Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie condominiali ed in particolare le infiltrazioni di acqua piovana negli appartamenti. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Monte San Giusto che chiede: “Chi risponde dei danni da infiltrazioni di acqua piovana causati all’appartamento sottostante il lastrico solare di proprietà di una sola condomina?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad un evento sempre più ricorrente nelle controversie condominiali.
Sul punto, la Suprema Corte si è più volte espressa affermando che, in tema di condominio negli edifici, qualora l’uso del lastrico solare non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni di acqua piovana nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o usuario esclusivo, in qualità di custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia il condominio in virtù degli obblighi inerenti l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore e sull’assemblea condominiale, che è tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria. Questo concorso di responsabilità solitamente va risolto secondo i criteri dell’art. 1126 c.c., che pongono le spese di riparazione o ricostruzione per un terzo a carico del proprietario, o dell’usuario del lastrico solare, e per i restanti due terzi a carico del condominio..
Per tali ragioni in risposta alla nostra lettrice è corretto affermare che: “Qualora l’uso del lastrico solare non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni di acqua piovana nell’appartamento sottostante rispondono, sia il proprietario del lastrico stesso per un terzo delle spese di riparazione, sia il condominio per i restanti due terzi (Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 951/20; depositata il 17 gennaio).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’utilizzo della videosorveglianza anche in ambiente lavorativo. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Tolentino che chiede: “A quale responsabilità va incontro il datore di lavoro che installa la videosorveglianza nel proprio ambiente lavorativo senza alcuna preventiva autorizzazione?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una pratica sempre più utilizzata dai datori di lavoro, ma in alcuni casi senza le dovute accortezze.
Difatti, l’art. 4 della L. n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) prevede nello specifico quanto segue: “1. È vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. 2. Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti”.
A tal proposito, l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità riguardo tale fattispecie incriminatrice è integrata anche quando, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali e di provvedimento autorizzativo dell’autorità amministrativa, la stessa sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti. Infatti, l’installazione di apparecchiature, dalle quali derivi anche la possibilità di controllo dell’attività dei lavoratori, deve sempre essere preceduta da una forma di accordo tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori, con la conseguenza che se manca tale accordo il datore di lavoro deve far precedere l’installazione dalla richiesta di un provvedimento autorizzativo dell’autorità amministrativa. In mancanza sia dell’accordo sia dell’autorizzazione suddetta, l’installazione delle apparecchiature è illegittima e penalmente sanzionata.
Pertanto, il consenso del lavoratore all’installazione di un sistema di videosorveglianza, anche in forma scritta non vale a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato tale impianto in violazione delle prescrizioni dettate dalla normativa di riferimento.
Per tali ragioni in risposta al nostro lettore è corretto affermare che: “L’installazione di apparecchiature, dalle quali derivi anche la possibilità di controllo dell’attività dei lavoratori, deve sempre essere preceduta da una forma di accordo tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori, con la conseguenza che se manca tale accordo il datore di lavoro deve far precedere l’installazione dalla richiesta di un provvedimento autorizzativo dell’autorità amministrativa senza il quale andrà incontro alla relativa sanzione penale” (Cass., sez. III Penale, sentenza n. 1733/20).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’utilizzo incauto da parte del minore dei social, circostanza questa che potrebbe risultare dannosa. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “ Quali sono i doveri e/o responsabilità del genitore del minore che utilizza impropriamente Internet?”
Si deve anzitutto dare atto che oggi è sempre più frequente l'utilizzo da parte dei minori di internet e in generale degli strumenti di comunicazione telematica, al fine di acquisire notizie e di esprimere le proprie opinioni, diritti questi tutelati dalla nostra Costituzione oltreché dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; tale diritto trova tuttavia un limite nella tutela della dignità della persona specie se minore di età: i minori sono infatti soggetti deboli e, in quanto tali, necessitano di apposita tutela, non avendo ancora raggiunto un’adeguata maturità ed essendo ancora in corso il processo relativo alla loro formazione.
A questo proposito la Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2006, n. 19069) ha affermato la necessità di tutela del minore nell’ambito del mondo della comunicazione, facendo riferimento in particolare all’art. 16 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989, che sancisce il diritto di ogni minore a non subire interferenze arbitrarie o illegali con riferimento alla vita privata, alla sua corrispondenza o al suo domicilio; è altresì riconosciuto il diritto del minore a non subire lesioni alla sua reputazione e al suo onore; l’art. 3 della medesima Convenzione prevede che in ogni procedimento davanti al giudice che coinvolga un minore, l’interesse superiore di quest’ultimo deve essere senz’altro considerato preminente.
Tale preminenza ha quindi luogo anche nel giudizio di bilanciamento con eventuali e diversi valori costituzionali, quali il diritto all’informazione e la libertà di espressione degli altri individui; inoltre, è bene anche ricordare che l’art. 17 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo attribuisce agli Stati parti il dovere di riconoscere l’importanza della funzione esercitata dai mass-media, in quanto mezzi idonei a garantire una sana crescita e una corretta formazione del minore stesso; i pericoli ai quali il minore è esposto nell'uso della rete telematica rendono quindi necessaria una tutela degli stessi, indipendentemente poi dalle competenze digitali da loro maturate.
È bene porre in evidenza che gli obblighi inerenti la responsabilità genitoriale impongono non solo il dovere di impartire al minore una adeguata educazione all’utilizzo dei mezzi di comunicazione ma anche di compiere un’attività vigilanza sul minore per quanto concerne il suddetto utilizzo; l’educazione si pone, infatti, in funzione strumentale rispetto alla tutela dei minori al fine di prevenire che questi ultimi siano vittime dell'abuso di internet da parte di terzi.
L’educazione deve essere, inoltre, finalizzata a evitare che i minori cagionino danni a terzi o a sé stessi mediante gli strumenti di comunicazione telematica; sotto tale profilo si deve osservare che l’anomalo utilizzo da parte del minore dei mezzi offerti dalla moderna tecnologia tale da lederne la dignità cagionando un serio pericolo per il sano sviluppo psicofisico dello stesso, può essere sintomatico di una scarsa educazione e vigilanza da parte dei genitori.
Riguardo all’uso della rete telematica l’adempimento del dovere di vigilanza dei genitori è, inoltre, strettamente connesso all'estrema pericolosità di quel sistema e di quella potenziale esondazione incontrollabile dei contenuti; al riguardo la giurisprudenza di merito ha affermato che “il dovere di vigilanza dei genitori deve sostanziarsi in una limitazione sia quantitativa che qualitativa di quell'accesso, al fine di evitare che quel potente mezzo fortemente relazionale e divulgativo possa essere utilizzato in modo non adeguato da parte dei minori e fonte, pertanto, di responsabilità civile dei genitori ai sensi dell’art. 2048 c.c.” (Trib. Teramo,16.01.2012).
Per tali ragioni in risposta alla nostra lettrice è corretto affermare che: “Oltre a possibili responsabilità civili e penali dei genitori, gli stessi sono comunque tenuti ad educare i minori al corretto utilizzo di tali mezzi di comunicazione mediante una limitazione sia quantitativa che qualitativa all’accesso e condivisione di contenuti. Pertanto, l’anomalo utilizzo degli strumenti telematici potrebbe essere sintomatico di una scarsa vigilanza ed educazione da parte dei genitori, i quali, sono tenuti a garantire un’educazione consona alle proprie condizioni socio-economiche e, ad adempiere un’attività di verifica e controllo sul sano sviluppo psicofisico del minore, tanto da rendersi necessaria un’attività di monitoraggio e supporto da parte di professionisti nei riguardi del minore e dei genitori al fine di verificare le effettive capacità educative e di vigilanza degli stessi” (Tribunale di Caltanissetta, sentenza depositata l’8 ottobre 2019).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’acquisto di beni tramite siti online, i quali, in alcune circostanze, si rivelano delle tutto inaffidabili e fonti di problemi per i consumatori. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Morrovalle che chiede: “A quale responsabilità va incontro chi propone un vendita online e poi non consegna il bene all’acquirente?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una pratica quotidianamente utilizzata dai consumatori, dai risultati, però, non sempre sperati.
A tal proposito deve affermarsi in linea generale che, in tema di truffa contrattuale, il mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione del contratto posto in essere con artifici idonei a generare un ingiusto profitto, integra l’elemento degli artifici e raggiri richiesto per la sussistenza del reato ex art. 640 c.p., secondo il quale: “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 51 euro a 1.032 euro.
A tal proposito l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione sancisce quanto segue: “Porre un bene in vendita su di un sito internet, pubblicizzandone le caratteristiche ed ingenerando la legittima aspettativa del compratore circa l'esistenza dello stesso e la validità dell'offerta, è condotta anche da sola idonea a configurare gli artifici ed i raggiri richiesti dall'art. 640 c.p. (Cass. Pen., Sez. II, 26/11/2019, n.198).
Per tali ragioni in risposta alla nostra lettrice è corretto affermare che: “La messa in vendita di un bene su un sito internet, accompagnata dalla mancata consegna del bene stesso all'acquirente e posta in essere da parte di chi falsamente si presenta come alienante ma ha solo il proposito di indurre la controparte a versare una somma di denaro e a conseguire, quindi, un profitto ingiusto, integra una condotta truffaldina (Cass. Pen., Sez. II, 04/12/2019, n.51551).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla Legge del 19.12.2019 n. 157 di conversione al D.L. n. 124/2019, il cui art. 41-bis va ad interessare proprio i mutui ipotecari destinati a prima casa oggetto di procedura esecutiva: di seguito l’analisi dell’avvocato Oberdan Pantana.
La legge 19 dicembre 2019, n. 157 di conversione del decreto legge 26 ottobre 2019, n.124 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 24 dicembre 2019 introduce una norma importante, l’art. 41-bis che disciplina, seppure «in via eccezionale, temporanea e non ripetibile» una particolare forma di rinegoziazione del mutuo in favore del mutuatario che sia consumatore inadempiente già esecutato, con assistenza del Fondo di garanzia prima casa volta a fronteggiare i casi più gravi di crisi economica dei consumatori. Difatti, al ricorrere delle seguenti condizioni, il debitore consumatore avrà tempo fino al 31 dicembre 2021 per proporre un’istanza di rinegoziazione del mutuo laddove abbia visto la propria abitazione principale oggetto di un pignoramento tra il 1° gennaio 2010 e il 30 giugno 2019. Individuiamo, quindi, il perimetro di funzionamento della norma nuova e, cioè, le condizioni che devono congiuntamente sussistere perché il debitore possa avvalersi di questa facoltà.
La prima condizione è che il debitore sia «qualificabile come consumatore ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. a), codice del consumo, di cui al d.lgs. n. 206/2005» e cioè, sia una persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta.
La seconda condizione è che ci deve essere una procedura esecutiva immobiliare avente ad oggetto l'abitazione principale del debitore, il cui «pignoramento sia stato notificato tra la data del 1° gennaio 2010 e quella del 30 giugno 2019».
La terza condizione attiene alla qualifica soggettiva del creditore e alla natura del credito: il creditore deve essere un soggetto che esercita l'attività bancaria o una società veicolo di cui alla legge n.130/1999 (lett. b) e il credito derivi da un mutuo con garanzia ipotecaria di primo grado sostanziale, concesso per l'acquisto di un immobile che rispetti i requisiti previsti dalla nota II-bis) all'art. 1 della tariffa, parte prima, allegata al testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro.
La quarta condizione attiene ai creditori procedenti e intervenuti: da un lato, non importa se la procedura esecutiva sia stata avviata da una banca o una società veicolo, creditrice ipotecaria di primo grado, essendo sufficiente, ai fini della norma, che questa sia intervenuta nell’esecuzione; dall’altro lato, però, l’art. 41-bis richiede che non vi siano altri creditori intervenuti oltre al creditore procedente o, comunque, sia depositato, prima della presentazione dell'istanza di rinegoziazione, un atto di rinuncia dagli altri creditori intervenuti. In altri e più chiari termini, la facoltà del debitore potrà essere esercitata a condizione che il creditore ipotecario sia l’unico creditore procedente oppure che gli altri creditori (poco importa se procedenti o intervenuti) abbiano rinunciato all’esecuzione.
La quinta condizione attiene all’entità del debito e alle modalità del debito rinegoziato o finanziato: quanto al debito, (a) il debitore deve aver rimborsato almeno il 10% del capitale del credito ipotecario originariamente finanziato alla data della presentazione dell'istanza di rinegoziazione; (b) il debito complessivo calcolato ai sensi dell'art. 2855 c.c. nell'ambito della procedura e oggetto di rinegoziazione o rifinanziamento non sia superiore a euro 250.000. Quanto alle modalità di adempimento l'importo offerto non deve essere inferiore al 75% del prezzo base della successiva asta ovvero del valore del bene come determinato nella consulenza tecnica d'ufficio nel caso in cui non vi sia stata la fissazione dell'asta; qualora il debito complessivo sia inferiore al 75% dei predetti valori, l'importo offerto non può essere inferiore al debito per capitale e interessi calcolati ai sensi della lettera g), senza applicazione della percentuale del 75%.
Inoltre, il rimborso dell'importo rinegoziato o finanziato deve avvenire con una dilazione non superiore a 30 anni decorrenti dalla data di sottoscrizione dell'accordo di rinegoziazione o del finanziamento e comunque tale che la sua durata in anni, sommata all'età del debitore, non superi tassativamente il numero di 80 e a condizione che il debitore rimborsi integralmente le spese liquidate dal giudice, anche a titolo di rivalsa, in favore del creditore.
Peraltro, l’art. 41-bis consente ai parenti o affini di intervenire nelle operazioni di rinegoziazione o rifinanziamento a favore del mutuatario inadempiente ed infatti, se «il debitore non riesce a ottenere personalmente la rinegoziazione o il rifinanziamento del mutuo, lo stesso può essere accordato a un suo parente o affine fino al terzo grado»; in questo caso, «il giudice emette decreto di trasferimento ai sensi dell'art. 586 c.p.c. in suo favore», ma «per i successivi 5 anni, decorrenti dalla data di trasferimento dell'immobile, è riconosciuto, in favore del debitore e della sua famiglia, il diritto legale di abitazione, annotato a margine dell'ipoteca».
Se poi entro i successivi 5 anni il debitore rimborsa integralmente gli importi già corrisposti al soggetto finanziatore dal parente o affine fino al terzo grado, potrà chiedere la retrocessione della proprietà dell'immobile e – attenzione - con il consenso del soggetto finanziatore, accollarsi il residuo mutuo con liberazione del parente o affine fino al terzo grado. Peraltro, le imposte di registro, ipotecaria e catastale relative al trasferimento degli immobili ai sensi del presente comma sono applicate nella misura fissa di 200 euro agli atti di trasferimento in sede giudiziale degli immobili e all'eventuale successivo trasferimento dell'immobile residenziale al debitore, con la precisazione che il beneficio decade se il debitore non mantiene la residenza nell'immobile per almeno cinque anni dalla data del trasferimento in sede giudiziale.
Un aspetto interessante e centrale di questo nuovo articolo è senz’altro la possibilità di richiedere una rinegoziazione del mutuo in essere ovvero un finanziamento con assistenza della garanzia del Fondo di garanzia prima casa che avrà, per questo fine, una dotazione di 5 milioni di euro per l'anno 2019 e che potrà operare nella misura del 50% dell'importo oggetto di rinegoziazione ovvero della quota capitale del nuovo finanziamento; per effetto della rinegoziazione ovvero del finanziamento, la banca terza si surroga nella garanzia ipotecaria esistente ed il ricavato del mutuo rinegoziato ovvero del finanziamento «deve essere utilizzato per estinguere il mutuo in essere» con l’importante precisazione che opera «il beneficio dell’esdebitazione per il debito residuo».
Se sussistono tutte le condizioni di cui abbiamo sin qui dato conto, occorrerà un’apposita istanza congiunta, presentata dal debitore e dal creditore al giudice dell'esecuzione affinché questo sospenda l'esecuzione per un periodo massimo di 6 mesi. Il creditore procedente, se è richiesta la rinegoziazione, entro 3 mesi svolge un'istruttoria sulla capacità reddituale del debitore fermo restando che il creditore è sempre libero di rifiutare la propria adesione all'istanza o di rigettare, anche successivamente alla presentazione dell'istanza congiunta la richiesta di rinegoziazione avanzata dal debitore; in ogni caso in cui sia richiesto un nuovo finanziamento a una banca diversa dal creditore ipotecario, a questa è comunque riservata totale discrezionalità nella concessione dello stesso.
Da ultimo, dobbiamo mettere in evidenza la condizione che deve sussistere affinché il debitore consumatore possa avvalersi della nuova facoltà: non deve essere pendente nei riguardi del debitore una procedura di risoluzione della crisi da sovraindebitamento ai sensi della legge 27 gennaio 2012, n. 3, e, cioè, piano del consumatore, accordo di composizione dei debiti o liquidazione del patrimonio; ed allora, siccome la formulazione della norma lascia pensare, ai fini impeditivi dell’esercizio della facoltà, la procedura debba essere pendente al momento della presentazione dell’istanza, può accadere che il debitore debba valutare se possa essere per lui più conveniente rinunciare alla eventuale procedura di sovraindebitamento.
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le problematiche riguardanti i rapporti condominiali e nello specifico la possibilità o meno al distacco del singolo appartamento riguardo il riscaldamento centralizzato. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: “È possibile il distacco del singolo appartamento dal riscaldamento centralizzato condominiale?”
‘Libero riscaldamento in libero condominio’. Così, parafrasando un pensiero di Cavour, si può racchiudere la pronuncia con cui recentemente la Cassazione ha sancito il diritto al distacco a singoli appartamenti dall’impianto centralizzato di riscaldamento condominiale, sottolineando il fatto dell’irrilevanza che tale operazione non sia consentita dal regolamento condominiale.
Difatti, anche in tale circostanza dei condomini optarono per «il distacco degli appartamenti di loro proprietà dall’impianto di riscaldamento centralizzato», ma tale operazione venne ‘bloccata’ dall’assemblea condominiale con delibere ad hoc con cui «fu respinta la loro richiesta» e contestualmente vennero «approvati il consuntivo e il preventivo per le spese di riscaldamento».
Regolamento condominiale alla mano, i Giudici di primo e di secondo grado diedero ragione all’amministrazione condominiale; infatti, decisivo il richiamo all’articolo 10 del regolamento: con esso si vieta «la rinuncia all’uso degli impianti comuni» e si sancisce «l’obbligatorietà dei relativi canoni».
A smentire, però, le valutazioni compiute dai Giudici di merito ha provveduto ora la Cassazione, accogliendo il ricorso dei singoli condomini e, pertanto, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare quanto segue: “Il diritto del condomino a distaccarsi dall’impianto di riscaldamento centralizzato non è disponibile e, di conseguenza, sono nulle le clausole dei regolamenti condominiali che vietino il distacco del singolo appartamento, tanto da consentirne, perciò, tale condotta”(Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 32441 del 11.12.2019).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’utilizzo dei “social network” e nello specifico la pubblicazione di foto nel proprio profilo facebook. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Corridonia che chiede: “E’ legittimo pubblicare foto altrui sul proprio profilo Facebook senza il consenso dell’interessato?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una pratica oramai quotidianamente utilizzata dai fruitori del social facebook, le cui modalità non sempre risultano del tutto legittime.
A tal proposito deve affermarsi in linea generale che la pubblicazione di una fotografia ritraente una persona umana è subordinata alla manifestazione, esplicita o implicita, del consenso da parte della persona ritratta. Tale condizione è prevista sia dalle disposizioni normative a tutela del diritto all’immagine (art. 10 c.c. e art. 96 L. n. 633/1941) sia da quelle a tutela del diritto alla riservatezza (art. 6 Regolamento UE 2016/679) poiché l’altrui pubblicazione di una propria immagine fotografica costituisce in ogni caso (e a prescindere dall’applicabilità o meno della normativa di tutela di riferimento) una forma di trattamento di un dato personale.
Difatti, l’art. 96 L. n. 633/1941 esplicitamente vieta l’esposizione di un ritratto senza il consenso della stessa persona, così come l’art. 6 del Regolamento UE dispone la liceità del trattamento solo se l’interessato ha espresso il proprio consenso, ed infine l’art. 10 c.c. prevede che,“Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”.
Per tali ragioni in risposta al nostro lettore è corretto affermare che: “La pubblicazione di una foto ritraente una persona è subordinata alla manifestazione, sia essa esplicita o implicita, del consenso da parte della persona ritratta; questo sia per la tutela del diritto all’immagine, sia per la tutela del diritto alla riservatezza, visto che la pubblicazione di una foto altrui costituisce una forma di trattamento di un dato personale. Il trasgressore, pertanto, dovrà immediatamente rimuovere le fotografie illegittime dal proprio profilo Facebook, oltreché risarcire la persona ritratta” (Tribunale di Bari, sez. I Civile, ordinanza depositata il 6 novembre 2019).
Nel consigliare di porre attenzione nell’utilizzo dei “social network”, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tutela degli animali tenuti dai rispettivi proprietari in condizioni non conformi. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “A quale responsabilità può andare incontro colui che costringa il proprio cane a vivere in condizioni incompatibili con la sua natura e produttive di sofferenze?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo alla triste vicenda inerente al reato di abbandono di animali, i quali troppe volte subiscono vere e proprie sofferenze da parte dell’uomo, come avviene purtroppo quando gli stessi sono lasciati in isolamento legati ad una catena, con una cuccia non idonea a proteggerli dalle intemperie, all’interno di uno spazio insufficiente alla propria indole e comunque carente anche di assistenza igienica.
In merito, la Corte di Cassazione ha asserito quanto segue: “In tema di maltrattamento di animali, il reato permanente di cui all'art. 727 c.p. è integrato dalla detenzione degli animali con modalità tali da arrecare gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura, avuto riguardo, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali” (Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza n. 37859/2014).
Difatti, l’art. 727 del codice penale, punisce la deplorevole condotta di colui che abbandona un animale domestico o un animale che abbia acquisito abitudini della cattività; tuttavia deve essere precisato che nella nozione di abbandono di animali è da intendersi non solo la diretta volontà di abbandonare definitivamente l’animale, ma anche il non prendersene più cura, o comunque la sua detenzione in condizioni incompatibili con la sua natura e produttive di gravi sofferenze.
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice è corretto affermare che, “tenere il cane, pur nutrito regolarmente, chiuso nel recinto, al freddo, in mezzo al fango e alla sporcizia comporta la commissione del reato previsto e punito ai sensi dell’art. 727 c.p. quale condotta del proprietario ravvisabile in quella dell’abbandono di animali” (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 49791/19; depositata il 9 dicembre 2019).
Nel consigliare di denunciare prontamente tale grave reato commesso ai danni dei nostri amici a quattro zampe, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al settore della distribuzione e precisamente ai costi applicati dai distributori nei riguardi dei singoli rivenditori per il trasporto e consegna dei giornali. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Camerino che chiede: “ È legittima la richiesta di pagamento di costi aggiuntivi da parte del distributore nei confronti del singolo rivenditore per il trasporto e consegna dei giornali?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui ha avuto modo di pronunciarsi il Tribunale di Palermo secondo il quale “l’imposizione di un contributo alle spese di trasporto alla singola edicola viola il principio di parità di trattamento e incorre nella sanzione di nullità, cancellando unicamente la clausola discriminatoria e il compenso ivi previsto” (Ordinanza Tribunale di Palermo del 19.07.2016 n. 8260).
Difatti, la disciplina della diffusione della stampa quotidiana e periodica è stata riordinata con D. Lgs. n. 170/2001, il quale disciplina all’art. 5 le modalità di vendita stabilendo, per quel che qui interessa che:
- comma 1 lett. b) “le condizioni economiche e le modalità commerciali di cessione delle pubblicazioni, comprensive di ogni forma di compenso riconosciuta ai rivenditori, devono essere identiche per le diverse tipologie di esercizi, esclusivi e non esclusivi, che effettuano la vendita”;
- comma 1 lett. d-quinquies) “le clausole contrattuali fra distributori ed edicolanti, contrarie alle disposizioni del presente articolo, sono nulle per contrasto con norma imperativa di legge e non viziano il contratto cui accedono”.
La norma, esplicitamente ispirata da esigenze di garanzia del pluralismo informativo a tutela del diritto di matrice costituzionale della libera manifestazione del pensiero, pone in ciascuno dei commi riportati precetti rilevanti per la definizione della controversia; essa stabilisce, in primo luogo, che le condizioni economiche e le modalità commerciali di cessione alla rivendita della stampa, sia essa quotidiana o periodica, devono essere identiche indipendentemente dalla qualificazione del punto vendita come esclusivo o non esclusivo e sanziona con la nullità le clausole contrattuali tra distributori ed edicolanti contrarie alle disposizione dell’articolo medesimo. Il dettato normativo, che con la specificazione apportata dal D.L. 24.04.2017 n. 50 convertito in L. 21.6.2017 n. 96 a tenore del quale d-sexies ha acquisito ulteriore chiarezza, e precisamente,“le imprese di distribuzione territoriale dei prodotti editoriali garantiscono a tutti i rivenditori l’accesso alle forniture a parità di condizioni economiche e commerciali; la fornitura non può essere condizionata a servizi, costi o prestazioni aggiuntive a carico del rivenditore”.
Ininfluente, alla stregua del carattere imperativo della disposizione di legge, è poi la circostanza che, in assenza di contributo economico diretto dei rivenditori finali, la distribuzione avverrebbe in perdita; infine, lo stesso art. 10 dell’Accordo Nazionale sulla vendita dei giornali quotidiani e nazionali del 19.5.2005, oltre a dettare come regola generale di consegna dei prodotti editoriali ai rivenditori finali quella “franco punto vendita” o la “consegna a banco”, esclude categoricamente che il rivenditore sia obbligato a corrispondere un compenso per la consegna presso la rivendita.
Pertanto, in risposta al nostro lettore, “ Risulta illegittima l’applicazione di costi aggiuntivi per la consegna del prodotto editoriale da parte del distributore nei riguardi del singolo rivenditore ed a nulla rileva che quest’ultimo abbia sottoscritto un contratto con una clausola che preveda tali costi aggiuntivi in quanto illegittima, così come è del tutto irrilevante la circostanza che in assenza di tale costo aggiuntivo la consegna del distributore avverrebbe in perdita giacché è l’intero sistema della diffusione della stampa ad essere imperniato sulla remunerazione agganciata al venduto e non anche ai costi effettivi di immissione sul mercato del prodotto editoriale” (Corte di Appello di Palermo, sentenza n. 1027/2019).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alle cartelle esattoriali che a distanza di tempo vengono notificate con richieste di somme esorbitanti in quanto oltre alla sorte vengono aggiunti interessi e sanzioni. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Porto Potenza che chiede: “ E’ legittima la richiesta di pagamento di una cartella esattoriale notificata dopo 5 anni?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la recentissima ordinanza n. 31010/19, depositata il 27 novembre 2019, con la quale il Collegio ha escluso la fondatezza del ricorso proposto dall’INPS con riferimento ad una cartella esattoriale emessa nei confronti di un cittadino, affermando che “la definitività dell’accertamento relativo alla sussistenza dei crediti contributivi risultanti dalla cartella, per effetto della mancata opposizione alle medesime, non preclude l’accertamento della prescrizione o di altri fatti estintivi del credito maturati successivamente alla notifica della cartella medesima”.
Sul tema, le Sezioni Unite con la sentenza n. 23397/16 hanno, difatti, chiarito che “soltanto un atto giurisdizionale può acquisire autorità ed efficacia di cosa giudicata”, tanto da prolungare la prescrizione dell’atto fino a 10 anni. Nel caso della cartella, invece, se nell’arco di 5 anni dalla notifica non si procede alla riscossione coattiva e non viene notificato un atto interruttivo della prescrizione, il credito si prescrive. Strumento idoneo a far valere l’intervenuta prescrizione è anche l’opposizione all’esecuzione di cui all’art. 615 c.p.c.. Ciò posto, l’eventuale decorrenza del termine per l’esperimento dell’azione di cui all’art. 24, comma 5, d.lgs. n. 46/1999 non rende incontrovertibile la cartella esattoriale, ma preclude solo la possibilità di contestare vizi di merito o di forma relativi al titolo, lasciando all’interessato la possibilità di invocare la prescrizione mediante azione di opposizione all’esecuzione.
Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta illegittima la cartella esattoriale notificata al cittadino oltre i 5 anni dalla medesima pretesa dell’Ente in quanto il credito è prescritto (Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza n. 31010/19, depositata il 27 novembre).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate stante l’imminente Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre 2019, hanno interessato principalmente la tematica relativa alla tutela delle vittime di violenza di genere, modificata dalla recente introduzione del cosiddetto “Codice Rosso”.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “La circostanza che la vittima di atti persecutori possa avere momenti di avvicinamento con l’ex convivente stalker, è idonea a sollevare quest’ultimo dalla propria responsabilità penale?"
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 27466/2018, stabilendo il seguente principio di diritto: “In tema di atti persecutori ex art. 612 bis c.p., la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, con alterazione delle proprie abitudini di vita, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente la quale può esplicarsi con molteplici modalità, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni in cui è stata perpetrata; per cui al fine della configurabilità di tale delitto, data la sua natura abituale, deve essere accertato l’effetto della complessiva e reiterata condotta persecutoria del soggetto agente sulla psiche e lo stile di vita della vittima, in seguito al disagio progressivamente accumulato nel tempo, senza che rilevi l’eventuale atteggiamento conciliante della persona offesa” (Cass. Pen.; Sez. V; Sent. n.27466/2018).
Inoltre, l’art. 612 bis c.p. citato nella menzionata Sentenza, il quale punisce testualmente: “Chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”, è stato oggetto delle modifiche apportate dal cosiddetto “Codice Rosso” elaborato al fine di garantire una maggiore tutela alle vittime di violenze di genere perpetrate soprattutto in contesti familiari, domestici e lavorativi.
A tal proposito, infatti, occorre rilevare che nel caso specifico del delitto di atti persecutori previsto ex art. 612 bis c.p., si è avuto un importante inasprimento di pena, passando ad una pena detentiva che va da un minimo di un anno, fino ad un massimo di 6 anni e 6 mesi, oltre all’introduzione di una vera e propria corsia preferenziale per lo svolgimento delle indagini relative a tali tipologie di delitti, prevedendo una misura speciale per l’audizione della vittima, la quale dovrà essere ascoltata dal Pubblico Ministero già entro i primi 3 giorni dall’iscrizione della notizia di reato, nonché la previsione di un incremento dei fondi annualmente stanziati a favore delle vittime di violenza, orfani di crimini domestici ed alle famiglie affidatarie, ed infine, la disciplina di un più arduo percorso di ammissione del condannato all’istituto della sospensione condizionale della pena, subordinandolo alla partecipazione a percorsi di recupero organizzati ad hoc da enti o associazioni che si occupano di assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per reati sessuali.
Pertanto, alla luce delle nuove disposizioni in materia di violenza sulle donne, in adesione alla più autorevole giurisprudenza di legittimità ed in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: “Nell'ipotesi di atti persecutori commessi nei confronti della ex convivente, l'attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non sono inficiate dalla circostanza che all'interno del periodo di vessazione la persona offesa abbia vissuto momenti transitori di attenuazione del malessere in cui ha ripristinato il dialogo con il persecutore, atteso che l'ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell'imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle afflizioni subite, ricorrendo tutte le altre circostanze del reato.” (Cass. Pen.; Sez. V; Sent. n. 45141 del 17/09/2019).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla tutela della lavoratrice dipendente in stato di gravidanza, con particolare riferimento al divieto di licenziamento ed alle agevolazioni alle stesse legislativamente garantite. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Camerino che chiede: “È legittimo il licenziamento della lavoratrice in dolce attesa a fronte della chiusura del reparto in cui la stessa prestava servizio? E quali sono le tutele alla stessa riservate?”.
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente delicata, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14515/2018, affermando testualmente quanto segue: “In tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento di cui all'art. 54, comma 3, lett. b), d.lg. n. 151 del 2001, dall'inizio della gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino, opera solo in caso di cessazione dell'intera attività aziendale, sicché, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva od analogica alle ipotesi di cessazione dell'attività di un singolo reparto dell'azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale.” (Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. n. 14515/2018). Difatti, l’art. 54, D. Lgs. n. 151/2001, Testo Unico a tutela della maternità e della paternità, citato nella menzionata sentenza, prevedendo espressamente che: “Le lavoratrici non possono essere licenziate dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino”, se non in caso di cessazione dell’attività dell’intera azienda, colpa grave e scadenza naturale del termine contrattuale, tanto da assicurare una tutela assoluta da ipotesi di discriminazione collegate all’attuale stato della dipendente, alla quale è altresì garantita tutta una serie di misure preventive e protettive per la salute e la sicurezza in gravidanza, così come dopo il parto, a partire dal divieto di adibire la lavoratrice al lavoro, dai due mesi che precedono la data presunta del parto, fino ai tre mesi successivi al parto, c.d. congedo di maternità, cui si aggiunge il divieto di lavoro notturno, riposo settimanale, astensione da lavori che comportino rischi alla salute perché pericolosi, faticosi ed insalubri perché esposte a materiali, agenti chimici, fisici e biologici, o polveri dannose, che comportino una posizione in piedi per più di metà dell’orario o che obblighino ad una posizione particolarmente affaticante e scomoda, o ancora lavori su scale e impalcature mobili e fisse con pericolo di cadute, sollevare o trasportare pesi. Inoltre, il Testo Unico di cui all’oggetto, oltre ad estendere tali specifiche tutele anche al caso di adozione o affidamento, prevede espressamente il diritto a permessi retribuiti per l’effettuazione di esami prenatali, accertamenti clinici, ovvero visite mediche specialistiche, nel caso in cui questi debbano essere eseguiti durante l’orario di lavoro, nonché il diritto all’indennità giornaliera pari all’80 per cento della retribuzione, per tutto il periodo del congedo di maternità, il quale deve essere fruito separatamente da eventuali ferie o assenze che spettano alla lavoratrice che quindi non vengono computate a tal fine, e al quale si aggiunge il rateo giornaliero relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima mensilità e agli altri premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati alla lavoratrice, oltre alla previsione di due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata, della durata di un’ora ciascuno, da concedere alla neomamma per il primo anno di vita del figlio e che sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro, pur comportando il diritto della donna ad uscire dall'azienda.
Infine, allo scopo di prestare tutela anche a quegli aspetti più strettamente legati alla carriera e di garanzia della professione, è previsto che al termine dei periodi di divieto di lavoro in virtù del congedo di maternità, le lavoratrici conservino il posto di lavoro e rientrino nella stessa unità produttiva ove erano occupate all'inizio del periodo di gravidanza; principio questo, ulteriormente consolidato dall’unanime orientamento della Suprema Corte che a tal proposito, ha espressamente sancito quanto segue: “È illegittimo il licenziamento intimato alla dipendente la quale – al termine del periodo di assenza obbligatoria per gravidanza previsto dall'art. 56, commi 1 e 3, d.lg. 26 marzo 2001 n. 151 – si rifiuti di prendere servizio presso una sede di lavoro diversa da quella occupata al momento dell'inizio della gravidanza in quanto, stante la normativa sulla tutela della maternità e della paternità, la lavoratrice ha diritto a conservare il posto di lavoro e la medesima sede (salvo rinuncia scritta) così che non possa configurarsi assenza ingiustificata – quindi giusta causa di recesso – il rifiuto al mutamento di sede” (Cass. Civ.; Sez. Lav., Sent. n.13455/2016).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato la questione inerente all’avvenuta obbligatorietà per l’automobilista in caso di trasporto di un bambino di essere dotato del seggiolino cosiddetto “antiabbandono”. In particolare, ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Tolentino, che chiede “A quale sanzione si va incontro in caso di trasporto di un bambino con un seggiolino senza tale specifico dispositivo?"
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo all’obbligatorietà scattata il 7 novembre dell’automobilista che trasporta un bambino di essere dotato del dispositivo c.d. antiabbandono al fine di evitare una sanzione. Nel dettaglio, la Legge n. 117/2018 specifica che l’obbligo dei dispositivi antiabbandono sarebbe entrato in vigore decorsi 120 giorni dall’adozione del decreto ministeriale attuativo della norma che è stato pubblicato in gazzetta il 23 ottobre scorso; in pratica il 7 novembre, decorsi 15 giorni dalla pubblicazione del d.m. 2 ottobre 2019, avrebbero dovuto entrare in vigore solo le norme tecniche per consentire al mercato e agli utenti di adeguarsi.
Purtroppo però la legge n. 117/2018 oltre ai 120 giorni di franchigia fissava anche la scadenza massima del 1° luglio 2019 per adeguarsi, quindi il Ministero dell’Interno non ha potuto fare altro che adeguarsi al dettato normativo ed a parere del Viminale, dal 7 novembre 2019, data di entrata in vigore del decreto, ai sensi dell’art. 172 C.d.S. per chi circola con bambini di età inferiore ai 4 anni a bordo di un veicolo chiuso senza dispositivi antiabbandono scatterà la sanzione da € 81,00 a € 326,00 ai quali si aggiunge la decurtazione di 5 punti dalla patente; in caso di recidiva nel biennio scatterà anche la sospensione della patente da 15 giorni a 2 mesi.
Il tema principale ora è la dichiarazione di conformità dei dispositivi, ovvero l’autocertificazione che deve essere rilasciata al momento dell’acquisto e che attesta la rispondenza del dispositivo alle caratteristiche tecniche evidenziate dal decreto appena pubblicato in gazzetta. Saranno sicuramente pochi i rivenditori di dispositivi già muniti di questo certificato, ma senza questa documentazione a bordo il seggiolino antiabbandono non salverà dalle sanzioni. Sembra, infine, che sia in arrivo una “moratoria” fino a marzo 2020, così come anche indicato sul sito del Ministero delle Infrastrutture, ma per ora sono solo indicazioni informali, senza alcuna valenza giuridica.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla natura e agli effetti dell’atto di trasferimento della proprietà posto in essere in sede di separazione dei coniugi. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “La proprietà di un immobile trasferito da un ex coniuge in favore dell’altro può essere soggetto ad aggressione da parte dei creditori del primo?”
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente delicata, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.27409/2019, affermando testualmente quanto segue: “Gli accordi di separazione personale, contenenti attribuzioni patrimoniali relative a beni mobili o immobili, rispondono ad uno specifico spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento della separazione, il quale sfugge alle connotazioni classiche sia dell’atto di donazione sia dell’atto di vendita e svela una sua tipicità propria, la quale poi, di volta in volta, può colorarsi dei tratti dell’obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità. La necessità di accertare la natura onerosa o meno dell’atto rileva ai fini della disciplina di cui all’art. 2901 c.c.” (Cass. Civ.; Sez. II; Ord. n. 27409/2019 del 25.10.2019).
Difatti, l’art. 2901 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a termine, può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio coi quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni […]”, disciplina l’istituto dell’azione revocatoria, la quale favorisce il creditore permettendogli di ottenere la dichiarazione di inefficacia, nei suoi confronti, degli atti di disposizione del patrimonio con cui il debitore abbia arrecato pregiudizio alle sue ragioni, ad esempio ponendo in essere un atto di trasferimento di proprietà a titolo gratuito e perciò, diminuendo in modo consistente il proprio patrimonio, a discapito del suddetto creditore.
A tal proposito occorre rilevare, che il problema principale sotteso a tale questione, attiene al profilo solutorio o meno dell'atto traslativo, dal momento che, essendo l'atto di adempimento di un'obbligazione notoriamente sottratto a siffatta azione revocatoria, la qualificazione dei negozi traslativi in esame, come negozi a carattere solutorio, fornirebbe un ostacolo insuperabile avverso le pretese dei creditori in sede di azione individuale ex art. 2901 c.c.; per tali ragioni la giurisprudenza di legittimità si è dovuta occupare più volte della questione di come qualificare sotto il profilo causale le attribuzioni patrimoniali traslative che accompagnano la sistemazione dei rapporti economici tra ex marito e moglie, affermando al riguardo come non sia possibile una definizione aprioristica circa la natura di tali trasferimenti, dovendosi valutare caso per caso, a che titolo essi vengano disposti.
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice ed in linea con l’unanime orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, si può affermare che: "Gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell'uno nei confronti dell'altro e concernenti beni mobili o immobili, non risultano collegati necessariamente alla presenza di uno specifico corrispettivo o di uno specifico riferimento ai tratti propri della donazione (dato il contesto come quello della separazione personale, caratterizzato proprio dalla dissoluzione delle ragioni dell'affettività), tanto più, che per quanto può interessare ai fini di una eventuale loro assoggettabilità all'actio revocatoria di cui all'art. 2901 c.c. rispondono, di norma, ad un più specifico e proprio originario spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell'evento di separazione consensuale, il quale, sfuggendo, in quanto tale, anche dalle connotazioni classiche dell'atto di vendita (attesa oltretutto l'assenza di un prezzo corrisposto), svela, di norma, una sua "tipicità" propria la quale poi, volta a volta, può, ai fini della disciplina di cui all'art. 2901 c.c., colorarsi dei tratti dell'obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità, in ragione dell'eventuale ricorrenza o meno, nel concreto, dei connotati di una sistemazione "solutorio-compensativa" più ampia e complessiva, di tutta quell'ampia serie di possibili rapporti patrimoniali maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale” (Cass. Civ.; Sez.III; Sent. n. 10443 dep. 15.04.2019).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa all’approvazione del decreto-legge recante disposizioni per l’accelerazione e il completamento della ricostruzione nei territori colpiti da sisma del 2016. Ecco l’analisi svolta dell’avvocato Oberdan Pantana su ciò che è stato introdotto.
La recente approvazione definitiva da parte del Consiglio dei Ministri, ci offre la possibilità di illustrare le effettive modifiche apportate al precedente Decreto –legge n. 189/2016, a fronte della comprovata necessità ed urgenza di disporre interventi per il superamento della situazione emergenziale e la conseguente adozione di misure straordinarie e derogatorie per l’accelerazione delle procedure di realizzazione di siffatti interventi, in ordine alla ricostruzione materiale delle zone colpite dal sisma del 2016 e all’assistenza alla popolazione interessata, al fine di garantire condizioni socio-abitative più adeguate ed una efficace ripresa economica.
In particolare, i punti principali del provvedimento composto da 11 articoli, riguardano innanzitutto la proroga fino al 31 dicembre 2020 dello stato d’emergenza, dichiarato in conseguenza del sisma che ha colpito i territori delle regioni Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo, oltre all’erogazione di 380 milioni per il 2019, provenienti dal Fondo per le emergenze nazionali previsto nel codice della Protezione Civile, e di altri 345 milioni per il 2020, mediante l’utilizzo delle risorse disponibili sulla contabilità speciale intestata al Commissario straordinario.
Inoltre, vengono introdotte importanti novità anche sul fronte dei pagamenti delle ritenute fiscali, contributi previdenziali e assistenziali, oltre ai premi dell’assicurazione, i quali dovranno essere adempiuti dalla popolazioni colpite a partire dal 15 gennaio 2020, nel limite del 50% degli importi totali dovuti; in aggiunta, accogliendo le richieste manifestate dagli esponenti dei territori interessati, è stata prevista la riduzione del 60% degli importi da restituire in relazione alla c.d. “busta paga pesante”, ovvero il taglio degli oneri fiscali, previdenziali e assistenziali che erano stati sospesi dall'agosto del 2016 a tutto il 2017, i quali dovranno essere restituiti nella misura ridotta del 40%.
Tema centrale del nuovo decreto-legge, è costituito, parimenti, dai nuovi incentivi economici per i professionisti e le imprese che decidono di investire nelle zone colpite dal sisma, per i quali è prevista l’anticipazione del 50% delle spese, oltre all’estensione del pacchetto di agevolazioni Resto al Sud 2019, con un aumento delle risorse di 20 milioni di euro rispetto a quelle già assegnate dal Cipe, al fine di favorire la rinascita dell’imprenditoria locale e stimolare le imprese di altre Regioni ad estendersi nelle zone terremotate.
Infine, il nuovo testo normativo interviene sulla ricostruzione degli edifici pubblici attribuendo la priorità agli edifici scolastici i quali, se inizialmente ubicati nei centri storici, dovranno essere ripristinati nel luogo d’origine per favorirne il ripopolamento, oltre alla tematica dello smaltimento delle macerie, per la quale il Governo fissa il nuovo termine al 31 dicembre 2019 per l’aggiornamento dei siti di stoccaggio di ogni Regione e, in mancanza di una intesa, autorizza comunque il Commissario straordinario a realizzare tale aggiornamento, superando un’eventuale situazione di stallo.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa all’illegittima iscrizione di un soggetto nel registro “cattivi pagatori” del Sistema Informazioni Creditizie di Crif. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Pollenza che chiede: “Quali sono i presupposti per l’iscrizione al Crif e quali i rimedi in caso di illegittima segnalazione?”
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo più volte di pronunciarsi la Corte di Cassazione, non da ultimo con Sentenza n. 15609/2014, affermando testualmente quanto segue: “La segnalazione di una posizione in sofferenza non può mai scaturire dal mero ritardo nel pagamento del debito o dal volontario inadempimento, ma deve essere determinata dal riscontro, e dalla prodromica verifica da parte dell’ente creditizio, di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d’insolvenza quale grave difficoltà economica. Tale segnalazione deve inoltre essere preceduta dalla comunicazione dell’intermediario del credito nei confronti del soggetto finanziato circa l’imminente registrazione dei dati in uno o più sistemi di informazioni creditizie quali Crif e/o Centrale Rischi a norma del quale al verificarsi di ritardi nei pagamenti, l’Istituto creditizio avverte l’interessato” (Cass. Civ., Sez. I, Sent. n. 15609/2014).
Difatti, le norme relative ai principi deontologici richiamati nella menzionata sentenza, hanno l’obiettivo di limitare il margine di discrezionalità che contrassegna suddetta iscrizione nel registro Crif da parte degli intermediari finanziari segnalanti, nonché quello di tutelare il presunto debitore, dai danni derivanti da tale registrazione, in ordine al rischio di preclusione alla concessione di futuri finanziamenti e di impossibilità di accesso a crediti bancari, richiedendosi per tali ragioni, una verifica particolarmente scrupolosa della situazione economica dello stesso, contemperando l’esigenza di contenimento del rischio creditizio, con la tutela dell’interesse privato del soggetto segnalato. A tal proposito, è la stessa giurisprudenza maggioritaria a rilevare come la condotta infondata dell’ente creditizio segnalante, costituisca una grave ed ingiustificata lesione dell’immagine del soggetto passivo rispetto ai rapporti commerciali e civili del medesimo, tenuto conto della stigmatizzazione derivante dall’identificazione del soggetto quale cattivo pagatore, nonché dell’evidente difficoltà derivante dalla stessa, nella concessione di future concessioni creditizie, condizioni che, in una situazione di crisi economica quale quella attuale, possono arrecare un serio pregiudizio al normale svolgimento delle attività economico-relazionali del soggetto indebitamente gravato dalla iscrizione, riconoscendogli a tutti gli effetti, idonea copertura giuridica in ordine al risarcimento del danno. Pertanto in risposta alla domanda del nostro lettore ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di legittimità, con riferimento ai presupposti come sopra riportati, si può affermare che: “In caso di illegittima segnalazione di una posizione in sofferenza, da parte di un istituto di credito, sussiste il danno da lesione dell'immagine sociale della persona che si vede ingiustamente indicata come insolvente, idoneo a determinare l’accoglimento del ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c., scaturendone il diritto al risarcimento di tale pregiudizio senza necessità per il danneggiato di fornire la prova della sua esistenza, oltre all’immediata cancellazione del nominativo dello stesso” (Cass. Civ.; Sez. I; Sent. n.12626/2010).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al diritto riconosciuto all’ex convivente della ripetizione di specifiche somme corrisposte al partner durante il periodo di convivenza. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Camerino che chiede: “Terminata la convivenza si può ottenere la restituzione di quanto pagato per la costruzione di quella che sarebbe dovuta essere la casa familiare senza esserne il proprietario?”
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.24721/2019, in accoglimento del ricorso posto in essere dall’ex convivente, affermando testualmente quanto segue: “L’accertamento in fatto che la dazione di denaro era rivolta al solo scopo di realizzare la casa familiare, destinata, nelle previsioni della ricorrente, a divenire comune, giustifica, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il rimborso delle somme versate a titolo di concorso nelle spese di costruzione del manufatto rimasto in proprietà esclusiva dell’altro ex convivente, risultando tale contribuzione a tutti gli effetti, indebita” (Cass. Civ.; Sez. II; Sent. n. 2973/2016).
Difatti, l’art. 2033 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto, ha diritto di ripetere ciò che ha pagato […]”, disciplina l’istituto della ripetizione dell’indebito avente come suo fondamento, l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa a una clausola risolutiva espressa. A tal proposito, occorre rilevare che, sebbene la convivenza di fatto rappresenti ormai a tutti gli effetti una formazione sociale riconosciuta e tutelata dal nostro ordinamento giuridico, con la quale sorgono doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, per cui eventuali contribuzioni e prestazioni economiche eseguite durante il periodo di convivenza vengono sussunte, dalla coscienza sociale, fra i doveri connessi ad un consolidato rapporto affettivo, essendo generalmente ricondotte nell'alveo delle obbligazioni naturali ex art. 2034 c.c., è tuttavia necessario che tali prestazioni rese, trovino giustificazione nella solidarietà e nella reciproca assistenza fra i conviventi, sussistendo al contrario, un'inconciliabilità logico-giuridica fra convivenza more uxorio e arricchimento ingiustificato, il quale necessariamente investe le circostanze relative all’effettuazione di prestazioni di tipo economico, derivanti da un presunto vincolo obbligatorio, ma che risultino a posteriori non dovute, così giustificando la tutela giuridica e patrimoniale del soggetto leso, in presenza di atti dispositivi posti in essere a vantaggio di uno dei conviventi esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza.
Pertanto, in risposta alla domanda dalla nostra lettrice e in linea con la più autorevole e consolidata giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: “Le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente 'more uxorio' effettuate nel corso del rapporto configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza; in caso di attribuzioni economico patrimoniali eseguite in corso di convivenza, a titolo di concorso alle spese di costruzione della casa familiare, si ha diritto al rimborso delle somme date se, terminata la convivenza, il conferimento non si concretizza nell’acquisto della proprietà del bene, esulando tale prestazione, dal mero adempimento di suddette obbligazioni” (Cassazione civile sez. VI, 15/02/2019, n.4659).
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Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa all’inidoneità dei verbali elevati dagli ausiliari del traffico, in circostanze che esulino dalla violazione delle disposizioni previste in tema di parcheggi a pagamento. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Si può considerare legittima la multa per mancato pagamento del ticket al proprietario di un’automobile posteggiata al di fuori delle strisce blu?”
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con la sentenza n.551/2009, affermando testualmente quanto segue: “Gli ausiliari del traffico sono legittimati ad accertare e contestare violazioni quando le stesse concernano disposizioni in materia strettamente connessa all'attività svolta dall'impresa di gestione dei posteggi pubblici o di trasporto pubblico delle persone dalla quale dipendono, secondo quanto previsto dai commi 132 e 133 dell'art. 17 legge n. 127 del 1997, ove l'ordinato e corretto esercizio di tale attività sia impedito o, in qualsiasi modo, ostacolato o limitato. Laddove, invece, le violazioni consistano in condotte diverse, l'accertamento può essere compiuto esclusivamente dagli agenti di cui all'art. 12 C.d.S.”(Cass. Civ.; Sez. II; Sent. n. 2973/2016).
Difatti, i commi 132 e 133 dell’art. 17 della citata Legge. n. 127/1997, prevedono rispettivamente che: "I comuni possono, con provvedimento del sindaco, conferire funzioni di prevenzione e accertamento delle violazioni in materia di sosta a dipendenti comunali o delle società di gestione dei parcheggi, limitatamente alle aree oggetto di concessione” e che: “Le funzioni di cui al comma 132 sono conferite anche al personale ispettivo delle aziende esercenti il trasporto pubblico di persone […]. A tale personale sono inoltre conferite, con le stesse modalità di cui al primo periodo del comma 132, le funzioni di prevenzione e accertamento in materia di circolazione e sosta sulle corsie riservate al trasporto pubblico”.
A tal proposito occorre infatti rilevare come in presenza ed in funzione di particolari esigenze del traffico cittadino, quali sono la gestione delle aree da riservare a parcheggio e l'esercizio del trasporto pubblico di persone, il legislatore con le norme sopra richiamate, abbia disposto che determinate funzioni, obiettivamente pubbliche, possano essere eccezionalmente svolte anche da soggetti privati, i quali abbiano una particolare investitura da parte della pubblica amministrazione, con ciò stabilendo che tali funzioni attribuite riguardino esclusivamente le violazioni in materia di sosta e limitatamente alle aree ad oggetto di concessione, essendo queste ultime strumentali rispetto allo scopo di garantire la funzionalità dei posteggi, oltre alle ipotesi di circolazione e sosta sulle corsie riservate al trasporto pubblico.
Pertanto, in risposta al nostro lettore ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: “In tema di circolazione stradale, i poteri di accertamento degli ausiliari del traffico, che siano dipendenti delle società di gestione dei pubblici posteggi e trasporti è limitata all'accertamento delle violazioni in materia di sosta dei veicoli commesse nelle aree comunali oggetto di concessione, contrassegnate con la segnaletica orizzontale blu e specificamente destinate al parcheggio, previo pagamento di ticket; ogni altra violazione è da intendersi di competenza degli agenti indicati dall’art. 12 co.3 C.d.S.”. (Corte di Cassazione; Sez. Un.; Sent. n. 5621/2009).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa all’assegno di mantenimento destinato in fase di cessazione degli effetti civili del matrimonio, al coniuge economicamente più debole. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di San Severino Marche che chiede: “In quali circostanze viene concesso l’assegno di mantenimento all’ex coniuge e quale funzione ha?”
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi il Tribunale di Milano con la sentenza n.6665/2019 di rigetto dell’istanza proposta da una donna al proprio ex marito, stabilendo espressamente quanto segue: “In considerazione del fatto che la signora possa considerarsi economicamente autosufficiente, anche se con possibilità decisamente inferiori rispetto a quelle del marito, occorre tuttavia sottolineare che alla luce dell'attuale orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 18287/2018) le condizioni economiche e patrimoniali dei coniugi non costituiscano più il punto di riferimento principale per l'attribuzione del diritto ad un assegno di mantenimento poiché le stesse rilevano solo ove eziologicamente connesse al contributo di ciascuno nel corso della vita matrimoniale, secondo quanto prescritto all’art. 5 comma 6 L. n. 898/1970” (Tribunale di Milano Sent. n. 6665/2019). Difatti, l’articolo citato nella menzionata sentenza, disciplinando i parametri da valutare al fine del riconoscimento di un assegno di divorzio a beneficio di uno dei due ex coniugi, prevede testualmente che: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
Per tali ragioni, una volta avanzata la richiesta da una delle parti, il Giudice deve procedere alla comparazione delle condizioni economiche-patrimoniali delle stesse, e laddove emerga l'inadeguatezza dei mezzi del richiedente, o comunque l'impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, il Giudicante deve accertarne rigorosamente le cause, alla stregua dei parametri indicati dal menzionato art. 5, e in particolare, deve considerare se quella disuguaglianza economica che emerge, sia o meno la conseguenza del contributo fornito dal richiedente medesimo alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due ex coniugi, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all'età dello stesso e alla durata del matrimonio; solo dopo aver operato tali gravose valutazioni, il giudice potrà decidere circa la necessità di stabilire un assegno di mantenimento in capo al richiedente e quantificarlo, senza però doverlo rapportare né al pregresso tenore di vita familiare, né al parametro della autosufficienza economica, ma in misura tale da garantire all'avente diritto un livello reddituale adeguato al contributo sopra richiamato.
Pertanto, in risposta al nostro lettore ed in linea con la più recente ed autorevole giurisprudenza di merito e di legittimità, si può affermare che: “All'assegno divorzile in favore dell'ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche funzione perequativo-compensativa che conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell'autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate” (Corte di Cassazione; Sez. Un.; Sent. n. 18287/2018).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica attinente all’imposta sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani e malfunzionamento del relativo servizio fornito dall’amministrazione comunale.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice della Provincia di Macerata che chiede: “Di fronte ad un disservizio del Comune sulla raccolta dei rifiuti il pagamento della relativa tassa è comunque dovuto per l’intero?”.
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 22767/2019, affermando testualmente quanto segue: “Il diritto alla riduzione presuppone l'accertamento specifico mirato sul periodo, sulla zona di ubicazione dell'immobile, sulla tipologia dei rifiuti conferiti e, in generale, su ogni altro elemento utile a verificare la ricorrenza in concreto della riduzione richiesta, della effettiva erogazione del servizio di raccolta rifiuti in grave difformità dalle previsioni legislative e regolamentari, il cui onere probatorio grava sul contribuente che invoca la riduzione della Tarsu, ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 59, comma 4” (Cass. Civ.; sez. Trib.; Sent. n. 22767 ; dep. 12.09.2019).
Difatti, l’art. 59 del citato D.lgs. n. 507/1993, al comma 4° prevede espressamente che: "Se il servizio di raccolta, sebbene istituito e attivato, non si è svolto nella zona di residenza o di dimora nell'immobile a disposizione ovvero di esercizio dell'attività dell'utente o è effettuato in grave violazione delle prescrizioni del regolamento di cui al comma 1, relative alle distanze e capacità dei contenitori ed alla frequenza della raccolta, da stabilire in modo che l'utente possa usufruirne agevolmente, il tributo è dovuto nella misura ridotta di cui al secondo periodo del comma 2'' ovvero in misura non superiore al 40% della tariffa.".
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: "Il presupposto della riduzione della Tarsu ai sensi del D. Lgs. n. 507 del 1993, art. 59, comma 4, non richiede che il disservizio sia imputabile all’Amministrazione comunale; al contrario, tale presupposto si identifica nel fatto obiettivo che il servizio di raccolta, istituito ed attivato, non sia svolto nella zona di residenza o di dimora nell'immobile, ovvero, si sia svolto in grave violazione delle prescrizioni sul servizio di nettezza urbana” (Cass. Civ.; Sez. Trib.; Sent. n. 22531/2017).
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