Donald Trump, il codino biondo che fa impazzire il mondo, passa alla minaccia diretta contro l'Europa: se non comprate più gas e più petrolio dall'America, arriveranno sempre più dazi. La notizia si trova su tutti i principali quotidiani nazionali.
Con buona pace dei tanti che si illudevano che con Trump le cose potessero cambiare radicalmente, tutto procede secondo la stessa traiettoria e secondo lo stesso copione: l'Europa, con Trump come con Biden, seguita a essere trattata da Washington come una colonia di second'ordine, da umiliare e da sfruttare senza limiti.
L'Europa è dovuta entrare in guerra al fianco dell'Ucraina perché così ha voluto Washington, che sta conducendo la sua guerra contro la Russia utilizzando l'Ucraina e l'Europa come instrumenta belli. Ha dovuto fare le sanzioni alla Russia, distruggendo la propria economia, perché così ha chiesto la monarchia del dollaro.
Non ha più potuto ricevere il gas dalla Russia, dovendosi rivolgere all'America per averlo pagandolo decisamente di più. E adesso, dulcis in fundo, le viene intimato di acquistare più gas e più petrolio, pena l'attivazione di misure repressive quali sono i dazi. Come non mi stanco di ripetere, la salvezza, se vogliamo scomodare una categoria teologica, non arriverà mai da Washington, con Trump o senza Trump. Potrà forse giungere dai Paesi disallineati che a Washington stanno resistendo con dignità.
Trump, comunque lo si voglia intendere, resta una anomalia interna al sistema neoliberale, del quale fa comunque parte, come ora emerge da queste vili minacce rivolte all'Europa. Gli europei dovrebbero smettere una volta per tutte di perseverare nella propria subalternità mentale rispetto a Washington e dovrebbero principiare a immaginare seriamente la propria indipendenza dal giogo americano.
E mentre ciò accade, così ha pontificato Giorgia Meloni nei giorni scorsi: "La Russia rappresenta per noi una minaccia". Si tratta, a ben vedere, di una affermazione palesemente infondata e, di più, strutturalmente demenziale. Perché mai la Russia di Putin rappresenterebbe una minaccia per l'Europa, stante il fatto che l'Europa fino a tempi recenti ha avuto ottimi rapporti con la Russia? Su che basi Giorgia Meloni fa la sua grottesca affermazione? Lo pensa veramente o svolge ancora una volta la semplice parte di megafono della voce del padrone a stelle e strisce?
Anche un bambino di tre anni può consultare le mappe geografiche e scoprire che, dal 1989 ad oggi, la Russia non si è allargata verso l'Europa, ma al contrario si è "rimpicciolita". È stata la Nato, semmai, a espandersi a oriente, occupando gradualmente gli spazi dell'ex Unione Sovietica, accerchiando la Russia e portandola alla guerra di vampata nel 2022: guerra che coincide di fatto con il conflitto che la civiltà dell'hamburger ha fatto scaturire contro la Russia al fine di piegarla definitivamente.
Se solo Giorgia Meloni avesse studiato un po' di più e fosse meno viziata dall'ideologia imperialistica rispetto alla quale il suo giullaresco governo risulta del tutto subalterno, saprebbe bene che la vera minaccia per l'Italia e per l'Europa è rappresentata proprio da Washington: contrariamente a quel che dice la narrativa ufficiale, la civiltà del dollaro non è il nostro alleato, ma è il nostro padrone; un padrone che tratta l'Europa tutta come una colonia al proprio servizio, facilmente sacrificabile sull'altare del proprio interesse imperialistico e peraltro sempre minacciabile come nei giorni scorsi ha fatto volgarmente Trump.
Se Giorgia Meloni avesse studiato un po' di più, saprebbe che in Europa non esiste nemmeno una base militare russa o cinese, e invece ve ne sono centinaia di americane. Ancora, se Giorgia Meloni avesse studiato un po' di più, saprebbe che quelle basi non servono a proteggere l'Europa, come ripete vergognosamente l'ordine discorsivo padronale, ma servono a mantenere sotto scacco l'Europa, rendendola permanentemente subalterna a Washington.
È per via dell'imperialismo di Washington che l'Europa ha interrotto i suoi rapporti con la Russia e alla Russia ha fatto oscene sanzioni che danneggiano soprattutto l'Europa stessa, come sa bene la Germania nella condizione in cui versa. Non mi stanco di ribadire che Orwell era un dilettante rispetto alla realtà presente: il penoso discorso di Giorgia Meloni lo rivela una volta di più.
Il livello della propaganda ha raggiunto intensità mai sperimentata in precedenza, trovando ancora capita insanabilia disposti a prestare ascolto alle infinite menzogne che vengono quotidianamente diffuse dall’ordine discorsivo egemonico. L’ordine dominante produce l’intollerabile e, a un sol parto, soggetti disposti a tollerarlo, magari anche con ebete euforia.
È purtroppo finita l'avventura della storica fabbrica di carta marchigiana Fabriano. "La storica produzione di carta Fabriano termina dopo 50 anni", leggiamo ad esempio su "Il resto del Carlino". Ben 173 lavoratori si trovano ora senza impiego e l'Italia – non solo le Marche – perde un altro marchio storico di grande rilievo, che ha fatto la storia del nostro Paese.
Effetti della cosiddetta transizione digitale o della competitività globale? Probabilmente un combinato disposto delle due istanze. Il mondo del tecnofeudalesimo digitalizzato sta sostituendo i libri con gli schermi: gli schermi rappresentano al meglio l'essenza del mondo liquido, dove tutto scorre, e dove la lettura stessa diventa fluida e smart (il mondo delle "non cose" evocato dal filosofo Han).
Tra i tanti fenomeni che si possono interpretare come peculiari della civiltà liquida e tecnomorfa, v’è anche il transito dalla forma-libro alla forma-schermo: il libro è un oggetto stabile, che rende disponibile un mondo compiuto e ordinato, là dove lo schermo fluidifica il reale e lo sottrae a ogni stabilità. L’ordinamento digitale mette, dunque, in congedo il nomos della terra, per dirla con Carl Schmitt.
La globalizzazione neoliberale produce in forma parossistica quella che Marx nel "Capitale" chiamava la "centralizzazione del capitale", la quale si lascia esprimere iconicamente nella raffigurazione di Bruegel il Vecchio che mostra il pesce grande che mangia quello piccolo. Infatti, la legge della concorrenza capitalistica fa sì che i grandi gruppi divorino quelli piccoli e che il capitale si concentri nelle mani di pochi: tale concentrazione del potere economico si porta appresso la concentrazione del potere politico, come è sempre più evidente dal fatto che i grandi gruppi del capitale amministrano anche il potere politico, con pressioni sempre più massicce sui governi a loro volta sempre più subalterni al potere del capitale no border. Big tech, big Pharma, big food, ecc.
Il capitolo XXIV del primo libro di Das Kapital, dedicato all’“accumulazione originaria”, ove Marx affronta il nodo della "centralizzazione capitalistica" (Zentralisation der Kapitale): "con la produzione capitalistica si forma una potenza assolutamente nuova, il sistema del credito, che ai suoi inizi s’insinua furtivamente come modesto ausilio dell’accumulazione (bescheidne Beihilfe der Akkumulation), attira mediante fili invisibili i mezzi pecuniari, disseminati in masse maggiori o minori alla superficie della società, nelle mani di capitalisti individuali o associati, diventando però ben presto un’arma nuova e terribile (eine neue und furchtbare Waffe) nella lotta della concorrenza e trasformandosi infine in un immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali".
Il capitale finanziario favorisce la centralizzazione, nella forma di una nuova e "terribile" arma nella concorrenza: "I capitali più grossi sconfiggono quelli minori" scrive Marx, rendendo la concorrenza e il credito "le due leve più potenti della centralizzazione". La contraddizione non è più solo quella tra il capitale e il lavoro, ma anche quella interna alle fazioni differenti e antagonistiche del capitale stesso. I capitalisti più piccoli soccombono, precipitando nell’inferno del proletariato.
E immani quantità di capitale e di potere connesso si concentrano nelle mani di sempre meno soggetti, generando un contesto sempre più marcatamente oligopolitistico. Peraltro, tali colossi globocratici – veri 'padroni del mondo' – non inverano soltanto la tesi marxiana della "centralizzazione dei capitali" ma, in pari tempo, dimostrano come essa trapassi anche, senza soluzione di continuità, in una conseguente centralizzazione del potere politico: la potenza economica di tali istituti finanziari è tale da mutarsi in forza politica in grado di porsi al di sopra degli Stati e di condizionarli, assai frequentemente rendendoli semplici esecutori della loro voluntas economica, alla stregua di docili e zelanti maggiordomi.
Anche questa è una delle cifre fondamentali della globalizzazione finanziaria: gli Stati sono soggiogati dalla potenza dell’economia finanziaria – il nuovo superiorem non recognoscens –, rispetto alla quale si trovano a svolgere una funzione prettamente ancillare. La tesi marxiana della "centralizzazione" del capitale risulta, ancora una volta, aderente alla realtà fattuale, se si considera che la classe turbocapitalistica dominante, liquida e post-borghese, conta attualmente una decina di milioni di persone in tutto il pianeta. D’altro canto, è noto che il mercato finanziario occidentale risulta signoreggiato da tre colossi americani, che rispondono ai nomi di Black Rock (che gestisce circa 10 trilioni di dollari), Vanguard (che ne amministra circa sette trilioni) e State Street (che ne controlla circa quattro trilioni).
Non si contano, in effetti, le piccole e medie imprese italiane che in questi decenni hanno definitivamente abbassato la serranda, non riuscendo più a sopravvivere nel mondo della competitività planetaria. La legge della competitività capitalistica fa sì che, come usa dire, la moneta cattiva cacci quella buona e, dunque, le eccellenze come Fabriano vengano spazzate via da gruppi e da marchi che riescono a produrre la merce a prezzi più bassi, magari anche sfruttando il lavoro e l'ambiente senza limiti.
Il capitalismo potrebbe con diritto essere inteso come la guerra di tutti contro tutti di hobbesiana memoria, una giungla in cui vince chi riesce a produrre al costo più basso, quelli che siano le conseguenze. Non per caso Hegel parlava di "regno animale dello spirito" in relazione al sistema dei bisogni dell'atomistica concorrenziale: nei cui spazi, appunto, lo spirito smarrisce la sua umanità e si fa ferino, producendo quello che Hegel stesso chiamava lo smarrimento dell'idea etica.
Già questo peraltro basterebbe a mettere criticamente in discussione la sempre decantata globalizzazione, la quale, lungi dall'essere un campo neutro e magari anche encomiabile, rappresenta semplicemente l'humus ideale per il trionfo del dominio capitalistico e delle sue sempre più palesi malefatte su scala globale. Con la fine dell'avventura di Fabriano l'Italia perde un'altra sua eccellenza. Non è la prima e purtroppo temo non sarà neppure l'ultima.
Questo aspetto, oltretutto, giova a mostrare come il conflitto non sia più solo, genericamente, tra capitale e lavoro: la nuova figura dello scontro è quella del capitale contro tutto e tutti, dall’ambiente alla vita umana, secondo una dinamica folle e irrazionale destinata a generare sempre nuove catastrofi di ogni genere.
La si potrebbe idealmente raffigurare, in forma iconica, con La parabola dei ciechi (1568) di Bruegel il Vecchio, l’opera che immortala una colonna di ciechi che segue un altro cieco in direzione dell’abisso: non v’è immagine che meglio descriva la folle marcia nel baratro del nulla a cui la cosmopoli si è consegnata aprendo la via a quel nuovo capitalismo finanziario, che – contraddizione in movimento – sta trascinando nell’abisso la vita umana e del pianeta.
In queste ore, la situazione in Siria risulta più drammatica del previsto: le milizie dell'isis stanno letteralmente mettendo a ferro e fuoco la nazione, come era ampiamente prevedibile. Da più fonti, apprendiamo che la famiglia del presidente Assad sarebbe già fuggita in Russia e lo stesso presidente è stato accolto a Mosca – l’ha ufficializzato il Cremlino – per mettersi al riparo rispetto a quello che ormai appare sotto ogni riguardo un regime change, vuoi anche un colpo di stato gestito dai terroristi jihadisti.
Terroristi che, giova evidenziarlo, non si sa in nome di chi e finanziati da chi agiscano. Qualche sospetto, invero, lo abbiamo. Quel che è certo, al di là di ogni ragionevole dubbio, è che i terroristi colpiscono puntualmente quelle aree, quelle nazioni e quei governi che per un motivo o per un altro sono ostili all'occidente o, meglio, all'uccidente liberal-atlantista.
Governi che quasi sempre, come nel caso della Siria di Assad, sono già da tempo nel mirino dell'uccidente stesso. Per quel che riguarda la Siria, pare quasi superfluo rammentarlo: da più di dieci anni, l'occidente a stelle e strisce le ha giurato inimicizia perpetua, e ciò in ragione del fatto che la Siria risultava – fino a prima del regime change – uno stato sovrano e resistente, vicino alla Russia e alla Cina e sideralmente distante dalla globalizzazione del dollaro e del nichilismo finanziario.
Se anche non possiamo affermare che l'isis sia manovrato da Washington, abbiamo buone ragioni per dire che esso opera puntualmente nella stessa direzione degli interessi di Washington. Che non per caso è attualmente impegnata a condannare il governo di Assad più che il terrorismo dell'isis.
Si tratterà magari di un caso, ma è un caso sicuramente degno di essere riscontrato. D'altro canto, lo sappiamo bene: Washington si oppone formalmente all'estrema destra neonazista ma all'occorrenza non disdegna di supportarla, come nel caso del famigerato e infame battaglione Azov in Ucraina. Che cosa vieta di ipotizzare che una prassi analoga possa avvenire in relazione al terrorismo?
È un'ipotesi, più precisamente un'ipotesi basata sul pacato riscontro del fatto che i nemici dell'isis sono puntualmente gli stessi dell'Occidente a trazione washingtoniana. Quell'occidente che, non dimentichiamolo, nel caso dell'Iraq si inventò addirittura armi di distruzione di massa in realtà inesistenti al solo fine di poter occupare la regione e di poterla portare sotto l'egida neoliberale.
Ricordate, nevvero, Colin Powell che agitava la provetta? Una scena indecorosa, che dovrebbe ormai indurre ogni essere umano dotato del logos a diffidare dei proclami bellicisti di Washington, sempre avvolti dalla retorica umanitaria e democratica. Oltretutto, così leggiamo sul sito di informazione Reuters: "Il governo di transizione guidato dai jihadisti di HTS ha annunciato che il Paese abbandonerà l'economia baathista a controllo statale a favore di un modello di libero mercato per attrarre investimenti".
Dunque, secondo la narrativa occidentale oggi dominante, non soltanto i terroristi dell'isis operanti in Siria sarebbero democratici e arcobaleno (proprio come i nazisti del battaglione Azov, ça va sans dire!), ma anche neoliberali, pronti a portare il paese verso le magnifiche sorti del fanatismo del libero mercato concorrenziale, proprio come piace a Washington.
L'abbiamo già detto e lo ripetiamo: è davvero curioso che i terroristi dell'isis colpiscano pressoché sempre bersagli coincidenti con quelli di Washington e adesso addirittura operino come agenti del capitalismo globalizzato, propiziando la liberalizzazione integrale della Siria e la sua immissione nei circuiti del mercato senza frontiere.
I giornali occidentali in questi giorni stanno dando il peggio di sé, demonizzando a tutta pagina la Siria di Assad e, con movimento simmetrico, celebrando l'operato dei terroristi. Questo ci permette di asserire che la sorte della Siria per il futuro si lascia tragicamente accostare, fin da ora, a quella a cui sono andate incontro rispettivamente la Libia di Gheddafi e l'Iraq di Saddam: Libia e Iraq che, dopo essere stati destabilizzati dall'imperialismo etico e dai missili democratici dell'occidente, rectius dell'uccidente liberal-atlantista, sono successivamente precipitati nell'inferno in cui tuttora si trovano.
Forse non tutti ricorderanno che l'Iraq, dopo essere stato sottratto a Saddam, è stato sottoposto a una cura neoliberale a dosi forzate, mediante una vera e propria liberalizzazione coatta e con un pacchetto di riforme neoliberali da far apparire perfino Reagan e la Thatcher come dei moderati.
Insomma, quod erat demostrandum: questa volta grazie all'intervento diretto dei terroristi, la Siria di Assad, stato resistente alla globalizzazione imperialistica, è stata rovesciata e ora si accinge a entrare nell'inferno del neoliberismo e del nuovo ordine mondiale a trazione atlantista. Non stupisce davvero che gli araldi del pensiero unico politicamente corretto ed eticamente corrotto si spingano fino all'estremo della celebrazione dei terroristi che hanno messo a ferro e fuoco la Siria. Siamo in una situazione che ormai fa apparire lo stesso Orwell come un dilettante.
La situazione francese è complessa e degna di essere commentata. "Cade il governo Barnier, la Francia precipita nel caos". Così leggiamo sui giornali. In terra gallica, si è registrata la mozione di sfiducia della gauche votata anche dal partito di Le Pen.
Dunque è capitato, sia pure tardivamente, quello che avevamo detto a suo tempo, allorché vi furono le elezioni in Francia. L'estrema destra della Le Pen e l'estrema sinistra di Melenchon, se ancora vogliamo utilizzare queste categorie tolemaiche (ormai ampiamente inadeguate) della politica, si sono unite per mettere all'angolo Emmanuel Macron, presidente liberale e atlantista, prodotto in vitro dei Rothschild.
Se si fossero uniti già al tempo delle elezioni, gli avrebbero direttamente impedito di andare al potere, come invece è sciaguratamente accaduto. Sia quel che sia, il fronte contro Macron prende corpo e fa cadere il governo: hoc erat in votis. Il fabula docet, da cui tutta l'Europa avrebbe da imparare, è che oggi il nemico principale è il liberalismo atlantista, semplice copertura politica della plutocrazia finanziaria dominante a base imperialistica.
Per questo motivo, diventa più che mai di fondamentale rilievo compiere la rivoluzione copernicana della politica e abbandonare le categorie tolemaiche di destra e sinistra per approdare alla comprensione dell'unica vera dicotomia oggi vigente, quella tra l’alto della plutocrazia liberista e il basso delle masse popolari oppresse: occorre costituire un fronte unitario per la sovranità nazionale democratica contro i processi di sovranazionalizzazione capitalistica, rivendicando la centralità della sovranità popolare e l'esigenza di un indipendenza dell'Europa tutta dall'imperialismo di Washington al quale ad oggi è in toto sottomessa.
Chi si ostina a ragionare con le categorie tolemaiche di destra e sinistra risulta soltanto uno strumento funzionale alla tenuta dell'ordine dominante, poiché dal conflitto permanente di destra e sinistra esce rafforzato e vincente sempre solo il fronte liberal-atlantista, la grosse Koalition turbocapitalistica.
Occorre propiziare il transito dalla “fase tolemaica” alla “fase copernicana” della filosofia politica: o, per usare ancora un linguaggio caro a Kant, un risveglio dal “sonno dogmatico” e l’approdo a una prospettiva critica, finalmente in grado di orientarsi nel mare procelloso della mondializzazione neoliberale.
All’orizzontalità topografica di destra e sinistra deve essere sostituita la verticalità oppositiva di alto e basso o, più precisamente, il conflitto tra l’oligarchismo liberista dell’alto e il populismo socialista del basso.
Rispetto a questa nuova geografia della politica, destra e sinistra sopravvivono come parti a) di rappresentanza dell’alto contro il basso, b) di distrazione e divisione orizzontale nel basso, c) di programmatico impedimento di una “rivoluzione spaziale” della politica, che mostrando la nuova geografia, renda possibile la ripresa della rotta verso la terra ferma dell’emancipazione universale e del superamento dell’apartheid globale dell’asimmetria capitalistica.
L’aquila neoliberale, con il grand récit elettorale dell’alternanza senza alternativa delle sue due ali destra bluette e sinistra fucsia – che, congiuntamente, formano il finto pluralismo del partito unico del capitale e della sua omogeneità bipolare –, egemonizza lo spazio politico: e, dall’alto, vola rapacemente verso il basso, aggredendo ceti medi e classi lavoratrici, popoli e nazioni.
Nemica dell’alternativa reale, l’alternanza unica tra la sinistra fucsia e la destra bluette si conferma la base di tutti i progressi della dominazione neoliberale. E quello che viene osannato come “pluralismo” non è se non la concorrenza totalmente amministrata dalle coercizioni del mercato.
L’attrice Paola Cortellesi ha affermato che sarebbe opportuno introdurre nelle scuole l'educazione sentimentale obbligatoria. Non è una tesi nuova: circola ormai da tempo e riaffiora periodicamente con cadenza regolare.
Chiaro come il sole è che con l’introduzione dell'educazione sentimentale nelle scuole gli araldi dell’arcobaleno aspirano a indottrinare le giovani teste con il nuovo ordine erotico genderizzato e turbocapitalistico, basato sulla ostracizzazione della famiglia, liquidata come figura indissociabile dal patriarcato, e basato altresì sul consumismo erotico per atomi pansessualisti unisex.
Uno dei punti saldi del nuovo ordine erotico riguarda oltretutto la colpevolizzazione permanente del maschio, ridotto a femminicida in pectore. Non deve sfuggire come la colpevolizzazione apriorica di un'intera categoria, basata sul genere o sul colore della pelle, sia sempre una forma inaccettabile di razzismo.
Oltretutto serve alla narrazione neoliberale per orizzontalizzare il conflitto, spostando la lotta di classe verticale in basso e ridisponendola come lotta all'interno della medesima classe tra maschi e femmine. Bisogna avere oggi l'onestà di ribadire l'ovvio (anche l'ovvio vuole la sua parte): il conflitto è tra sfruttati e sfruttatori, maschi o femmine che siano.
Nel nuovo ordine dell’accumulazione flessibile del capitalismo assoluto post-1989, si compie appieno e senza residui quel processo, già embrionalmente delienato dal Fromm dell’Art of Loving (1956), di indebolimento mercatistico dell’amore, culminante nella "sua disintegrazione nella società occidentale contemporanea. Il mondo della vita e, con esso, quella sua parte integrante che è la dimensione dell’amare, sono sussunti sotto il capitale flessibile e sotto il suo regime della sconfinata liberalizzazione dei consumi e dei costumi". Quest’ultimo li ridefinisce, li rimodella e li ricompone sul fondamento della logica stessa dell’onnimercificazione, trasformandoli in sue funzioni variabili.
L’amore viene, così, ridisponendosi nella forma di una merce tra le merci, anch’esso consumabile e liberamente circolante, prodotto su misura per consumatori unisex che, senza limitazioni se non di ordine economico, possono fruirne in forme liberalizzate. Da vincolo solidale e antiutilitaristico, gratuito e relazionale, donativo ed etico, l’amore decade a merce di libero consumo per individui solidali e dal nesso intersoggettivo interrotto.
L’amore mercificato decade, in tal guisa, al rango di godimento istantaneo e senza differimenti, consumato nello spazio effimero dell’hic et nunc e sempre da capo ricercato nell’ambito della libera circolazione concorrenziale.
E il discorso del capitalista, per parte sua, non fa che saturare lo spazio mediatico spronandoci a consumare il maggior numero possibile di queste nuove merci specifiche che sono i sentimenti e le passioni, i piaceri e le relazioni: i ritmi della produzione, della circolazione e del consumo debbono, anche in questa sfera così particolare, mantenersi a livelli ragguardevoli, senza mai rallentare e, ove possibile, velocizzandosi in misura sempre crescente negli spazi deregolamentati dell’open society planetarizzata.
Come si è cercato di chiarire in Minima mercatalia (2012), la logica dialettica di sviluppo del modo capitalistico della produzione consiste in un graduale abbattimento di ogni limite, di ogni barriera, di ogni confine in grado di frenare e disciplinare l’estensione multilaterale reale e simbolica della forma merce: la quale deve potersi affermare in forma absoluta, ossia a) “compiuta” pienamente perché b) “sciolta da” ogni limite superstite, sia esso di ordine materiale o immateriale, etico o religioso, geografico o morale.
Se questa è, nella sua logica essenziale qui impressionisticamente richiamata, la dinamica dialettica di sviluppo del modo capitalistico della produzione, ne scaturisce more geometrico una conseguenza decisiva: esso, nella sua avanzata, deve di necessità mettere in congedo la sfera dell’amore, tanto nella sua immediatezza di sentimento relazionale puramente donativo, quanto in quella eticizzata nella forma della famiglia come sintesi realizzata dell’eros. L’amore relazionale e impermeabile alla grigia geometria del do ut des deve essere spodestato dal godimento individuale mercificato, deregolamentato e senza limitazioni di alcun tipo.
Più precisamente, il nuovo ordine mondiale classista e reificato deve, a propria immagine e somiglianza, instaurare un parallelo ordine amoroso planetarizzato. Se la cifra del globalismo del mercato è la distruzione di ogni istanza etico-comunitaria (ossia il movimento che proponiamo di qualificare come “deeticizzazione”), di modo che il pianeta intero si riconfiguri come l’open space per la libera circolazione delle merci e dei consumatori, la stessa logica deve valere nella sfera dell’eros: che da legame solidale, comunitario, donativo e irriducibile alla logica mercantile dello scambio, viene ridisponendosi nella nuova forma di un consumismo amoroso neolibertino e post-familiare.
Esso considera e tratta l’amore stesso come merce tra le merci, come relazione individualistica orientata a quella specifica forma del plusvalore che, in ambito erotico, è il plusgodimento. Si scrive educazione sentimentale, si legge barbarie in tinta arcobaleno. Love is love è la variante erotica del più noto business is business.
Con il crollo della struttura diarchica dell’universo, si è aperta una nuova fase di conflitti, tutti diversi e, insieme, interni alla nuova “quarta guerra mondiale” (Costanzo Preve) avviatasi nel 1989. Essa, successiva alla terza (la “Guerra fredda”), è di ordine geopolitico e culturale ed è condotta dalla civiltà del dollaro contro the rest of the world, contro tutti i popoli e le nazioni che non siano disposti a sottomettersi al suo dominio, forma politica della conquista del mondo da parte della forma merce.
L’atto genetico della presente quarta guerra mondiale deve essere rintracciato nell’implosione della forza politica che, per quasi cinquant’anni, aveva reso possibile il congelamento dei conflitti, pur con l’eccezione di alcuni rilevanti punti “caldi” (dalla Corea al Vietnam).
Dissoltasi la potenza katechontica comunista, la scena mondiale si è contraddistinta per la riesplosione virulenta dei conflitti imperialistici. Sconfitta l’Unione Sovietica, la monarchia universale aspira alla conquista del mondo intero: e questo secondo la stessa logica della reductio ad unum del globalitarismo, di cui la potenza americana rappresenta la variante politica.
È, con il vocabolario di Schmitt, il tempo della “guerra dell’inimicizia assoluta”, che “non conosce alcuna limitazione”, ma poi anche del Raumordnungskrieg, la “guerra per un nuovo ordinamento spaziale” a livello globale.
La quarta guerra mondiale ha per scopo il mantenimento di un mondo monopolare (la global governance), la distruzione manu militari delle forze che ancora gli resistono, la prevenzione dell’emergenza di concorrenti asiatici o europei, la svalutazione del diritto internazionale e la mondializzazione senza frontiere dell’economia deterritorializzata e spoliticizzata.
Come suggerito da Daniel Bensaïd in Elogio della politica profana, nulla più del discorso del presidente Bush del 20 settembre 2001, all’indomani della tragedia delle Twin Towers, permette di comprendere l’essenza della quarta guerra mondiale.
Giacché i “terroristi” – cioè quanti non sono disposti a riconoscere la sovranità imperiale americana – “odiano le nostre libertà”, utilizzeremo – spiegava Bush – “tutte le risorse a nostra disposizione” per sconfiggerli. Ne scaturirà – sono ancora parole del presidente americano – “una lunga campagna senza precedenti”, condotta con “operazioni segrete, segrete fino al loro successo” e con mezzi inconfessabili. Il carattere mondiale di questa nuova guerra annunciata nel 2001 – ma già in atto fin dal 1991 – è ammesso dallo stesso Bush: “questa è una guerra mondiale. Questa è una guerra di civiltà” (this is the world’s fight. This is civilization’s fight). […] O siete con noi o siete con i terroristi”.
Da questi passi emerge come, dopo il pericolo rosso ormai sconfitto, il terrorista sia divenuto il nuovo nemico assoluto della quarta guerra mondiale, il nuovo male radicale da estirpare con ogni mezzo. In tal maniera, si tracciano, con la grammatica di Schmitt, “nuove linee d’amicizia, al di là delle quali cadono bombe atomiche e bombe all’idrogeno”. Si inaugura, così, la corsa alla guerra giusta planetaria, versione contemporanea della crociata; e questo in uno scenario in cui amici sono quanti accettano il dominio unipolare del mondo, nemici quanti gli resistono.
Per questa via, dopo l’11 settembre 2001, è normalizzata l’eccezione e, con essa, la crociata del Bene contro il Male, con tanto di riabilitazione della tortura come mezzo legittimo e di delocalizzazione delle prigioni clandestine (in tal maniera sottratte a ogni giurisdizione). Come suggerito da Agamben, azioni che, di per sé, non presentano il valore di legge, ne guadagnano la forza.
Definito lo scontro come civilization’s fight e il nemico come the terrorist, non vi è pace né negoziazione possibile. Con il terrorista non si tratta, né si scende a patti, quand’anche venga sconfitto; semplicemente lo si disintegra, non importa con quale mezzo, ma sempre in nome dell’ideologia umanitaria e della lotta contro il Male.
È, così, fondata quell’inimicizia assoluta che, come sapeva Schmitt, “attraverso il terrore e le misure antiterroristiche cresce continuamente fino alla volontà di annientamento”. Per questo, già a partire dal 1989, la sovranità imperiale mondializzata impone uno stato d’eccezione permanente. Se, con la Teologia politica di Schmitt, sovrano è colui che decide sullo Stato d’eccezione, nessuno è oggi più sovrano del Presidente statunitense.
Ebenne, la guerra d’Ucraina deve essere intesa in questo contesto: non è la guerra della Russia contro l’Ucraina, come ripete l’ordine discorsivo manipolato, ma è il conflitto che l’America e l’occidente, anzi l’uccidente liberal-atlantista, conducono contro la Russia, nel tentativo di “normalizzare” e colonizzare una potenza non ancora piegata al nuovo ordine mondiale a stelle e strisce.
Ratzinger incarnava il vecchio cristianesimo, di cui la civiltà dei consumi non aveva più alcun bisogno, mentre Bergoglio rappresentava quello nuovo, teologicamente corretto, di fatto indistinguibile dalla Weltanschauung consumista e permissiva propria della società dei mercati.
Detto altrimenti, Ratzinger rappresentava l’estrema sopravvivenza del cristianesimo in un mondo che già aveva preteso di liquidarlo inappellabilmente, mentre Bergoglio incarnava il nuovo spirito di una Chiesa post-cristiana, neo-progressista e indistinguibile da una delle tante "agenzie" del mundus e per il mundus.
Ratzinger provava a frenare e a contrastare quella potenza che, per converso, era favorita e propiziata da Bergoglio e dal suo teologizzare col martello. Variando la formula di Nietzsche, Bergoglio fa davvero teologia col martello, dacché decostruisce uno dopo l’altro i cardini della tradizione, i capisaldi del pensiero teologico occidentale e il depositum fidei del cristianesimo.
La sua è, au fond, una "non-teologia" o, se si preferisce, un’"anti-teologia" che, di fatto, "svuota" la teologia nel nome della presunta esigenza di "aggiornarla" e di renderla all’altezza della contemporaneità. Con l’astratto obiettivo dichiarato di una "difesa" della teologia, "papa" Bergoglio produce concretamente la sua decostruzione.
E, per questa via, favorendo l’evaporazione del cristianesimo che pure vorrebbe idealmente contrastare, ottiene il medesimo risultato a cui portano le tendenze sdivinizzanti della civiltà merciforme del nichilismo, vale a dire la liquidazione di ogni teologia e, più in generale, di ogni apertura alla trascendenza, a beneficio della fede nella "certezza sensibile" e nella scienza come unica forma di fede consentita.
Senza esagerazioni, l’umanitarismo deteologizzato e per "anime belle" di Bergoglio finiva per porsi sempre più palesemente come una semplice variante di quella Sinistra fucsia e arcobalenica del Costume che, nel quadro dei reali rapporti di forza, svolgeva stabilmente, ormai da tempo, il ruolo di fedele guardia ideologica della Destra finanziaria e globalista del Danaro.
Tutti i desiderata di quest’ultima, volti a garantirne il dominio su scala cosmopolitica, finivano, infatti, per essere legittimati sul piano culturale, politico e ora anche religioso dal fronte unito dell’arcobaleno, del quale, dal 2013, anche la neo-chiesa era parte integrante.
La sinistra fucsia e neoliberista, precipitato inglorioso dell’evaporazione del comunismo storico novecentesco, finiva così per fondersi – quanto a contenuti e a ruolo “ancillare” rispetto all’ordine mercatista – con il nuovo cristianesimo postmoderno e deteologizzato di papa Bergoglio, esito ultimo dell’evaporazione del cristianesimo e della sua riduzione a discorso di accompagnamento per la globalizzazione infelice.
Kamala Harris celebra tanto il libero mercato quanto le derive transumaniste e arcobaleno, Trump difende il primo e critica le seconde: ma si tratta comunque di una posizione contraddittoria, se si considera che le derive di cui si diceva sono il frutto del fanatismo del libero mercato, cosicché celebrare libero mercato criticando le derive arcobaleno equivale a combattere gli effetti dei quali si celebrano e si coltivano le cause.
Mi pare questa, in sintesi, la contraddizione in cui resta incagliato il modus operandi di Trump. Il blocco oligarchico neoliberale puntava principalmente sulla Harris, questo è innegabile: ma troverà comunque un modo di scendere a patti anche con Trump, il quale, lo ripetiamo, non è un antagonista dell'ordine egemonico ma ne è soltanto una anomalia.
Nel 2017, ad esempio, il codino biondo deregolamnetò la finanza, facendo un immenso dono ai padroni di Wall Street, anzi di War Street. Per questo motivo, l'abbiamo detto più volte, dobbiamo guardare con speranza ai paesi disallineati rispetto al nuovo ordine mondiale, ben sapendo che la salvezza non arriverà in ogni caso da Washington, con Trump o con Harris.
La speranza è oggi quella della genesi e del potenziamento di un mondo poliarchico, in cui finalmente al monopolarismo della civiltà dell’hamburger si contrappongano uno o più poli alternativi, in grado di ripristinare un equilibrio com’era, mutatis mutandis, prima del 1989. Questo e non altro è da sperare nell’esplosivo contesto in cui siamo oggi proiettati.
La miseria della politica odierna italiana rispecchia in maniera perfetta e aderente la miseria della politica in tutto l’Occidente o, meglio, l'uccidente liberal-atlantista, come ormai sarebbe più opportuno appellarlo. Secondo quanto abbiamo provato a mostrare nel nostro studio "Demofobia", stiamo vivendo ormai da diversi lustri nel tempo dell'alternanza senza alternativa, in cui la destra neoliberale e la sinistra neoliberale si alternano al governo garantendo in tal guisa la tenuta dello stesso ordine liberale dominante.
Quest'ultimo appare sempre più simile a un'aquila con doppia apertura alare: con le sue ali destra e sinistra, detta aquila vola alta nei cieli della globalizzazione turbocapitalistica, per poi scendere in picchiata rapinosamente sui popoli, sulle classi lavoratrici e sulle nazioni, secondo quella lotta di classe univocamente condotta dall'alto che caratterizza il desertico paesaggio della globalizzazione neo-liberale. Dobbiamo immaginare, in effetti, la destra e la sinistra in quanto espressioni del medesimo ordine neoliberale come due zelanti maggiordomi, differenti unicamente per il colore della livrea indossata.
In questa fiction che farebbe ridere se solo non facesse piangere, il maggiordomo di destra con la livrea bluette e il maggiordomo di sinistra con la livrea fucsia si sfidano tra loro per conquistare il posto al servizio del padronato cosmopolitico o patriziato sans frontières che dir si voglia. Per questo motivo, destra bluette e sinistra fucsia non si distinguono per le idee e per i programmi, che anzi tendono sempre più a coincidere sotto il segno del liberalismo politico, del liberismo economico, del nichilismo arcobalenico culturale, dell'imperialismo atlantista.
Fanno anzi a gara a chi rappresenta meglio queste istanze e, dunque, può piacere di più ai padroni del mondo. Si dice sempre, e non senza buone ragioni, che presso i totalitarismi novecenteschi vigeva il Partito Unico, dacché tutte le altre forze politiche erano poste fuori legge. Nel quadro del nuovo ordine mondiale liberal-atlantista, la situazione è solo apparentemente diversa: abbiamo certo una pluralità caleidoscopica di partiti, ma tutti risultano varianti del medesimo messaggio liberale e atlantista, cosicché il sempre celebrato pluralismo si risolve in un finto pluralismo, in cui i plurali sono tutti espressione del medesimo.
E, in tal guisa, non esistono realmente partiti plurali, ma un Partito Unico fintamente articolato del capitale, secondo la figura che il mio maestro Costanzo Preve chiamava della omogeneità bipolare o, ancora, secondo la figura che Domenico Losurdo appellava del monopartitismo competitivo neo-liberale.
La stessa struttura di comando dell'ordine neoliberale risulta sempre più simile a una oligarchia finanziaria plebiscitaria: nei consessi privati, la classe dominante decide le proprie traiettorie e le proprie strategie, che poi impone sovranamente ai maggiordomi politici operanti nei parlamenti nazionali. Per parte sua, il popolo si illude di vivere in democrazia perché gli viene concesso di scegliere, con le elezioni, quali maggiordomi mandare a prendere gli ordini in parlamento dalla classe capitalistica transnazionale. Insomma, la democrazia risulta oggi un guscio vuoto, un semplice nome che copre e legittima una struttura intimamente non democratica, de facto coincidente con l'autogoverno della plutocrazia neoliberale e dei mercati.
Talvolta ci imbattiamo anche in qualche buona notizia e la trasmettiamo magno cum gaudio. Nel deserto in cui nostro malgrado ci troviamo, qualche buona notizia di tanto in tanto può giovare a risollevare il morale e a segnalare che non tutto è perduto.
Qual è la notizia alla quale sto facendo riferimento? Il governo italiano finalmente ha fatto una cosa buona, dopo tante malefatte riguardanti sia la politica estera, con la subalternità integrale a Washington, sia le politiche interne, con l'adesione cadaverica ai diktat dei mercati cosmopoliti.
In questi mesi, non abbiamo certo risparmiato l'operato del governo della Destra bluettet neo liberale e atlantista capitanato da Giorgia Meloni: un governo che, va sottolineato, ha rinnegato bellamente tutte le proprie promesse e le proprie premesse, diventando de facto una stampella dell'ordine capitalistico e imperialistico sotto ogni riguardo.
Non ci si potrà dunque accusare di essere filo-governativi se celebriamo, dopo tante critiche, una cosa buona fatta da questo criticabilissimo governo. L'Italia infatti ha nei giorni scorsi posto fuorilegge la maternità surrogata, formula orwelliana per dire l'utero in affitto. Preferiamo In effetti la formula utero in affitto perché, a nostro giudizio, rende meglio conto de re ipsa.
Utero in affitto che adesso diventa reato universale: non soltanto non lo si potrà praticare in Italia, come evidente, ma i cittadini italiani non potranno avvalersene neppure all'estero. Questo significa appunto reato universale in riferimento all'utero in affitto. Si tratta di una scelta di civiltà fondamentale, che pone un pur piccolo argine al processo di mercificazione integrale della vita che è coessenziale al ritmo della globalizzazione turbocapitalistica.
Quest'ultima come sappiamo si fonda non accidentalmente ma essenzialmente sulla mercificazione integrale del reale e del simbolico, senza neppure risparmiare la stessa vita umana, sempre più palesemente ridefinita come miniera da cui estrarre pluslavoro e plusvalore. Come ho cercato di chiarire nel mio studio "Il nuovo ordine erotico. Elogio dell'amore e della famiglia", l'utero in affitto rappresenta il non plus ultra della barbarie tecnocapitalistica per più ragioni, che desidero ora celermente ripercorrere, sia pure senza alcuna pretesa di esaustività.
Anzitutto l'utero in affitto costituisce una pratica barbara perché trasforma il ventre della donna in un magazzino aziendale mercificato e disponibile, appunto in una miniera da cui estrarre plusvalore, riducendo la vita stessa della donna a merce sfruttabile. In secondo luogo, l'utero in affitto rappresenta una pratica quintessenzialmente barbara poiché costituisce l'apice dei processi di "sostituzione tecnica", in forza dei quali la vita stessa diventa variabile dipendente della Tecnica.
Walter Benjamin potrebbe aggiornare il suo testo e titolarlo altrimenti, "L'essere umano nel tempo della sua riproducibilità tecnica". Oggi in effetti si fa un gran parlare di sostituzione etnica ma sarebbe decisamente più opportuno principiare a occuparsi della sostituzione tecnica in atto, grazie anche ai processi incontrollati e forse incontrollabili dell'intelligenza artificiale.
Oltre a ciò, l'alienazione connessa ai processi legati all'utero in affitto si inferisce dalla esiziale riduzione del nascituro a merce on demand, liberamente selezionabile dal buon consumatore a seconda dei propri gusti e dei propri capricci individuali. Con anche possibili esiziali derive eugenetiche, tali per cui il buon consumatore potrà scegliere à la carte il bambino merce che desidera avere. Infine, la maternità surrogata risulta una pratica oscena dacché fa valere in forma parossistica l'inganno della libertà liberale: inganno in forza del quale, nel caso specifico, nessuna donna sarà costretta a mettere in affitto il proprio utero, ma saranno le condizioni economiche stesse delle donne a imporre loro di farlo nel caso in cui appartengano ai ceti più deboli.
Insomma dietro la libertà liberale si nasconde sempre la nuova servitù economica propria del capitalismo planetarizzato. Quel che stupisce, in questa vicenda, riguarda il contegno della sinistra, anzi della sinistrash, come ormai da tempo la qualifico per distinguerla dalla nobile sinistra rossa della falce e del martello: in effetti, la battaglia contro l'utero in affitto dovrebbe essere una battaglia tipicamente di sinistra e invece oggi la sinistra neo-liberale e padronale difende senza tregua l'utero in affitto.
A tal punto che, quando il governo ha annunciato la nuova legge, gli araldi arcobalenici della sinistrash arcobaleno sono pietosamente insorti: non solo non si battono contro l'utero in affitto, ma addirittura lo difendono a spada tratta, come se la mercificazione e lo sfruttamento rappresentassero l'apice del progresso.
Se di progresso vogliamo parlare, ebbene esso riguarda soltanto il capitalismo e le sue classi di riferimento. Non ce ne stupiamo nemmeno poi troppo: le sinistre rosse un tempo sfilavano al fianco dei lavoratori e si battevano per i loro diritti; oggi le sinistre fucsia ballano sulle note di Maracaibo sui carri dei pride tra parrucche fucsia e uomini camuffati da donne. La metamorfosi kafkiana può dirsi compiuta: la sinistra, che un tempo fu la soluzione, oggi diventa parte integrante del problema.
E sovvengono, a questo proposito, i sonetti di Shakespeare, nei quali si dice che più delle erbacce puzzano i gigli marciti. Con una sinistra così, davvero, la destra stessa tende ogni giorno di più ad apparire superflua e addirittura meno importante per il dominio capitalistico del reale e della vita quale si sta sempre più universalmente estrinsecando nel mondo sussunto sotto la forma merce.
Il fatto che l'utero in affitto, almeno in Italia, sia stato dichiarato reato universale segnala un piccolo spazio di speranza. Forse non tutto è perduto, forse vi sono ancora le possibilità reali per invertire marcia e prospettare un mondo meno disumano rispetto a quello che stiamo vivendo grazie al dominio tecnocapitalistico del reale e del simbolico. Quel che è certo è che, se si invertirà la rotta, ciò dipenderà unicamente da noi e dalla nostra capacità corale di resistere alla barbarie che avanza e che, se non contrastata, risulta davvero destinata a impadronirsi dell'intera vita umana, in uno scenario forse non distante da quello ipotizzato nel 1999 dalla pellicola Matrix.
L'intelligenza artificiale è indubbiamente divenuto uno dei temi dominanti del dibattito presente: non solo nella cerchia ristretta degli specialisti e, come usa dire, degli "addetti ai lavori", ma anche presso il grande pubblico; tant'è che ormai se ne parla incessantemente pressoché ovunque, per radio e sui giornali, in tv e sulle reti sociali dell'internet.
In particolare, come spesso accade, il dibattito si è rapidamente disposto nella forma di una "tifoseria" che vede contrapposti i tecnofili dell'elogio acritico dell'intelligenza artificiale come necessario sviluppo progressista ai tecnofobi o nuovi luddisti digitali, che con atteggiamento opposto ma egualmente dogmatico demonizzano l'intelligenza artificiale come prodotto diabolico che porterà alla fine dell'umanità.
È a giusta distanza tra questi due eccessi egualmente unilaterali che deve orientarsi il pensiero critico anche intorno al tema dell'intelligenza artificiale. Che vi siano possibili sviluppi in senso progressivo, appare innegabile, anche solo considerando le possibilità dischiuse dall'intelligenza artificiale ad esempio nell'ambito medico.
Come del resto risulta innegabile la presenza di ombre e aspetti tutt'altro che entusiasmanti, che chiedono di essere messi criticamente in luce. Per farlo, bisognerebbe soffermarsi non tanto sull'aggettivo "artificiale", quanto sul sostantivo "intelligenza" disinvoltamente applicato alla sfera dell'inanimato.
Che genere di intelligenza sarebbe mai l'intelligenza artificiale, se essa, a rigore, non dispone delle prerogative proprie dell’intelligenza stricto sensu? L'intelligenza è anzitutto l'autocoscienza ossia la consapevolezza di sé e del mondo circostante come ricondotto a quell'Io penso che, diceva Kant, deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni.
L'intelligenza come autocoscienza e anche poi la capacità di porre domande fondamentali sul senso dell'essere e di Dio, dell’anima e del destino oltre la morte: tutte domande che evidentemente evidentemente l'intelligenza artificiale non pone proprio in quanto mancante della coscienza; né d'altro canto l'intelligenza artificiale pone il problema relativo ai limiti e i rischi dell'intelligenza artificiale, che è appunto un problema che poniamo noi umani.
Al netto degli aspetti progressisti ed emancipativi che indubbiamente esistono, non bisogna neppure trascurare l'impatto negativo che l'intelligenza artificiale già sta avendo sul mondo della vita umana: ad esempio nel mondo del lavoro, ove il Fondo monetario Internazionale ci garantisce che nei prossimi anni centinaia di migliaia di posti di lavoro andranno letteralmente bruciati.
Ma poi anche nel mondo del nostro rapporto con le macchine, poiché sempre più prende forma una distopia realizzata sul modello di Matrix del 1999, ove le macchine prendono il sopravvento sugli umani riducendoli a loro utili servitori. Si tratta oltretutto di temi su cui la migliore filosofia del Novecento, da Martin Heidegger a Emanuele Severino, passando per Adorno e Marcuse, ampiamente riflettuto in termini generali, anche se non propriamente in relazione all'intelligenza artificiale come specificità contemporanea.
Insomma, possiamo dire con Anders che grazie all'intelligenza artificiale l'uomo può definitivamente dirsi antiquato rispetto ai suoi stessi prodotti? Si è realmente prodotto un dislivello prometeico in grazia del quale le macchine sono infinitamente più evolute rispetto agli uomini, che sempre più dovranno emularle e ibridarsi con esse?
Sono domande ineludibili, domande che solo l'intelligenza umana può porre grazie al principio della coscienza e dell'autocoscienza. Lo Uebermensch di cui scriveva con timbro sulfureo Friedrich Nietzsche non è più oggi il superuomo eversivo di destra e non è nemmeno più l'oltreuomo postborghese di sinistra.
È invece il trans-uomo ad alta tecnicizzazione, sempre più ibridato con la macchina e sempre più soggiogato al potere di quest'ultima. Possiamo allora asserire, senza tema di smentita, che la vera sfida in relazione all'intelligenza artificiale riguarda oggi anzitutto il pensiero e la capacità di confrontarsi criticamente con i nuovi portati di una tecnica sempre più autonomizzata e indipendente rispetto a noi, sempre più indistruttibile dall'apparato tecno capitalistico che solo mira alla crescita illimitata del profitto e della potenza fini a sé stessi.
(Foto di Alexandra_Koch da Pixabay)
Il giorno delle elezioni presidenziali statunitensi si avvicina sempre più. E allora può essere utile svolgere qualche considerazione critica intorno a questo evento tanto atteso, da cui molti ritengono dipendano le sorti del pianeta. La tesi che intendo esprimere è la seguente: che vinca Donald Trump o che vinca Kamala Harris, a vincere è comunque il blocco oligarchico neoliberale e imperialista ad oggi dominante.
Ritengo palesemente mendace e, di più, assurda la narrazione pur largamente diffusa secondo cui bisognerebbe sperare in Donald Trump. Di più, ritengo proditoria e infantile la narrazione stessa secondo cui dobbiamo aspettarci qualche possibile cambiamento radicale proveniente dalla civiltà del dollaro.
Parafrasando il mio compianto maestro Costanzo Preve, la Trump-mania di numerosi sedicenti antisistema è una sorta di wishful thinking, ossia una forma di subordinazione e di interiorizzazione della collocazione - fintamente dissidente - nell’impero americano. Come a dire: vorremmo un imperatore buono e non cattivo, vorremmo Traiano (Trump) e non Nerone (Harris). La Trump-mania non è una riflessione dialettica sui nessi tra l’Europa e la civiltà a stelle e strisce, cioè tra la colonia e l'impero.
È, invece, semplicemente la forma di interiorizzazione della subalternità: la forma di chi, appunto, preferisce un imperatore buono, senza mai mettere in discussione il proprio ruolo di suddito dell'impero. Anche per questo, come dicevo, non nutro alcuna speranza di cambiamento dalle elezioni americane prossime vetture.
Oltretutto, che Donald Trump non rappresenti realmente una possibile alternativa all'ordine vigente mi pare lampante per più ragioni difficilmente confutabili. Anzitutto, sul piano strettamente economico, non dimentichiamo che Donald Trump nel 2017 ha deregolamentato la finanza. E con ciò ha fatto l'ennesimo dono al comparto di Wall Street, o anzi War Street, come ormai sarebbe più opportuno appellarla.
La deregolamentazione della finanza ha prodotto il disastro del 2007 e il fatto che anche Trump continui a seguire la via della deregolamentazione ci segnala in modo adamantino non soltanto che nuovi disastri finanziari ci attendono all'orizzonte ma anche che lo stesso Trump è del tutto interno al paradigma che pure dice a parole di voler contrastare.
Come non mi stanco di sottolineare, con i suoi modi guasconi e con le sue uscite temerarie, Donald Trump risulta semplicemente una anomalia del sistema neoliberale, del quale è comunque parte integrante. Sul piano geopolitico, poi, non dimentichiamo che Donald Trump è schierato totalmente dalla parte di Israele, in misura non inferiore alla sua rivale Kamala Harris.
Addirittura, nei giorni scorsi ha sostenuto la necessità per Israele di colpire i siti nucleari dell'Iran. Nulla da aggiungere, dunque. Per non parlare poi del radicato odio di Trump verso la Cina, un odio su cui recentemente anche il nuovo segretario della NATO, Rutte, gli ha dato sostanzialmente ragione.
Come sappiamo, il vero nemico di Washington, soprattutto per l'avvenire, sarà la Cina, e non è da escludersi che la civiltà dell'hamburger utilizzi Taiwan contro la Cina come già ha utilizzato e sta utilizzando l'Ucraina contro la Russia. Insomma, per nutrire speranze in Donald Trump bisogna essere stolti o in cattiva fede, o tutte e due le cose insieme. Con questo, si va di bene, non intendo certo prestare il mio supporto a Kamala Harris. Vorrei anzi dire che peggio di Donald Trump vi è solo lei.
Del resto, Kamala Harris non è altro se non un Joe Biden al femminile: visione ultra liberista sul piano economico, prospettiva iper-imperialistica sul versante delle relazioni internazionali, e, dulcis in fundo, difesa a oltranza del capitalismo woke dell'arcobaleno funzionale alla deregolamentazione integrale dell'immaginario. Insomma, nemmeno da Kamala Harris possiamo attenderci qualche cambiamento.
Se ella dovesse vincere, allora avremmo semplicemente la continuazione delle sciagurate politiche già poste in essere da Biden. Insomma, di una cosa possiamo essere certi: la salvezza, se mai vi sarà, non arriverà senz'altro da Washington. Potremmo anzi dire che l'imperativo oggi è più che mai quello di salvarsi da Washington.
Sempre più sta prendendo forma una vera e propria guerra mondiale, che si sta sviluppando su due fronti: quello ucraino e quello mediorientale. Si tratta di due scontri diversi, chiaramente, ma che debbono essere a nostro giudizio intesi come parti differenziate di un medesimo conflitto: il che emerge limpidamente se si considera che, sui due fronti, troviamo contrapposte le stesse forze, cioè da un lato l'occidente o, meglio, l'uccidente liberal-atlantista, e, dall'altro, la Russia, la Cina e quelli che potremmo genericamente definire i paesi disallineati alla globalizzazione americano-centrica e turbocapitalistica.
A rigore, questo conflitto mondiale non è cominciato adesso, ma già nel lontano 1989, quando terminò la guerra fredda, che potremmo altresì intendere come la terza guerra mondiale, e principiò la nuova guerra mondiale, la quarta. Quest'ultima potrebbe essere ragionevolmente intesa come la guerra planetaria che la civiltà del dollaro ha scatenato contro tutte le forze che, per una ragione o per un'altra, non si sono ancora piegate alla sua libido dominandi e al processo stesso di americanizzazione del globo.
Così debbono dunque essere intesi scontri come quello della Serbia del 1999 o dell'Iraq, fino alla Libia di Gheddafi: scontri diversi tra loro, certo, ma che si lasciano agevolmente ricondurre a questo paradigma ermeneutico, secondo cui la civiltà del dollaro ha preso di mira Stati che, in un modo o nell'altro, non erano ancora genuflessi all'ordine liberal-atlantista di matrice americana.
Quello che è accaduto in Ucraina nel 2022 e che sta ora accadendo a Gaza e dintorni deve essere letto in questa cornice di senso: il processo di americanizzazione del mondo è giunto ora direttamente allo scontro con una potenza mondiale come la Russia e non è difficile immaginare che, nei prossimi anni, il nuovo obiettivo di Washington sarà la Cina, anch'essa una potenza sovrana e peraltro ormai tale da primeggiare sullo scenario mondiale.
Come non mi stanco di ripetere, non è in atto una guerra della Russia contro l'Ucraina, come vanno ripetendo con l'usuale zelo gli araldi del pensiero unico politicamente e geopoliticamente corretto. Si tratta, invece, della guerra che la civiltà dell'hamburger sta conducendo contro la Russia, colpevole di non genuflettersi al nuovo ordine mondiale americanocentrico. L'Ucraina del guitto Zelensky, attore Nato, prodotto in vitro di Washington se non di Hollywood, figura soltanto come instrumentum belli manovrato da Washington contro Putin.
Per quel che riguarda il Medio Oriente, le politiche imperialistiche e genocidarie di Netanyahu debbono essere esse stesse lette secondo questa chiave interpretativa, ossia come orientate a normalizzare in senso occidentale e capitalistico l'intera area. La vecchia categoria leniniana di imperialismo, lungi dall'essere un inservibile ferro vecchio, ci permette di comprendere piuttosto bene quel che sta accadendo sia contro la Russia di Putin, sia contro i paesi detti mediorientali che non si piegano al nuovo ordine mondiale, l'Iran in primis.
Dovrebbe essere ormai chiaro come il sole che il vero obiettivo di Israele risulta soprattutto l'Iran, che già da tempo Washington ha connotato come "Stato canaglia", espressione orwelliana che serve di fatto a definire tutti gli stati resistenti all'imperialismo a stelle e strisce. Surreale e irresponsabile risulta naturalmente l'atteggiamento della cosiddetta comunità internazionale, l'ennesimo nome ipocrita con cui l'uccidente qualifica se stesso.
Detta comunità internazionale, sempre pronta a denunciare soprusi e dittature quando si tratta di realtà non occidentali, tace vergognosamente sull'operato di Netanyahu. Israele sta utilizzando soprattutto due argomenti puramente ideologici per giustificare l'ingiustificabile, ossia il proprio operato imperialistico e genocidario: Israele dice infatti di esercitare il proprio sacrosanto diritto di difendersi, quando in realtà sta aggredendo Stati sovrani come l'Iran e come il Libano.
Ancora, Israele dice che sta lottando contro il terrorismo, quando in realtà sta ponendo in essere politiche che sono esse stesse palesemente terroristiche, nella misura in cui vanno a colpire obiettivi civili e procurano morti su morti. Si vorrà forse riconoscere che le donne, gli anziani e i bambini uccisi da Netanyahu sono tutti indistintamente terroristi degni di fare quella fine? Insomma, non sta giungendo una nuova guerra mondiale: essa è cominciata fin dal 1989 e adesso sta entrando nella fase più acuta.
(Credit foto: hosny salah da Pixabay)