
di Diego Fusaro

Vertice in Alaska. Putin esce vincitore: UE e Kiev con le ossa rotte
Nulla di fatto in relazione al vertice dell'Alaska tra Putin, presidente russo, e Trump, presidente della civiltà del dollaro. Non si è trovato l'accordo su Kiev, come d’altro canto sembrava plausibile dovesse accadere fin da subito. Trump ha comunque assicurato che ci sono stati "grandi progressi", e ha altresì dichiarato che sentirà Zelensky (dichiarazione, quest'ultima, che suona inavvertitamente comica, dato che il guitto di Kiev è stato tenuto ai margini delle trattative). Putin non ha perso occasione per rivolgersi criticamente all'Europa, esortandola a non ostacolare la pace, come evidentemente dal suo punto di vista sta facendo nella misura in cui continua a supportare le irragionevoli ragioni del guitto di Kiev, l'attore Nato Zelensky. A ogni modo, il vertice in Alaska con Putin e Trump rivela alcune cose interessanti: 1) che questa, fin dall'inizio, era la guerra tra USA e Russia; 2) che l'Ucraina ha già perso la guerra e dovrà subire le decisioni altrui; 3) che la Russia, come prevedibile, non è stata sconfitta e ora può dettare le condizioni; 4) che gli USA hanno finalmente capito di non poter sconfiggere la Russia e di dover scendere a compromessi; 5) che Trump, meno ottuso di Biden, prova a uscirne dignitosamente dialogando con Putin. Insomma, tutta un'altra storia rispetto a quella che da anni ci raccontano gli autoproclamati professionisti dell'informazione politicamente e geopoliticamente corretta. Il guitto di Kiev, l'attore Nato Zelensky, prodotto in vitro di Washington se non di Hollywood, è con le spalle al muro. Escluso dal vertice in Alaska, egli è il grande sconfitto della guerra in Ucraina; guerra che egli ha propiziato in ogni modo e che si ostina a voler far continuare. Tant'è che adesso rifiuta di incontrarsi con Putin e si avventura a sostenere scioccamente che il solo modo per fermare la Russia è la forza. Come più volte abbiamo ricordato, il guitto di Kiev - adesso col cerino in mano - appare del tutto simile ai burattini di mangiafuoco nel capolavoro di Collodi "Pinocchio": una volta che essi non servano più per gli spettacoli del famelico burattinaio, vengono gettati alle fiamme. La vera domanda da porre così suona: perché l'attore Nato, sapendo perfettamente che la guerra è persa, si ostina a fare di tutto acciocché essa continui? La risposta è piuttosto semplice: il guitto vuole procrastinare il più possibile il momento del redde rationem, dacché sa benissimo che allora dovrà rendere conto delle proprie malefatte; e sa bene anche che i soggetti come lui molto spesso non fanno una fine particolarmente soave, perché il popolo non li perdona per i loro guai. Il guitto di Kiev, con buona pace della narrazione propagandistica occidentale, non si è battuto per la sovranità dell'Ucraina e per l'interesse del suo popolo: ha sacrificato entrambi sull'altare dell'imperialismo dell'Occidente, anzi dell'uccidente. Il popolo ucraino lo sa bene e non è certo disposto ad accettare in silenzio. Ecco perché il guitto teme decisamente più la fine della guerra che non la sua continuazione.

Scontro tra Schlein e Meloni sul turismo: il livello sempre più basso del dibattito politico
Come usa dire, la situazione è tragica, senza però riuscire a essere seria. Il livello demenziale, pietoso e rasoterra del dibattito politico in Italia è perfettamente rappresentato dalla recente querelle tra Elly Schlein, vestale della sinistra fucsia, e Giorgia Meloni, sacerdotessa della destra bluette, in relazione al turismo in Italia. Come riportato dai più letti (e più venduti) quotidiani nazionali, Elly Schlein ha accusato duramente Giorgia Meloni in relazione al drastico calo di turismo che, a suo dire, si registrerebbe in Italia quest'estate. Per parte sua, Giorgia Meloni ha replicato altrettanto duramente, dicendo stizzita che la sinistra mistifica i dati e cerca tutti i costi la polemica in maniera pretestuosa. Si tratta con tutta evidenza di una polemica sterile e di livello bassissimo; una polemica che rivela ancora una volta, se ve ne fosse bisogno, come destra neoliberale e sinistra neoliberale siano perfettamente coincidenti e possano contrapporsi soltanto su questioni marginali e secondarie. Come non ci stanchiamo di ripetere ormai da anni, e come più estesamente abbiamo mostrato nel nostro studio “Demofobia”, destra e sinistra sono oggi le due ali dell'aquila neo-liberale, che vola alta nei cieli della globalizzazione turbocapitalistica, per poi calarsi rapacemente sui popoli e sulle nazioni e depredarli senza pietà. Alternanza senza alternativa e omogeneità bipolare sono oggi i concetti che meglio ci permettono di chiarire la fiction della contrapposizione illusoria tra una destra e una sinistra egualmente organiche alla dominazione capitalistica del mondo della vita. Come due camerieri zelanti, destra e sinistra si alternano sulla plancia di comando per prendere ordini dal blocco oligarchico neoliberale, ossia dai gruppi dominanti sans frontières. Non è certo un mistero: Elly Schlein e Giorgia Meloni rappresentano egualmente le istanze dell'ordine neo-liberale e imperialistico, e appunto possono contrapporsi soltanto su questioni secondarie come quelle relative all'andamento del turismo estivo. Per inciso, ci sembra plausibile che il turismo sia in calo, considerate le condizioni pessime in cui versano i ceti medi e le classi lavoratrici, suppliziate dalla globalizzazione concorrenziale senza confini. Su questo ha ragione Elly Schlein, che però sbaglia Se pensa di poter attribuire la colpa al solo governo di Giorgia Meloni, considerato il fatto che la sinistra neoliberale è stata ugualmente protagonista nel massacro di classe contro lavoratori e ceti medi. Quod erat demonstrandum: destra e sinistra rappresentano oggi l’interesse dell’alto contro il basso, del patriziato cosmopolitico contro le masse nazionali-popolari.

Ottanta anni dalla bomba atomica su Hiroshima
Il Giappone ricorda in questi giorni gli ottant'anni dallo sgancio della bomba atomica su Hiroshima. Un gesto orrendo e disumano, di cui è bene conservare sempre la memoria. Lo sgancio delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki costituisce l’ultimo atto della seconda Guerra mondiale e, insieme, il primo della Guerra fredda. A dover essere sottolineato non è solo il fatto che si è trattato di un gesto “post-occidentale”, perché per la prima volta nella storia dell’Occidente si è apertamente legittimato lo sterminio di soggetti riconosciuti come innocenti (donne, vecchi, bambini), ma anche l’assoluta mancanza di pentimento e di elaborazione collettivi del crimine commesso, che non è neppure stato definito “crimine”, ma legittimo atto di guerra o, da una diversa prospettiva, “male necessario” (contro un Giappone già vinto e impotente). L’origine dell’odierna fondazione della monarchia universale a stelle e strisce risiede, sul piano della Weltgeschichte, nella scandalosa assoluzione del bombardamento di Hiroshima e di Nagasaki, in quell’inammissibile squilibrio della colpa in forza del quale, alla giusta deplorazione dei lager e dei gulag, non è seguita un’analoga condanna delle due bombe atomiche e, con esse, della pratica del bombardamento in quanto tale. L’esito di questa asimmetria valutativa è, del resto, fin troppo noto: in quanto “male necessario”, il bombardamento legalizzato può nuovamente essere praticato, come è attestato dalle vicende del Vietnam (1965), della Jugoslavia (1999), dell’Iraq (1991 e 2003), della Libia (2011). L’invenzione mediatica di sempre nuovi Hitler sanguinari si rivela funzionale all’attivazione del “modello Hiroshima”, ossia del bombardamento legittimato come male necessario (ubi Hitler, ibi Hiroshima). Aspetto, quest’ultimo, da cui emerge limpidamente l’inammissibile squilibrio della colpa in forza del quale, alla giusta deplorazione dei lager e dei gulag, non è seguita un’analoga condanna delle due bombe atomiche e, con esse, della pratica del bombardamento qua talis. L’esito di questa asimmetria valutativa è, del resto, tragicamente noto. In quanto male necessario, il bombardamento legalizzato contro i nuovi Hitler può nuovamente essere praticato, dall’Iraq del 1991 e del 2003 alla Jugoslavia del 1999, dall’Afghanistan del 2001 alla Libia del 2011. Per questo, l’uccisione di mezzo milione di bambini nella guerra in Iraq del 1991 - proprio come la strage degli innocenti di Hiroshima - può essere rivendicata dalla monarchia universale come male necessario: con le parole del segretario di Stato Madeleine Albright, risalenti al maggio 1996, "this is a very hard choice, but the price… we think the price is worth it". La reductio ad Hitlerum si accompagna pressoché sempre all’impiego ideologico del concetto di umanità come titolo volto a giustificare l’ampliamento imperialistico. La guerra che si autoproclama umanitaria serve non solo a glorificare se stessa, ma anche a delegittimare il nemico, a cui è negata in principio la qualità stessa di uomo. Contro un nemico ridotto a Hitler e a essere non umano, il conflitto può allora essere spinto fino al massimo grado di disumanità, in una completa neutralizzazione di ogni dispositivo inibitorio di una violenza chiamata a esercitarsi in forma illimitata. È quella che Schmitt chiamava la "forza discriminatrice e di spaccatura propria dell’ideologia umanitaria". Là dove vi è un nuovo Hitler, deve esservi anche sempre una nuova Hiroshima: è questo il presupposto dell’inimicizia assoluta e della sua logica ideologica.

Il Cremlino fa la lista dei russofobi: compare anche il nome di Mattarella
Era ampiamente prevedibile che dovesse accadere, non c'è dubbio. È esplosa repentina e virulenta in Italia un'ondata di indignazione per il fatto che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è stato inserito dal Cremlino nella lista dei russofobi. Nella lista, a dire il vero, non compare soltanto lui, ma troviamo anche i nomi di altri esponenti della politica italiana. Personalmente non ho alcuna simpatia per le liste di proscrizione, di ogni ordine e grado: alla proscrizione preferisco la confutazione socratica. Anziché mettere la x su chi sostiene posizioni diverse dalle nostre ritengo più utile confutarlo socraticamente mediante la forza docile delle idee. In ogni caso, mi siano consentite soltanto due considerazioni telegrafiche e a volo d'angelo. La prima: che ipocrisia da parte dell'Italia! Se, come è stato fatto, si definisce la Russia di Putin l'analogo del terzo Reich di Hitler, perché stupirsi se la Russia risponde in maniera ugualmente ostile? Dovrebbe essere noto universalmente: a ogni gesto offensivo ne può corrispondere uno uguale e contrario. O forse si vuole ammettere che l'Italia può offendere a suo piacimento la Russia e che quest'ultima, per parte sua, non ha diritto di replicare alle offese ricevute? Sarebbe buona cosa essere consapevoli del peso delle parole che si usano per essere sempre pronti alle conseguenze che ne derivano, anziché agitarsi scompostamente quando l'insultato risponde alle offese ricevute. La seconda considerazione che intendo svolgere si riassume in una domanda: quelli che adesso, Giorgia Meloni in primis, tanto si indignano per le liste di proscrizione ai danni dei russofobi dov'erano quando, sulle prime pagine dei quotidiani nazionali italiani, comparivano le liste di proscrizione con i nomi dei fantomatici putiniani d'Italia? Forse quelle liste di proscrizione andavano bene ed erano degne di essere accettate, magari anche con entusiasmo? La verità è che l'apocrisia regna sovrana in Italia ed è anzi forse l'unica realtà oggi sovrana nel nostro Paese. Possiamo dirlo senza tema di smentita, una volta di più: la Russia continua a essere provocata in ogni modo dall'Europa, la quale poi si indigna se la Russia osa reagire alle provocazioni. Di più, la Russia viene provocata e poi accusata di essere belligerante rispetto all'Europa, nel culmine dell'ipocrisia e della tartuferia.

Rileggere Orwell per capire l'Occidente e la sua demonizzazione della Russia
Quanti abbiano letto 1984 di Giorgio Orwell (ed è una lettura consigliatissima sempre e, a maggior ragione, nel nostro tempo massimamente orwelliano), ricordano senz'altro la figura emblematica di Emmanuel Goldstein. Egli è il nemico principale del Partito che governa Oceania. A causa della sua opposizione al Grande Fratello, ogni giorno, dalle ore 11.00, in ogni ufficio e in ogni luogo pubblico, si tengono manifestazioni di isteria collettiva contro di lui: i "Due minuti d'odio", come liqualifica il capolavoro di Orwell. Le masse ipnotizzate dalla propaganda del Grande Fratello sospendono ogni attività per manifestare istericamente il proprio livore verso Emmanuel Goldstein, di cui pure non sanno nulla se non ciò che il partito dice loro quotidianamente sul suo conto, presentandolo appunto come il nemico per eccellenza, come la minaccia che mette a rischio la pace del loro mondo. Anche in questo caso, come in molti altri, la fantasia distopica di Orwell appare superata di diverse misure dal nostro presente compiutamente distopico. Anche l'odierno occidente, rectius uccidente, ha il suo Emmanuel Goldstein, che si chiama però Vladimir Putin. A tutte le ore, radio, televisioni e giornali della civiltà fintamente democratica del Grande Fratello ripetono propagandisticamente che è lui il nemico, il pericolo massimo, la suprema minaccia per il paradiso occidentale. E le masse tecnonarcotizzate e teledipendenti si prestano con ebete euforia a questa recita di isteria collettiva, esibendosi in altrettante tragicomiche variazioni dei due minuti d'odio di orwelliana memoria. Quando l’ordine del discorso imbocca la via della “reductio ad hitlerum” (come la appellava Leo Strauss) dell’avversario, occorre davvero iniziare seriamente a preoccuparsi. Non è una novità, invero. Quante volte, di grazia, in questi anni è stata evocata la figura di Hitler in riferimento a quelli che di volta in volta l’Occidente a trazione atlantista ha individuato come suoi nemici, vale a dire quasi sempre come ostacoli rispetto alla americanizzazione del mondo pudicamente detta globalizzazione? Abbiamo rapidamente visto negli anni Hitler prendere corpo in Saddam e in Milosevic, in Gheddafi e in Assad. L’osceno canovaccio era sempre il medesimo e nondimeno i più, artatamente manipolati, continuavano a prestargli fede, senza accorgersi della manipolazione ideologica in atto. Non deve dunque destare maraviglia il fatto che ora compaia un nuovo Hitler nella lista, Vladimir Putin. Era, au fond, la cosa più prevedibile del mondo. Il dispositivo perverso di hitlerizzazione dell’avversario presenta una serie di conseguenze non trascurabili, delle quali voglio qui evidenziarne solo alcune. La hitlerizzazione dell’avversario nega in forma apriorica ogni possibile via del negoziato, della diplomazia e della possibile risoluzione pacifica delle contese. Con l’avversario si può trattare pacificamente, cercando accordi diplomatici. Con Hitler bisogna invece necessariamente intraprendere la guerra totale, senza mediazione possibile. In tal guisa, la hitlerizzazione dell’avversario diventa un pericoloso strumento per giustificare la guerra totale, vuoi anche la guerra mondiale che troppo spesso è stata disinvoltamente evocata da più parti in queste settimane. Lo schema del nuovo Hitler rende sempre giustificabili i disastri più osceni, presentati di volta in volta come risposte dolorose ma necessarie al male assoluto. È una vecchia e collaudata pratica del potere il far credere che la contraddizione e il nemico siano al di là del muro, nello spazio esterno rispetto alla società totalmente amministrata dal potere stesso: in tal guisa, sempre defocalizzando lo sguardo rispetto alle contraddizioni interne alla nostra società, si produce una unificazione fittizia dell'interno, chiamato a cooperare in funzione della resistenza al nemico esterno, di cui magari, come oggi (ma lo stesso vale per Emmanuel Goldstein), si dice che è pronto a invadere la nostra civiltà. Come nel romanzo di Orwell, vi è sempre e comunque Emmanuel Goldstein dietro a ogni contraddizione, dietro a ogni stortura, dietro a ogni male, così accade oggi nell'ordine discorsivo dominante, che sempre e di nuovo indica Putin - il novello Emmanuel Goldstein - come il responsabile di ogni male. Qualcuno osa dissentire rispetto all'Unione Europea della vestale dei mercati apatridi Ursula von der Leyen? Deve esserci dietro la longa manus di Putin. Qualcuno osa criticare le politiche imperialistiche a stelle e strisce? Deve essere un agente segreto inviato da Putin in occidente. Qualcuno ha il coraggio di mettere in discussione gli assetti della sempre più asimmetrica globalizzazione neoliberale? Di necessità, è un subdolo infiltrato della Russia di Putin. Rileggere Orwell può davvero giovare a un risveglio collettivo dall'incantesimo ipnotico della società dello spettacolo e della manipolazione millimetrica delle coscienze. Spegnete radio e TV, leggete Orwell. Chi ve lo sta suggerendo è, naturalmente, una spia mandata da Emmanuel Goldstein...si è prodotta una scena degna della caverna di Platone: schiavi che amano le proprie catene.

Fare silenzio all'orale della maturità: la nuova tendenza folle dell'epoca immatura
Si va imponendo una nuova curiosa tendenza, direi quasi una moda: riguarda studenti che, all'orale della maturità, scelgono di stare in silenzio, rifiutandosi di sostenere l'esame e mettendo magari anche in discussione lo stesso sistema dei voti. Già diversi casi si sono registrati in questo senso. In questo modo, l'esame di maturità si capovolge in esame di immaturità: più precisamente, nell'incapacità di affrontare una prova, nella volontà di sottrarsi al primo dei tanti esami a cui la vita ci sottoporrà. Perfino il ministro Valditara è dovuto intervenire, precisando che chi si rifiuta di sostenere l'orario della maturità sarà bocciato. Non possiamo certo generalizzare, considerato il fatto che la massima parte dei giovani continua a studiare con serietà e a sottoporsi con rigore all'esame di maturità. Tuttavia, questa nuova tendenza, per quanto marginale, chiede di essere analizzata criticamente in relazione con il nostro tempo: le nuove generazioni, native a capitalismo integrale e vissute nell'epoca dell'evaporazione del padre, hanno già in parte metabolizzato lo spirito del nostro tempo e il suo abbattimento di ogni legge, di ogni confine e di ogni tabù. Si è, a questo proposito, parlato di snowflake generation, ossia di generazione fragile come i fiocchi di neve che, come è noto, si sciolgono appena toccano il suolo. Si va dunque verso l'abolizione dell'esame di maturità e del sistema dei voti? Riteniamo che ciò sarebbe profondamente sbagliato, considerato il fatto che è bene fin da giovani abituarsi alle prove e agli ostacoli che la vita ci pone dinanzi. La prova di maturità è una prima piccola sfida che incontriamo nella nostra vita e che richiede serietà e rigore, studio e dedizione. Ci educa a metterci alla prova e a prendere coscienza del fatto che la vita è fatta anche di questo. Siamo passati da un'epoca in cui la legge soffocava il desiderio, com'era prima del '68, a un tempo in cui il desiderio tende a sovrastare la legge e a ergersi a unica legge possibile, abbattendo ogni regola e ogni norma, come si conviene alla società della deregolamentazione economica e antropologica che stiamo, nostro malgrado, già da tempo sperimentando. Senza esagerazioni, la società del turbocapitalismo è una società senza maturità: o si è giovani o si è anziani, ma non si è mai maturi. Più precisamente, si è giovani fino a 60 anni. Poi si è improvvisamente anziani e si continua goffamente a imitare il lifestyle dei giovani, cancellando in ogni guisa i segni lasciati sul nostro corpo dal tempo che incede irreversibilmente. Ma non esiste più - questo il punto - la fase della maturità, quella della stabilizzazione professionale e sentimentale, in una parola della "eticità" (Sittlichkeit) in senso hegeliano: si è sempre precari della vita, apolidi dell'esistenza, salvo poi trovarsi repentinamente anziani, senza mai essere stati maturi. Eppure, secondo natura, le stagioni della vita umana sono tre: giovinezza, maturità e anzianità. Che fine ha fatto, dunque, la maturità nel nostro tempo della miseria? L'odierna battaglia pittoresca contro l'esame di maturità - che diventa, con il silenzio e la scelta di non sostenerlo, esame di immaturità - sancisce simbolicamente questa fase dell'immaturità generalizzata per una società di atomi giovanilistici e gaudenti, che non pensano se non a godere (life is now!) e, con ciò, assecondano i moduli del nuovo capitalismo della seduzione e del godimento merciforme. Il giovane e, più precisamente, l'eterno giovane è il soggetto ideale del sistema turbocapitalistico: il giovane è sedotto dai desideri (gaudeamus igitur!) e vive precariamente in attesa di una stabilizzazione che, in regime capitalistico, non giungerà mai. Come sempre, l'ordine dominante produce l'intollerabile e, a un solo parto, soggetti disposti ad accettarlo con ebete euforia. Il capitale nega ai suoi sudditi la maturità ed essi non solo non oppongono resistenza, ma si battono a spada tratta contro ogni figura possibile della maturità. È questo l'identikit dei nuovi abitatori postmoderni dell'antro caliginoso delineato da Platone nella "Repubblica". Schiavi che non sanno di esserlo.

L'ex premier britannico Sunak passa a Goldman Sachs: una volta di più, comanda la finanza
Vi è un colpo di scena politico che merita una attenta analisi, come sempre controvento. Apprendiamo in questi giorni che Goldman Sachs ha assunto l'ex premier britannico Sunak come consulente senior. Proprio così, Sunak abbandona la politica per passare all'alta finanza. Ancora una volta, si manifestano con limpido profilo i rapporti incestuosi tra politica e alta finanza: nel suo aspetto più generale, l'ordine neoliberale di cui siamo, nostro malgrado, abitatori si caratterizza per un rapporto di forza in grazia del quale la finanza interviene senza sosta nella politica, direzionandola e orientandola secondo i propri desiderata, senza che, a propria volta, la politica possa intervenire nella finanza per disciplinarla e normarla, secondo quello che si potrebbe con diritto definire il primato del politico. L'obiettivo, con tutta evidenza, è fare in modo che la politica risponda sempre e solo sull'attenti agli imperativi del mercato finanziario e delle sue classi di riferimento. L'aristocrazia finanziaria, per riprendere la definizione usata da Marx nel "Capitale", coincide con l'odierna classe dominante su scala cosmopolitica. Sicché quella che viene trionfalmente e pomposamente definita democrazia coincide oggi in toto con una plutocrazia neoliberale finanziaria a base imperialistica, nei cui spazi blindati decidono autocraticamente i mercati finanziari: quei mercati finanziari che, qualora i governi osino discostarsi dai loro imperativi, intervengono massicciamente con il ricatto dello spread e con veri e propri colpi di Stato finanziario, come quello subito dall'Italia nel 2011. A decidere non è la politica sovrana, ma il mercato finanziario, che usa la politica in forma ancillare. In questo senso, la politica oggi non è altro se non l'economia finanziaria continuata con altri mezzi. Viviamo d'altro canto nel tempo in cui le agenzie di rating valutano anche gli Stati, trattati alla stregua di ogni altra azienda. E come sul piano geopolitico vengono qualificati come "Stati canaglia" quei governi che resistono all'imperialismo della civiltà a stelle e strisce, così sul piano finanziario vengono definiti "Stati inaffidabili" e "populisti" quelli che non rispondono sull'attenti agli imperativi dell'alta finanza cosmopolitica. La categoria di populismo risulta, sotto questo riguardo, particolarmente interessante: si stigmatizzano come populisti quei governi che danno ascolto alla volontà del popolo. Il tacito corollario è che i governi dovrebbero dare ascolto sempre e solo alla volontà delle banche e del sistema finanziario, limitando il più possibile ogni spazio residuo di sovranità popolare. La vicenda dell'ex premier britannico risulta particolarmente istruttiva: esiste un vero e proprio circuito chiuso tra finanza e politica; un circuito chiuso in forza del quale i politici, terminato il loro mandato, passano nelle sfere dell'alta finanza e, con movimento inverso, gli strateghi del sistema finanziario globale entrano agevolmente in politica per tutelare gli interessi della finanza predatoria senza confini. Oltre al caso recente dell'ex premier britannico, si possono rammemorare quelli di Romano Prodi e di Mario Draghi, i quali, prima di accedere alle alte sfere dell'Unione Europea, ebbero incarichi di prestigio in Goldman Sachs. Come esempio del passaggio opposto, analogo a quello ora compiuto dall'ex premier britannico, si può poi ricordare la vicenda di Barroso: il quale, terminato il suo mandato presso l'Unione Europea, passò direttamente ai piani alti di Goldman Sachs. Così inteso, l'ordine neoliberale appare come una dittatura finanziaria plebiscitaria: alle masse popolari viene data l'opportunità di votare, con scadenza regolare, per scegliere quali politici di volta in volta mandare in Parlamento a prendere devotamente gli ordini dagli apolidi della finanza; ordini che, ovviamente, tutelano sempre e solo l'interesse del capitale finanziario, che discute in modo tutto fuorché democratico le proprie traiettorie in consessi privati come il Bilderberg. In questo contesto, la parola democrazia non dice altro se non una grande finzione teatrale, che nasconde una realtà sotto ogni profilo antitetica rispetto a ogni autentica democrazia. Se le parole hanno ancora un senso, la democrazia è il governo in cui il popolo decide sovranamente delle proprie sorti: ma oggi a decidere sovranamente sono soltanto i mercati speculativi, che camuffano il loro dispotismo dietro le procedure di una democrazia sorvegliata e amministrata in maniera tale da far apparire pluralistico un ordine che tale non è. L'occidente, anzi l’uccidente liberal-atlantista, che sempre punta al dito contro Le dittature e totalitarismi altrui, farebbe bene una volta tanto a guardare in se stesso e a scoprire che oggi il conflitto non è tra democrazia occidentale e dittatura non occidentale: il reale conflitto è tra le forme non democratiche oggi ovunque esistenti e l'ideale di una vera democrazia, assente anche in occidente.

Destra e sinistra ugualmente dalla parte dell’imperialismo Usa
Tutta la pochezza della cosiddetta "destra sovranista" (pochezza perfettamente speculare a quella della sinistra cosmopolita) emerge con adamantino profilo dalla vicenda dell'Iran vigliaccamente aggredito da USraele: anziché difendere le sacrosante ragioni dell'Iran e della sua difesa della propria sovranità nazionale, la giullaresca destra "sovranista" si schiera indecorosamente con l'imperialismo di USraele, con ciò rivelando che il proprio concetto di sovranismo coincide in toto con quello di nazionalismo imperialistico. Se il patriottismo sovranista riconosce a ogni popolo il diritto pieno di difendere la propria sovranità, l'infame nazionalismo imperialistico ammette il diritto alla sovranità nazionale solo per le potenze imperialistiche, a loro volta legittimate a neutralizzare la sovranità altrui con bombe umanitarie e missili democratici. Il governo di Giorgia Meloni, ogni giorno più risibile e più subalterno a Washington e a Israele, si era pateticamente riempito la bocca di espressioni come sovranità nazionale, patria, difesa degli interessi nazionali, e via discorrendo: ora ha gettato la maschera e si è rivelato un governo subalterno all'imperialismo di Washington e di Israele, facendosi latore del già richiamato nazionalismo imperialistico. A questa miseria della destra nazionalista si accompagna quella della sinistra cosmopolita, la quale per una via opposta giunge al medesimo punto, ossia alla legittimazione se non alla santificazione dell'imperialismo dell'occidente, anzi dell'uccidente, presentato subdolamente come democratico e umanitario, orientato all'abbattimento di quelli che di volta in volta Washington identifica con i regimi nemici della libertà umana (nel caso specifico, l'Iran).Una volta di più, destra nazionalista e sinistra cosmopolita si rivelano le due ali dell'aquila neoliberale, dunque della dominazione turbocapitalistica del mondo. Tale dominazione si fonda sull'imperialismo, di fatto coincidente con la dinamica di anglobalizzazione, ossia di americanizzazione forzata del pianeta. La destra, come sappiamo, è stata il luogo fondamentale di propulsione e di legittimazione dell’imperialismo. La novitas degna di nota sembra essere la recente riconversione stessa della new left fucsia alle “ragioni” dei bombardamenti etici, dell’interventismo umanitario, degli embarghi terapeutici: in una parola, alle ragioni del “cattivo universalismo” dell’imperialismo statunitense, che de facto coincide con il “braccio armato” della globalizzazione mercatista. E che, a rigore, lungi dall’inquadrarsi come una figura dell’universalismo, si pone come espressione di un etnocentrismo esaltato, che semplicemente mira a estendere senza limiti il proprio modello e il proprio dominio, ideologicamente contrabbandato come valido in universale. Se il tratto fondamentale della vetero-sinistra fu l’universalismo, occorre riconoscere che la new left lo ha abbandonato mediante la difesa dell’imperialismo americano-centrico non meno che attraverso il sostegno alle ragioni della società competitiva di free market, nei cui spazi reificati il paradiso dei pochi si regge sull’inferno dei più. L’imperialismo, infatti, non è se non la violenza del particolare che si contrabbanda come universale. La società competitiva del capitale è, a sua volta, il trionfo di una classe sulle altre o, se si preferisce, il nesso di signoria e servitù che rende possibile il successo di un gruppo mediante la sopraffazione ai danni degli altri. Sicché vero universalismo sarebbe combattere contro l’imperialismo e contro la società di mercato, ciò che la new left ha da tempo cessato di fare, divenendo neo-sinistra global-imperialista e liberal-nichilista. La struttura economica di destra (imposizione del mercato e dell’interesse dei gruppi dominanti) trova anche questa volta il suo corrispettivo nella superstruttura culturale di sinistra (ideologia interventistica dei diritti umani). In effetti, l’imperialismo del Leviatano a stelle e strisce procede sempre, nelle sue giustificazioni, con un doppio registro: quello cinico della destra e quello dell’“anima bella” di sinistra. Il cinico right-oriented apertamente sostiene l’invasione imperialistica senza infingimenti, nel nome dell’“utile del più forte” – secondo il teorema di Trasimaco – e del nudo interesse economico e geopolitico della forza dominate. L’anima bella left-oriented, invece, cerca di giustificare l’invasione imperialistica con la roboante retorica dei diritti umani o, addirittura, fingendo di assumere il punto di vista dei più deboli, che l’operazione imperialistica stessa difenderebbe.

Gli avvoltoi dell'imperialismo occidentale contro l'Iran
Ancora una volta è partita sui giornali più letti e, soprattutto, più venduti la vergognosa propaganda che intervista sempre e solo oppositori del governo di Teheran: donne e uomini, scrittori e rifugiati, che denunciano la perfidia del governo iraniano e auspicano la sua rapida caduta, naturalmente grazie all'intervento straniero e, segnatamente, di Washington; come se, appunto, in Iran vi fossero soltanto oppositori del governo, che aspettano con giubilo l'intervento umanitario di Washington e di Israele, con tanto di bombe etiche e di missili democratici. Mai una volta che venga intervistato un sostenitore della Serbia di Milosevic, della Libia di Gheddafi, dell'Iraq di Saddam, della Russia di Putin, della Cina di Xi Jinping o dell'Iran contemporaneo. E i più continuano a bersi, ogni volta, questa manicomiale propaganda da quattro soldi: con ciò rivelano di essere soggetti al più pericoloso imperialismo, quello cognitivo. La loro mente, infatti, è colonizzata dalla propaganda occidentale, anzi uccidentale. È dal 1989 che questa narrazione si ripresenta ogni volta immutata: puntualmente lo Stato "liberato" dall'interventismo umanitario made in USA precipita in un inferno e in una condizione indubbiamente peggiore, ogni volta, rispetto a quella precedente (vedi Libia e Iraq). Ovviamente anche questa volta riusciranno con buona probabilità a farvi credere che quello che viene fatto all'Iran è per il bene degli iraniani, come quel che fecero ai "pellerossa" era per il bene di questi ultimi... Uno dei nobili teoremi del marxismo, ovviamente rinnegato dalle sinistre fucsia neoliberali (allineate all'imperialismo non meno delle destre), è quello per cui meritano supporto sempre e comunque le nazioni oppresse dall'imperialismo, che non è altro se non la lotta di classe applicata ai rapporti fra le nazioni. Nell'odierno diagramma dei rapporti di forza, ovviamente, come abbiamo mostrato nel nostro studio "Demofobia", destra e sinistra in uccidente sono ugualmente organiche all’imperialismo: le destre lo celebrano in nome della dominazione occidentale, le sinistre in nome della esportazione manu militari dei diritti umani (la ben nota foglia di fico di cui si nasconde la violenza uccidentale). Make Iran great again. È questo l'ultimo demenziale slogan coniato da Donald Trump, il presidente della civiltà del dollaro, schierato in toto con Israele. Forse aspira a far tornare l'Iran grande com'era la Persia di Dario e di Serse (posto che le sue conoscenze storiche si spingano fin lì)? Lo stesso Trump, nel lanciare il suo slogan pubblicitario, che è poi una variante del più noto (e ugualmente demenziale) make America great again, ha asserito che è necessario un regime change in Iran. Quod erat demonstrandum: l'imperialismo americano utilizza ancora una volta la narrativa del regime barbaro da abbattere per giustificare il proprio appetito colonizzatore, orientato a fare sì che anche l'Iran sia annesso nella americanosfera. Come il limes dei romani, che era un confine in movimento, tale da spostarsi al ritmo dell'avanzare delle conquiste imperiali, così anche il limes della globalizzazione neoliberale e americanocentrica si muove e avanza, neutralizzando culture e stati disallineati e, insieme, annettendoli nei propri spazi omologati. Ancora, come il limes romano, anche quello americano odierno traccia sempre una distinzione assiologicamente connotata tra Noi e Loro, identificando i primi con la civiltà e i secondi con la barbarie che deve essere sconfitta. Una delle prerogative quintessenziali dell'imperialismo sta appunto nel presentarsi come opera di civilizzazione a beneficio dei popoli colonizzati. Miseria dell'imperialismo! Ben diverso risulta il contegno della Cina e della Russia. La prima ha dichiarato apertamente di sostenere il popolo iraniano sotto assedio imperialistico da parte di USraele. La Russia, per parte sua, ha accolto nei giorni scorsi esponenti di punta del governo iraniano, portando pieno sostegno e piena solidarietà al popolo persiano. È da sperare che l'Iran non venga lasciato solo dalla Russia e dalla Cina, ché, se ciò dovesse accadere, sarebbe la sua fine. E si troverebbe presto in una situazione analoga a quella della Libia e dell'Iraq dopo la messa in opera della civilizzazione imperialistica dell'Occidente, anzi dell'uccidente: per dirla con l'antico Tacito, fanno il deserto e lo chiamano pace. Intorno all'Iran si gioca adesso la partita fondamentale per il mondo multipolare, sottratto alla dominazione statunitense e resistente a quest'ultima. Resistenza iraniana o barbarie: questa è l'alternativa. Tertium non datur.

L'imperialismo di US(I)raele e le sue continue malefatte: ora è la volta dell'Iran
Si sente ripetere di continuo che, in fondo, Israele ha ragione ad attaccare l'Iran, poiché quest'ultimo è un "regime" e, in quanto tale, merita di essere abbattuto. Questo teorema è sulla bocca di tutti i benpensanti liberal, ossia di tutti coloro i quali sposano, per convenienza o perché indottrinati, la visione del mondo di completamento dell'ordine dominante della globalizzazione sotto l'egida di USraele. Occorre però domandarsi chi distribuisca davvero i titoli e le patenti di "regime" ai governi realmente esistenti. Propongo, allora, a mo' di ipotesi di lavoro la seguente definizione: viene detto "regime" ogni governo che, per una via o per l'altra, non si pieghi all'imperialismo dell'Occidente, anzi dell'uccidente. Dunque sono per definizione regimi la Cina e la Russia, il Venezuela e l'Iran, insomma tutti gli oppositori della civiltà a stelle e strisce. Ugualmente contestabile mi pare, invero, la narrazione manicomiale secondo cui basta essere classificati come regime per poter essere poi aggrediti legittimamente, come ora sta appunto avvenendo in relazione all'Iran. Oltretutto questa narrazione demenziale presuppone, come sempre, che l'uccidente sia la parte buona e democratica, titolata a rieducare il mondo con le buone o - sempre più spesso - con le cattive. Insomma, le bombe e i missili diventano democratici e pacifici se lanciati sulla popolazione dei governi a cui l'uccidente abbia assegnato la patente di regimi prima di aggredirli? Credo che tutti noi possiamo convenire senza difficoltà almeno su questo: il fatto che negli Stati Uniti d'America ci sia la pena di morte o che in Europa le banche possano portar via le case ai cittadini è di per sé orrendo, ma non può certo giustificare l'aggressione armata degli Stati Uniti o dell'Europa da parte di potenze straniere. Lo stesso si può e si deve dire in relazione all'Iran: il fatto che l'Iran abbia delle interne contraddizioni, che non vogliamo assolutamente negare, non può giustificare in alcun modo l'aggressione dell'Iran da parte di Israele; Israele che, oltretutto, quanto a contraddizioni interne non ha lezioni da dare a nessuno, considerato anche solo il trattamento disumano e genocidario a cui sta sottoponendo la popolazione inerme di Gaza. Dovrebbe essere chiaro anche a un bambino che dietro agli attacchi democratici ai cosiddetti regimi si nasconde sempre lo sciagurato imperialismo dell'occidente, che a questo punto potrebbe essere esso stesso definito un regime neo-liberale a base imperialistica. I più sono talmente sottoposti alla manipolazione da ritenere che l'Iran, aggredito vigliaccamente da Israele, sia comunque l'invasore e dunque Israele abbia preventivamente risposto alla futura aggressione da parte dell'Iran. Una narrazione manicomiale, evidentemente, che deve sempre e comunque giustificare Israele e Stati Uniti (USraele): una narrazione manicomiale a cui tuttavia i più continuano a credere indecentemente. E adesso Israele, dopo l'Iran, ha attaccato pure lo Yemen. Come sempre, con il pieno e incondizionato sostegno dell'Europa e dell'Occidente, anzi dell'uccidente liberal-atlantista, che ancora una volta fanno uso del bipensiero orwelliano: il teorema secondo cui l'aggressore ha sempre torto ed aggredito sempre ragione, utilizzato ad nauseam contro la Russia di Putin, viene ora ribaltato in riferimento a Israele, l'aggressore che sempre deve per definizione avere ragione. Vengono mobilitate, more solito, le giustificazioni più demenziali e più surreali: si dice che Israele ha aggredito lo Yemen per combattere contro il terrorismo. Come non ci stanchiamo di sottolineare, la lotta di Israele contro il terrorismo appare essa stessa indistinguibile dal terrorismo. L'altra argomentazione mobilitata dagli autoproclamati professionisti dell'informazione è quella secondo cui Israele ha condotto una guerra preventiva: il concetto di guerra preventiva risulta una delle categorie più bieche del pensiero politico contemporaneo, dato che viene impiegata per giustificare guerre di aggressione imperialistica contrabbanandole per guerre difensive contro stati la cui aggressione è stata premeditata. Il livello della narrazione appare ogni giorno più squallido e, tuttavia, troppe persone continuano a bersele tutte, ponendosi nella condizione dei cavernicoli di cui scriveva Platone nel settimo libro della "Repubblica".

Il fallimento del referendum spiegato altrimenti
Com’era ampiamente prevedibile, il referendum indetto dalle sinistre padronali è naufragato miseramente. Vince indubbiamente la destra neoliberale, che da subito aveva "tifato" per l'astensione. Ma vince egualmente anche la sinistra neoliberale, la quale non ha alcun interesse reale per il tema del lavoro e ha indetto questo referendum soltanto per guadagnare consensi, senza impegnarsi realmente: d'altro canto, quando era al governo e poteva realmente tutelare il lavoro non solo non l'ha fatto, ma ha spietatamente colpito lavoratori e diritti sociali, superando per certi versi in questo anche la destra stessa (jobs act, abolizione dell’articolo 18, precarizzazione, ecc.). Semplicemente, il referendum è stato indotto dalla sinistra per provare maldestramente a far vacillare il giullaresco governo della destra (un governo vergognosamente allineato a Washington, Israele, Bruxelles e al sistema bancario, non dimentichiamolo). Si sono mobilitate le argomentazioni più disparate e a volte anche più disperate per rendere conto dell'esito peraltro prevedibile del referendum, che non ha appunto raggiunto il quorum. Vi è stato chi ha parlato della naturale apoliticità degli italiani, ma è un argomento che non convince, considerato il fatto che in altre occasioni gli italiani si sono mobilitati in massa, come ad esempio per il referendum del 2016 sulla nefanda proposta di modifica della nostra costituzione. Vi è, poi, chi ha mobilitato la categoria dell'egemonia politica esercitata dal giullaresco governo della destra bluette neoliberale di Giorgia Meloni. Ma anche questo argomento non risulta persuasivo fino in fondo. La verità, almeno a mio giudizio, sta altrove: il fallimento su tutta la linea di questo referendum si spiega in ragione del fatto che chi lo ha proposto è stato in passato responsabile delle più infauste riforme del lavoro e delle più radicali aggressioni al mondo dei lavoratori. Non è un mistero: gli stessi che hanno abolito l'articolo 18 e introdotto l'infame Jobs Act, celebrando quell'Unione Europea che rappresenta di fatto un massacro di classe sotto ogni profilo, sono gli stessi che ora hanno indetto il referendum in difesa del lavoro! E che oltretutto hanno inserito nei quesiti anche il "cavallo di Troia" della cittadinanza. Perché, se tengono tanto al lavoro, lo difendono ora che concretamente non possono fare nulla e lo distruggono quando sono al governo e possono fare? Diciamolo apertamente, azzardando un'ipotesi che non ci pare affatto remota: se anche si fosse raggiunto il quorum e avesse prevalso il sì su tutta la linea, nulla si sarebbe poi fatto in difesa del lavoro, come peraltro nulla si fece in difesa dell’acqua pubblica quando, nel 2011, vinse il sì al referendum contro le privatizzazioni. Il capitale si sarebbe naturalmente opposto. Sarebbe invece sicuramente passato il piano dell'allargamento della cittadinanza, questo sì graditissimo al capitale, che non vede l'ora di estendere il più possibile la cittadinanza fino a farla saltare, diluendo ancora più i già risicati diritti sociali superstiti, secondo la logica del todos caballeros. Il referendum, dunque, è fallito. Non dimenticatelo però: non appena la sinistrash andrà a governare, prendendo il posto della destrash, sicuramente porrà in essere un pacchetto formidabile di riforme in difesa del lavoro, eliminando il jobs act e ripristinando l'articolo 18: è certo, come è certo che il triangolo è quadrato.

I venti di guerra soffiano sempre più impetuosi
Dopo aver tentato un vero e proprio attentato terroristico contro l'elicottero su cui viaggiava Putin, l'Ucraina del guitto Zelensky, attore Nato, prodotto in vitro di Washington se non di Hollywood, nei giorni scorsi ha fatto il colpo grosso: ha colpito con un vile gesto terroristico quaranta aerei russi, di fatto producendo quella che da più parti è stata definita una nuova Pearl Harbor. La Russia ha subito risposto, facendo sapere senza perifrasi che adesso ogni risposta russa sarà possibile, non esclusa quella nucleare. La tensione tra Russia e Ucraina non è mai stata così forte in precedenza. Per parte sua, la Nato sta spostando armi e truppe, quasi come se ormai il conflitto mondiale fosse prossimo. Il fabula docet è chiarissimo: l'Ucraina non vuole in alcun modo la pace, desiderando invece che il conflitto proceda e anzi diventi sempre più intenso e più radicale. D'altro canto, come sappiamo, l'Ucraina non agisce in proprio, svolgendo invece la parte di semplice testa d'ariete per l'interesse imperialistico dell'Occidente, anzi dell'uccidente liberal-atlantista: quell'uccidente che ha finora utilizzato l'Ucraina come semplice instrumentum belli in vista del proprio desiderio imperialistico orientato a produrre il crollo della Russia e la sua normalizzazione in senso liberal-atlantista. Ciò accade peraltro dopo pochi giorni che Putin aveva fatto sapere che la pace era possibile, a patto che l'occidente si impegnasse per iscritto a non espandersi mai più verso Oriente negli spazi un tempo appartenenti all'Unione Sovietica. Tra i commenti più demenziali dell'accaduto, merita di essere ricordato almeno quello di Carlo Calenda, esponente del partito unico del capitale in Italia: a suo giudizio, i vili attentati ucraini denotano "coraggio e astuzia": un coraggio e una astuzia che potrebbero presto portare il mondo intero in un conflitto potenzialmente distruttivo e senza ritorno. Tutto come da copione, dunque, secondo il ben noto modo di dire. Leggiamo oltretutto che adesso Starmer, primo ministro britannico, lancia in pompa magna i preparativi per la guerra contro la Russia di Putin. La Gran Bretagna, dunque, si accinge a entrare in guerra contro la Russia di Putin? E su quali basi, domandiamo sommessamente? Nei giorni scorsi, come anche abbiamo ricordato, la Russia ha subito un vile attentato terroristico da parte di Kiev, un attentato terroristico che ha colpito ben 40 aerei russi, di fatto ponendo in essere le condizioni per una possibile rappresaglia di Putin. Insomma soffiano impetuosi i venti della guerra, propiziata in ogni modo dall'Europa e da quell'Ucraina che continua a svolgere il mero ruolo di avamposto imperialistico dell'Occidente a stelle e strisce. Lo andiamo ripetendo ormai da mesi con costanza: l'Unione Europea sta facendo di tutto per produrre il casus belli con la Russia. Ha lanciato il demenziale programma di riarmo e sta operando in ogni maniera per provocare la Russia e portarla al conflitto. L'ultima mossa del premier britannico segnala una volta di più come l'occidente sia la vera causa del conflitto; conflitto che è stato gradualmente preparato fin dagli anni novanta, mediante l'osceno accerchiamento graduale della Russia in vista della sua normalizzazione in senso liberal-atlantista. È un momento essenziale di questa quarta guerra mondiale, che, successiva alla terza cioè alla guerra fredda, è la guerra che la civiltà occidentale americano-centrica ha dichiarato a tutto il mondo che non si pieghi docilmente al suo dominio. Gran Bretagna e Unione Europea si stanno rivelando nella loro reale essenza. Il vero nemico dell'occidente è l'occidente stesso.

Dopo la Bce, Lagarde potrebbe passare al Forum di Davos: i plutocrati dell'ordine neoliberale
In questi giorni, leggiamo su tutti i più letti e soprattutto più venduti quotidiani nazionali ed europei che la signora Lagarde potrebbe presto lasciare la BCE per passare direttamente al World economic forum di Davos. Se ciò dovesse realmente accadere, sarebbe l'ennesima prova del fatto che presso il blocco oligarchico neoliberale vige il sistema delle porte girevoli, se così vogliamo definirlo. Un sistema tale per cui gli esponenti della classe capitalistica dominante transnazionale restano sempre all'interno del circuito fondamentale delle decisioni sovranazionali e del potere economico. Possiamo ben dire, a questo riguardo, che il sistema capitalistico ha scoperto il metodo alchemico per trasformare il vile metallo in oro: i banchieri diventano politici, i politici diventano banchieri. E così, per portare alcuni esempi concreti, Draghi, Prodi e Monti, dopo aver collaborato attivamente con Goldman Sachs, divennero esponenti di punta di quel costrutto tecnocratico e repressivo che è l'Unione Europea. Barroso, per parte sua, terminato il mandato presso l'Unione Europea non tornò a Lisbona ma passò direttamente in Goldman Sachs. Qualcosa di simile sembra che ora potrebbe interessare la signora Lagarde, stando a quello che apprendiamo dai giornali prima menzionati. Insomma, chi esce dalla BCE passa al Forum di Davos, chi esce dall'Unione Europea passa a Goldman Sachs. Grazie ai processi di sovranazionalizzazione, che traslano il centro della decisione politica dai parlamenti nazionali a realtà sovranazionali strutturalmente non democratiche e sottratte a ogni controllo politico (emblematico è, ancora, il caso della UE), gli Stati vengono “scassinati” dai poliorceti del mondialismo finanziario e dagli architetti dell’autocrazia del capitale. Questi ultimi, mediante astuti accorgimenti all’insegna della deresponsabilizzazione (riforme con il “pilota automatico”, “emergenzialità della crisi”, “cessioni di sovranità”, ecc.), si peritano di non lasciare impronte digitali per le loro malefatte: lasciano che le loro manovre di classe appaiano come le impersonali necessità sistemiche richieste per affrontare le crisi che di volta in volta emergono nei tumultuosi spazi del vigente tecnofeudalesimo. Il potere concentrato della finanza costringe lo Stato a svalorizzare la ricchezza sociale, di modo che, mediante saccheggi e rapine chiamate “privatizzazioni” e “liberalizzazioni” dall’ordine linguistico dominante, la massa pauperizzata sia privata di tutto e la ristretta cerchia dei signori apolidi del regno finanziario accresca sempre più il proprio patrimonio. La lotta di classe dall’alto, al tempo del turbocapitalismo finanziario, si estrinseca anche nella forma di un’ininterrotta sottrazione fraudolenta dei beni e dei prodotti del lavoro dei ceti medi e delle classi lavoratrici mediante rapine finanziarie e manovre truffaldine, rese possibili dal dominio autocratico del sistema bancario e finanziario e, insieme, dall’operare tutto fuorché neutro e innocente della politica soggiogata a detto sistema. Come è noto, del resto, nel quadro del turbocapitalismo sans frontières la decisione sovrana non è più radicata nei parlamenti nazionali, ma in istituzioni private sovranazionali che decidono autocraticamente e puntualmente scavalcando il volere delle nazioni e dei loro parlamenti. Non chiamatela democrazia: è una plutocrazia finanziaria neoliberale a base imperialistica.

Bersani: "Abbiamo fatto cose disdicevoli". Destra e sinistra le due ali dell'aquila turbocapitalistica
In una recentissima intervista apparsa sulle colonne de "Il manifesto", lo storico esponente della sinistra liberalprogressista Pier Luigi Bersani - già fautore a suo tempo delle liberalizzazioni coatte - svolge una considerazione programmatica, che ci pare degna di essere commentata pur celermente: "Abbiamo fatto cose disdicevoli, ma ora ripartiamo". Queste le parole dell'esponente della sinistrash fucsia liberalprogressista Bersani. Parole severe, non c’è dubbio. A dire il vero, la frase, se letta in trasparenza, suona quasi come una minaccia, che così può essere intesa: abbiamo fatto cose disdicevoli e ora siamo pronti a farne anche di peggiori. Nel tempo dell'alternanza senza alternativa e dell'omogeneità bipolare di una destra e di una sinistra che figurano come le due braccia del partito unico fintamente articolato del capitale, non dobbiamo dimenticare che la dominazione capitalistica, almeno dagli anni '90 ad oggi, è avvenuta ugualmente grazie alla destra e alla sinistra, in competizione tra loro per andare a prendere con zelo gli ordini dalla classe dominante transnazionale. Sì, destra e sinistra sono le due ali dell’aquila turbocapitalistica, ugualmente allineate come sono al vangelo liberista e alla violenza imperialistica made in Usa. Ne è discesa tutta una serie di paradossi che credo siano sotto gli occhi di tutti: la sinistra ha istituito l'orrendo Jobs act, che ha precarizzato barbaramente il mondo del lavoro, e ora che si trova all'opposizione dice di volersi battere per abolirlo. La destra, che a suo tempo criticava in maniera aspra il Jobs act, ora che è al governo non dice più nulla intorno ad esso e tace solennemente. Una sorta di giuoco delle tre carte applicato alla politica, sempre più palesemente ridotta a semplice continuazione dell'economia capitalistica con altri mezzi. I mercati decidono. E i politici, di destra come di sinistra, applicano le decisioni e le mutano in legge. Già ricordavo che Bersani fu protagonista delle liberalizzazioni in Italia, ossia di un indirizzo che si iscrive perfettamente nel quadro dell'ordine neoliberale e della sua trasformazione dei diritti in merci e dei beni comuni in servizi privati. Degno di lode il fatto che Bersani ora prenda coscienza che anche la sua parte ha fatto "cose disdicevoli" (ugualmente ne ha fatte la destra, naturalmente): ma siamo convinti che continuerà a farle, poiché ha integralmente introiettato la visione capitalistica del mondo, in forza della quale non si dà altra realtà possibile se non quella del mercato innalzato a unica sorgente di senso (Mark Fisher lo ha appellato "realismo capitalista"). Il giusto anticapitalismo della vecchia sinistra rossa della falce e del martello è stato spodestato dall'osceno ultracapitalismo della new left dell'arcobaleno, ormai divenuta semplice guardia fucsia dell'ordine dominante e del blocco oligarchico neoliberale. Che la destra sia organica al potere dominante non è una novitas: lo è invece che lo sia ormai pienamente anche la sinistra, che un tempo aveva rappresentato le istanze della trasformazione e dell'opposizione al potere dominante, al quale ormai è organica in misura non inferiore rispetto alla destra stessa. Adesso, col referendum del 9 giugno, dicono di volere abolire la precarietà del lavoro che essi stessi hanno contribuito a introdurre! Con quale credibilità? Come non mi stanco di evidenziare da tempo, destra e sinistra nel tempo del turbocapitalismo sono del tutto simili a due maggiordomi con il diverso colore della livrea ma egualmente piegati alla dominazione del padrone capitalistico, da cui prendono con solerzia gli ordini. Insomma, la situazione è tragica, senza però riuscire a essere seria.

Pfizergate: Ursula von der Leyen inchiodata dal tribunale UE
Ebbene, nubi si addensano all'orizzonte per la signora von der Leyen, vestale dei mercati apatridi e sacerdotessa del verbo unico liberal-progressista: forse è la volta buona perché si faccia giustizia? Così leggiamo ad esempio su "Il sole 24 ore", “L’osservatore Romano” della globalizzazione turbocapitalistica: "Sms «segreti» tra von der Leyen e ceo di Pfizer: annullato il divieto d’accesso ai giornalisti". Il tribunale europeo, dunque, inchioda la signora von der Leyen e accoglie il ricorso presentato dal "New York Times", che a suo tempo aveva fatto richiesta di accesso agli sms in questione. Finalmente sapremo quel che realmente accadde nel tempo dell’emergenza epidemica? Diceva Seneca che la verità, anche se sommersa, viene prima o poi a galla. E sembra davvero che adesso un poco alla volta stia emergendo. Come abbiamo sostenuto ampiamente nel nostro studio "Golpe globale. Capitalismo terapeutico e grande reset", l'emergenza terapeutica è stata con profitto trasformata dalle classi dominanti in strumento di comando e in opportunità di profitto. Capitalismo della sorveglianza più big business: ecco la sintesi letale che si è perversamente venuta generando e che ha trovato nell'infame tessera verde la sua sintesi diabolicamente perfetta. Ciò vale anche e a maggior ragione per le benedizioni coatte con l'acquasanta del capitalismo terapeutico: benedizioni vaccinali che sono state da subito una immensa opportunità di business as usual per i gruppi dominanti. Le cifre d'altro canto parlano chiaro e dimostrano un profitto ragguardevole guadagnato grazie alla gestione dell'emergenza. Come mostrato da Ivan Illich nel suo ancora attualissimo studio "Nemesi medica", la società del capitale aspira a considerare tutti i suoi cittadini come malati per poterli poi curare e generare da tali cure sempre nuovi profitti. Come sottolineato a suo tempo, la categoria del "malato asintomatico" permette di trasformare tutti indistintamente in malati potenziali. L'emergenza del 2020 ha fornito un'occasione imperdibile per questa strategia di classe. Gli euroinomani di Bruxelles hanno provato in ogni modo a secretare i documenti ma adesso pare che le cose stiano celermente cambiando. Vedremo cosa accadrà. Intanto non possiamo che accogliere con giubilo la notizia che abbiamo commentato, sperando che la verità emerga presto e che chi ha sbagliato paghi adeguatamente.