di Diego Fusaro

La guerra sta finendo: Europa e Zelensky sconfitti

La guerra sta finendo: Europa e Zelensky sconfitti

Da qualsivoglia prospettiva, sembra che ormai la guerra in Ucraina si avvii alla propria conclusione. E non possiamo che rallegrarcene. Vladimir Putin, presidente russo, e Donald Trump, il codino biondo che fa impazzire il mondo, hanno già trovato la quadra, come si suol dire. E sono risoluti nella loro decisione di porre fine a questo sciagurato e osceno sconfitto, che già troppi lutti ha causato sia sul fronte russo, sia soprattutto su quello ucraino. Come prevedibile, e nonostante tutti i proclami del guitto Zelensky, attore Nato, e dei cortigiani europei del bellicismo atlantista, l'Ucraina non è nemmeno vagamente riuscita a imporsi e a trionfare sulla Russia. A quanto pare, abbassare la temperatura di un grado e chiudere i rubinetti di casa - come nel 2022 ci chiedevano di fare - non è servito a molto, se non a dare prova del tramonto dell'Occidente. Non era necessaria in effetti una scienza per prevederlo, e solo un'ideologia ottusa come quella dell'Unione Europea poteva far credere il contrario alle masse tecnonarcotizzate e teledipendenti. I veri sconfitti di questa guerra sono, naturalmente, il guitto di Kiev, del tutto simile ai burattini di Mangiafuoco, che una volta utilizzati non servono più e vengono gettati alle fiamme, e poi quell'Unione Europea che fin da subito ha pateticamente assunto la postura del servo e ora come servo senza dignità viene trattato fino in fondo. Non ha vinto soltanto Putin, che naturalmente ha ottenuto ciò che desiderava, frenando l'avanzata dell'imperialismo a stelle e strisce e bloccando finalmente la possibilità dell'ingresso dell'Ucraina nella Nato, braccio armato della violenza della civiltà dell'hamburger. Ha vinto anche il codino biondo che fa impazzire il mondo: soprattutto ha vinto sull'Unione Europea, che ora è più debole che mai ed è ancor più dipendente di prima rispetto al proprio padrone a stelle e strisce. Si potrebbe anzi dire, a posteriori, che questa è stata certamente la guerra della civiltà del dollaro contro la Russia, ma anche e non trascurabilmente il conflitto condotto da Washington contro l'Unione Europea, che ora esce con le ossa rotte. Viene platealmente punita per aver osato in passato guardare alla Russia e alla Cina, tradendo idealmente il proprio sempiterno padrone a stelle e strisce. E ora viene brutalmente riportata alla propria subalternità totale rispetto a Washington, vedendosi costretta a troncare ogni rapporto con la Russia e con la Cina: emblematico risulta il caso del gas, che ora l'Unione Europea è costretta ad acquistare a prezzi esorbitanti da Washington, e che prima, come è noto, comprava a prezzi contenuti da Mosca. E, mentre si registra questa Caporetto, la signora Ursula von der Leyen propone urbi et orbi il riarmo dell'Europa. Vi sarebbe da ridere, se solo non vi fosse da piangere. Il vertice di Parigi tra i paesi europei per discutere della guerra in Ucraina non fa, poi, che segnalare una volta di più la morte ormai evidente dell'Unione Europea, del tutto simile a uno zombie che ancora cammina ma che già da tempo ha abbandonato la vita. Si potrebbe anzi ragionevolmente asserire che l'epilogo della guerra in Ucraina possa intendersi come la pietra tombale sull'Unione Europea. La Russia di Vladimir Putin e gli Stati Uniti d'America del codino biondo che fa impazzire il mondo, Donald Trump, hanno già deciso che la guerra deve finire e lo hanno fatto escludendo integralmente l'Unione Europea dalle trattative. L'Unione Europea dunque continua a essere trattata come un servo senza dignità, ed è giusto che sia così, dato che essa stessa ha da subito assunto l'ignobile postura del servo. Essa, insieme con l'Ucraina del guitto Zelensky, attore Nato, prodotto in vitro di Washington se non di Hollywood, è la vera sconfitta della guerra. Non solo perché è stata ridicolmente esclusa dalle trattative di pace, ma anche perché si trova ora a essere decisamente più debole di quanto già non fosse prima che la guerra principiasse. La vittoria di Washington si misura anche da questo: l'Unione Europea si trova ora a essere ancora più soggiogata dalla potenza a stelle e strisce, avendo spezzato i suoi legami con la Cina e con la Russia e trovandosi ora a dipendere in toto da Washington. Sì, la guerra d'Ucraina non è stata solo la guerra della civiltà del dollaro contro la Russia, colpevole di non genuflettersi al suo dominio: è stata anche la guerra che Washington ha condotto contro l'Unione Europea, per punirla per le sue precedenti simpatie verso la Russia e verso la Cina e per renderla ancora più subalterna al proprio dominio. Si pensi anche solo alla controversa questione del gas, che prima l'Europa acquistava a prezzi contenuti dalla Russia e che ora è costretta a comprare a prezzi esorbitanti dal cosiddetto amico americano. Per non parlare poi della Germania, tradizionalmente celebrata come la locomotiva d'Europa: la Germania si trova ora in una crisi profondissima, che si lascia inquadrare sotto il segno della recessione, come limpidamente affiora dal comparto automobilistico in crisi nera. Che succede se crolla la Germania? Non è difficile immaginarlo: con effetto domino, precipita l'intero costrutto tecnocratico dell'Unione Europea, tempio vuoto che santifica il capitale finanziario e quotidianamente umilia e mortifica lavoratori e ceti medi. Se, come ormai pare evidente sotto ogni profilo, l'Unione Europea dovesse crollare, allora non resterebbe che dire con le parole del poeta: nunc est bibendum. Intanto, Enrico Mentana, con l’usuale sobrietà, vomita odio verso i "manigoldi di cartone" (sic!) che osano sostenere le ragioni di Putin e di Trump, offendendo l’invaso: con un piccolo ripasso di storia, sarebbe d’uopo far notare al bardo del pensiero dominante, Mentana, che l’invaso è la Russia, gradualmente accerchiata dall’uccidente fin dagli anni Novanta.

23/02/2025 12:15
Festival di Sanremo, il tempio del musicalmente corretto

Festival di Sanremo, il tempio del musicalmente corretto

Puntuale come un orologio elvetico, anche quest'anno vi è il festival della canzone italiana di Sanremo. Come ogni anno, il sottoscritto ha trascorso altrimenti il suo tempo, nella fattispecie leggendo di filosofia. Il festival della canzone di Sanremo rappresenta il non plus ultra della distrazione di massa cara al potere. La variante postmoderna del panem et circenses dei romani. Divertimento nell'accezione sottolineata da Pascal nei suoi "Pensieri": se devertere, distrarsi rispetto alla realtà e alle sue contraddizioni, ai suoi traumi e ai suoi conflitti. Per un'intera settimana, gli strateghi del consenso e i padroni del discorso possono tirare il fiato, poiché i problemi reali del mondo contraddittorio di cui siamo abitatori resteranno integralmente fuori dai radar. Perché, si sa, nella civiltà dello spettacolo è ciò che appare. E nulla esiste se non ciò che appare. Oltre a questa funzione, ve ne è un'altra svolta da Sanremo: la diffusione a tambur battente del pensiero unico di glorificazione dei rapporti di forza della globalizzazione neoliberale. Una grande ortopedizzazione di massa volta a far sì che gli internati dell'antro platonico amino le proprie catene e si educhino a comprendere la splendente razionalità di ciò che quotidianamente li fa soffrire: celebrazione della globalizzazione e dei suoi stili di vita, dissacrazione del sacro e santificazione dell'eroticamente corretto pansessualista e deregolamentato. Insomma un poderoso dispositivo di imposizione mediatica delle categorie mentali e psicologiche funzionali allo status quo. Sul palco di Sanremo il musicalmente corretto e il politicamente corretto si intrecciano senza soluzione di continuità. Per un verso, si registra il più mortificante conformismo all'insegna della dissacrazione del sacro e della celebrazione della postura liberal-progressista, a tal punto che si potrebbe ragionevolmente asserire che ormai Sanremo, più che un festival della canzone, figura come un palcoscenico di ostentazione e di propagazione dei moduli del pensiero unico politicamente corretto di completamento del nuovo ordine mondiale turbocapitalistico. Per un altro verso, domina incontrastato il musicalmente corretto: canzoni per lo più orrende, vacue, coerenti con la civiltà che ha innalzato il nulla a proprio orizzonte. La morte dell'arte è il tratto che caratterizza il festival di Sanremo, con la sua mediocrità elevata a stile, con la sua superficialità innalzata a paradigma. Quest'anno peraltro ha preso parte alla rassegna anche Bergoglio, che ha inviato un video messaggio da diffondere durante la kermesse culturale. Una volta di più, Bergoglio si conferma a suo agio più nei salotti televisivi che in chiesa, figurando ormai sotto ogni profilo come un caposaldo del pensiero unico politicamente e teologicamente corretto. Senza mai parlare di Dio e del Sacro, Bergoglio non fa che ribadire i punti salienti del pensiero unico: quella che propone è una fede low cost, tale per cui il buon cristiano è ormai indistinguibile dal buon consumatore. Insomma, Sanremo è davvero il tempio della dominazione simbolica del padronato cosmopolitico.

16/02/2025 12:00
Bill Gates da Fabio Fazio: la catechesi liberal-progressista e la nuova caverna di Platone

Bill Gates da Fabio Fazio: la catechesi liberal-progressista e la nuova caverna di Platone

Nei giorni scorsi, sui canali social di La9, è stata annunciata con tanto di gigantografia la presenza imperdibile per domenica sera di Bill Gates, il turbocapitalista che i giornali aziendali da anni definiscono indecorosamente "filantropo", rovesciando more solito la realtà a beneficio dei rapporti di forza dominanti. Lo ripeto una volta di più: Orwell era un dilettante in confronto alla situazione odierna, che ha superato di diverse misure quella di 1984. Chi ancora non sia stato lobotomizzato, anzi "logotomizzato", per usare un efficace neologismo, sa bene che Bill Gates non è affatto un filantropo, a meno che per filantropia non si intenda il fare il proprio interesse a nocumento di quello dell'intera società. Bill Gates, come un tempo si sarebbe detto, quando ancora si aveva coscienza dei rapporti di forza e dello sfruttamento connesso, non è se non un nemico di classe: non va amato né venerato, ma combattuto sul piano delle idee e sul piano politico. Bill Gates che, tra l’altro, ha candidamente ammesso, ancora recentemente, che da bambino era un "disadattato" (sono parole sue). Il salotto televisivo di Fabio Fazio si conferma una volta di più come il tempio del pensiero unico di completamento della globalizzazione neoliberale in stile arcobaleno e liberal-progressista. Dalla giornalista mainstream Cecilia Sala al giornalista iperatlantista Giannini, per non parlare poi del ragazzino di una certa kual kultura (simbolo dell'integrazione di un'intera generazione) e del bardo cosmopolita del sontuoso attico di Nuova York, Roberto Saviano. Un salotto televisivo che, in fondo, ha un solo mal celato obiettivo: far amare alle masse popolari le proprie catene e indurle a detestare aprioricamente tutto ciò che possa spezzarle. La caverna di Platone 2.0. Non troverete mai in detto salotto lavoratori, gente del popolo o anche solo pensatori che ancora pensino e che mettano in discussione gli assetti della globalizzazione neoliberale e chiamino le cose con il loro nome, non è contemplato dalla produzione e dalla ars regendi di Fabio Fazio. Nel salotto di Fabio Fazio la globalizzazione neoliberale è il paradiso, tutto ciò che osi contestarla viene criminalizzato come se fosse l'inferno. Il pensiero unico procede in questa maniera, venendo ripetuto ipnoticamente in assenza di contraddittorio, di più liquidando l'idea stessa di contraddittorio come complottistica e fascistoide, e con ciò stesso ammettendo che un unico pensiero è ammesso perché un unico pensiero, quello voluto dai padroni, risponde ai canoni della open society con sbarre arcobaleno. Non è difficile immaginare i punti che il nemico di classe Bill Gates impropriamente detto filantropo verrà snocciolando nel suo sermone senza contraddittorio, con le domande aperte del sussiegoso Fazio: ci spiegherà che noi, masse indesiderate e mangiatori inutili, dobbiamo piegarci alla transizione ecologica e a quella digitale, e che in definitiva ciò che ci chiedono i padroni per il loro interesse corrisponde in realtà al nostro interesse e al nostro bene. Ci spiegherà, in sostanza, che lui e la sua classe agiscono sempre e solo nell'interesse dell'umanità e per questo dovremmo essere loro grati in eterno. Ci spiegherà, ancora, che il mondo della globalizzazione della disuguaglianza è un paradiso in terra nonostante le fastidiose increspature causate da ottusi e terrapiattisti che ancora osano contestare il migliore dei mondi possibili, quello del capitalismo senza frontiere, il paradiso dei pochi che si regge sull'inferno dei più. Gli intellettuali organici al sistema dominante non fanno altro che spiegare da mane a sera la perfetta e splendente razionalità di tutto ciò che fa quotidianamente soffrire le masse popolari, dalla globalizzazione al mercato senza frontiere, dall'immigrazione di massa alla competitività no border. Sarà, come sempre, il capolavoro della propaganda a beneficio dell'ordine dominante; ordine dominante che non soltanto produce l'intollerabile, ma che uno motu genera e plasma soggetti disposti a tollerarlo con stolta letizia, proprio come i cavernicoli ottenebrati dell’antro di Platone. Mai una volta - e ve ne stupite? - che il signor Soros, il signor Gates e i generosi membri dell’upper class finanziaria postmoderna e apolide foraggino i lavoratori, i popoli massacrati dal debito (Grecia), i diritti sociali in fase di smantellamento. Non v’è filantropia, né il mondo è retto oggi da pacifiche buone intenzioni. Continua a prevalere il conflitto: tutto è conflitto, tutto è lotta, tutto è prassi dei dominanti per affermare i propri interessi. Guai a perdere di vista questa elementare verità che Marx ci ha trasmesso in eredità. Di qui occorre ripartire per organizzare la risposta dei dominati, per proporre piste di emancipazione reale. Naturalmente, fuori dal salotto fintamente pluralista di Fabio Fazio.

09/02/2025 11:20
La giornata della memoria e le sue controversie

La giornata della memoria e le sue controversie

Nei giorni scorsi, si è celebrata, come ogni anno, la giornata della memoria legata alla tragedia di Auschwitz, tragedia che, come è noto, ha riguardato, oltre agli ebrei, comunisti e omosessuali, rom e dissidenti. Liliana Segre, senatrice a vita e a suo tempo vittima delle persecuzioni naziste, ha asserito che, di questo passo, in futuro il ricordo della Shoah sarà cancellato. A mio giudizio, corriamo un rischio forse anche maggiore, se mai è possibile: quello dell’utilizzo della memoria in chiave ideologica per giustificare le contraddizioni del presente. Basti ricordare il fatto che la Russia, anche quest'anno, è stata vergognosamente esclusa dalle celebrazioni ufficiali della giornata della memoria: si tratta di un paradosso evidente, che oltretutto si pone come una offesa alla memoria stessa, considerato il fatto che furono proprio i carri armati sovietici a liberare Auschwitz il 27 gennaio del 1945. Giornata della memoria corta, verrebbe da dire. La propaganda hollywoodiana sta già da tempo cancellando la memoria, riscrivendo e riplasmando orwellianamente la storia a proprio uso e consumo e, naturalmente, celebrando i soli americani come liberatori dell'Europa. L'obiettivo di Washington oltretutto non è soltanto quello di estromettere la Russia dal ricordo della liberazione ma di impiegare il ricordo stesso della liberazione per giustificare la propria permanenza eterna sul territorio europeo in qualità di dominatori. Come a dire "noi americani vi abbiamo liberati e ora abbiamo il diritto di occupare in eterno con le nostre basi il vostro territorio". Non sfugga poi che nei discorsi ufficiali tenuti in Italia nei giorni scorsi, come ad esempio in quello della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, non si è fatto cenno nemmeno per sbaglio al genocidio in atto a Gaza. Eppure a Gaza si sta verificando quello che non possiamo definire altrimenti se non genocidio, e ci scuserà la senatrice Segre, che in più occasioni si è peritata di precisare che il termine non può essere applicato in relazione a ciò che sta accadendo a Gaza. Non saprei davvero trovare un sinonimo o un termine egualmente appropriato. Non dovrebbe la memoria storica anzitutto educarci a non ripetere le tragedie del passato e, se si ripetono, a condannarle e ad agire per fermarle il prima possibile? Era questa la funzione che giustamente assegnava alla memoria Theodor Adorno, il quale si avventurava a dire che, dopo Auschwitz, tutta la cultura è spazzatura: tesi esagerata, indubbiamente, che rimodulerei sostenendo che è spazzatura tutta la cultura che usa la memoria del passato per giustificare le atrocità del presente. Aveva ragione Gramsci, allorché sosteneva che la storia insegna, ma non ha scolari, e proprio per questo siamo condannati a ripeterla con tutti i suoi supplizi e con tutte le sue atrocità. In occasione della recente celebrazione della giornata della memoria, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha spiegato solennemente, senza peraltro fare un solo cenno a quel che sta accadendo a Gaza, che il nazifascismo è una "tentazione che torna". Abbiamo ancora una volta l'epifania del logoro ritornello dell'antifascismo in assenza di fascismo; ritornello funzionale alla tenuta dell'ordine neoliberale. L'abbiamo ripetuto più volte e lo sottolineiamo anche ora: l'antifascismo in presenza di fascismo, come fu quello di Gramsci, era doveroso ed eroico. Ma qual è la funzione dell'odierno antifascismo in assenza di fascismo, del tutto inaccostabile al nobile antifascismo di Gramsci? A mio giudizio, l'antifascismo in assenza di fascismo figura oggi come una patetica fiction volta sostanzialmente a puntellare ideologicamente e a santificare la società della violenza economica dei mercati. Svolge una parte sostanzialmente apotropaica, dacché dirotta lo sguardo rispetto alla contraddizione principale del market system, lasciando intendere che la società così com'è sia in sé giusta e buona, da difendere rispetto al ritorno del fascismo, a sua volta identificato propagandisticamente con ogni anelito di trasformazione della società realmente data. Inutile sottolineare che oggi la violenza subita da giovani e lavoratori non sia più quella del manganello fascista, per fortuna morto e sepolto da diversi decenni, ma quella del libero mercato concorrenziale e della competitività planetaria, che va riducendo ogni giorno le condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari, esercitando su di esse una violenza inaudita. L'unico senso che potrebbe avere oggi l'antifascismo sarebbe quello di determinarsi come anti-capitalismo, ma è esattamente quello che non avviene, dato che, in maniera contraria, l'antifascismo viene utilizzato come alibi per giustificare il capitalismo stesso nella sua forma finanziaria e precarizzante. Proprio così, l'antifascismo in assenza di fascismo permette alla massima parte delle forze politiche di non dover essere anti-capitaliste in presenza di capitalismo e anzi di farsi paladine del capitalismo stesso, mutato ideologicamente in società democratica che deve essere difesa appunto dal ritorno del fascismo per fortuna completamente estinto. Il paradosso oltretutto sta nel fatto che viene santificata come progressista e democratica la posizione di chi difende la società della asimmetria capitalistica, celebrata come non plus ultra della democrazia, e viene viceversa demonizzata come fascista la posizione di chiunque aspiri a superare il capitalismo (gli stessi Marx e Lenin, se tornassero in vita, sarebbero oggi additati come fascisti dall'ordine discorsivo dominante). Il capitalismo, che un tempo si servì del fascismo, oggi non ne ha più alcun bisogno e può utilizzarne la memoria come clava ideologica per giustificare se stesso nella sua nuova fase deregolamentata e finanziaria, anarchica e postmoderna. Giusto ricordare il passato e le sue atrocità: ma la memoria deve anzitutto educare a non riprodurre e a non giustificare le atrocità che tornano a realizzarsi.

02/02/2025 12:00
L'esordio di Donald Trump: un'analisi critica

L'esordio di Donald Trump: un'analisi critica

È giunto infine il giorno tanto atteso o tanto temuto, a seconda delle prospettive, dell’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, il codino biondo che fa impazzire il mondo. La cerimonia è stata come sempre una vera e propria americanata, stucchevole e hollywoodiana. Ma questo già si sapeva. Nihil novi sub sole. Da rilevare, oltretutto, l’assenza del guitto di Kiev, l’attore Nato Zelensky, che pure pare avesse chiesto ripetutamente di essere invitato. Ci sembra già un buon segnale, assolutamente da non sottovalutare. Biden, l’arcobalenico e vegliardo presidente uscente, se ne va compiendo l’ultima malefatta, la "grazia preventiva" concessa a Fauci: per inciso, se una persona è innocente, perché mai dovrebbe accettare la grazia (ricordiamo che Gramsci non la accettò)? Riconoscere la grazia non significa riconoscere di fatto la propria colpevolezza? Uno Stato che ha inventato la guerra preventiva non stupisce che inventi ora anche la grazia preventiva. Sia quel che sia, desidero riconfermare la mia diagnosi. Peggio di Donald Trump, solo Joe Biden. L’abbiamo detto e lo ripetiamo, a beneficio dei tanti capita insanabilia che si attendono ora una rivoluzione radicale delle strutture stesse del sistema dominante: tale rivoluzione non vi sarà, per l’ovvia ragione che Donald Trump è parte integrante, sia pure come anomalia, di detto ordine dominante. Nel 2017 deregolamentò la finanza a beneficio di Wall Street, anzi di War Street (altro che amico del popolo!). È del tutto dalla parte di Israele, non meno di Biden. Il Cremlino stesso ha fatto sapere che non si aspetta grandi trasformazioni con l’avvento di Trump. La cosa più ridicola resta l’atteggiamento da sudditi degli europei, che sperano nell’imperatore buono anziché mettere in discussione il loro essere sudditi perenni dell’impero a stelle e strisce (cosa che, naturalmente, seguiteranno a essere anche con Trump). Trump ha già dismesso, come prima mossa, l’oscena impalcatura woke-arcobaleno: si torna ai due soli sessi e si cancellano le politiche dell’arcobaleno. Cosa giusta e buona, ma non basta: l’arcobaleno è l’effetto perverso del libero mercato deregolamentato, togliere il primo lasciando il secondo significa cancellare gli effetti mantenendo le cause. E, come prevedibile, Trump non farà nulla contro il fanatismo del libero mercato del quale egli stesso è fervente cultore. E che dire di Musk? Alla cerimonia, l’abbiamo visto saltellare come un attore hollywoodiano, in una scena francamente raccapricciante, in specie se considerata in relazione alla serietà della politica in Italia prima della fine della prima Repubblica. Fa sorridere vedere persone che in Europa e magari anche in America pensano che Trump e Musk rappresentino il cambiamento, quando semplicemente sono dramatis personae dell’integralismo del libero mercato e delle asimmetrie sempre maggiori che esso produce (per inciso, Elon Musk è tra gli uomini più ricchi del pianeta, altro che antagonista del sistema dominante!). Insomma, tutto cambia perché nulla muti: dal capitalismo arcobaleno e green si passa a quello grigio, dalla sinistra fucsia si transita alla destra bluette. Il capitalismo imperialistico continua nella sua rovinosa marcia come se nulla fosse, proponendo l’alternativa tra Trump e Biden come finta antitesi che in realtà ripropone sempre da capo il medesimo sistema totalitario. Anche in questo sta la forza del capitalismo, nel produrre antagonismi tra parti che egualmente sono espressione del medesimo ordine, e che dunque contribuiscono a far apparire pluralistico un ordine che non lo è. Oltretutto Trump esordisce ricollocando Cuba tra gli Stati potenzialmente terroristici: non un granché, come inizio.

26/01/2025 11:50
Elezioni annullate in Romania: e ora la UE farà lo stesso in Germania con Alternative fuer Deutschland?

Elezioni annullate in Romania: e ora la UE farà lo stesso in Germania con Alternative fuer Deutschland?

Possiamo dirlo senza ambagi: l’ultima frontiera mentale è stata abbattuta, l’ultima finestra di Overton è stata spalancata. È accaduto realmente: sono state annullate le elezioni presidenziali in Romania, che avevano dato vincente alle primarie Georgescu, candidato dichiaratamente vicino alle posizioni della Russia e di Putin. Il pretesto dell’annullamento delle elezioni sarebbero le presunte interferenze della Russia; interferenze indimostrate e semplicemente dichiarate, a quanto pare. Si sa, nella liberissima Europa le uniche interferenze ammesse sono quelle di Washington. A questo punto, il dilemma amletico così suona: è nato un colpo di stato, o è un colpo di stato Nato? Come ricordavo poc’anzi, si è spalancata una nuova finestra di Overton: per la prima volta è passato il principio secondo cui se le elezioni danno un esito sgradito a Washington, possono serenamente essere annullate. D’altro canto, nei giorni scorsi, Washington aveva fatto sapere che se la Romania si fosse discostata dall’occidente ne sarebbero discese pesanti conseguenze. Le prime pesanti conseguenze non hanno tardato a manifestarsi: sono, appunto, state annullate le elezioni. Provate anche solo a immaginare a parti inverse la reazione dell’Occidente: provate a immaginare se, ex hypothesi, Putin annullasse in Russia delle elezioni con esito a lui sfavorevole sostenendo che vi sono le ingerenze statunitensi. Subito l’occidente, anzi l’uccidente, urlerebbe allo scandalo e alla dittatura, al totalitarismo e all’infamia massima. Ma se a operare in quel modo è l’uccidente, allora la narrazione cambia di 180 gradi. Tant’è che adesso ci spiegano che le elezioni sono state annullate per proteggere la democrazia. Non sfugga il paradosso lampante, non passi inosservata la menzogna totale: per proteggere la democrazia ci dicono che bisogna sospendere la democrazia. Per tutelare la democrazia bisogna annullare le elezioni con cui il popolo ha sovranamente scelto, cioè bisogna appunto annullare la democrazia. Ormai dovrebbe essere chiaro lippis et tonsoribus, ai ciechi e ai barbieri, per dirla con Orazio: la democrazia in Occidente è ormai soltanto un flatus vocis, una parola svuotata di significato, tale per cui si è in democrazia se si vota come vuole Washington. Il lemma democrazia oggi copre una realtà intimamente non democratica, che sempre più puzza di dittatura imperialistica mascherata. Detto altrimenti, i popoli europei sono liberi di votare come vogliono, a patto che votino come vuole Washington, pena vedersi annullate le elezioni, come ora è accaduto in Romania. Il re è nudo, come si suol dire. E intanto, nel silenzio mediatico generale, il popolo della Romania sta protestando contro questa profanazione della democrazia. Thierry Breton, ex commissario dell'Unione Europea, ha recentemente rilasciato delle dichiarazioni che meritano di essere commentate criticamente. Segnatamente egli si è espresso sulle elezioni in Germania, dicendo testualmente: "Se necessario, faremo come in Romania". Il riferimento, naturalmente, riguarda la possibile vittoria di Alternative für Deutschland, un partito che evidentemente non piace all'ordine neoliberale dominante, benché a dire il vero sia tutto fuorché anti-sistemico, dato che tra l'altro supporta Israele e non ha certo una visione anticapitalistica del mondo. Ma basta anche solo risultare vagamente disallineati rispetto all'ordine dominante per essere stigmatizzati e avversati, come appunto avviene per Alternative für Deutschland (che definirei una anomalia dell'ordine neoliberale più che una forza antitetica rispetto a detto ordine). Insomma, come volevasi dimostrare, l'annullamento recente delle elezioni in Romania ha spalancato una pericolosa finestra di Overton, che i gruppi dominanti dell'ordine neoliberale sono pronti a mettere a frutto molte altre volte. Non è implausibile immaginare che d'ora in avanti verranno annullate le elezioni in cui a vincere saranno forze sgradite all'ordine liberale e atlantista, per il tramite della mobilitazione di argomenti come quelli già utilizzati in relazione alla Romania, vale a dire le fantomatiche interferenze russe. Una volta di più, l'ordine della civiltà turbocapitalistica si conferma tutto fuorché democratico, essendo meglio inquadrabile come una plutocrazia imperialistica finanziaria. Non soltanto manca la sostanza democratica, vale a dire la decisione sovrana del popolo sulle questioni dirimenti della vita pubblica (a decidere, lo sanno ormai anche i bambini, sono i mercati sovrani e cosmopolitici): oltre a ciò, sembra sempre più mancare anche la forma democratica, dato che l'esito delle elezioni sembra ormai liberamente rovesciabile come nel caso della Romania. Insomma, l'ordine contemporaneo nega tanto la sostanza quanto la procedura della democrazia e, ciò non di meno, continua fieramente a proclamarsi democratico, delegittimando come non democratico ogni altro sistema. Non molto tempo addietro, il grigio tecnocrate di Bruxelles Oettinger si era avventurato a sostenere che i mercati avrebbero insegnato agli italiani come votare... Una formula in cui si condensa perfettamente l'orientamento non democratico della civiltà dei mercati, quella che Angela Merkel ebbe una volta a definire come la "democrazia conforme al mercato" (e non, si badi, il mercato conforme alla democrazia). Mi sia consentito ricordare brevemente chi è Thierry Breton, per darne un breve ma necessario identikit di classe. Ex commissario europeo che ha promosso il Digital Service Act (DSA), Breton è stato direttore generale prima di Thomson e poi di France Télécom. Dal 2005 al 2007, sotto la presidenza di Jacques Chirac, è stato ministro dell'economia nel governo de Villepin, con posizioni sfacciatamente neoliberali. Dopo aver insegnato brevemente presso la Harvard Business School, Breton è tornato alla carriera manageriale in qualità di presidente di Atos, dal 2009 al 2019. Insomma, si tratta di un esponente della classe dominante neoliberale con forte incidenza politica nel quadro delle istituzioni di quella Unione Europea che non è altro se non una megamacchina finanzcapitalistica volta a potenziare il dominio delle classi dirigenti apolidi e a vessare i popoli e i lavoratori.

19/01/2025 13:40
Zuckerberg cambia rotta: via i fact-checkers da Facebook

Zuckerberg cambia rotta: via i fact-checkers da Facebook

Ebbene, Mark Zuckerberg ha deciso in questi giorni di porre fine al demenziale sistema del cosiddetto fact-checking, nome pudico, rigorosamente in lingua inglese, per non dire censura. Il patron di Meta sceglie dunque di seguire la via di X di Elon Musk, rete sociale sulla quale non esiste di fatto la censura ed è ancora possibile parlare liberamente. Che cosa ha indotto in concreto Mark Zuckerberg a prendere questa decisione e a cambiare traiettoria? Due le possibili interpretazioni, non necessariamente alternative tra loro: in primo luogo, il modello della libera espressione di X premia, laddove quello con censura di Facebook evidentemente alla lunga non dà buoni risultati in termini di utenze. La censura generalmente non piace e non stupisce dunque che le persone preferiscano utilizzare X rispetto a Facebook. Zuckerberg deve essersene accorto e su queste basi deve aver scelto, meglio tardi che mai, di cambiare direzione. In secondo luogo, a determinare la scelta può essere stata anche l'elezione di Donald Trump, il codino biondo che fa impazzire il mondo: in passato, Zuckerberg aveva candidamente ammesso di aver eseguito gli ordini di Biden e della Casa Bianca in tema di censura relativa all'emergenza epidemica. Ora il vento è cambiato e Zuckerberg si adegua. Sia quel che sia, non possiamo non rilevare come il sistema del fact-checking sia stolto e pericoloso: finisce per censurare come fake news o come violazione delle norme della community ogni interpretazione non aderente all'ordine simbolico dominante, facendo appunto trionfare la censura. Tanto più che, come non ci stanchiamo di sottolineare, le idee false si combattono con le idee vere, non con la censura. Il silenziamento apriorico di certe opinioni con l'etichetta di fake news e di complottismo rappresenta l'antitesi dello spirito socratico, che invece si determina nella discussione con tutti senza preclusioni: non certo per accettare relativisticamente ogni opinione, bensì per far trionfare la verità contro le idee false. Complottismo e lotta alle fake news sono le due categorie fondamentali con cui l'ordine discorsivo neoliberale prova a silenziare ogni prospettiva dissenziente, subito accostandola alle fandonie di chi dice che la Terra è piatta o che due più due fa cinque (tesi evidentemente deliranti ma che devono essere combattute e vinte con le idee non certo con la mordacchia). Il contrario di falsità è verità e non censura. Lotta al complottismo e alle fake news diventa con estrema facilità sinonimo di persecuzione di ogni pensiero diverso da quello che qualcuno ha deciso essere il solo possibile. La categoria di fake news presuppone una sorta di scientificità assoluta del mondo dello spirito che in realtà non esiste. Se è evidentemente una fake news dire che Re Luigi non morì nel 1793 (e anche in questo caso, perché non confutare la menzogna anziché silenziarla preventivamente?), come fare a classificare una fake news in relazione alla interpretazione degli eventi storici? Su che base silenziare come fake news la tesi di chi dice che Re Luigi fu giustiziato da degli eroi o, viceversa, quella di chi dice che fu assassinato da dei barbari? La posta in palio coincide con la liquidazione della possibilità di pensare criticamente la realtà sociale, politica ed economica nella quale siamo immersi e che già da tempo, non per caso, viene programmaticamente dichiarata senza alternative (there is no alternative).

12/01/2025 11:17
Giorgia Meloni ed Elly Schlein: la serietà, in politica, è un’altra cosa

Giorgia Meloni ed Elly Schlein: la serietà, in politica, è un’altra cosa

La vestale del neoliberismo arcobaleno Elly Schlein ha recentemente tuonato contro Giorgia Meloni, vestale del neoliberismo bluette: "Scenda dal ring, il Parlamento è una cosa seria". Sul fatto che il parlamento debba essere una cosa seria e che le politiche di Giorgia Meloni tutto siano fuorché serie, non possiamo che essere d'accordo in toto. Il governo di Giorgia Meloni riesce a risultare ogni giorno più giullaresco, come peraltro affiora in forma limpida quanto drammatica dal recente risibile codice della strada: esso rivela come il governo della destra bluette faccia la voce grossa coi deboli, cioè con i cittadini comuni, per poi svolgere la parte di docile cameriere rispetto ai forti, cioè ai padroni di Washington, di Bruxelles e del sistema bancario. Ci sembra tuttavia discutibile che a richiamare il tema della serietà politica sia proprio Elly Schlein: in effetti, ancora non abbiamo dimenticato, a proposito di grande serietà, le scene della vestale del neoliberismo arcobaleno che ballava scompostamente sulle note di Maracaibo a bordo dei carri dei Pride, tra parrucconi fucsia e uomini camuffati da donne. Sarebbe questo il modello di serietà propiziato dalla signora Elly Schlein? E in cosa si distinguerebbe, di grazia, da quello di Giorgia Meloni, che si fa i selfie con i soldati in Lituania o che si abbraccia con il guitto Zelensky, attore Nato (l’attore più pagato di tutti i tempi?)? È questa l'idea di serietà politica fatta valere dai nostri politici, sempre più indistinguibili da influencer e da uomini e donne dello spettacolo? Pensiamo anche solo per un istante alla serietà e alla compostezza di un Aldo Moro, di un Enrico Berlinguer o di un Giorgio Almirante, uomini dalle idee certo diverse, ma accomunati dalla dignità di portamento e di eloquio. Cosa avrebbero in comune con questi politici della prima Repubblica i vari Elly Schlein e Giorgia Meloni, Luigi di Maio e Matteo Salvini? La risposta naturalmente è già racchiusa nella domanda e chiunque può trarla molto facilmente. Nel tempo del dominio del mercato finanziario e della Tecnica, la politica evapora, lasciando spazio a personaggi dello spettacolo scevri di ogni capacità di decisione e di ogni reale valenza politica. Come non mi stanco di ripetere, destra e sinistra sono oggi soltanto le due ali dell'aquila neoliberale, i docili camerieri che prendono ordini, con zelo, dal padronato cosmopolitico. È questo, in effetti, il tratto più peculiare della politica al tempo del globalcapitalismo e dell’alternanza senza alternativa della destra bluette e della sinistra fucsia come "maggiordomi" che, con la livrea di colore differente, ugualmente sono al servizio del blocco oligarchico plutocratico neoliberale. La politica al tempo del neoliberismo si riduce, allora, a continuazione dell’economia con altri mezzi, a "gran teatro" sul cui palco va in scena il non democratico autogoverno dei ceti possidenti, mascherato da procedure elettorali che fanno coesistere l’apparente decisione sovrana popolare con la sua reale neutralizzazione. L’aquila neoliberale, con il grand récit elettorale dell’alternanza senza alternativa delle sue due ali destra bluette e sinistra fucsia – che, congiuntamente, formano il finto pluralismo del partito unico del capitale e della sua omogeneità bipolare –, egemonizza lo spazio politico: e, dall’alto, vola rapacemente verso il basso, aggredendo ceti medi e classi lavoratrici, popoli e nazioni. Nemica dell’alternativa reale, l’alternanza unica tra la sinistra fucsia e la destra bluette si conferma la base di tutti i progressi della dominazione neoliberale. E quello che viene osannato come "pluralismo" non è se non la concorrenza totalmente amministrata dalle coercizioni del mercato.

05/01/2025 11:54
Trump minaccia l'Europa, ma per la Meloni la vera minaccia è la Russia

Trump minaccia l'Europa, ma per la Meloni la vera minaccia è la Russia

Donald Trump, il codino biondo che fa impazzire il mondo, passa alla minaccia diretta contro l'Europa: se non comprate più gas e più petrolio dall'America, arriveranno sempre più dazi. La notizia si trova su tutti i principali quotidiani nazionali. Con buona pace dei tanti che si illudevano che con Trump le cose potessero cambiare radicalmente, tutto procede secondo la stessa traiettoria e secondo lo stesso copione: l'Europa, con Trump come con Biden, seguita a essere trattata da Washington come una colonia di second'ordine, da umiliare e da sfruttare senza limiti. L'Europa è dovuta entrare in guerra al fianco dell'Ucraina perché così ha voluto Washington, che sta conducendo la sua guerra contro la Russia utilizzando l'Ucraina e l'Europa come instrumenta belli. Ha dovuto fare le sanzioni alla Russia, distruggendo la propria economia, perché così ha chiesto la monarchia del dollaro. Non ha più potuto ricevere il gas dalla Russia, dovendosi rivolgere all'America per averlo pagandolo decisamente di più. E adesso, dulcis in fundo, le viene intimato di acquistare più gas e più petrolio, pena l'attivazione di misure repressive quali sono i dazi. Come non mi stanco di ripetere, la salvezza, se vogliamo scomodare una categoria teologica, non arriverà mai da Washington, con Trump o senza Trump. Potrà forse giungere dai Paesi disallineati che a Washington stanno resistendo con dignità. Trump, comunque lo si voglia intendere, resta una anomalia interna al sistema neoliberale, del quale fa comunque parte, come ora emerge da queste vili minacce rivolte all'Europa. Gli europei dovrebbero smettere una volta per tutte di perseverare nella propria subalternità mentale rispetto a Washington e dovrebbero principiare a immaginare seriamente la propria indipendenza dal giogo americano. E mentre ciò accade, così ha pontificato Giorgia Meloni nei giorni scorsi: "La Russia rappresenta per noi una minaccia". Si tratta, a ben vedere, di una affermazione palesemente infondata e, di più, strutturalmente demenziale. Perché mai la Russia di Putin rappresenterebbe una minaccia per l'Europa, stante il fatto che l'Europa fino a tempi recenti ha avuto ottimi rapporti con la Russia? Su che basi Giorgia Meloni fa la sua grottesca affermazione? Lo pensa veramente o svolge ancora una volta la semplice parte di megafono della voce del padrone a stelle e strisce? Anche un bambino di tre anni può consultare le mappe geografiche e scoprire che, dal 1989 ad oggi, la Russia non si è allargata verso l'Europa, ma al contrario si è "rimpicciolita". È stata la Nato, semmai, a espandersi a oriente, occupando gradualmente gli spazi dell'ex Unione Sovietica, accerchiando la Russia e portandola alla guerra di vampata nel 2022: guerra che coincide di fatto con il conflitto che la civiltà dell'hamburger ha fatto scaturire contro la Russia al fine di piegarla definitivamente. Se solo Giorgia Meloni avesse studiato un po' di più e fosse meno viziata dall'ideologia imperialistica rispetto alla quale il suo giullaresco governo risulta del tutto subalterno, saprebbe bene che la vera minaccia per l'Italia e per l'Europa è rappresentata proprio da Washington: contrariamente a quel che dice la narrativa ufficiale, la civiltà del dollaro non è il nostro alleato, ma è il nostro padrone; un padrone che tratta l'Europa tutta come una colonia al proprio servizio, facilmente sacrificabile sull'altare del proprio interesse imperialistico e peraltro sempre minacciabile come nei giorni scorsi ha fatto volgarmente Trump. Se Giorgia Meloni avesse studiato un po' di più, saprebbe che in Europa non esiste nemmeno una base militare russa o cinese, e invece ve ne sono centinaia di americane. Ancora, se Giorgia Meloni avesse studiato un po' di più, saprebbe che quelle basi non servono a proteggere l'Europa, come ripete vergognosamente l'ordine discorsivo padronale, ma servono a mantenere sotto scacco l'Europa, rendendola permanentemente subalterna a Washington. È per via dell'imperialismo di Washington che l'Europa ha interrotto i suoi rapporti con la Russia e alla Russia ha fatto oscene sanzioni che danneggiano soprattutto l'Europa stessa, come sa bene la Germania nella condizione in cui versa. Non mi stanco di ribadire che Orwell era un dilettante rispetto alla realtà presente: il penoso discorso di Giorgia Meloni lo rivela una volta di più. Il livello della propaganda ha raggiunto intensità mai sperimentata in precedenza, trovando ancora capita insanabilia disposti a prestare ascolto alle infinite menzogne che vengono quotidianamente diffuse dall’ordine discorsivo egemonico. L’ordine dominante produce l’intollerabile e, a un sol parto, soggetti disposti a tollerarlo, magari anche con ebete euforia.

29/12/2024 11:00
Chiude la fabbrica della carta Fabriano: alcune considerazioni controvento

Chiude la fabbrica della carta Fabriano: alcune considerazioni controvento

È purtroppo finita l'avventura della storica fabbrica di carta marchigiana Fabriano. "La storica produzione di carta Fabriano termina dopo 50 anni", leggiamo ad esempio su "Il resto del Carlino". Ben 173 lavoratori si trovano ora senza impiego e l'Italia – non solo le Marche – perde un altro marchio storico di grande rilievo, che ha fatto la storia del nostro Paese. Effetti della cosiddetta transizione digitale o della competitività globale? Probabilmente un combinato disposto delle due istanze. Il mondo del tecnofeudalesimo digitalizzato sta sostituendo i libri con gli schermi: gli schermi rappresentano al meglio l'essenza del mondo liquido, dove tutto scorre, e dove la lettura stessa diventa fluida e smart (il mondo delle "non cose" evocato dal filosofo Han). Tra i tanti fenomeni che si possono interpretare come peculiari della civiltà liquida e tecnomorfa, v’è anche il transito dalla forma-libro alla forma-schermo: il libro è un oggetto stabile, che rende disponibile un mondo compiuto e ordinato, là dove lo schermo fluidifica il reale e lo sottrae a ogni stabilità. L’ordinamento digitale mette, dunque, in congedo il nomos della terra, per dirla con Carl Schmitt. La globalizzazione neoliberale produce in forma parossistica quella che Marx nel "Capitale" chiamava la "centralizzazione del capitale", la quale si lascia esprimere iconicamente nella raffigurazione di Bruegel il Vecchio che mostra il pesce grande che mangia quello piccolo. Infatti, la legge della concorrenza capitalistica fa sì che i grandi gruppi divorino quelli piccoli e che il capitale si concentri nelle mani di pochi: tale concentrazione del potere economico si porta appresso la concentrazione del potere politico, come è sempre più evidente dal fatto che i grandi gruppi del capitale amministrano anche il potere politico, con pressioni sempre più massicce sui governi a loro volta sempre più subalterni al potere del capitale no border. Big tech, big Pharma, big food, ecc. Il capitolo XXIV del primo libro di Das Kapital, dedicato all’“accumulazione originaria”, ove Marx affronta il nodo della "centralizzazione capitalistica" (Zentralisation der Kapitale): "con la produzione capitalistica si forma una potenza assolutamente nuova, il sistema del credito, che ai suoi inizi s’insinua furtivamente come modesto ausilio dell’accumulazione (bescheidne Beihilfe der Akkumulation), attira mediante fili invisibili i mezzi pecuniari, disseminati in masse maggiori o minori alla superficie della società, nelle mani di capitalisti individuali o associati, diventando però ben presto un’arma nuova e terribile (eine neue und furchtbare Waffe) nella lotta della concorrenza e trasformandosi infine in un immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali". Il capitale finanziario favorisce la centralizzazione, nella forma di una nuova e "terribile" arma nella concorrenza: "I capitali più grossi sconfiggono quelli minori" scrive Marx, rendendo la concorrenza e il credito "le due leve più potenti della centralizzazione". La contraddizione non è più solo quella tra il capitale e il lavoro, ma anche quella interna alle fazioni differenti e antagonistiche del capitale stesso. I capitalisti più piccoli soccombono, precipitando nell’inferno del proletariato. E immani quantità di capitale e di potere connesso si concentrano nelle mani di sempre meno soggetti, generando un contesto sempre più marcatamente oligopolitistico. Peraltro, tali colossi globocratici – veri 'padroni del mondo' – non inverano soltanto la tesi marxiana della "centralizzazione dei capitali" ma, in pari tempo, dimostrano come essa trapassi anche, senza soluzione di continuità, in una conseguente centralizzazione del potere politico: la potenza economica di tali istituti finanziari è tale da mutarsi in forza politica in grado di porsi al di sopra degli Stati e di condizionarli, assai frequentemente rendendoli semplici esecutori della loro voluntas economica, alla stregua di docili e zelanti maggiordomi. Anche questa è una delle cifre fondamentali della globalizzazione finanziaria: gli Stati sono soggiogati dalla potenza dell’economia finanziaria – il nuovo superiorem non recognoscens –, rispetto alla quale si trovano a svolgere una funzione prettamente ancillare. La tesi marxiana della "centralizzazione" del capitale risulta, ancora una volta, aderente alla realtà fattuale, se si considera che la classe turbocapitalistica dominante, liquida e post-borghese, conta attualmente una decina di milioni di persone in tutto il pianeta. D’altro canto, è noto che il mercato finanziario occidentale risulta signoreggiato da tre colossi americani, che rispondono ai nomi di Black Rock (che gestisce circa 10 trilioni di dollari), Vanguard (che ne amministra circa sette trilioni) e State Street (che ne controlla circa quattro trilioni). Non si contano, in effetti, le piccole e medie imprese italiane che in questi decenni hanno definitivamente abbassato la serranda, non riuscendo più a sopravvivere nel mondo della competitività planetaria. La legge della competitività capitalistica fa sì che, come usa dire, la moneta cattiva cacci quella buona e, dunque, le eccellenze come Fabriano vengano spazzate via da gruppi e da marchi che riescono a produrre la merce a prezzi più bassi, magari anche sfruttando il lavoro e l'ambiente senza limiti. Il capitalismo potrebbe con diritto essere inteso come la guerra di tutti contro tutti di hobbesiana memoria, una giungla in cui vince chi riesce a produrre al costo più basso, quelli che siano le conseguenze. Non per caso Hegel parlava di "regno animale dello spirito" in relazione al sistema dei bisogni dell'atomistica concorrenziale: nei cui spazi, appunto, lo spirito smarrisce la sua umanità e si fa ferino, producendo quello che Hegel stesso chiamava lo smarrimento dell'idea etica. Già questo peraltro basterebbe a mettere criticamente in discussione la sempre decantata globalizzazione, la quale, lungi dall'essere un campo neutro e magari anche encomiabile, rappresenta semplicemente l'humus ideale per il trionfo del dominio capitalistico e delle sue sempre più palesi malefatte su scala globale. Con la fine dell'avventura di Fabriano l'Italia perde un'altra sua eccellenza. Non è la prima e purtroppo temo non sarà neppure l'ultima. Questo aspetto, oltretutto, giova a mostrare come il conflitto non sia più solo, genericamente, tra capitale e lavoro: la nuova figura dello scontro è quella del capitale contro tutto e tutti, dall’ambiente alla vita umana, secondo una dinamica folle e irrazionale destinata a generare sempre nuove catastrofi di ogni genere. La si potrebbe idealmente raffigurare, in forma iconica, con La parabola dei ciechi (1568) di Bruegel il Vecchio, l’opera che immortala una colonna di ciechi che segue un altro cieco in direzione dell’abisso: non v’è immagine che meglio descriva la folle marcia nel baratro del nulla a cui la cosmopoli si è consegnata aprendo la via a quel nuovo capitalismo finanziario, che – contraddizione in movimento – sta trascinando nell’abisso la vita umana e del pianeta.

22/12/2024 11:30
"La Siria destabilizzata e le colpe dell’Occidente"

"La Siria destabilizzata e le colpe dell’Occidente"

In queste ore, la situazione in Siria risulta più drammatica del previsto: le milizie dell'isis stanno letteralmente mettendo a ferro e fuoco la nazione, come era ampiamente prevedibile. Da più fonti, apprendiamo che la famiglia del presidente Assad sarebbe già fuggita in Russia e lo stesso presidente è stato accolto a Mosca – l’ha ufficializzato il Cremlino – per mettersi al riparo rispetto a quello che ormai appare sotto ogni riguardo un regime change, vuoi anche un colpo di stato gestito dai terroristi jihadisti. Terroristi che, giova evidenziarlo, non si sa in nome di chi e finanziati da chi agiscano. Qualche sospetto, invero, lo abbiamo. Quel che è certo, al di là di ogni ragionevole dubbio, è che i terroristi colpiscono puntualmente quelle aree, quelle nazioni e quei governi che per un motivo o per un altro sono ostili all'occidente o, meglio, all'uccidente liberal-atlantista. Governi che quasi sempre, come nel caso della Siria di Assad, sono già da tempo nel mirino dell'uccidente stesso. Per quel che riguarda la Siria, pare quasi superfluo rammentarlo: da più di dieci anni, l'occidente a stelle e strisce le ha giurato inimicizia perpetua, e ciò in ragione del fatto che la Siria risultava – fino a prima del regime change – uno stato sovrano e resistente, vicino alla Russia e alla Cina e sideralmente distante dalla globalizzazione del dollaro e del nichilismo finanziario. Se anche non possiamo affermare che l'isis sia manovrato da Washington, abbiamo buone ragioni per dire che esso opera puntualmente nella stessa direzione degli interessi di Washington. Che non per caso è attualmente impegnata a condannare il governo di Assad più che il terrorismo dell'isis. Si tratterà magari di un caso, ma è un caso sicuramente degno di essere riscontrato. D'altro canto, lo sappiamo bene: Washington si oppone formalmente all'estrema destra neonazista ma all'occorrenza non disdegna di supportarla, come nel caso del famigerato e infame battaglione Azov in Ucraina. Che cosa vieta di ipotizzare che una prassi analoga possa avvenire in relazione al terrorismo? È un'ipotesi, più precisamente un'ipotesi basata sul pacato riscontro del fatto che i nemici dell'isis sono puntualmente gli stessi dell'Occidente a trazione washingtoniana. Quell'occidente che, non dimentichiamolo, nel caso dell'Iraq si inventò addirittura armi di distruzione di massa in realtà inesistenti al solo fine di poter occupare la regione e di poterla portare sotto l'egida neoliberale. Ricordate, nevvero, Colin Powell che agitava la provetta? Una scena indecorosa, che dovrebbe ormai indurre ogni essere umano dotato del logos a diffidare dei proclami bellicisti di Washington, sempre avvolti dalla retorica umanitaria e democratica. Oltretutto, così leggiamo sul sito di informazione Reuters: "Il governo di transizione guidato dai jihadisti di HTS ha annunciato che il Paese abbandonerà l'economia baathista a controllo statale a favore di un modello di libero mercato per attrarre investimenti". Dunque, secondo la narrativa occidentale oggi dominante, non soltanto i terroristi dell'isis operanti in Siria sarebbero democratici e arcobaleno (proprio come i nazisti del battaglione Azov, ça va sans dire!), ma anche neoliberali, pronti a portare il paese verso le magnifiche sorti del fanatismo del libero mercato concorrenziale, proprio come piace a Washington. L'abbiamo già detto e lo ripetiamo: è davvero curioso che i terroristi dell'isis colpiscano pressoché sempre bersagli coincidenti con quelli di Washington e adesso addirittura operino come agenti del capitalismo globalizzato, propiziando la liberalizzazione integrale della Siria e la sua immissione nei circuiti del mercato senza frontiere. I giornali occidentali in questi giorni stanno dando il peggio di sé, demonizzando a tutta pagina la Siria di Assad e, con movimento simmetrico, celebrando l'operato dei terroristi. Questo ci permette di asserire che la sorte della Siria per il futuro si lascia tragicamente accostare, fin da ora, a quella a cui sono andate incontro rispettivamente la Libia di Gheddafi e l'Iraq di Saddam: Libia e Iraq che, dopo essere stati destabilizzati dall'imperialismo etico e dai missili democratici dell'occidente, rectius dell'uccidente liberal-atlantista, sono successivamente precipitati nell'inferno in cui tuttora si trovano. Forse non tutti ricorderanno che l'Iraq, dopo essere stato sottratto a Saddam, è stato sottoposto a una cura neoliberale a dosi forzate, mediante una vera e propria liberalizzazione coatta e con un pacchetto di riforme neoliberali da far apparire perfino Reagan e la Thatcher come dei moderati. Insomma, quod erat demostrandum: questa volta grazie all'intervento diretto dei terroristi, la Siria di Assad, stato resistente alla globalizzazione imperialistica, è stata rovesciata e ora si accinge a entrare nell'inferno del neoliberismo e del nuovo ordine mondiale a trazione atlantista. Non stupisce davvero che gli araldi del pensiero unico politicamente corretto ed eticamente corrotto si spingano fino all'estremo della celebrazione dei terroristi che hanno messo a ferro e fuoco la Siria. Siamo in una situazione che ormai fa apparire lo stesso Orwell come un dilettante.

15/12/2024 11:10
"Francia nel caos: sinistra di Melenchon e destra di Le Pen uniti contro il liberal-atlantismo. Era ora"

"Francia nel caos: sinistra di Melenchon e destra di Le Pen uniti contro il liberal-atlantismo. Era ora"

La situazione francese è complessa e degna di essere commentata. "Cade il governo Barnier, la Francia precipita nel caos". Così leggiamo sui giornali. In terra gallica, si è registrata la mozione di sfiducia della gauche votata anche dal partito di Le Pen. Dunque è capitato, sia pure tardivamente, quello che avevamo detto a suo tempo, allorché vi furono le elezioni in Francia. L'estrema destra della Le Pen e l'estrema sinistra di Melenchon, se ancora vogliamo utilizzare queste categorie tolemaiche (ormai ampiamente inadeguate) della politica, si sono unite per mettere all'angolo Emmanuel Macron, presidente liberale e atlantista, prodotto in vitro dei Rothschild. Se si fossero uniti già al tempo delle elezioni, gli avrebbero direttamente impedito di andare al potere, come invece è sciaguratamente accaduto. Sia quel che sia, il fronte contro Macron prende corpo e fa cadere il governo: hoc erat in votis. Il fabula docet, da cui tutta l'Europa avrebbe da imparare, è che oggi il nemico principale è il liberalismo atlantista, semplice copertura politica della plutocrazia finanziaria dominante a base imperialistica. Per questo motivo, diventa più che mai di fondamentale rilievo compiere la rivoluzione copernicana della politica e abbandonare le categorie tolemaiche di destra e sinistra per approdare alla comprensione dell'unica vera dicotomia oggi vigente, quella tra l’alto della plutocrazia liberista e il basso delle masse popolari oppresse: occorre costituire un fronte unitario per la sovranità nazionale democratica contro i processi di sovranazionalizzazione capitalistica, rivendicando la centralità della sovranità popolare e l'esigenza di un indipendenza dell'Europa tutta dall'imperialismo di Washington al quale ad oggi è in toto sottomessa. Chi si ostina a ragionare con le categorie tolemaiche di destra e sinistra risulta soltanto uno strumento funzionale alla tenuta dell'ordine dominante, poiché dal conflitto permanente di destra e sinistra esce rafforzato e vincente sempre solo il fronte liberal-atlantista, la grosse Koalition turbocapitalistica. Occorre propiziare il transito dalla “fase tolemaica” alla “fase copernicana” della filosofia politica: o, per usare ancora un linguaggio caro a Kant, un risveglio dal “sonno dogmatico” e l’approdo a una prospettiva critica, finalmente in grado di orientarsi nel mare procelloso della mondializzazione neoliberale. All’orizzontalità topografica di destra e sinistra deve essere sostituita la verticalità oppositiva di alto e basso o, più precisamente, il conflitto tra l’oligarchismo liberista dell’alto e il populismo socialista del basso. Rispetto a questa nuova geografia della politica, destra e sinistra sopravvivono come parti a) di rappresentanza dell’alto contro il basso, b) di distrazione e divisione orizzontale nel basso, c) di programmatico impedimento di una “rivoluzione spaziale” della politica, che mostrando la nuova geografia, renda possibile la ripresa della rotta verso la terra ferma dell’emancipazione universale e del superamento dell’apartheid globale dell’asimmetria capitalistica. L’aquila neoliberale, con il grand récit elettorale dell’alternanza senza alternativa delle sue due ali destra bluette e sinistra fucsia – che, congiuntamente, formano il finto pluralismo del partito unico del capitale e della sua omogeneità bipolare –, egemonizza lo spazio politico: e, dall’alto, vola rapacemente verso il basso, aggredendo ceti medi e classi lavoratrici, popoli e nazioni. Nemica dell’alternativa reale, l’alternanza unica tra la sinistra fucsia e la destra bluette si conferma la base di tutti i progressi della dominazione neoliberale. E quello che viene osannato come “pluralismo” non è se non la concorrenza totalmente amministrata dalle coercizioni del mercato.

08/12/2024 11:40
"Educazione sentimentale: perché sono contrario al nuovo indottrinamento"

"Educazione sentimentale: perché sono contrario al nuovo indottrinamento"

L’attrice Paola Cortellesi ha affermato che sarebbe opportuno introdurre nelle scuole l'educazione sentimentale obbligatoria. Non è una tesi nuova: circola ormai da tempo e riaffiora periodicamente con cadenza regolare. Chiaro come il sole è che con l’introduzione dell'educazione sentimentale nelle scuole gli araldi dell’arcobaleno aspirano a indottrinare le giovani teste con il nuovo ordine erotico genderizzato e turbocapitalistico, basato sulla ostracizzazione della famiglia, liquidata come figura indissociabile dal patriarcato, e basato altresì sul consumismo erotico per atomi pansessualisti unisex. Uno dei punti saldi del nuovo ordine erotico riguarda oltretutto la colpevolizzazione permanente del maschio, ridotto a femminicida in pectore. Non deve sfuggire come la colpevolizzazione apriorica di un'intera categoria, basata sul genere o sul colore della pelle, sia sempre una forma inaccettabile di razzismo. Oltretutto serve alla narrazione neoliberale per orizzontalizzare il conflitto, spostando la lotta di classe verticale in basso e ridisponendola come lotta all'interno della medesima classe tra maschi e femmine. Bisogna avere oggi l'onestà di ribadire l'ovvio (anche l'ovvio vuole la sua parte): il conflitto è tra sfruttati e sfruttatori, maschi o femmine che siano. Nel nuovo ordine dell’accumulazione flessibile del capitalismo assoluto post-1989, si compie appieno e senza residui quel processo, già embrionalmente delienato dal Fromm dell’Art of Loving (1956), di indebolimento mercatistico dell’amore, culminante nella "sua disintegrazione nella società occidentale contemporanea. Il mondo della vita e, con esso, quella sua parte integrante che è la dimensione dell’amare, sono sussunti sotto il capitale flessibile e sotto il suo regime della sconfinata liberalizzazione dei consumi e dei costumi". Quest’ultimo li ridefinisce, li rimodella e li ricompone sul fondamento della logica stessa dell’onnimercificazione, trasformandoli in sue funzioni variabili. L’amore viene, così, ridisponendosi nella forma di una merce tra le merci, anch’esso consumabile e liberamente circolante, prodotto su misura per consumatori unisex che, senza limitazioni se non di ordine economico, possono fruirne in forme liberalizzate. Da vincolo solidale e antiutilitaristico, gratuito e relazionale, donativo ed etico, l’amore decade a merce di libero consumo per individui solidali e dal nesso intersoggettivo interrotto. L’amore mercificato decade, in tal guisa, al rango di godimento istantaneo e senza differimenti, consumato nello spazio effimero dell’hic et nunc e sempre da capo ricercato nell’ambito della libera circolazione concorrenziale. E il discorso del capitalista, per parte sua, non fa che saturare lo spazio mediatico spronandoci a consumare il maggior numero possibile di queste nuove merci specifiche che sono i sentimenti e le passioni, i piaceri e le relazioni: i ritmi della produzione, della circolazione e del consumo debbono, anche in questa sfera così particolare, mantenersi a livelli ragguardevoli, senza mai rallentare e, ove possibile, velocizzandosi in misura sempre crescente negli spazi deregolamentati dell’open society planetarizzata. Come si è cercato di chiarire in Minima mercatalia (2012), la logica dialettica di sviluppo del modo capitalistico della produzione consiste in un graduale abbattimento di ogni limite, di ogni barriera, di ogni confine in grado di frenare e disciplinare l’estensione multilaterale reale e simbolica della forma merce: la quale deve potersi affermare in forma absoluta, ossia a) “compiuta” pienamente perché b) “sciolta da” ogni limite superstite, sia esso di ordine materiale o immateriale, etico o religioso, geografico o morale. Se questa è, nella sua logica essenziale qui impressionisticamente richiamata, la dinamica dialettica di sviluppo del modo capitalistico della produzione, ne scaturisce more geometrico una conseguenza decisiva: esso, nella sua avanzata, deve di necessità mettere in congedo la sfera dell’amore, tanto nella sua immediatezza di sentimento relazionale puramente donativo, quanto in quella eticizzata nella forma della famiglia come sintesi realizzata dell’eros. L’amore relazionale e impermeabile alla grigia geometria del do ut des deve essere spodestato dal godimento individuale mercificato, deregolamentato e senza limitazioni di alcun tipo. Più precisamente, il nuovo ordine mondiale classista e reificato deve, a propria immagine e somiglianza, instaurare un parallelo ordine amoroso planetarizzato. Se la cifra del globalismo del mercato è la distruzione di ogni istanza etico-comunitaria (ossia il movimento che proponiamo di qualificare come “deeticizzazione”), di modo che il pianeta intero si riconfiguri come l’open space per la libera circolazione delle merci e dei consumatori, la stessa logica deve valere nella sfera dell’eros: che da legame solidale, comunitario, donativo e irriducibile alla logica mercantile dello scambio, viene ridisponendosi nella nuova forma di un consumismo amoroso neolibertino e post-familiare. Esso considera e tratta l’amore stesso come merce tra le merci, come relazione individualistica orientata a quella specifica forma del plusvalore che, in ambito erotico, è il plusgodimento. Si scrive educazione sentimentale, si legge barbarie in tinta arcobaleno. Love is love è la variante erotica del più noto business is business.

01/12/2024 10:30
Il punto di Diego Fusaro - "La guerra Russia-Ucraina pensata altrimenti"

Il punto di Diego Fusaro - "La guerra Russia-Ucraina pensata altrimenti"

Con il crollo della struttura diarchica dell’universo, si è aperta una nuova fase di conflitti, tutti diversi e, insieme, interni alla nuova “quarta guerra mondiale” (Costanzo Preve) avviatasi nel 1989. Essa, successiva alla terza (la “Guerra fredda”), è di ordine geopolitico e culturale ed è condotta dalla civiltà del dollaro contro the rest of the world, contro tutti i popoli e le nazioni che non siano disposti a sottomettersi al suo dominio, forma politica della conquista del mondo da parte della forma merce. L’atto genetico della presente quarta guerra mondiale deve essere rintracciato nell’implosione della forza politica che, per quasi cinquant’anni, aveva reso possibile il congelamento dei conflitti, pur con l’eccezione di alcuni rilevanti punti “caldi” (dalla Corea al Vietnam). Dissoltasi la potenza katechontica comunista, la scena mondiale si è contraddistinta per la riesplosione virulenta dei conflitti imperialistici. Sconfitta l’Unione Sovietica, la monarchia universale aspira alla conquista del mondo intero: e questo secondo la stessa logica della reductio ad unum del globalitarismo, di cui la potenza americana rappresenta la variante politica. È, con il vocabolario di Schmitt, il tempo della “guerra dell’inimicizia assoluta”, che “non conosce alcuna limitazione”, ma poi anche del Raumordnungskrieg, la “guerra per un nuovo ordinamento spaziale” a livello globale. La quarta guerra mondiale ha per scopo il mantenimento di un mondo monopolare (la global governance), la distruzione manu militari delle forze che ancora gli resistono, la prevenzione dell’emergenza di concorrenti asiatici o europei, la svalutazione del diritto internazionale e la mondializzazione senza frontiere dell’economia deterritorializzata e spoliticizzata. Come suggerito da Daniel Bensaïd in Elogio della politica profana, nulla più del discorso del presidente Bush del 20 settembre 2001, all’indomani della tragedia delle Twin Towers, permette di comprendere l’essenza della quarta guerra mondiale. Giacché i “terroristi” – cioè quanti non sono disposti a riconoscere la sovranità imperiale americana – “odiano le nostre libertà”, utilizzeremo – spiegava Bush – “tutte le risorse a nostra disposizione” per sconfiggerli. Ne scaturirà – sono ancora parole del presidente americano – “una lunga campagna senza precedenti”, condotta con “operazioni segrete, segrete fino al loro successo” e con mezzi inconfessabili. Il carattere mondiale di questa nuova guerra annunciata nel 2001 – ma già in atto fin dal 1991 – è ammesso dallo stesso Bush: “questa è una guerra mondiale. Questa è una guerra di civiltà” (this is the world’s fight. This is civilization’s fight). […] O siete con noi o siete con i terroristi”. Da questi passi emerge come, dopo il pericolo rosso ormai sconfitto, il terrorista sia divenuto il nuovo nemico assoluto della quarta guerra mondiale, il nuovo male radicale da estirpare con ogni mezzo. In tal maniera, si tracciano, con la grammatica di Schmitt, “nuove linee d’amicizia, al di là delle quali cadono bombe atomiche e bombe all’idrogeno”. Si inaugura, così, la corsa alla guerra giusta planetaria, versione contemporanea della crociata; e questo in uno scenario in cui amici sono quanti accettano il dominio unipolare del mondo, nemici quanti gli resistono. Per questa via, dopo l’11 settembre 2001, è normalizzata l’eccezione e, con essa, la crociata del Bene contro il Male, con tanto di riabilitazione della tortura come mezzo legittimo e di delocalizzazione delle prigioni clandestine (in tal maniera sottratte a ogni giurisdizione). Come suggerito da Agamben, azioni che, di per sé, non presentano il valore di legge, ne guadagnano la forza. Definito lo scontro come civilization’s fight e il nemico come the terrorist, non vi è pace né negoziazione possibile. Con il terrorista non si tratta, né si scende a patti, quand’anche venga sconfitto; semplicemente lo si disintegra, non importa con quale mezzo, ma sempre in nome dell’ideologia umanitaria e della lotta contro il Male. È, così, fondata quell’inimicizia assoluta che, come sapeva Schmitt, “attraverso il terrore e le misure antiterroristiche cresce continuamente fino alla volontà di annientamento”. Per questo, già a partire dal 1989, la sovranità imperiale mondializzata impone uno stato d’eccezione permanente. Se, con la Teologia politica di Schmitt, sovrano è colui che decide sullo Stato d’eccezione, nessuno è oggi più sovrano del Presidente statunitense. Ebenne, la guerra d’Ucraina deve essere intesa in questo contesto: non è la guerra della Russia contro l’Ucraina, come ripete l’ordine discorsivo manipolato, ma è il conflitto che l’America e l’occidente, anzi l’uccidente liberal-atlantista, conducono contro la Russia, nel tentativo di “normalizzare” e colonizzare una potenza non ancora piegata al nuovo ordine mondiale a stelle e strisce.

24/11/2024 11:25
IL PUNTO DI DIEGO FUSARO - Da Ratzinger alla neochiesa smart di Bergoglio

IL PUNTO DI DIEGO FUSARO - Da Ratzinger alla neochiesa smart di Bergoglio

Ratzinger incarnava il vecchio cristianesimo, di cui la civiltà dei consumi non aveva più alcun bisogno, mentre Bergoglio rappresentava quello nuovo, teologicamente corretto, di fatto indistinguibile dalla Weltanschauung consumista e permissiva propria della società dei mercati. Detto altrimenti, Ratzinger rappresentava l’estrema sopravvivenza del cristianesimo in un mondo che già aveva preteso di liquidarlo inappellabilmente, mentre Bergoglio incarnava il nuovo spirito di una Chiesa post-cristiana, neo-progressista e indistinguibile da una delle tante "agenzie" del mundus e per il mundus. Ratzinger provava a frenare e a contrastare quella potenza che, per converso, era favorita e propiziata da Bergoglio e dal suo teologizzare col martello. Variando la formula di Nietzsche, Bergoglio fa davvero teologia col martello, dacché decostruisce uno dopo l’altro i cardini della tradizione, i capisaldi del pensiero teologico occidentale e il depositum fidei del cristianesimo. La sua è, au fond, una "non-teologia" o, se si preferisce, un’"anti-teologia" che, di fatto, "svuota" la teologia nel nome della presunta esigenza di "aggiornarla" e di renderla all’altezza della contemporaneità. Con l’astratto obiettivo dichiarato di una "difesa" della teologia, "papa" Bergoglio produce concretamente la sua decostruzione. E, per questa via, favorendo l’evaporazione del cristianesimo che pure vorrebbe idealmente contrastare, ottiene il medesimo risultato a cui portano le tendenze sdivinizzanti della civiltà merciforme del nichilismo, vale a dire la liquidazione di ogni teologia e, più in generale, di ogni apertura alla trascendenza, a beneficio della fede nella "certezza sensibile" e nella scienza come unica forma di fede consentita. Senza esagerazioni, l’umanitarismo deteologizzato e per "anime belle" di Bergoglio finiva per porsi sempre più palesemente come una semplice variante di quella Sinistra fucsia e arcobalenica del Costume che, nel quadro dei reali rapporti di forza, svolgeva stabilmente, ormai da tempo, il ruolo di fedele guardia ideologica della Destra finanziaria e globalista del Danaro. Tutti i desiderata di quest’ultima, volti a garantirne il dominio su scala cosmopolitica, finivano, infatti, per essere legittimati sul piano culturale, politico e ora anche religioso dal fronte unito dell’arcobaleno, del quale, dal 2013, anche la neo-chiesa era parte integrante. La sinistra fucsia e neoliberista, precipitato inglorioso dell’evaporazione del comunismo storico novecentesco, finiva così per fondersi – quanto a contenuti e a ruolo “ancillare” rispetto all’ordine mercatista – con il nuovo cristianesimo postmoderno e deteologizzato di papa Bergoglio, esito ultimo dell’evaporazione del cristianesimo e della sua riduzione a discorso di accompagnamento per la globalizzazione infelice.

18/11/2024 15:47
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