore di consumatori e utenti”.
Pertanto, secondo le nuove disposizioni, dovranno quindi essere interamente rialimentate le forniture di energia elettrica, gas e acqua eventualmente sospese (o limitate/disattivate) dal 10 marzo 2020. Dal 3 aprile il fornitore interessato a disalimentare/ridurre la fornitura del cliente moroso è tenuto a riavviare la relativa procedura di sospensione e procedere nuovamente alla sua costituzione in mora.
In conclusione, in risposta al nostro lettore-Amministratore di condominio di Macerata, attualmente sono bloccati i distacchi delle forniture: tutte le eventuali procedure di sospensione delle forniture di energia elettrica, gas e acqua per morosità – di famiglie e piccole imprese – vengono rimandate dal 10 marzo scorso e fino al 3 aprile 2020.
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le direttive date dal Governo in materia di Corona virus. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Il diritto di visita del genitore non collocatario del minore viene meno a seguito dei provvedimenti assunti dal Governo in materia di Coronavirus?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una fattispecie già molto dibattuta nelle aule dei Tribunali in occasione delle separazioni dei coniugi o cessazioni degli effetti civili del matrimonio che in questo momento particolare potrebbe ancor più essere fonte di problematiche.
Difatti, il D.P.C.M. 9 marzo 2020 ha esteso all’intero territorio nazionale le disposizioni già previste per numerose province italiane dal D.P.C.M. 8 marzo 2020 che, all’art. 1 prevede di «evitare ogni spostamento delle persone fisiche salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute; è consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza». A tal proposito, con riferimento espresso al c.d. diritto di visita del genitore non collocatario della prole si era posto il quesito se gli spostamenti dei genitori per prendere e riportare i figli potessero considerarsi o meno necessari e dunque fossero o meno leciti, tantoché in data 10 marzo 2020 il Governo ha definitivamente chiarito che «gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l’altro genitore o comunque presso l’affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio»; da ciò consegue ovviamente che i decreti ministeriali 8/9 marzo 2020 non hanno sospeso i provvedimenti in punto regolamentazione dei tempi di permanenza dei figli presso ciascuno dei genitori.
Pertanto, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che: “ Le disposizioni limitative degli spostamenti per effetto del Corona virus non sospendono il calendario dei tempi di frequentazione genitori/figli, che dunque deve proseguire con le modalità previste dai provvedimenti di separazione/divorzio”(Tribunale di Milano, Decreto 11.03.2020).
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Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le controversie in materia di diritti reali e nello specifico quelle poste in essere dai coniugi in comunione legale. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “Quali sono i diritti del coniuge non proprietario del suolo in cui è stata costruita l’abitazione in presenza di comunione legale?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una fattispecie molto dibattuta nelle aule dei Tribunali in occasione delle separazioni dei coniugi o cessazioni degli effetti civili del matrimonio.
Nello specifico, ai sensi dell’art. 934 c.c. il proprietario del suolo acquista, a titolo originario, qualunque piantagione, costruzione od opera insistente sopra o sotto il medesimo suolo. Si tratta, ad onor del vero, di una forma di espansione automatica del diritto di proprietà. Questo automatismo nell’acquisto avviene, è bene ribadirlo, a titolo originario e non derivativo, e può essere escluso soltanto se il titolo o la legge prevedono diversamente. Suddetto principio è valevole ancorché la costruzione sia stata realizzata in costanza di matrimonio e nella vigenza del regime patrimoniale della comunione legale. L’acquisto della proprietà per accessione, infatti, avviene a titolo originario senza la necessità di apposita manifestazione di volontà. Ciò significa che il principio in forza del quale il proprietario del suolo acquista ipso iure al momento dell'incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata non è derogato dalla disciplina della comunione legale tra coniugi.
Mentre, l’art. 177 c.c. sancisce che costituiscono oggetto della comunione legali gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali; i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione; i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati e le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio. Nel dettaglio, la disposizione de qua prevede al n.1, la contitolarità al 50% dei beni provenienti dagli acquisti compiuti dai coniugi anche separatamente, in costanza di matrimonio quali acquisti aventi carattere derivativo. Occorre ora comprendere come si coniugano il principio di accessione ex art. 934 c.c. e il regime della comunione legale ex art. 177, comma 1, c.c.. E’ principio acquisito e costante nella giurisprudenza che, «quando per effetto del principio enunciato dall'art. 934 c.c. il coniuge proprietario esclusivo del suolo acquisti la proprietà dell'immobile realizzato su di esso in regime di comunione legale, la tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non sul piano del diritto reale, nel senso che in mancanza di un titolo o di una norma non può vantare alcun diritto di comproprietà, anche superficiaria, sulla costruzione, ma sul piano obbligatorio, nel senso che a costui compete un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione» (ex multis Cass. n. 28258/19).
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: “La tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non sul piano reale bensì su quello meramente obbligatorio, rimanendo a carico della ricorrente l’onere di fornire la prova della provenienza del denaro o dei beni utilizzati per la costruzione del fabbricato sul suolo di proprietà esclusiva dell’altro coniuge. E’ quindi onere del coniuge non proprietario del suolo dimostrare che le somme di denaro e i materiali utilizzati per la realizzazione del fabbricato siano di sua provenienza o provengano dalla comunione legale, non potendosi in alcun modo presumere tale provenienza (Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 4794/20).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i possibili danni causati dai professionisti sanitari e nello specifico dal dentista presso il proprio centro odontoiatrico. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Quando un dentista può andare incontro a delle responsabilità per l’errato trattamento effettuato al paziente?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad un evento dannoso causato presso un centro odontoiatrico dal professionista nei riguardi del paziente a seguito di cure errate al punto da peggiorare anziché risolvere i propri problemi.
Premettendo, la oramai pacifica natura contrattuale del rapporto tra paziente e professionista di una struttura privata, con la conseguente applicabilità dell'art. 1218 c.c., e precisamente, “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta e' tenuto al risarcimento del danno se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”, la conseguenza in tema di riparto è quella per cui l'attore-paziente danneggiato deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o del contatto sociale) e l'insorgenza (o aggravamento) della patologia ed allegare l'inadempimento del sanitario astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, mentre rimane a carico di quest'ultimo dimostrare l'inesistenza dell'inadempimento oppure l'irrilevanza dal punto di vista eziologico.
A tal proposito vi è l'orientamento inaugurato dalle Sezioni Unite nel 2008 secondo cui "in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, il paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore-sanitario dimostrare che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante".
Pertanto, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che: “essendo stata dimostrata la complessiva negligenza medica relativa all'opera prestata dal dentista, idonea oltretutto a determinare un aggravamento delle condizioni di salute della paziente, sarebbe stato onere del professionista provare il contrario, ovvero che le cure dal medesimo effettuate non abbiano avuto alcun impatto sulla salute della persona rispetto alle condizioni pregresse di salute, circostanza questa non avvenuta tanto da determinare la responsabilità contrattuale del convenuto e condannandolo conseguentemente al risarcimento del danno alla persona nonché alla restituzione degli importi versati a titolo di corrispettivo delle cure (Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza n. 5128/20; depositata il 26 febbraio 2020).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le multe in generale e nello specifico l’utilizzo delle telecamere per scovare le auto senza revisione o assicurazione. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Corridonia che chiede: “Quando è legittimo l’utilizzo di telecamere per accertare le violazioni di revisione scaduta o RC auto assente?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tipologia di contestazione sempre più frequente da parte degli operatori di polizia.
Lo ha ribadito la Prefettura di Napoli con una recente circolare. L’accertamento delle violazioni agli articoli 80 e 193 del codice stradale viene spesso attivato con l’ausilio di strumenti elettronici ed in particolare con l’utilizzo di telecamere munite di sistema di lettura targhe dei veicoli in transito. Non essendo al momento disponibili dispositivi omologati per il controllo della revisione e della mancata copertura assicurativa non è ancora possibile installare dispositivi di controllo completamente automatici. Per questo motivo gli organi di polizia stradale sono costretti ad utilizzare le telecamere fisse e portatili munite di sistemi “ocr” come taccuini elettronici, ovvero semplici ausili all’attività di accertamento della pattuglia; ma in alcuni casi si sono registrati degli abusi e per questo motivo anche il Viminale è intervenuto evidenziando le indicazioni ribadite dalla Prefettura di Napoli. Per il controllo stradale effettuato con la presenza degli operatori risulta necessario che il transito del veicolo irregolare sia stato accertato sul posto direttamente dalla pattuglia, oppure che la stessa sia stata impossibilitata a fermare il trasgressore; è il caso per esempio della pattuglia impegnata in altra attività o in situazioni analoghe e contingenti che però dovranno sempre essere descritte dettagliatamente nel verbale. Ma nel caso della mancata copertura assicurativa non sarà possibile giustificare l’omessa contestazione immediata ai sensi dell’art. 193/4° quinquies del codice stradale perché questo articolato è riferibile solo agli impianti omologati per l’uso completamente automatico.
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: “Gli organi di Polizia stradale possono utilizzare qualsiasi varco lettura targhe fisso o mobile per contestare immediatamente violazioni in materia di revisione o mancata copertura assicurativa. Ma per l’accertamento automatico o differito servono strumenti omologati o situazioni contingenti che giustificano la mancata contestazione immediata, altrimenti gli stessi risultano illegittimi” (Circolare n. 38975 del 06.02.2020).
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Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le contestazioni sull’eccessiva entità dei consumi fatturati dai relativi fornitori ai singoli utenti.
Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Mogliano che chiede: “È possibile contestare una bolletta dai consumi eccessivi per malfunzionamento del contatore?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tipologia di contestazione sempre più frequente da parte degli utenti.
La Suprema Corte, recentemente investita della questione inerente proprio la contestazione dei consumi fatturati per malfunzionamento del contatore, ha innanzitutto precisato che, il fornitore, per dar prova della correttezza degli importi richiesti, non può limitarsi esclusivamente a produrre il contratto di fornitura e le fatture; allo stesso tempo, però, va tenuto conto del fatto che il contatore è stato accettato da entrambi i contraenti come strumento di contabilizzazione dei consumi, per cui, se la pretesa creditoria contestata si fonda proprio su misurazioni ritenute anomale dall’utente, ricadrà su quest’ultimo l’onere di dedurre la circostanza che tale anomalia sia dovuta a cause a lui non imputabili quali, ad esempio, il malfunzionamento del contatore.
Tuttavia, secondo la Suprema Corte, va considerato anche che tali disfunzioni dipendono per lo più da guasti occulti o che comportano verifiche tecniche che l’utente non è in grado di eseguire, poiché sprovvisto delle necessarie competenze tecniche (sentenza n.13605/2019); pertanto, concludeva la Corte, è necessario fare riferimento ad una serie articolata di criteri di riparto dell’onere probatorio, che ricadono su entrambi i soggetti.
Per tali ragioni, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “Se l’utente, che sia un’impresa o un nucleo familiare, contesta i consumi che gli vengono addebitati nelle fatture, ritenendoli non veritieri, a causa del malfunzionamento del contatore, ricade su di lui sia l’onere di contestare il detto malfunzionamento, che di dimostrare la reale entità dei consumi effettuati, eventualmente facendo riferimento a quelli rilevati in periodi analoghi a quello considerato nei quali egli ha normalmente svolto la sua abituale attività; al gestore spetta, invece, l’onere di dimostrare il regolare funzionamento del contatore (Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 3, ordinanza n. 297/20; depositata il 9 gennaio 2020).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti patrimoniali in occasione di una convivenza senza aver contratto il matrimonio. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Recanati che chiede: “In occasione di una convivenza more uxorio, come e quando è possibile richiedere le somme versate in favore dell’ex convivente?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tipologia di rapporto sempre più presente nel nostro contesto sociale.
A tal proposito, l’azione per ingiustificato arricchimento, disciplinata dal legislatore all’art. 2041 c.c., configura un rimedio attraverso il quale chi si sia arricchito, senza una giusta causa, a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a compensare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale. In definitiva, l’azione si fonda sulla sussistenza di un arricchimento, posto in correlazione con un depauperamento, avvenuto in mancanza di una giusta causa.
Ciò premesso, tale azione è esperibile nei confronti di attribuzioni patrimoniali effettuate dal convivente in favore dell’altro che non siano riconducibili all’adempimento di un dovere morale e sociale e rientrare, in tal modo, nel novero delle obbligazioni naturali, in quanto esorbitano dalle esigenze familiari e non rispettano i minimi di proporzionalità e adeguatezza di cui all’art. 2034 c.c. Come affermato in dottrina, sebbene il presupposto della proporzionalità non sia menzionato dal codice civile, esso deve ritenersi implicito nella stessa idea di obbligazione naturale, in quanto alla stregua della coscienza sociale non è doveroso ciò che va al di là di quanto l’adempiente può ragionevolmente fare o di quanto il beneficiario abbia ragionevolmente bisogno.
In definitiva è ammissibile l'azione di arricchimento senza causa nel caso di convivenza more uxorio ove le prestazioni di uno a vantaggio dell'altro convivente superino l'adempimento delle obbligazioni normalmente connesse e originate dal rapporto di convivenza in termini di proporzionalità e di adeguatezza.
Per tali ragioni, in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che: “In tema di convivenza more uxorio è configurabile un indebito arricchimento ed è pertanto possibile proporre il relativo rimedio giudiziale, nel caso in cui le prestazioni rese da un convivente e convertite a vantaggio dell'altro esorbitano dai limiti di proporzionalità e adeguatezza, ossia esulano dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza, il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto (Cass., Sez. III Civile, sentenza n. 2392/20; depositata il 3 febbraio 2020).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie condominiali ed in particolare le infiltrazioni di acqua piovana negli appartamenti. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Monte San Giusto che chiede: “Chi risponde dei danni da infiltrazioni di acqua piovana causati all’appartamento sottostante il lastrico solare di proprietà di una sola condomina?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad un evento sempre più ricorrente nelle controversie condominiali.
Sul punto, la Suprema Corte si è più volte espressa affermando che, in tema di condominio negli edifici, qualora l’uso del lastrico solare non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni di acqua piovana nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o usuario esclusivo, in qualità di custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia il condominio in virtù degli obblighi inerenti l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore e sull’assemblea condominiale, che è tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria. Questo concorso di responsabilità solitamente va risolto secondo i criteri dell’art. 1126 c.c., che pongono le spese di riparazione o ricostruzione per un terzo a carico del proprietario, o dell’usuario del lastrico solare, e per i restanti due terzi a carico del condominio..
Per tali ragioni in risposta alla nostra lettrice è corretto affermare che: “Qualora l’uso del lastrico solare non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni di acqua piovana nell’appartamento sottostante rispondono, sia il proprietario del lastrico stesso per un terzo delle spese di riparazione, sia il condominio per i restanti due terzi (Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 951/20; depositata il 17 gennaio).
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