Torna l'appuntamento con la rubrica settimanale "La Strada delle Vittime", nella quale si affronta l'analisi della casistica criminale con approccio vittimologico.
Laureato in sport e nutrizionismo all’ Università di Innsbruck, ossessionato per la cura del suo corpo che mostrava sui social e su tutorial di You Tube, negli ultimi anni aveva sviluppato una vera e propria dipendenza da anabolizzanti che l’avevano spinto ad iniziare una terapia di disintossicazione.
Aveva cercato aiuto e supporto dai genitori che l’avevano accolto in casa.
Lui, si chiama Benno Neumair, 30 anni è il figlio della coppia scomparsa dalla propria abitazione di Bolzano il 4 Gennaio.
Era stato proprio il figlio di Laura Perselli 63 anni e Peter Numair 68 anni, a presentare denuncia di scomparsa dei genitori, recandosi con la zia presso la caserma dei Carabinieri del luogo.
Le cronache nazionali e locali, nel dare la notizia della scomparsa dei coniugi, entrambi insegnanti in pensione, avevano descritto la coppia come affiatatissima, senza particolari problemi, appassionata di passeggiate in montagna tanto che, in prima battuta, si era ipotizzato l’incidente su sentiero di montagna.
La svolta è arrivata nella giornata di ieri. Il figlio Benno è stato indagato per omicidio e occultamento di cadavere.
Non si sa se l’iscrizione nel registro degli indagati sia scaturita da una confessione o dall’analisi di alcune videocamere di sorveglianza. Fatto sta che gli inquirenti avevano avuto sin da subito forti sospetti su Benno per il suo comportamento anomalo.
Comportamento anomalo che negli ultimi tempi, oltre che sfociare in quotidiane discussioni in casa con i genitori, gli aveva procurato anche problemi nella scuola ove insegnava educazione fisica: diverse erano state le lamentele da parte di colleghi e genitori dei suoi alunni, soprattutto dopo che il 30 enne aveva minacciato una collega in classe.
Parrebbe che quando si diffuse la notizia della sparizione dei suoi genitori i primi giorni dell’anno, alcune famiglie avessero immediatamente scritto una lettera alla scuola chiedendo che l’insegnante venisse allontanato.
(Foto: Ansa)
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“Mercoledì ho avuto una crisi mentre stringevo un cuscino, ho pensato che a differenza mia gli altri abbracciano delle vere ragazze e così sono scoppiato a piangere. Ho comprato qualche attrezzo…voglio uccidere qualcuno, voglio farlo a pezzi. Ho accettato la stanza, nella stessa casa di F., e ho già le chiavi e da qui quando andrò via potrò uccidere Daniele…mi piacerebbe una donna per prima, ma penso che così sarà una buona base di partenza”.
Il 7 agosto 2020, Antonio De Marco autore reo confesso dell’omicidio di Daniele De Santis e Eleonora Manta avvenuto pochi giorni dopo, il 21 settembre , scriveva queste parole nel suo diario segreto.
Accanto al diario nella camera dell’ assassino, gli inquirenti hanno ritrovato anche un dattiloscritto, un “romanzo breve” dello stesso De Marco; il titolo è “Vendetta” e racconta come il protagonista, che sarebbe il suo “avatar”, avesse come obiettivo quello di provocare la sofferenza e la morte degli altri.
A distanza di poco più di tre mesi dall’omicidio, il gip Michele Toriello ha disposto per De Marco il giudizio immediato, come richiesto dalla Procura.
Ricordiamo che sulla scena del crimine è stato ritrovato durante le indagini un bigliettino in cui, oltre allo studio delle mosse da compiere la sera dell’omicidio per evitare le telecamere di sicurezza sulla pubblica via, vi è appuntato da parte dell’assassino il dettaglio delle fasi dell’azione omicidiaria calcolata nei minimi particolari.
Impossibile non scorgere, da tutti questi elementi la premeditazione del gesto.
Del resto sia la premeditazione che la dinamica omicidiaria emergono dalle parole dell’interrogatorio dello stesso De Marco: “Ero più arrabbiato del solito... Sarà stato dettato tutto dalle crisi che ho avuto quel giorno e mi sono deciso a farlo, alle volte riuscivo a fermare i miei pensieri, sia quelli autolesionistici che quelli magari rivolti ad altri…quel giorno no”... “Sono andato a trovare Daniele ed Eleonora convinto di trovare entrambi. Quando sono entrato in casa i due erano seduti in cucina. Ho incontrato Daniele nel corridoio, il quale si è spaventato perché avevo il passamontagna. Dopo aver avuto una colluttazione con lui li ho uccisi. Quando ho colpito lui ha cercato di aprire la porta per scappare. Ho ucciso prima lei e poi ho colpito nuovamente Daniele. Dopo aver lottato con loro sono andato via senza scappare perché non avevo fiato. Dopo aver compiuto il gesto sono tornato a casa mia sita in via Fleming. Ho dormito fino alla mattina successiva. Mi sono disfatto dei vestiti gettandoli in un bidone del secco di un condominio poco distante dall’abitazione”.
Nell’ordinanza di convalida del fermo si parla di "compiacimento sadico", di un "pericolo di recidiva per estrema pericolosità dell’indagato" e di "un’ indole particolarmente violenta, insensibile ad ogni richiamo umanitario: nonostante le ripetute invocazioni a fermarsi urlate dalle vittime l’indagato proseguiva nell’azione meticolosamente programmata inseguendole per casa, raggiungendole all’esterno senza mai fermarsi"
La fredda imperturbabilità con cui l’assassino ha organizzato l’omicidio dei due fidanzati di Lecce emerge anche in un post su Facebook del 3 luglio 2020, accompagnato da due faccine sorridenti. "La vendetta è un piatto da servire freddo... e non risolve il problema ma per pochi istanti ti senti soddisfatto", ha scritto il 21enne.
Si parla sempre più di violenza cieca, questa è la definizione che si da a questa furia , a questa forza impetuosa che acceca una persona. Ci addolora e ci spaventa molto vedere che in questo nostro tempo tanti sono i ragazzi che divengono attori di questi impulsi violenti. Ma di fronte a tutto ciò la condanna non basta, è necessario capire le radici di questo sentimento malsano in modo da impedirne il verificarsi ed evitare che vite innocenti vengano falciate da questa violenza cieca e criminale.
La prima udienza del processo sarà celebrata il 18 febbraio davanti alla Corte d’Assise di Lecce.
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Per ogni omicidio c’è una vittima da ricordare. Non c’è un omicidio più crudele dell’altro. Togliere la vita ad un essere umano è un atto atrocemente crudele in sè.
Da un punto di vista giuridico tuttavia, il termine “crudeltà” ha un suo significato tecnicamente preciso che non è utilizzabile per ogni tipologia di omicidio. Ci sono omicidi infatti per i quali , invece di essere prevista la pena base di 21 anni, è prevista quale pena base l’ergastolo (DOVREBBE ESSERE PREVISTO L’ ERGASTOLO n.d.r.) perchè si tratta di reati commessi con aggravanti espressamente previste dal nostro codice penale.
Una di queste aggravanti è appunto “l’aver agito con crudeltà verso la vittima.”
Cosa significa aver agito con crudeltà?
Ce lo insegna la storia di Jennifer Zacconi, una ragazza di 20, che oggi vogliamo ricordare , lungo questa nostra “purtoppo” lunga “strada delle vittime “ .
Jennifer aveva 20 anni, tanta voglia di vivere e tanta voglia di dare alla luce il suo bambino: Jennifer era incinta di 9 mesi.
Siamo in provincia di Venezia, Jennifer aspetta un bambino dal suo compagno, Lucio Niero, 45 anni.
L’uomo è già padre di due figli e mentre Jennifer ha già preparato tutto per la nascita del suo bimbo, lui non ne vuole sapere. Già. Anche perchè , cosa che Jennifer ignora, Lucio è ancora sposato. Aveva finto bene lui, non solo con Jennifer, ma con tutta la famiglia della ragazza. La madre racconterà di pranzi e di molte altre occasioni che lui ha condiviso con la famiglia Zacconi, per cui nulla poteva far pensare ad una sua doppia vita.
Lucio era uno di famiglia, e tutto è andato bene sino a che Jennifer è rimasta incinta.
Lucio si infuria, la tartassa di telefonate perchè vuole farla abortire.
Sino a quella sera: mancavano 4 giorni al parto e Jennifer riceve l’ennesima telefonata da Lucio. Però questa telefonata è diversa perchè il viso della ragazza si illumina, è raggiante di felicità: Niero la vuole vedere, ma non gliel’ ha sicuramente chiesto con la solita rabbia. Deve averla ingannata tanto che la mamma di Jennifer, vedendo il suo volto sorriddente, si convince anche lei che finalmente quell’uomo abbia deciso di accogliere il loro bambino con amore.
Jennifer esce di casa e non vi farà più ritorno. Una violenta discussione e poi la crudeltà di quell’uomo di cento chili , alto oltre un metro e novanta travolge la povera ragazza, una ragazza esile di cinquanta chili con suo figlio nella pancia.
Jennifer tramortita dalle numerose percosse, calci pugni non muore. L’uomo tenta di strangolarla. Poi la seppellisce. Viva. Così è stato accertato dall’autopsia, tramite la quale è emerso che la ragazza ha respirato una enorme quantità di fango. Era dunque viva quando l’uomo, dopo aver scavato una fossa, ce l’ ha buttata dentro e l’ha ricoperta di terra.
Anche il suo bambino, ha accertato l’autopsia è morto per mancanza di ossigeno.
Il movente dell’assassino? Nascondere alla moglie la sua relazione con la ragazza.
Due vite spezzate . Quella di Jennifer e quella di Hevan, così’ aveva deciso di chiamarlo la sua mamma.
E l’assassino? L’assassino è stato condannato a 30 anni e già nel 2017 ha beneficiato di un permesso premio di 15 ore.
C’è chi giustamente si chiede...”cosa dunque bisogna fare in Italia per finire all’ ergastolo?”
La risposta che dobbiamo darci è che in Italia non esiste la pena definitiva, qualunque sia la colpa. Nella nostra Costituzione la pena ha una funzione rieducativa e non di deterrente, ma chi è stato colpito dalla violenza cieca di un omicida, con molta difficoltà riesce ad accettare questo atteggiamento di umanità, questo uso civile della pena nei confronti del condannato.
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18 dicembre 2020, la notizia: “Arrestato di nuovo a Custonaci Giuseppe Costa” .
Giuseppe Costa era libero da tre anni, dopo essere stato in carcere dal 1997 al 2017. E’ stato arrestato nuovamente 10 giorni fa dai Carabinieri del Comando provinciale di Trapani e dagli uomini della Direzione investigativa antimafia, per associazione a delinquere di tipo mafioso.
“L’uomo, durante la sua lunga detenzione, ha ricevuto il sostegno economico del sodalizio mafioso senza mai collaborare con gli inquirenti“, sottolineano i Carabinieri e la Dia.
Subito dopo la scarcerazione, ha rinsaldato le sue relazioni con i vertici dei mandamenti di Trapani e Mazara del Vallo e assunto il ruolo di controllore e tutore degli interessi di Cosa nostra su un impianto di calcestruzzi della provincia trapanese.
Il nome di Giuseppe Costa ci riporta indietro nel tempo, al terribile ricordo dell’uccisione di uno dei 108 bambini vittime innocenti di mafia: Giuseppe Di Matteo.
Vogliamo ricordare la storia di questo ragazzino, a pochi giorni di distanza dalla costituzione del Presidio maceratese di “Libera – Associazioni, Nomi e Numeri contro le mafie”, intitolato a Ciro Colonna, un’ altra giovane vittima innocente di camorra.
Giuseppe Di Matteo aveva 14 anni, un carattere solare, amava la vita, la sua più grande passione erano i cavalli.
Era il figlio del pentito Santino, ex affiliato di Cosa Nostra che, arrestato nel giugno del 1993 iniziò a raccontare al magistrato Giuseppe Pignatone tutto ciò che sapeva sugli attentati di mafia.
Da collaboratore di giustizia stava svelando gli affari di Cosa nostra e, soprattutto, stava rivelando i nomi di chi c’era dietro la strage di Capaci.
Minacciato per questo, si era rifiutato di ritrattare le accuse mosse ai Capi di Cosa nostra; ne seguì la terribile rappresaglia contro suo figlio.
In quel maledetto 23 novembre del 1993 il ragazzo si trovava proprio nel maneggio ove regolarmente andava a trascorrere quache ora spensierata tra i suoi amati cavalli, quando veniva avvicinato da un gruppo di uomini (mafiosi) che si presentavano a lui come agenti della DIA; lo inducevano a seguirli dicendogli che lo avrebbero portato dal padre, che non vedeva da tempo perchè collaboratore di giustizia. Lui era felice e diceva, seguedo gli uomini “Papà mio , amore mio”, secondo quanto rivelò successivamente uno dei partecipanti al sequestro, Gaspare Spatuzza.
Quel povero bambino non avrebbe più rivisto nè il padre nè i suoi affetti più cari, ma sarebbe morto solo, tra i suoi aguzzini.
Fu proprio uno dei Killer a raccontare le modalità del sequestro e come, senza un minimo di pietà, di umanità, in modo atrocemente macabro, fu ucciso il povero Giuseppe.
Il rapimento avvenne il 23 novembre 1993 , l’uccisione l’11 gennaio 1996 dopo 769 giorni di prigionia.
E’ impossibile anche solo provare ad immaginare lo sconvolgimento del povero ragazzino che, oggi sappiamo, solo, terrorizzato, ha vissuto per tutto il 1994 spostato in masserie ed edifici disabitati; sino a quando nel 1995 fu rinchiuso in un vano sotto il pavimento di un casolare bunker, ove rimase sino alla sua uccisione. Questa ultima cella fu costruita in muratura proprio da Giuseppe Costa, presso la sua abitazione.
Giuseppe fece una fine orribile. Venne strangolato ed il suo corpo disciolto in una vasca di acido nitrico. Un corpo che, descrivera’ successivamente uno dei Killer, la lunga prigionia e l’immobilità protratta per due anni avevano reso “molle, era tenero sembrava di burro”
Un gesto vigliacco, atroce, contro un soggetto vulnerabile, per una rappresaglia contro il padre.
Il piccolo Giuseppe era innocente, era solo figlio di un uomo che aveva deciso di cambiare vita.
Sappiamo che la mafia è presente nel territorio italiano sin dai tempi della nascita dell’Italia unita, ma per decenni se ne è parlato come di un fenomeno legato alla tradizione siciliana. Finalmente negli anni 60 qualcosa cambia e persone coraggiose, spesso a costo della vita, decidono di combatterla vedendo che è arrivata anche al cuore del potere politico.
La vittoria più grande per quel bambino oggi, è la costituzione dell’Associazione “Libera”, una su tutte, che vede riuniti tanti giovani che non vogliono dimenticare, che vogliono lottare per cambiare le cose, e puntare i riflettori sulla realtà della criminalità organizzata che inquina da oramai oltre trent’anni anche il nostro amato territorio marchigiano.
È sabato 2 gennaio, un uomo viene trovato nel cortile della sua abitazione a Brembo di Dalmine, in provincia di Bergamo, con il cranio fracassato, sfondato.
La vittima è Franco Colleoni, 68 anni, era stato un esponente di spicco della Lega Nord, per cinque anni segretario provinciale della Lega a Bergamo, attualmente gestiva il ristorante trattoria “il Carroccio” .
In un primo momento gli inquirenti hanno pensato ad una rapina finita male, poichè l’appartamento dell’uomo era stato messo a soqquadro, se pur non erano stati sottratti denaro nè oggetti di valore presenti nell’abitazione. Una pietra ed un bastone insanguinati sono stati posti sotto sequestro.
La furia omicida con cui l’assassino ha agito, accanendosi sulla vittima, colpendola violentemente alla testa ed al volto , aveva lasciato aperta la strada del movente personale.
Nella notte sono stati sentiti presso il comando locale dei Carabinieri amici e parenti della vittima per cercare eventuali soggetti che nutrissero nei confronti dell’uomo gravi risentimenti, data la violenza con cui si è consumata l’aggressione terminata in omicidio, sino a che, questa mattina, si è proceduto all’arresto del figlio, Francesco Colleoni, 34 enne.
Padre e figlio, che svolgeva le mansioni di cuoco nel ristorante di famiglia, avevano avuto una discussione, che sarebbe culminata in una colluttazione.Francesco avrebbe ripetutamente colpito il padre, sino a farlo cadere a terra, per poi sbattergli violentemente e ripetutamente la testa su una pietra del cortile e sfondargli il cranio.
Il movente sarebbe la gestione del ristorante di famiglia.
Nella notte Francesco avrebbe confessato agli inquirenti il litigio con il padre, riferendo poi di aver avuto un black out e di non ricordare più nulla.
(In foto Franco Colleoni)
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"In epoca di controlli rigorosi da parte delle forze dell’ordine affinchè le normative anticovid vengano rispettate, i Carabinieri in pattuglia a Imola nella notte del 30 novembre non immaginavano certamente che, grazie ad una routinaria richiesta di autocertificazione, avrebbero salvato la vita ad una famiglia intera: padre, madre, la loro figlia ed il suo novo fidanzato.
Sono le due di notte ed i militari si avvicinano ad un’autovettura Fiat Panda rossa, nel cui abitacolo individuano tre uomini italiani, 37,25 e 45 anni.
L’auto è ferma, con il motore accesso, davanti ad un condominio.
Dopo le prime verifiche qualcosa non torna: i tre uomini asseriscono di essere operai fermi a fare quattro chiacchiere dopo aver da poco ultimato il turno di lavoro, ma le verifiche dei Carabinieri presso l’azienda indicata non trovano riscontro al racconto.
Procedono pertanto a perquisizione, dopo l’arrivo dei rinforzi, ed i ritrovamenti nel portabagagli sono quantomeno inquietanti: vengono rinvenuti un borsone con tre passamontagna, un paio di manette, un bastone,un coltello da macellaio, forbici, lacci emostatici e guanti.
Trasferiti in caserma, i tre uomini, dopo le prime resistenze, hanno confessato: avevano un terribile piano criminale da attuare quella notte: narcotizzare la ex fidanzata ventitrenne di uno di loro, l’uomo di 45 anni; ciò al fine di costringerla a tornare con lui ed andare a convivere. Per ottenere ciò erano pronti ad uccidere entrambi i genitori di lei ed il suo attuale nuovo compagno. Follia.
Un piano omicidiario in cui la vittima, come spesso accade, non viene vista come persona, nella sua individualità; non viene riconosciuta dignità alla sua volontà, alla sua indipendenza decisionale. La vittima viene vista , invece, come un oggetto, strumentalizzata per giungere alla propria soddisfazione personale, come un mezzo per la realizzazione dei propri scopi e per l’ affarmazione del potere maschile sulla donna.
In questa vicenda, tale intento è stato perseguito non solo dal diretto interessato, ma anche dai suoi amici, che hanno perso l’occasione di comportarsi da amici “sani” riportando nel soggetto un barlume di buon senso; al contrario hanno condiviso con lui il piano scellerato, dando in tal modo forza al suo proposito, sintomo di una violenza inaudita e di un egoismo patologico, tipico di chi certamente nel rapporto di coppia non vive una relazione ed una progettualità ma un delirio di possesso e di onnipotenza sull’oggetto
Ma siccome viviamo il tempo del Natale e si ha la propensione a vedere, nonostante tutto, un pò di bene in questo nostro mondo, ci piace pensare che questa famiglia sia stata oggetto di un miracolo ed i Carabinieri possiamo vederli come angeli che l’hanno salvata".
La maggior parte dei reati violenti comporta una relazione tra una vittima, un aggressore e una scena in cui il crimine si svolge.
La modalità con la quale è possibile stabilire la natura delle relazioni tra questi tre elementi include: l’analisi delle prove fisiche, comportamentali e le dichiarazioni delle vittime o dei testimoni, dove questo sia possibile.
Gli investigatori che stanno indagando sull’omicidio di Rosina sono stati impegnati nel sopralluogo tecnico – giudiziario che ha come obiettivo quello di cercare tracce fisiche sulla scena del delitto al fine di ricostruire l’evento criminoso ed identificare il responsabile.
L’approccio, come sta emergendo dalle indagini svolte a 360 gradi dagli inquirenti, è quello scientifico falsificazionista, basato sul ragionamento deduttivo o induttivo supportato dall’intuizione e dall’esperienza.
L’applicazione di tale approccio scientifico al caso concreto, per quelle che sono le notizie in nostro possesso con il limite del segreto investigativo, porta a sostenere che:
"La pista del delitto consumato tra le pareti domestiche è stata indicata dai racconti delle amicizie della vittima e vicini di casa, che farebbero emergere una realtà familiare, quella di Rosina, gravemente compromessa, connotata da violenze, comportamenti vessatori, soprusi e privazioni.
L’importante dato oggettivo a supporto di tale ricostruzione, oltre al fatto che tali testimonianze sono state rese da più persone e tutte convergerebbero nella stessa direzione, è quello dell’appuntamento che la Carsetti avrebbe preso presso un centro antiviolenza, lamentando presunti soprusi e tensioni in famiglia.
A sostegno, invece, della versione della rapina che tutt’ora viene sostenuta dai famigliari di Rosina, vi sarebbero i segni di effrazione che sono stati rinvenuti su una porta sul retro della villetta ed il ritrovamento in casa di un indumento che potrebbe appartenere al ladro, secondo la descrizione del presunto omicida data dalla figlia della vittima".
La Procura sta vagliando entrambe le ipotesi ricostruttive, tuttavia qualcosa non torna nella versione della rapina: in base alle testimonianze dei vicini, infatti, nessuno ha visto né sentito nulla di sospetto; nessuno ha udito abbaiare i due enormi cani che vivono nel giardino della villetta né quelli delle case accanto, che di solito reagiscono al primo rumore.
Non sarebbe da escludersi, quindi, che il segno di effrazione sia stato realizzato appositamente per simulare una rapina, elemento che il Procuratore verificherà affidando l’incarico ad un consulente.
Per evitare di compromettere il lavoro investigativo è dunque importante l’utilizzo del metodo scientifico falsificazionista, che consiste nella ricerca anche di elementi atti a sconfessare le aspettative generatesi da una prima ipotesi investigativa.
“Usate la rabbia inespressa per trasformarla in creatività come ho fatto io, invece di farla diventare depressione” : le parole del rapper J-Ax alle vittime di bullismo
Queste le parole di J-Ax, durante la trasmissione “Chi l’ha Visto” del 17 dicembre 2020, mentre in studio si affrontava il caso di un giovanissimo ragazzo, youtuber, Michele Ruffino, 17 anni, di Torino, morto per bullismo lanciandosi nel vuoto dal ponte di Alpignano (Torino) due anni fa.
Michele aveva lottato per vivere, sin da bambino, con tenacia e forza di volontà, senza mai smettere di sorridere, dopo che da piccolissimo gli fu diagnosticata una ipotonia agli arti superiori ed inferiori causata dalla somministrazione di un vaccino scaduto.
Michele a tre anni non poteva correre come gli altri bambini, non poteva giocare al parco con la sorellina, perchè faceva uno, due, tre passi, e poi cadeva. Sino a che, un giorno, Michele non cade più: anzi, comincia a correre verso la vita: Michele non era guarito, ma aveva imparato a gestire la sua difficoltà.
Michele non si sente diverso. Diventa un adolescente come tutti, desideroso di avere molti amici, di fare gruppo.
Un ragazzino da una spiccata sensibiità emotiva, forse generata proprio da quella malattia che l’aveva condizionato nella sua giovane vita, e che probabilmente, veniva vista come segno di debolezza da prevalicare, da colpire, da umiliare.
Purtroppo è stata la diseducazione dei suoi coetanei compagni di scuola a farlo sentire diverso, escluso, emarginato. E per questo ha sofferto. Tanto. Troppo.
Alle scuole medie i suoi coetani gli sputano addosso in palestra, lo chiamano handicappato. Lo allontanano e lui si chiude. Ma continua ad avere i sogni e le aspirazioni di un adolescente; si iscrive all’istituto alberghiero perchè desidera fare il pasticcere. Anche qui i compagni non sono migliori di quelli che ha lasciato alle medie: lo prendono in giro, gli urlano “vai a morire!”.
Michele è psicologicamente distrutto. Non deve lottare solo contro i suoi dolori fisici, che non l’hanno mai abbandonato, ma anche contro la stupidità e la cattiveria di quelli che avrebbe più di ogni cosa desiderato diventassero i suoi amici.
Questo ragazzo smette di combattere senza rendersene conto. Si chiude.
Quel giorno, il suo ultimo giorno di vita, Michele dopo aver pranzato con i genitori esce di casa dicendo che di li a breve sarebbe rientrato. Le ore passano. Il silenzio viene rotto in casa Ruffino da una telefonata dei Carabinieri che convocano i genitori in caserma.
La mamma ed il papa’ di Michele trovano ad accolglierli il Maresciallo che, con le lacrime agli occhi comunica loro :” Michele non c’è più”.
Una donna in macchina, in transito sul Ponte di Alpignano, testimonierà di aver visto quel ragazzo: aveva incrociato i suoi occhi. L’aveva visto tirarsi su il cappuccio, le cuffie alle orecchie, il lancio nel vuoto.
L’ultimo estremo tentativo di Michele di chiedere aiuto era stato quello di scrivere una lettera al suo unico amico, consegnandolo ad una compagna di classe perchè gliela recapitasse. “Tu sei l'unico dei pochi amici che avevo che mi aveva capito e sei l'unico che riesce a calmarmi e a riflettere sul senso della vita e anche come andare avanti sempre e in qualunque caso. Io ti ringrazio di tutto, ti voglio un bene dell'anima, ma è arrivato il momento di dirti addio, spero che non mi dimenticherai facilmente anche perché quando ti arriverà questa lettera, io non ci sarò più".
I compagni di classe avevano letto quella lettera. Avrebbero potuto allertare i genitori di Michele, gli insegnanti. Ma hanno scelto di lasciare Michele solo, ancora una volta, pur consapevoli che avrebbero potuto fare qualcosa per salvarlo, come testimonia l’audio di uno di loro diffuso da Chi l’ha visto : “Molto probabilmente faranno delle indagini e quindi quella lettera di cui sappiamo, è come se non esistesse, non deve esistere perché se scoprono, cioè se scoprono, che avevamo quella lettera ci possiamo andare nei ca**i, perché sarebbe omissione di soccorso, perché noi potevamo saperlo e quindi potevamo fermarlo. Fatevi i ca**i vostri. Ve l'ho spiegato in maniera tranquilla, adesso ve lo dico: fatevi i ca**i vostri.”
Le parole toccanti della mamma di Michele dovrebbero far riflettere molti : “In famiglia lo incoraggiavamo a rispondere al bullismo e alla violenza con educazione, a farsi scivolare tutto addosso, perchè non abbiamo mai insegnato l’aggressività, non ci appartiene “
Ed ancora “Persino dopo la morte Michele è stato preso in giro, sui social. Ho denunciato tutti, scuola compresa e un ragazzino che rideva di lui al suo funerale. Per i bulli di mio figlio non voglio il carcere, ma la rieducazione. C’entrano anche i genitori, che non educano più perché è più comodo dare un tablet in mano ai figli. Bisogna formare loro per primi. Mi dicevano che il problema era di Michele, che erano solo ragazzate».
Ragazzate! Con questo termine si etichettano problemi complessi che superficialmente si vorrebbe invece considerare semplici , immaturi atteggiamenti di non grande importanza. Questi atteggiamenti invece conducono all’annientamento della vittima che non riesce a ribellarsi e cede alla prepotenza cieca e sconsiderata, scomparendo da un mondo che, in realtà, non l’accetta davvero.
Nel corso delle indagini, è' stato ricostruito l'imponente traffico telefonico tra il Parolisi e Ludovica, e sono state recuperate le comunicazioni scambiate tra i due via internet.
“Ciò ha consentito di accertare che il Parolisi aveva fatto credere a Ludovica l' imminente formalizzazione di una crisi coniugale in realtà mai manifestasi, con la sua volontà di abbandonare la moglie, tanto che nel periodo pasquale del 2011 (pochi giorni dopo il delitto) era stato programmato un incontro ad Amalfi tra Parolisi, Ludovica ed i familiari di lei.”
Dalle intercettazioni telefoniche delle utenze del Parolisi e di Ludovica è quindi emerso quello che è stato ritenuto il movente dell’omicidio di Melania.
Le menzogne di Parolisi alla moglie e all’amante l’ hanno travolto, al punto che per Parolisi : “i giorni delle vacanze pasquali costituivano una sorta di terribile “imbuto” nel quale si era messo: da una parte aveva Ludovica e i suoi genitori che aspettavano di conoscerlo, l’albergo prenotato e le promesse di aver già parlato di separazione sia con Melania che con i suoceri ; dall’altra la consapevolezza invece di non aver ancora mai parlato di separazione con la moglie; e il bisogno stringente e sempre rimandato di “dover” dire , di “dover” parlare con la moglie; quando farlo?”
Di seguito alcuni stralci dei messaggi scambiati tra la soldatessa ed il Parolisi su facebook, confermano “le pressioni stringenti di Ludovica che ormai “non ammettevano scuse o ragioni” ed i tentativi manipolatori del Parolisi.
LUDOVICA: “...(omissis)io ti penso sempre..voglio la mia vita con te..ma la voglio fatta per bene...senza più doversi nascondere..ti immagino con me sempre..spero che tu riesca a fare tutto quello che mi hai detto..e spero che l'avvocato protegga subito la tua posizione..ma soprattutto spero che tu tra pochissimo sia libero di essere solo mio...
LUDOVICA: “amoru mi sei sembrato un po vago in quest'ultimo messaggio..(omissis)..devi fare le tue valigie e andartene..(omissis)..senza se..senza ma..senza altro tempo..sono passati 2 anni direi che sono anche troppi..devo rielencarti le persone che conosco che si sono lasciati e separati in pochi mesi..?nn mi sembra il caso...io spero che tu stia già parlando e stia già chiudendo tutto..poi se vuoi stare con me bene..altrimenti io nn voglio proprio sentire la parola.."ancora un pochino di pazienza.." non esiste..non devi ammazzare nessuno..devi lasciare una persona che non ami e con cui non stai piu bene da una vita..non è difficile da far capire..(omissis
VECIO ALPINO (Parolisi ndr): “amoruccio mio nn devi stare in ansia io ho quasi risolto tutto ho trovato anche un accordo con lei e le cose stanno andando per il verso giusto mi serve solo un altro po di tempo sicuramente non riuscirò ad essere li da te questa settimana ma ti garantisco che ormai è fatta noi potremmo presto coronare i nostri sogni come posso ti chiamo scusami se in questi giorni non ho potuto...ma ti racconto tuttto al telefono poi ti amo non perdere la fiducia in me manca poco ti amo”
LUDOVICA: “io non ti credo piu!!!!!mi avevi giurato che saresti venuto!!!!!che ci saremmo visti visto che sono due mesi!!!!!!sei una merdaaa!xkè io sto qui a piangere e tu continui a sbattertene altamente e a pensare solo alle cose tue!!!!!io ti odio per tutto quello che sto soffrendo per colpa tua!(omissis) sei una merda di uomo e basta!ma chi vuoi prendere xil culo!!!!!!!!!!!!!!ma quali sogni???????ma cosa vuoi coronare??????la nostra storia è uno schifo! nn sei stato capace di darmi un minimooooooo! che ti costava andartene!!!!!!!cosa rimani a fare??????cosa risolvi in un fine settimana???????che c'è ancora da dire da parlare????????ti separi?bene!ci pensano gli avvocati a iniziare le pratiche!!!!!e tu invece nooooo continui a stare là!!!!!!mi fai schifo xkè sei stato il peggiore di tutti!!! (omissis)La corda la stai tirando da troppo tempo..e quando si ama davvero non ci si comporta in questo modo! sei l'ennesimo fallimento...il peggiore di tutti..e ti giuro sulla mia vita che stavolta io nn torno indietro..le stronzate valle a raccontare a qualcun'altra.
VECIO ALPINO: “ nn merito il tuo disprezzo le cose che mi dici sono bruttissime ma me ne prendo il merito se sei arrabiata con me è colpa mia ma nn serve questo purtroppo le cose non sono cosi facili come credi e neanche gli avvocati sono cosi semplici come la pensi tu (omissis)
VECIO ALPINO: “ (omissis) ti chiedo solo di ascoltarmi per chiarire sabato e dopo prenderai le tue decisioni non essere un vulcano pieno di lava le cose che dovevo fare l'ho fatte mancano alcuni dettagli ho trovato un accordo con lei voglio rispettarlo perche mi ha promesso di lasciarmi in pace dopo senza chiedermi alimenti... (omissis)
VECIO ALPINO: “sei la mia vita e tu lo sai sono stato uno stronzo.. adesso me ne rendo conto o meglio me ne ero gia accorto prima di aver dato troppo afetto o riconoscenza a questa donna che alla fine non amo ma a te si.....il discorso non è quello di aver fatto o non fatto poco o tanto il problema è che io o sbagliato tutto e quindi ho portato anche me stesso all'esasperazione e adesso mi va bene tutto hai ragione quando mi dici che bastava fare le valigie e tutto finisce ma non è proprio cosi i legali sono dei pezzi di merda per non dire i giudici o di chi ha fatto questo schifo di legge del cazzo che sono tutte per la donna e nessuna per l'uomo....mi tocca dagli anche altri soldi che tu sai che mi dovevano arrivare e ci sono visto la comunione dei beni che ho fatto(...omissis) ho trovato un accordo con lei molto piu tranquillo......e sopratutto conveniente anche per il mio futuro con te perche tu sarai con me che ti piaccia o no non potrai ignorarmi per tutta la vita prima o poi mi aprirai la porta del tuo cuore io ho la chiave.....tu si na cosa grand pme non dimenticarlo maiiiiiii muuuuuuuuuuuuuuua”.
LUDOVICA: “ a me nn me ne frega niente nè dei soldi nè degli accordi nè della legge che tu e il tuo avvocato nemmeno conoscete xkè tu nn gli devi una lira ed ora che questa si trovi un lavoro!!!!!!!o tu te ne vai di casa subito o è finita per sempre basta nn ci sono alternative.”
L’imminente scadenza del programmato soggiorno amalfitano avrebbe fatto emergere tutte le menzogne del Parolisi nei confronti della moglie e dell’amante.
Il fatto scatenante in quel 18 Aprile, derivo’ da “una probabile "discussione" insorta tra lui e la moglie, un litigio dovuto alla scoperta di qualche indizio della perdurante relazione da parte di Melania, o dal tentativo di introdurre da parte del Parolisi la prospettiva della separazione, non accettata da Melania, che potrebbe inoltre aver minacciato di svelare ai superiori la condotta eticamente scorretta del marito (una relazione intrattenuta con una allieva) fatto che il Parolisi temeva.”
Ecco dunque il movente: la paura che la moglie lo accusasse di fronte ai suoi superiori e quindi non aveva scampo: o uccideva la moglie o perdeva l’amante. Scelse sciaguratamente la prima soluzione.
(tutti i virgolettati sono estratti da testi provenienti da fonti ufficiali)
Questa è la storia molto drammatica di un femminicidio efferato che scosse l’animo di tutti noi.
Permessi premio, sconti di pena, un lavoro da centralinista nel carcere di Bollate; studia giurisprudenza, ha dimenticato, sembra con facilità, la donna per la quale ha ucciso la moglie, ed ora ha un’avvenente nuova compagna, una donna dell’Est che regolarmente va a fargli visita in carcere per trascorrere con lui alcune ore.
Lui è Salvatore Parolisi, per la giustizia italiana l’assassino della moglie, Melania Rea.
Non ha mai confessato il delitto, avvenuto il 18 aprile 2011, quindi non ha mai manifestato una qualsiasi forma di pentimento, nè la necessità di ottenere il perdono: perdono della famiglia di Melania e della piccola Vittoria, figlia sua e di Melania, privata per sempre dell’affetto materno e di una vita insieme a lei.
Ma, come accennato, una verità processuale è stata raggiunta dalla giustizia italiana.
E crediamo valga la pena ricordare come si è giunti a tale verità, pensando a Melania che, a differenza di Parolisi, non ha una seconda possibilità di vita. Ricostruiremo le circostanze per le quali si è giunti ad affermare la colpevolezza di Parolisi, “al di la di ogni ragionevole dubbio” attingendo dagli atti ufficiali.
La scena del crimine
“Il cadavere (..omissis) veniva rinvenuto supino, in parte ricoperto da fogliame e aghi di pino, con il collo intriso di sangue, le mani aperte sul terreno, i piedi in direzione del chiosco, le scarpe allacciate(...omissis) La maglia, così come il giubbino, era lacerata in corrispondenza delle lesioni (...omissis) dunque inferte nella parte superiore del corpo attraversando gli abiti indossati da Melania. Le lesioni venivano inferte con un coltello monotagliente, le prime quelle da dietro con tentativo di sgozzamento quindi sulla schiena dall’alto verso il basso e al dorso e infine quelle frontali; Il luogo del rinvenimento corrisponde a quello dell'omicidio, date le tracce rinvenute ed in particolare la chiazza ematica posta al di sotto del corpo; La cute del viso risultava coperta da fondotinta e il mascara con cui erano truccati gli occhi non presentava sbavature; Tra i segni post mortem vi sono le varie incisioni effettuate sull’addome e sulle cosce della donna dopo la morte di costei – non molte ore prima del ritrovamento del cadavere e segni suggestivi per tentativo di despistaggio (siringa infilata sul petto, laccio emostatico)”
La morte di Melania era stata procurata da un'arma da punta e da taglio che le aveva lacerato il corpo con 35 coltellate.
Nessuna di tali lesioni era stata mortale. La morte era sopraggiunta a causa di anemia emorragica acuta: Melania è morta per dissanguamento.
La dinamica di realizzazione del crimine
Melania è stata uccisa all’improvviso “da dietro" con un iniziale “gruppo” di colpi lesivi costituiti dal tentativo di “sgozzamento” (ferite al collo) e dai colpi di coltello inferti alle spalle dall’alto verso il basso e da quello - profondo - alla schiena”
“Melania non ha avuto tempo e modo di lottare e difendersi attivamente se non nelle fasi di un accoltellamento già iniziato (limitate lesioni da difesa alle mani; più profonda lesione al polso destro); Melania non ha avuto tempo di piangere (trucco intatto, il suo mascara non presentava segni di sbavature)”
Paticolare doloroso da accettare, sapere che questa bellissima donna campana non ha avuto neppure il tempo di piangere, ma solo di osservare l’immagine del suo assassino, suo marito, ed essere consapevole che quella sarebbe stata l’ultima persona vista nella sua giovane vita.
“La morte è intervenuta alcune decine di minuti dopo l’inizio della azione omicidiaria (potenzialmente anche in assenza dell’assassino che abbandonava il posto con Melania agonizzante).”
L'azione ha richiesto non più di 10 /15 minuti e sarebbe stata realizzata esclusivamente dal Parolisi, in preda a dolo d'impeto. Costui, a quel punto, si liberava degli indumenti sporchi di sangue e li nascondeva.
Fa rabbrividire la scena del crimine, come tutte le scene di un crimine violento. Ancor di più rabbrividiamo se pensiamo che “ignara testimone” di quanto stava accadendo alla sua mamma era proprio Vittoria, la figlia di Melania e Salvatore che, secondo le ricostruzioni, mentre si consumava il delitto era in macchina, assicurata al suo seggiolino, e chissà forse dormiva serena mentre perdeva per sempre la sua mamma e sarebbe cresciuta senza averla mai più accanto.
IL MOVENTE NEI MESSAGGI SCAMBIATI TRA PAROLISI E L’AMANTE
Parolisi è un uomo che mente. Ed ha mentito alla moglie ben prima che agli inquirenti.
Melania, un anno prima della sua morte, aveva scoperto la relazione extraconiugale del marito con una soldatessa, Ludovica, recluta della Caserma Clementi di Ascoli, allieva del marito.
Ne erano derivati, ovviamente, profondi dissapori.
“Si tenga conto che Melania era una donna non disposta “a cedere” facilmente: si era già dimostrata volitiva e di carattere nell’affrontare direttamente Ludovica al telefono per due volte quando aveva casualmente “scoperto” il tradimento del marito; ne aveva sofferto, era stata dura col marito prima di perdonarlo, aveva avuto la forza e il carattere di parlare direttamente con l’altra...”
Dopo un periodo di crisi Melania decise di perdonare il marito, non essendo a conoscenza del fatto che la relazione in realtà proseguiva.
I dissapori quindi si erano ricomposti anche in virtù della "falsa" affermazione del Parolisi di aver troncato il rapporto con la soldatessa sua allieva.
Ma Parolisi mentiva anche con Ludovica: le aveva manifestato la volontà di abbandonare la moglie, tanto da aver già contattato un legale per iniziative formali (affermazione anch'essa non rispondente al vero).
Nella seconda parte, domenica prossima, i messaggi tra Parolisi e la soldatessa, per focalizzare la realtà nella quale, secondo i giudici, è maturato il movente e quindi il delitto.
Entro in redazione...le luci sono spente, a quest’ora oramai sono solo.
Cammino al buio verso la scrivania, accendo la lampada da tavolo e sprofondo nella mia poltrona.
Guardo un punto avanti a me: il fascio di luce illumina le fotografie appese alla parete, quelle di una vita che mi sono inventato, sempre sopra le righe, spesso al limite…da inviato di guerra a paparazzo d’assalto.
Ed ora...in cosa mi sto infilando? Una giornata adrenalinica, non meno di altre giornate, ma questa volta arrivo a sera tarda che non riesco a dormire: quello che ho ascoltato oggi mi ha travolto.
Eppure sono stato sequestrato dai serbi, durante la guerra balcanica, per 48 lunghissime ore, cosa mi può scuotere più di quell’esperienza? Forse l’ignoto, forse ciò di cui non mi sono mai occupato in tutti questi anni di carriera?
Ciò che ho ascoltato seduto all’aperto per tre interminabili ore, in cui neppure il gelido vento del nord è riuscito a farmi alzare da quella sedia e a distogliermi dallo sguardo magnetico del mio interlocutore , si è trasformato in immagini. Immagini terribilmente vere nella loro crudezza che a fatica riesco a sostituire con le luci del Natale che filtrano dalla mia finestra.
Cosa fare ? Scordarmi della forza travolgente di ciò che ho ascoltato e visto? Incontrarmi nuovamente con questo oscuro personaggio per farmi raccontare ancora di più della sua vita? E poi? Per farci cosa? E se ci scrivessimo un libro? Già...questa potrebbe essere un’idea....un libro.
L’assassina è una donna ma soprattutto una madre di tre bambini, 7,8 e 12 anni: Chiara Alessandri, 44 anni. Dava una mano in chiesa e faceva la rappresentante dei genitori a scuola.
Rea confessa di aver ucciso Stefania Crotti, la moglie del suo ex amante, anche lei madre di una bambina piccola.
Lui, Stefano del Bello, aveva scelto di tornare dalla moglie per tentare di recuperare il loro matrimonio. Quella con la Alessandri era stata una breve relazione, una convivenza di due mesi nel periodo estivo; da parte di lei invece, un attaccamento morboso.
Un disegno perseguito con ferocia anche nei minimi particolari. “Un piano diabolico che appare spiegabile con un intento violento e vendicativo di distruzione e annientamento dell’antagonista”, scrive la Corte nella motivazione della sentenza .
L’assassina “ha covato, per un considerevole lasso temporale, una volontà soppressiva della rivale in amore” scrive ancora il giudice di Brescia Alberto Pavan, nelle motivazioni della sentenza che ha condannato la Alessandri a 30 anni per l’imputazione di omicidio volontario premeditato.
E lei, la vittima? Stefania?
Visualizzare il suo profilo commemorativo su facebook è “entrare in contatto” con una donna che aveva messo al centro del mondo la sua famiglia, sua figlia. Una donna sorridente, un sorriso luminoso, semplice, anche in frangenti che sicuramente, oggi sappiamo, così semplici non erano. Uno sguardo pieno d’amore per la sua bambina; sempre circondata dalla natura, mare o sentieri di montagna.
Chissà di cosa parlerebbe oggi Stefania, se potesse farlo? Forse parlerebbe dei tatuaggi....
“Believe" ."Liberi di sbagliare, liberi di ricominciare". Si erano tatuati queste scritte, lei e Stefano, solo un mese prima che venisse uccisa. Ci credevano.
Per loro, dice il marito, quelle scritte avevano un significato preciso. Avevano avuto un periodo difficile, si erano allontanati. Poi le cose negli ultimi tempi erano andate meglio,ed avevano deciso di ricominciare la vita insieme.
La loro era stata una storia d’amore, e, con la loro piccola, avrebbero potuto essere di nuovo sereni e felici. “Believe”. Credevano fortemente in questa possibilità, come diceva la scritta tatuata sulla loro pelle.
Certamente se potesse parlare Stefania lo farebbe e, pensando alla sua bambina, si chiederebbe con angoscia...come farà senza di lei, senza la sua mamma? Non la avrà accanto il primo giorno scuola, così importante per i bambini ed i genitori, non la avrà accanto ad ogni nuovo inizio importante, ad ogni traguardo raggiunto, in ogni momento di difficoltà in cui avrebbe più bisogno di lei.
Non la avrà accanto perchè qualcuno si è arrogato il diritto di decidere che tutto questo non doveva essere.
Quei lividi, quei graffi sulle braccia e al volto dell’assassina sono i segni dell’ultimo, disperato tentativo da parte di Stefania di scampare alla morte, alla violenta furia dei colpi di martello inferti dall’assassina.
Stefania, in tempi immediatamente precedenti l’omicio, veniva appellata in modo volgare ed offensivo dalla Alessandri: "B******a, p*****a e che muoia domani mattina, che sarei la prima a ballare sulla sua tomba.” (da audio originale reso pubblico sui media). Nonostante i ripetuti tentativi dell’amante di suo marito di contattarla, Stefana aveva dignitosamente ignorato ogni sollecitazione in questo senso.
Tra le 28 pagine di motivazioni della sentenza emerge che, da quando Stefano aveva detto addio alla sua amante ,l’unico scopo nella vita della Alesandri sia stato cercare e provare a mettere in atto tutti i modi per farlo cadere in tentazione.
Ma non ci è riuscita, anzi lui aveva chiuso subito ogni possibile via di comunicazione.
Per lei, Stefania ero l’ostacolo che le impediva di riallacciare la sua relazione con Stefano.
Il figlio più piccolo della Alessandri è compagno di scuola della bambina della vittima; nella sua spontanea innocenza, commuove il gesto che ha rivolto alla figlia di Stefania: le ha chiesto scusa “per quello che la mia mamma ha fatto alla tua mamma”.
Altro che vittime secondarie, vittime collaterali...sono loro le vere grandi vittime di queste tragedie. Come si puo’ spiegare ad un bambino simili accadimenti? Come li spiegheranno alla bambina di Stefania? E la Alessandri...cosa spieghera’ ai suoi figli?
La vittima è una modella di 18 anni. Con la leggerezza e l’entusiasmo tipici di molte 18enni, attirata da quella che molti consideravano la vetrina della “Milano bene”, desiderava partecipare con le sue amiche a quei party “esclusivi” con ingresso solo su invito.
La location di queste feste era l’attico con vista sul Duomo dell’imprenditore (cocainomane) Alberto Genovese. La “Terrazza Sentimento”, così denominata dal proprietario, ospitava uomini facoltosi, ragazze giovani e belle che, consapevoli della loro bellezza e magari anche delle loro potenzialità seduttive, attirate dal lusso, dall’entourage degli invitati e dal divertimento, rincorrevano sogni di fama, successo , chissà anche d’amore, ma non certo di stupro.
In una di queste serate, una violenza brutale, perpetrata dal padrone di casa Alberto Genovese, è stata ripresa dalle videocamere di sorveglianza della lussuosa abitazione. Immagini visionate dagli inquirenti , che Genovese aveva tentato di cancellare. Quindi, se ne dedurrebbe, era lucidamente consapevole dell’ atrocità delle azioni commesse.
Michela (nome di fantasia) aveva assunto droga, anche su pressione dell’ autore delle violenze, il cui fine sarebbe stato quello di diminuire le sue resistenze al fine di fare del suo corpo ciò che voleva.
Sequestrata per quasi 24 ore, Michela è stata oggetto di molteplici abusi, quando non anche di vere e proprie torture. Privata della libertà e della dignità di essere umano: legata ad un letto dopo essere stata drogata al punto che, scrivono gli investigatori, viene ridotta a "una bambola di pezza"..
La vittima, incosciente durante gran parte delle violenze subite, si sarebbe risvegliata su di un letto insieme all’indagato nuda, con tracce di sangue sul lenzuolo, dolorante, mani e piedi legati.
Prima di perdere i sensi aveva tentato di inviare agli amici questo mesaggio “sono in una situazione pericolosissima”. Gli amici nulla hanno potuto fare perchè bloccati dal bodyguard di fronte alla porta di quella maledetta stanza il cui ingresso era severamente vietato a tutti.
Secondo il giudice per le indagini preliminari di Milano Tommaso Perna, Alberto Genovese “ha agito prescindendo dal consenso della vittima, palesemente non cosciente (…), tanto da sembrare in alcuni frangenti un corpo privo di vita” di cui l’uomo ha “abusato, come se fosse quello di una bambola di pezza”. Ed anche quando “la vittima ha ripreso un barlume di lucidità, iniziando ad opporsi (…) sino ad implorare il suo aguzzino di fermarsi, lei non è stata ascoltata dal carnefice che, imperterrito, ha proseguito (…) a drogarla e a violentarla”.
Quando alle 21.30 del giorno successivo è riuscita a fuggire dalla stanza e dal suo aguzzino, che avrebbe continuato a sniffare cocacina per tutto il tempo, sarebbe scappata in strada, semi svestita e senza una scarpa, per chiedere aiuto. L’altra scarpa insieme ad una banconota da 100 euro, in ulteriore segno di sfregio e disprezzo, le sarebbe stata tirata dal Genovese stesso dalla finestra della sua abitazione.
Era distrutta Michela, dolorante e con numerosi segni sul corpo, come attestato dai 25 giorni di prognosi che le sono stati prescritti.
Per il giudice l’indagato ha “manifestato una spinta antisociale elevatissima ed un assoluto disprezzo per il valore della vita umana, soprattutto di quella delle donne”
Genovese è stato accusato di violenza sessuale, lesioni gravissime , sequestro di persona e spaccio.
La giustizia avrà compito facile nel condannarlo, ma Michela? Come e quando riuscirà ad emergere dall’inferno in cui è stata per quelle interminabili ore e potrà riacquistare un po’ di fiducia negli uomini e ricominciare a vivere?
(Foto Ansa)
"Sai già qual è la cosa giusta da fare: lasciarlo! Quando resti perchè pensi di poterlo cambiare, perchè il tuo amore lo renderà una persona migliore..quando resti perchè in fondo hai sempre pensato che sei tu quella che non va..quando resti perchè pensi che nessuno ti amerà più quanto ti ama lui..quando resti mentre lui minaccia di abbandonarti, e lo supplichi di non farlo..quando resti perchè ti ha isolata da tutti i tuoi amici e ti senti sola..quando resti perchè non sai dove andarequando resti, e resisti..allora forse sei già una vittima di violenza domestica e stai mettendo gravemente a rischio la tua salute, psichica e fisica".
Il processo di vittimizzazione della donna avviene attraverso vari tipi di violenza: la violenza economica, la violenza verbale, la violenza psicologica, oltre ai tipi di violenza più riconoscibili, quella fisica e quella sessuale.
Nel suo bisogno di essere amata, la donna rimane incastrata in un processo ripetitivo di violenza chiamato “ciclo della violenza domestica”, comprende le seguenti fasi che, in un circolo vizioso, si ripetono nella relazione.
FASE DI ACCRESCIMENTO DELLA TENSIONE - È il momento della violenza psicologica, possono verificarsi scenate di gelosia. Lui non sempre spiega la sua irritazione, lei cerca una spiegazione in se stessa. Si sente confusa e sbagliata, evita di contraddirlo, ha paura di essere abbandonata. Questa fase puo’durare anche parecchi mesi.
FASE DELL’ESPLOSIONE DELLA VIOLENZA - La violenza fisica scatta veementemente ed improvvisamente, lei si terrorizza, è destabilizzata, “va in tilt”.
FASE DELLA FALSA RIAPPACIFICAZIONE - Lui schiera in campo richieste di perdono, promesse di cambiamento e giuramento d’amore eterno. Questa è la fase che spinge la donna a restare nella relazione, a non denunciare. La vittima crede che questa calma e questa armonia ritrovata sia destinata a durare per sempre.
Man mano che passa il tempo questa fase è sempre più breve e dalla calma si passerà nuovamente alla fase dell’accrescimento della tensione e quindi all’esplosione della violenza.
Per uscire dal ciclo della violenza, la vittima deve prendere atto della sua situazione. Solo allora sarà pronta per ricevere il supporto di cui ha bisogno.
Una corretta “lettura” della scena del delitto può indicare il tipo di personalità del soggetto che ha compiuto il delitto, fornendo informazioni concrete agli investigatori per limitare la lista dei sospettati.
Per tentare di spiegare la dinamica e la motivazione di un reato si utilizzano i termini “CRIMINOGENESI” (è quel tipo di spiegazione che vuole individuare il perchè di un determinato reato) E “CRIMINODINAMICA” (come si è sviluppato l’intero progetto criminale).
Attraverso la ricostruzione della criminogenesi e della criminodinamica del reato sarà possibile tentare di comprendere motivazioni e dinamiche che hanno portato alla fattispecie per cui si procede. E la ricostruzione di criminogenesi e criminodinamica passa attraverso la ricostruzione e l'analisi delle relazioni tra i soggetti coinvolti nella vicenda.
La scena del delitto analizzata oggi ci parla del terrore, del dolore infinito che deve aver provato Giulia in 40 minuti di lucida crudeltà e ferocia esplose contro di lei: una lunga inaudita violenza, una morte straziante. Un appuntamento nella casa disabitata della famiglia di lui, con la scusa di valutare alcuni dipinti da vendere. La vittima viene colta alle spalle, colpita ripetutamente con un grosso bastone di legno. Viene trascinata per le scale, tirata per piedi con la testa che sbatte sui gradini: un percorso segnato da schizzi di sangue sulle pareti, sui quadri, da una lunga scia rossa sul pavimento.
Le tracce ci dicono che Giulia è stata uccisa nello scantinato dove, dopo un estremo tentativo di aggrapparsi alla vita, è stata scagliata due volte contro lo spigolo del muro : la vernice rimasta attaccata ai suoi capelli ci racconta dell’impatto violento del suo viso contro quello spigolo. L’impronta del suo piede nudo nello scantinato ci dice che lei ha tentato di rialzarsi: voleva vivere.
Chi era Giulia?
Una donna che si era stancata, che voleva darsi l’ opportunità di una seconda vita.
Stanca di fingere di fronte alla gente, stanca di dover silenziosamente restare al fianco di quello che oramai, questione di giorni, stava per diventare il suo ex marito. Lui l’aveva obbligata ad un ultimo mese di bugie, di eventi ufficiali a cui accompagnarlo. Un mese in cui le aveva vietato di frequentare il nuovo compagno, sino a che non fosse giunta la loro separazione ufficiale.
Giulia era stanca di una relazione in cui l’apparire era l’unica cosa che contava.
La sua vita era ricominciata da quando, dopo anni di silenziosa accettazione, aveva incontrato il suo nuovo compagno, un vecchio amore della scuola. Era tornata ad amare. Lei non aveva mai perso il suo dolce sorriso, la gentilezza d’animo e quei modi miti e discreti che conquistavano tutti; ma ora quel suo fascino, il fascino di una donna sempre e comunque solare, era diventato ancora più splendente perchè lei era tornata ad amare.
E lui questo proprio non lo poteva accettare.
Perchè ha ucciso? Per la “NON CULTURA” DEL POSSESSO
Il punto centrale è proprio non accettare di perdere il “potere” sulla “propria” donna.
Un potere esercitato in forme e modi tali da ingenerare nella donna la convinzione che l’atteggiamento migliore da assumere per il “quieto vivere” sia una totale subordinazione verso il marito.
Alcuni uomini sono legati ad un concetto di famiglia che vede la donna sottomessa e l’uomo con il ruolo dominante. Le radici di tale concezione muovono da retaggi culturali di famiglie patriarcali, nelle quali la donna è considerata un accessorio che da risalto e lustro alla figura maschile, alla sua virilità, alla sua carriera, alla sua posizione sociale.
“Non occorre essere sociologi per capire che l’omicidio di Giulia riproduce episodi sempre più frequenti che appartengono a una cultura di dominio. Ogni tre giorni un uomo uccide una donna che si oppone al suo volere” (Procuratore Generale Gianluca Chiapponi)
Per contattare la nostra redazione potete scrivere al seguente indirizzo mail: parlaconme33@gmail.com - tel: 07331653692
Dalla prossima settimana su Picchio News partirà la nuova rubrica, "La Strada delle Vittime", in cui si affronterà l'analisi della casistica criminale con approccio vittimologico.
La vittimologia, per dirla con le parole del Prof. Avv. Gulotta è “una disciplina che ha come oggetto lo studio della vittima di un crimine, della sua personalità, delle sue caratteristiche biologiche, morali, sociali e culturali, della sua relazione con il criminale e del ruolo che ha assunto nella genesi del crimine”. Il fine non è affondare nel sensazionalismo giornalistico.
E' proprio con questa attenzione alla vittima che il Direttore del giornale, Guido Picchio, intraprende questo nuovo viaggio, credendo nell’importanza di dare voce alle vittime, di non dimenticarle, con la convinzione che un giornalismo, in tal senso orientato, possa avere anche un valore sociale di prevenzione nei confronti di altre vittime potenziali.