
di Diego Fusaro

Destra e sinistra ugualmente dalla parte dell’imperialismo Usa
Tutta la pochezza della cosiddetta "destra sovranista" (pochezza perfettamente speculare a quella della sinistra cosmopolita) emerge con adamantino profilo dalla vicenda dell'Iran vigliaccamente aggredito da USraele: anziché difendere le sacrosante ragioni dell'Iran e della sua difesa della propria sovranità nazionale, la giullaresca destra "sovranista" si schiera indecorosamente con l'imperialismo di USraele, con ciò rivelando che il proprio concetto di sovranismo coincide in toto con quello di nazionalismo imperialistico. Se il patriottismo sovranista riconosce a ogni popolo il diritto pieno di difendere la propria sovranità, l'infame nazionalismo imperialistico ammette il diritto alla sovranità nazionale solo per le potenze imperialistiche, a loro volta legittimate a neutralizzare la sovranità altrui con bombe umanitarie e missili democratici. Il governo di Giorgia Meloni, ogni giorno più risibile e più subalterno a Washington e a Israele, si era pateticamente riempito la bocca di espressioni come sovranità nazionale, patria, difesa degli interessi nazionali, e via discorrendo: ora ha gettato la maschera e si è rivelato un governo subalterno all'imperialismo di Washington e di Israele, facendosi latore del già richiamato nazionalismo imperialistico. A questa miseria della destra nazionalista si accompagna quella della sinistra cosmopolita, la quale per una via opposta giunge al medesimo punto, ossia alla legittimazione se non alla santificazione dell'imperialismo dell'occidente, anzi dell'uccidente, presentato subdolamente come democratico e umanitario, orientato all'abbattimento di quelli che di volta in volta Washington identifica con i regimi nemici della libertà umana (nel caso specifico, l'Iran).Una volta di più, destra nazionalista e sinistra cosmopolita si rivelano le due ali dell'aquila neoliberale, dunque della dominazione turbocapitalistica del mondo. Tale dominazione si fonda sull'imperialismo, di fatto coincidente con la dinamica di anglobalizzazione, ossia di americanizzazione forzata del pianeta. La destra, come sappiamo, è stata il luogo fondamentale di propulsione e di legittimazione dell’imperialismo. La novitas degna di nota sembra essere la recente riconversione stessa della new left fucsia alle “ragioni” dei bombardamenti etici, dell’interventismo umanitario, degli embarghi terapeutici: in una parola, alle ragioni del “cattivo universalismo” dell’imperialismo statunitense, che de facto coincide con il “braccio armato” della globalizzazione mercatista. E che, a rigore, lungi dall’inquadrarsi come una figura dell’universalismo, si pone come espressione di un etnocentrismo esaltato, che semplicemente mira a estendere senza limiti il proprio modello e il proprio dominio, ideologicamente contrabbandato come valido in universale. Se il tratto fondamentale della vetero-sinistra fu l’universalismo, occorre riconoscere che la new left lo ha abbandonato mediante la difesa dell’imperialismo americano-centrico non meno che attraverso il sostegno alle ragioni della società competitiva di free market, nei cui spazi reificati il paradiso dei pochi si regge sull’inferno dei più. L’imperialismo, infatti, non è se non la violenza del particolare che si contrabbanda come universale. La società competitiva del capitale è, a sua volta, il trionfo di una classe sulle altre o, se si preferisce, il nesso di signoria e servitù che rende possibile il successo di un gruppo mediante la sopraffazione ai danni degli altri. Sicché vero universalismo sarebbe combattere contro l’imperialismo e contro la società di mercato, ciò che la new left ha da tempo cessato di fare, divenendo neo-sinistra global-imperialista e liberal-nichilista. La struttura economica di destra (imposizione del mercato e dell’interesse dei gruppi dominanti) trova anche questa volta il suo corrispettivo nella superstruttura culturale di sinistra (ideologia interventistica dei diritti umani). In effetti, l’imperialismo del Leviatano a stelle e strisce procede sempre, nelle sue giustificazioni, con un doppio registro: quello cinico della destra e quello dell’“anima bella” di sinistra. Il cinico right-oriented apertamente sostiene l’invasione imperialistica senza infingimenti, nel nome dell’“utile del più forte” – secondo il teorema di Trasimaco – e del nudo interesse economico e geopolitico della forza dominate. L’anima bella left-oriented, invece, cerca di giustificare l’invasione imperialistica con la roboante retorica dei diritti umani o, addirittura, fingendo di assumere il punto di vista dei più deboli, che l’operazione imperialistica stessa difenderebbe.

Gli avvoltoi dell'imperialismo occidentale contro l'Iran
Ancora una volta è partita sui giornali più letti e, soprattutto, più venduti la vergognosa propaganda che intervista sempre e solo oppositori del governo di Teheran: donne e uomini, scrittori e rifugiati, che denunciano la perfidia del governo iraniano e auspicano la sua rapida caduta, naturalmente grazie all'intervento straniero e, segnatamente, di Washington; come se, appunto, in Iran vi fossero soltanto oppositori del governo, che aspettano con giubilo l'intervento umanitario di Washington e di Israele, con tanto di bombe etiche e di missili democratici. Mai una volta che venga intervistato un sostenitore della Serbia di Milosevic, della Libia di Gheddafi, dell'Iraq di Saddam, della Russia di Putin, della Cina di Xi Jinping o dell'Iran contemporaneo. E i più continuano a bersi, ogni volta, questa manicomiale propaganda da quattro soldi: con ciò rivelano di essere soggetti al più pericoloso imperialismo, quello cognitivo. La loro mente, infatti, è colonizzata dalla propaganda occidentale, anzi uccidentale. È dal 1989 che questa narrazione si ripresenta ogni volta immutata: puntualmente lo Stato "liberato" dall'interventismo umanitario made in USA precipita in un inferno e in una condizione indubbiamente peggiore, ogni volta, rispetto a quella precedente (vedi Libia e Iraq). Ovviamente anche questa volta riusciranno con buona probabilità a farvi credere che quello che viene fatto all'Iran è per il bene degli iraniani, come quel che fecero ai "pellerossa" era per il bene di questi ultimi... Uno dei nobili teoremi del marxismo, ovviamente rinnegato dalle sinistre fucsia neoliberali (allineate all'imperialismo non meno delle destre), è quello per cui meritano supporto sempre e comunque le nazioni oppresse dall'imperialismo, che non è altro se non la lotta di classe applicata ai rapporti fra le nazioni. Nell'odierno diagramma dei rapporti di forza, ovviamente, come abbiamo mostrato nel nostro studio "Demofobia", destra e sinistra in uccidente sono ugualmente organiche all’imperialismo: le destre lo celebrano in nome della dominazione occidentale, le sinistre in nome della esportazione manu militari dei diritti umani (la ben nota foglia di fico di cui si nasconde la violenza uccidentale). Make Iran great again. È questo l'ultimo demenziale slogan coniato da Donald Trump, il presidente della civiltà del dollaro, schierato in toto con Israele. Forse aspira a far tornare l'Iran grande com'era la Persia di Dario e di Serse (posto che le sue conoscenze storiche si spingano fin lì)? Lo stesso Trump, nel lanciare il suo slogan pubblicitario, che è poi una variante del più noto (e ugualmente demenziale) make America great again, ha asserito che è necessario un regime change in Iran. Quod erat demonstrandum: l'imperialismo americano utilizza ancora una volta la narrativa del regime barbaro da abbattere per giustificare il proprio appetito colonizzatore, orientato a fare sì che anche l'Iran sia annesso nella americanosfera. Come il limes dei romani, che era un confine in movimento, tale da spostarsi al ritmo dell'avanzare delle conquiste imperiali, così anche il limes della globalizzazione neoliberale e americanocentrica si muove e avanza, neutralizzando culture e stati disallineati e, insieme, annettendoli nei propri spazi omologati. Ancora, come il limes romano, anche quello americano odierno traccia sempre una distinzione assiologicamente connotata tra Noi e Loro, identificando i primi con la civiltà e i secondi con la barbarie che deve essere sconfitta. Una delle prerogative quintessenziali dell'imperialismo sta appunto nel presentarsi come opera di civilizzazione a beneficio dei popoli colonizzati. Miseria dell'imperialismo! Ben diverso risulta il contegno della Cina e della Russia. La prima ha dichiarato apertamente di sostenere il popolo iraniano sotto assedio imperialistico da parte di USraele. La Russia, per parte sua, ha accolto nei giorni scorsi esponenti di punta del governo iraniano, portando pieno sostegno e piena solidarietà al popolo persiano. È da sperare che l'Iran non venga lasciato solo dalla Russia e dalla Cina, ché, se ciò dovesse accadere, sarebbe la sua fine. E si troverebbe presto in una situazione analoga a quella della Libia e dell'Iraq dopo la messa in opera della civilizzazione imperialistica dell'Occidente, anzi dell'uccidente: per dirla con l'antico Tacito, fanno il deserto e lo chiamano pace. Intorno all'Iran si gioca adesso la partita fondamentale per il mondo multipolare, sottratto alla dominazione statunitense e resistente a quest'ultima. Resistenza iraniana o barbarie: questa è l'alternativa. Tertium non datur.

L'imperialismo di US(I)raele e le sue continue malefatte: ora è la volta dell'Iran
Si sente ripetere di continuo che, in fondo, Israele ha ragione ad attaccare l'Iran, poiché quest'ultimo è un "regime" e, in quanto tale, merita di essere abbattuto. Questo teorema è sulla bocca di tutti i benpensanti liberal, ossia di tutti coloro i quali sposano, per convenienza o perché indottrinati, la visione del mondo di completamento dell'ordine dominante della globalizzazione sotto l'egida di USraele. Occorre però domandarsi chi distribuisca davvero i titoli e le patenti di "regime" ai governi realmente esistenti. Propongo, allora, a mo' di ipotesi di lavoro la seguente definizione: viene detto "regime" ogni governo che, per una via o per l'altra, non si pieghi all'imperialismo dell'Occidente, anzi dell'uccidente. Dunque sono per definizione regimi la Cina e la Russia, il Venezuela e l'Iran, insomma tutti gli oppositori della civiltà a stelle e strisce. Ugualmente contestabile mi pare, invero, la narrazione manicomiale secondo cui basta essere classificati come regime per poter essere poi aggrediti legittimamente, come ora sta appunto avvenendo in relazione all'Iran. Oltretutto questa narrazione demenziale presuppone, come sempre, che l'uccidente sia la parte buona e democratica, titolata a rieducare il mondo con le buone o - sempre più spesso - con le cattive. Insomma, le bombe e i missili diventano democratici e pacifici se lanciati sulla popolazione dei governi a cui l'uccidente abbia assegnato la patente di regimi prima di aggredirli? Credo che tutti noi possiamo convenire senza difficoltà almeno su questo: il fatto che negli Stati Uniti d'America ci sia la pena di morte o che in Europa le banche possano portar via le case ai cittadini è di per sé orrendo, ma non può certo giustificare l'aggressione armata degli Stati Uniti o dell'Europa da parte di potenze straniere. Lo stesso si può e si deve dire in relazione all'Iran: il fatto che l'Iran abbia delle interne contraddizioni, che non vogliamo assolutamente negare, non può giustificare in alcun modo l'aggressione dell'Iran da parte di Israele; Israele che, oltretutto, quanto a contraddizioni interne non ha lezioni da dare a nessuno, considerato anche solo il trattamento disumano e genocidario a cui sta sottoponendo la popolazione inerme di Gaza. Dovrebbe essere chiaro anche a un bambino che dietro agli attacchi democratici ai cosiddetti regimi si nasconde sempre lo sciagurato imperialismo dell'occidente, che a questo punto potrebbe essere esso stesso definito un regime neo-liberale a base imperialistica. I più sono talmente sottoposti alla manipolazione da ritenere che l'Iran, aggredito vigliaccamente da Israele, sia comunque l'invasore e dunque Israele abbia preventivamente risposto alla futura aggressione da parte dell'Iran. Una narrazione manicomiale, evidentemente, che deve sempre e comunque giustificare Israele e Stati Uniti (USraele): una narrazione manicomiale a cui tuttavia i più continuano a credere indecentemente. E adesso Israele, dopo l'Iran, ha attaccato pure lo Yemen. Come sempre, con il pieno e incondizionato sostegno dell'Europa e dell'Occidente, anzi dell'uccidente liberal-atlantista, che ancora una volta fanno uso del bipensiero orwelliano: il teorema secondo cui l'aggressore ha sempre torto ed aggredito sempre ragione, utilizzato ad nauseam contro la Russia di Putin, viene ora ribaltato in riferimento a Israele, l'aggressore che sempre deve per definizione avere ragione. Vengono mobilitate, more solito, le giustificazioni più demenziali e più surreali: si dice che Israele ha aggredito lo Yemen per combattere contro il terrorismo. Come non ci stanchiamo di sottolineare, la lotta di Israele contro il terrorismo appare essa stessa indistinguibile dal terrorismo. L'altra argomentazione mobilitata dagli autoproclamati professionisti dell'informazione è quella secondo cui Israele ha condotto una guerra preventiva: il concetto di guerra preventiva risulta una delle categorie più bieche del pensiero politico contemporaneo, dato che viene impiegata per giustificare guerre di aggressione imperialistica contrabbanandole per guerre difensive contro stati la cui aggressione è stata premeditata. Il livello della narrazione appare ogni giorno più squallido e, tuttavia, troppe persone continuano a bersele tutte, ponendosi nella condizione dei cavernicoli di cui scriveva Platone nel settimo libro della "Repubblica".

Il fallimento del referendum spiegato altrimenti
Com’era ampiamente prevedibile, il referendum indetto dalle sinistre padronali è naufragato miseramente. Vince indubbiamente la destra neoliberale, che da subito aveva "tifato" per l'astensione. Ma vince egualmente anche la sinistra neoliberale, la quale non ha alcun interesse reale per il tema del lavoro e ha indetto questo referendum soltanto per guadagnare consensi, senza impegnarsi realmente: d'altro canto, quando era al governo e poteva realmente tutelare il lavoro non solo non l'ha fatto, ma ha spietatamente colpito lavoratori e diritti sociali, superando per certi versi in questo anche la destra stessa (jobs act, abolizione dell’articolo 18, precarizzazione, ecc.). Semplicemente, il referendum è stato indotto dalla sinistra per provare maldestramente a far vacillare il giullaresco governo della destra (un governo vergognosamente allineato a Washington, Israele, Bruxelles e al sistema bancario, non dimentichiamolo). Si sono mobilitate le argomentazioni più disparate e a volte anche più disperate per rendere conto dell'esito peraltro prevedibile del referendum, che non ha appunto raggiunto il quorum. Vi è stato chi ha parlato della naturale apoliticità degli italiani, ma è un argomento che non convince, considerato il fatto che in altre occasioni gli italiani si sono mobilitati in massa, come ad esempio per il referendum del 2016 sulla nefanda proposta di modifica della nostra costituzione. Vi è, poi, chi ha mobilitato la categoria dell'egemonia politica esercitata dal giullaresco governo della destra bluette neoliberale di Giorgia Meloni. Ma anche questo argomento non risulta persuasivo fino in fondo. La verità, almeno a mio giudizio, sta altrove: il fallimento su tutta la linea di questo referendum si spiega in ragione del fatto che chi lo ha proposto è stato in passato responsabile delle più infauste riforme del lavoro e delle più radicali aggressioni al mondo dei lavoratori. Non è un mistero: gli stessi che hanno abolito l'articolo 18 e introdotto l'infame Jobs Act, celebrando quell'Unione Europea che rappresenta di fatto un massacro di classe sotto ogni profilo, sono gli stessi che ora hanno indetto il referendum in difesa del lavoro! E che oltretutto hanno inserito nei quesiti anche il "cavallo di Troia" della cittadinanza. Perché, se tengono tanto al lavoro, lo difendono ora che concretamente non possono fare nulla e lo distruggono quando sono al governo e possono fare? Diciamolo apertamente, azzardando un'ipotesi che non ci pare affatto remota: se anche si fosse raggiunto il quorum e avesse prevalso il sì su tutta la linea, nulla si sarebbe poi fatto in difesa del lavoro, come peraltro nulla si fece in difesa dell’acqua pubblica quando, nel 2011, vinse il sì al referendum contro le privatizzazioni. Il capitale si sarebbe naturalmente opposto. Sarebbe invece sicuramente passato il piano dell'allargamento della cittadinanza, questo sì graditissimo al capitale, che non vede l'ora di estendere il più possibile la cittadinanza fino a farla saltare, diluendo ancora più i già risicati diritti sociali superstiti, secondo la logica del todos caballeros. Il referendum, dunque, è fallito. Non dimenticatelo però: non appena la sinistrash andrà a governare, prendendo il posto della destrash, sicuramente porrà in essere un pacchetto formidabile di riforme in difesa del lavoro, eliminando il jobs act e ripristinando l'articolo 18: è certo, come è certo che il triangolo è quadrato.

I venti di guerra soffiano sempre più impetuosi
Dopo aver tentato un vero e proprio attentato terroristico contro l'elicottero su cui viaggiava Putin, l'Ucraina del guitto Zelensky, attore Nato, prodotto in vitro di Washington se non di Hollywood, nei giorni scorsi ha fatto il colpo grosso: ha colpito con un vile gesto terroristico quaranta aerei russi, di fatto producendo quella che da più parti è stata definita una nuova Pearl Harbor. La Russia ha subito risposto, facendo sapere senza perifrasi che adesso ogni risposta russa sarà possibile, non esclusa quella nucleare. La tensione tra Russia e Ucraina non è mai stata così forte in precedenza. Per parte sua, la Nato sta spostando armi e truppe, quasi come se ormai il conflitto mondiale fosse prossimo. Il fabula docet è chiarissimo: l'Ucraina non vuole in alcun modo la pace, desiderando invece che il conflitto proceda e anzi diventi sempre più intenso e più radicale. D'altro canto, come sappiamo, l'Ucraina non agisce in proprio, svolgendo invece la parte di semplice testa d'ariete per l'interesse imperialistico dell'Occidente, anzi dell'uccidente liberal-atlantista: quell'uccidente che ha finora utilizzato l'Ucraina come semplice instrumentum belli in vista del proprio desiderio imperialistico orientato a produrre il crollo della Russia e la sua normalizzazione in senso liberal-atlantista. Ciò accade peraltro dopo pochi giorni che Putin aveva fatto sapere che la pace era possibile, a patto che l'occidente si impegnasse per iscritto a non espandersi mai più verso Oriente negli spazi un tempo appartenenti all'Unione Sovietica. Tra i commenti più demenziali dell'accaduto, merita di essere ricordato almeno quello di Carlo Calenda, esponente del partito unico del capitale in Italia: a suo giudizio, i vili attentati ucraini denotano "coraggio e astuzia": un coraggio e una astuzia che potrebbero presto portare il mondo intero in un conflitto potenzialmente distruttivo e senza ritorno. Tutto come da copione, dunque, secondo il ben noto modo di dire. Leggiamo oltretutto che adesso Starmer, primo ministro britannico, lancia in pompa magna i preparativi per la guerra contro la Russia di Putin. La Gran Bretagna, dunque, si accinge a entrare in guerra contro la Russia di Putin? E su quali basi, domandiamo sommessamente? Nei giorni scorsi, come anche abbiamo ricordato, la Russia ha subito un vile attentato terroristico da parte di Kiev, un attentato terroristico che ha colpito ben 40 aerei russi, di fatto ponendo in essere le condizioni per una possibile rappresaglia di Putin. Insomma soffiano impetuosi i venti della guerra, propiziata in ogni modo dall'Europa e da quell'Ucraina che continua a svolgere il mero ruolo di avamposto imperialistico dell'Occidente a stelle e strisce. Lo andiamo ripetendo ormai da mesi con costanza: l'Unione Europea sta facendo di tutto per produrre il casus belli con la Russia. Ha lanciato il demenziale programma di riarmo e sta operando in ogni maniera per provocare la Russia e portarla al conflitto. L'ultima mossa del premier britannico segnala una volta di più come l'occidente sia la vera causa del conflitto; conflitto che è stato gradualmente preparato fin dagli anni novanta, mediante l'osceno accerchiamento graduale della Russia in vista della sua normalizzazione in senso liberal-atlantista. È un momento essenziale di questa quarta guerra mondiale, che, successiva alla terza cioè alla guerra fredda, è la guerra che la civiltà occidentale americano-centrica ha dichiarato a tutto il mondo che non si pieghi docilmente al suo dominio. Gran Bretagna e Unione Europea si stanno rivelando nella loro reale essenza. Il vero nemico dell'occidente è l'occidente stesso.

Dopo la Bce, Lagarde potrebbe passare al Forum di Davos: i plutocrati dell'ordine neoliberale
In questi giorni, leggiamo su tutti i più letti e soprattutto più venduti quotidiani nazionali ed europei che la signora Lagarde potrebbe presto lasciare la BCE per passare direttamente al World economic forum di Davos. Se ciò dovesse realmente accadere, sarebbe l'ennesima prova del fatto che presso il blocco oligarchico neoliberale vige il sistema delle porte girevoli, se così vogliamo definirlo. Un sistema tale per cui gli esponenti della classe capitalistica dominante transnazionale restano sempre all'interno del circuito fondamentale delle decisioni sovranazionali e del potere economico. Possiamo ben dire, a questo riguardo, che il sistema capitalistico ha scoperto il metodo alchemico per trasformare il vile metallo in oro: i banchieri diventano politici, i politici diventano banchieri. E così, per portare alcuni esempi concreti, Draghi, Prodi e Monti, dopo aver collaborato attivamente con Goldman Sachs, divennero esponenti di punta di quel costrutto tecnocratico e repressivo che è l'Unione Europea. Barroso, per parte sua, terminato il mandato presso l'Unione Europea non tornò a Lisbona ma passò direttamente in Goldman Sachs. Qualcosa di simile sembra che ora potrebbe interessare la signora Lagarde, stando a quello che apprendiamo dai giornali prima menzionati. Insomma, chi esce dalla BCE passa al Forum di Davos, chi esce dall'Unione Europea passa a Goldman Sachs. Grazie ai processi di sovranazionalizzazione, che traslano il centro della decisione politica dai parlamenti nazionali a realtà sovranazionali strutturalmente non democratiche e sottratte a ogni controllo politico (emblematico è, ancora, il caso della UE), gli Stati vengono “scassinati” dai poliorceti del mondialismo finanziario e dagli architetti dell’autocrazia del capitale. Questi ultimi, mediante astuti accorgimenti all’insegna della deresponsabilizzazione (riforme con il “pilota automatico”, “emergenzialità della crisi”, “cessioni di sovranità”, ecc.), si peritano di non lasciare impronte digitali per le loro malefatte: lasciano che le loro manovre di classe appaiano come le impersonali necessità sistemiche richieste per affrontare le crisi che di volta in volta emergono nei tumultuosi spazi del vigente tecnofeudalesimo. Il potere concentrato della finanza costringe lo Stato a svalorizzare la ricchezza sociale, di modo che, mediante saccheggi e rapine chiamate “privatizzazioni” e “liberalizzazioni” dall’ordine linguistico dominante, la massa pauperizzata sia privata di tutto e la ristretta cerchia dei signori apolidi del regno finanziario accresca sempre più il proprio patrimonio. La lotta di classe dall’alto, al tempo del turbocapitalismo finanziario, si estrinseca anche nella forma di un’ininterrotta sottrazione fraudolenta dei beni e dei prodotti del lavoro dei ceti medi e delle classi lavoratrici mediante rapine finanziarie e manovre truffaldine, rese possibili dal dominio autocratico del sistema bancario e finanziario e, insieme, dall’operare tutto fuorché neutro e innocente della politica soggiogata a detto sistema. Come è noto, del resto, nel quadro del turbocapitalismo sans frontières la decisione sovrana non è più radicata nei parlamenti nazionali, ma in istituzioni private sovranazionali che decidono autocraticamente e puntualmente scavalcando il volere delle nazioni e dei loro parlamenti. Non chiamatela democrazia: è una plutocrazia finanziaria neoliberale a base imperialistica.

Bersani: "Abbiamo fatto cose disdicevoli". Destra e sinistra le due ali dell'aquila turbocapitalistica
In una recentissima intervista apparsa sulle colonne de "Il manifesto", lo storico esponente della sinistra liberalprogressista Pier Luigi Bersani - già fautore a suo tempo delle liberalizzazioni coatte - svolge una considerazione programmatica, che ci pare degna di essere commentata pur celermente: "Abbiamo fatto cose disdicevoli, ma ora ripartiamo". Queste le parole dell'esponente della sinistrash fucsia liberalprogressista Bersani. Parole severe, non c’è dubbio. A dire il vero, la frase, se letta in trasparenza, suona quasi come una minaccia, che così può essere intesa: abbiamo fatto cose disdicevoli e ora siamo pronti a farne anche di peggiori. Nel tempo dell'alternanza senza alternativa e dell'omogeneità bipolare di una destra e di una sinistra che figurano come le due braccia del partito unico fintamente articolato del capitale, non dobbiamo dimenticare che la dominazione capitalistica, almeno dagli anni '90 ad oggi, è avvenuta ugualmente grazie alla destra e alla sinistra, in competizione tra loro per andare a prendere con zelo gli ordini dalla classe dominante transnazionale. Sì, destra e sinistra sono le due ali dell’aquila turbocapitalistica, ugualmente allineate come sono al vangelo liberista e alla violenza imperialistica made in Usa. Ne è discesa tutta una serie di paradossi che credo siano sotto gli occhi di tutti: la sinistra ha istituito l'orrendo Jobs act, che ha precarizzato barbaramente il mondo del lavoro, e ora che si trova all'opposizione dice di volersi battere per abolirlo. La destra, che a suo tempo criticava in maniera aspra il Jobs act, ora che è al governo non dice più nulla intorno ad esso e tace solennemente. Una sorta di giuoco delle tre carte applicato alla politica, sempre più palesemente ridotta a semplice continuazione dell'economia capitalistica con altri mezzi. I mercati decidono. E i politici, di destra come di sinistra, applicano le decisioni e le mutano in legge. Già ricordavo che Bersani fu protagonista delle liberalizzazioni in Italia, ossia di un indirizzo che si iscrive perfettamente nel quadro dell'ordine neoliberale e della sua trasformazione dei diritti in merci e dei beni comuni in servizi privati. Degno di lode il fatto che Bersani ora prenda coscienza che anche la sua parte ha fatto "cose disdicevoli" (ugualmente ne ha fatte la destra, naturalmente): ma siamo convinti che continuerà a farle, poiché ha integralmente introiettato la visione capitalistica del mondo, in forza della quale non si dà altra realtà possibile se non quella del mercato innalzato a unica sorgente di senso (Mark Fisher lo ha appellato "realismo capitalista"). Il giusto anticapitalismo della vecchia sinistra rossa della falce e del martello è stato spodestato dall'osceno ultracapitalismo della new left dell'arcobaleno, ormai divenuta semplice guardia fucsia dell'ordine dominante e del blocco oligarchico neoliberale. Che la destra sia organica al potere dominante non è una novitas: lo è invece che lo sia ormai pienamente anche la sinistra, che un tempo aveva rappresentato le istanze della trasformazione e dell'opposizione al potere dominante, al quale ormai è organica in misura non inferiore rispetto alla destra stessa. Adesso, col referendum del 9 giugno, dicono di volere abolire la precarietà del lavoro che essi stessi hanno contribuito a introdurre! Con quale credibilità? Come non mi stanco di evidenziare da tempo, destra e sinistra nel tempo del turbocapitalismo sono del tutto simili a due maggiordomi con il diverso colore della livrea ma egualmente piegati alla dominazione del padrone capitalistico, da cui prendono con solerzia gli ordini. Insomma, la situazione è tragica, senza però riuscire a essere seria.

Pfizergate: Ursula von der Leyen inchiodata dal tribunale UE
Ebbene, nubi si addensano all'orizzonte per la signora von der Leyen, vestale dei mercati apatridi e sacerdotessa del verbo unico liberal-progressista: forse è la volta buona perché si faccia giustizia? Così leggiamo ad esempio su "Il sole 24 ore", “L’osservatore Romano” della globalizzazione turbocapitalistica: "Sms «segreti» tra von der Leyen e ceo di Pfizer: annullato il divieto d’accesso ai giornalisti". Il tribunale europeo, dunque, inchioda la signora von der Leyen e accoglie il ricorso presentato dal "New York Times", che a suo tempo aveva fatto richiesta di accesso agli sms in questione. Finalmente sapremo quel che realmente accadde nel tempo dell’emergenza epidemica? Diceva Seneca che la verità, anche se sommersa, viene prima o poi a galla. E sembra davvero che adesso un poco alla volta stia emergendo. Come abbiamo sostenuto ampiamente nel nostro studio "Golpe globale. Capitalismo terapeutico e grande reset", l'emergenza terapeutica è stata con profitto trasformata dalle classi dominanti in strumento di comando e in opportunità di profitto. Capitalismo della sorveglianza più big business: ecco la sintesi letale che si è perversamente venuta generando e che ha trovato nell'infame tessera verde la sua sintesi diabolicamente perfetta. Ciò vale anche e a maggior ragione per le benedizioni coatte con l'acquasanta del capitalismo terapeutico: benedizioni vaccinali che sono state da subito una immensa opportunità di business as usual per i gruppi dominanti. Le cifre d'altro canto parlano chiaro e dimostrano un profitto ragguardevole guadagnato grazie alla gestione dell'emergenza. Come mostrato da Ivan Illich nel suo ancora attualissimo studio "Nemesi medica", la società del capitale aspira a considerare tutti i suoi cittadini come malati per poterli poi curare e generare da tali cure sempre nuovi profitti. Come sottolineato a suo tempo, la categoria del "malato asintomatico" permette di trasformare tutti indistintamente in malati potenziali. L'emergenza del 2020 ha fornito un'occasione imperdibile per questa strategia di classe. Gli euroinomani di Bruxelles hanno provato in ogni modo a secretare i documenti ma adesso pare che le cose stiano celermente cambiando. Vedremo cosa accadrà. Intanto non possiamo che accogliere con giubilo la notizia che abbiamo commentato, sperando che la verità emerga presto e che chi ha sbagliato paghi adeguatamente.

No, caro Mengoni: la maternità surrogata non è un diritto, ma un reato
Meritano davvero un pur rapido commento le recenti dichiarazioni di Marco Mengoni. Queste le parole pronunciate dal cantante sulla cresta dell'onda e prontamente riportate con zelo da tutti i più letti e soprattutto più venduti quotidiani nazionali, sempre in prima linea nel difendere il progresso liberal-capitalistico: "Non mi rappresenta un paese in cui la maternità surrogata è un reato". A giudizio di Mengoni, dunque, e di larga parte del fronte omologato dei cantori del pensiero unico liberal-progressista in tinta arcobaleno, comprare un figlio mediante la pratica dell'utero in affitto rientrerebbe fra i sacri diritti universali dell'essere umano. E i Paesi che non lo riconoscono debbono essere per ciò stesso definiti barbari e retrogradi. Curiosa epoca, in effetti, quella nei cui spazi alienati e reificati i capricci di consumo delle classi possidenti, fondati magari anche sulla mercificazione integrale della donna e dei nascituri, vengono celebrati come diritti. Il nostro è il tempo in cui i capricci e i desideri pretendono di ergersi a diritti universali, mediante la ben nota pratica della liberalizzazione propria della civiltà del capitale. La nostra risulta sotto ogni profilo la società della liberalizzazione integrale del costume e del consumo, ove destra e sinistra si dividono con zelo i compiti. La destra promuove la deregolamentazione economica, la sinistra quella antropologica. Giova allora rammentare una volta di più per quali motivi l'utero in affitto o maternità surrogata che dir si voglia (e così preferisce In effetti appellarla la neolingua liberale) non è un diritto, ma una pratica abominevole. Una pratica che deve essere condannata in nome della difesa della dignità dell'essere umano, che ha dignità e non ha prezzo. Anzitutto, la si deve condannare per i già richiamati i processi di mercificazione: processi in grazia dei quali il ventre della donna diventa un magazzino aziendale e il nascituro decade a merce on demand, programmata magari anche con derive eugenetiche. In secondo luogo, non debbono passare inosservati i processi di sfruttamento sottesi alla pratica della maternità surrogata: abbiamo qui il classico teorema della libertà liberale, in forza del quale nessuna donna sarà costretta a mettere in affitto il proprio utero, ma le donne dei ceti subalterni non potranno fare altrimenti per via della loro condizione economica. Non dimentichiamo infine che avere un figlio non è un diritto, ma è l'esito di un incontro, di una storia d'amore e di una relazione tra un uomo e una donna. Il rapporto che ci lega al figlio non è quello del consumatore che desidera una merce, ma è quello dell'amore incondizionato e gratuito per il figlio stesso, come insegna la vicenda di Re Salomone: quando gli si presentarono dinanzi due donne che pretendevano entrambe di essere la madre del bambino in fasce che avevano con sé, Re Salomone propose di tagliare in due parti uguali l'infante e assegnarne metà a ciascuna delle due donne. Solo allora si capì qual era la vera madre: quella che si disse disposta a cedere il bambino all'altra, purché non venisse tagliato e potesse continuare a vivere nella sua pienezza d'essere. Perché questo è l'amore per il figlio: desiderarne la piena realizzazione in tutta la sua potenza d'essere. Volo ut sis: voglio che tu sia, questa secondo Agostino d'Ippona è la formula magica dell'amore, tutto il contrario del desiderio autocentrato del consumatore, che tanta libertà ha quanta può comprarne e che pretende di trasformare tutti i suoi capricci di consumo in diritti codificati dalla legge. Sarebbe bene che Mengoni posasse per un istante il microfono e riflettesse seriamente su questi temi per evitare di ribadire pappagallescamente gli schemi mentali propri dell'odierna civiltà merciforme. In effetti la nostra è anche la prima epoca in cui intellettuali e artisti sono completamente schierati dalla parte dei cristalli del potere dominante e della sua mappa mundi.

Blackout in Spagna. Si va verso l'epoca delle emergenze energetiche?
Ebbene, si sta discutendo animatamente da giorni intorno al caso controverso del blackout totale che si è verificato nei giorni scorsi in Spagna, Portogallo e sud della Francia. Si è trattato di un vero e proprio blackout totale, che ha paralizzato integralmente le regioni interessate per parecchio tempo. Un fatto inatteso, che ha bloccato la vita di migliaia di persone. E che ha rivelato quanto ormai la nostra vita dipenda totalmente dall'apparato tecnico. A tal punto che sarebbe il momento di estendere la dialettica hegeliana di servitù e signoria al rapporto tra gli umani e la Tecnica: da signori delle macchina stiamo diventando loro servitori, come già hanno sottolineato Heidegger e Severino. Subito gli strateghi del discorso e i padroni del consenso hanno provato a mobilitare gli argomenti più diversi per dare conto dell'accaduto: si è parlato ad esempio di un possibile attacco hacker e poi anche del cambiamento climatico come immancabile causa dei nostri drammi. Non sappiamo quale sia la vera causa e non intendiamo affatto azzardare ipotesi strampalate, come invece hanno fatto da subito gli autoproclamati professionisti dell'informazione. Ci interessa, invece, svolgere alcune pacate considerazioni sulla situazione presente e sui suoi possibili risvolti futuri. Intanto, una domanda tutto fuorché oziosa: è davvero un'operazione sensata escludersi dall’apporto energetico russo, come da tempo sta sciaguratamente facendo l'Unione Europea, sempre più simile a un treno in corsa verso l'abisso? Seconda considerazione che intendiamo sviluppare: l'ordine neoliberale si fonda sull'emergenza perpetua, sulla "permacrisi", come l'hanno puntualmente battezzata gli araldi del discorso a senso unico. Che sia l'emergenza sanitaria o quella terroristica, l'emergenza ambientale o adesso quella energetica, poco cambia rispetto all'ordine politico instaurato: ordine politico che si basa sull'impiego governamentale dell'emergenza, mutata in precisa ars regendi, in strumento di governo con cui le classi dominanti impongono le loro scelte tutto fuorché neutre, lasciandole ipocritamente passare per decisioni necessariamente imposte dalla situazione emergenziale. Le masse tecnonarcotizzate e teledipendenti sono terrorizzate dall'emergenza, di volta in volta amplificata dai padroni del consenso, e sono quindi disposte ad accettare l'inaccettabile, a patto che esso venga presentato come volto a gestire l'emergenza e a garantire la sicurezza. Dunque dobbiamo prepararci a familiarizzare con l'emergenza energetica e con i blackout a intermittenza come nuova possibilità politica neoliberale? È una domanda che riteniamo doverosa e anzi fondamentale, per comprendere pienamente il quadro del nostro tumultuoso e contraddittorio presente. Tanto più che anche l'Italia ha deciso di discutere a palazzo Chigi in questi giorni dell'emergenza energetica come nuova emergenza del nostro tempo. Dunque, si va verso il tempo della nuova emergenza energetica europea?

Addio Bergoglio: alcune considerazioni critiche sul suo "pontificato"
Ci ha lasciati Bergoglio, all'età di 88 anni. La dolorosa perdita - tale è sempre la dipartita di un essere umano - ci offre se non altro l'occasione per svolgere alcune considerazioni generali sulla sua figura e sul modo in cui ha gestito in questi anni la Chiesa di Roma. La prima doverosa precisazione riguarda il fatto che Bergoglio, tecnicamente, non è mai stato Papa: secondo quanto abbiamo mostrato estesamente nel nostro libro "La fine del Cristianesimo", Benedetto XVI non rinunciò mai al munus petrino, rinunciando soltanto al ministerium: spiegato in termini semplicissimi, Ratzinger rinunciò a esercitare il ruolo di Papa senza però mai rinunciare a quel ruolo. Con l'ovvia conseguenza per cui rimase fino alla fine Papa: per questo motivo, l'elezione di Bergoglio nel 2013 fu un atto nullo più che invalido. Come è noto, il papa può essere uno soltanto e non si fa un nuovo Papa finché quello in carica non è morto o non ha rinunciato al munus, non al ministerium. D'altro canto, Ratzinger ha continuato a vestirsi da papa anche dopo il 2013 e non ha mai detto apertamente che il papa era Bergoglio, giocando sempre su quella ambiguità che il giornalista Andrea Cionci ha definito "codice Ratzinger". Dunque, a conti fatti, la sede papale risulta vacante fin dal 31 dicembre del 2022. Per quel che concerne il modo in cui Bergoglio ha amministrato la Chiesa, limitandoci anche in questo caso a sunteggiare ciò che abbiamo scritto nel nostro libro prima citato, possiamo dire che egli ha favorito in ogni modo i processi in atto di evaporazione del Cristianesimo, promuovendo una neochiesa smart e liquida, post-cristiana e aperta all'immanenza nell'atto stesso con cui si è chiusa integralmente alla trascendenza. Quella di Bergoglio è stata una religione del nulla, nella forma di un nichilismo postcristiano che di fatto ha contribuito a svuotare del tutto il cristianesimo rendendolo semplice copertura ideologica della globalizzazione liberalprogressista. Se Ratzinger aveva resistito eroicamente all'evaporazione del Cristianesimo, mettendo al centro la tradizione, la filosofia e la teologia, e per questo motivo venendo osteggiato senza tregua dall'ordine dominante, Bergoglio ha agito nella maniera diametralmente opposta e proprio per questo è stato da subito il beniamino dell'ordine egemonico: anziché resistere alla evaporazione del Cristianesimo, la ha propiziata in ogni modo. Ha svuotato il cristianesimo, rendendolo di fatto indistinguibile dalla civiltà dei consumi: ai tempi di Bergoglio, il buon cristiano e il buon consumatore coincidono in tutto e per tutto. Negli anni settanta Pasolini notava che il cristianesimo era a un bivio fondamentale, così cristallizzandolo: o il cristianesimo ripartirà dalle origini e dalla opposizione a un mondo che non lo vuole più oppure si suiciderà e si scioglierà nella civiltà dei consumi. Con Ratzinger abbiamo assistito al tentativo di dar vita alla prima ipotesi di Pasolini. Con Bergoglio viceversa abbiamo rilevato il trionfo della seconda. Ecco, in sintesi, il giudizio critico su Bergoglio. Il fatto che il discorso mainstream lo stia celebrando a reti unificate, dopo aver sempre criticato spietatamente Ratzinger perfino dopo la sua dipartita, non è se non la conferma di quanto abbiamo poc'anzi sostenuto.

Destra e sinistra in Italia si confermano problema e non soluzione
L'ho detto e ripetuto ad abundantiam. Destra e sinistra oggi sono le due ali dell'aquila neoliberale. Rappresentano la finta alternativa, che fa apparire democratico e pluralistico l'ordine monocratico del capitale. Due recenti dichiarazioni di Tajani, esponente di punta della destra bluette neoliberale e filobancaria, atlantista e filoisraeliana, meritano davvero un commento critico. La prima dichiarazione riguarda la questione bellica e militare. Tajani ha dichiarato che l'Europa senza Stati Uniti non è in grado di difendersi. L'affermazione tocca in qualche modo un nodo problematico reale, ma lo fa naturalmente nel modo sbagliato, senza fare emergere la questione dirimente. L'Europa non è in grado di difendersi, ma non per le ragioni evocate da Tajani: la vera causa sta nel fatto che l'Europa è attualmente costellata da centinaia di basi militari statunitensi, che impediscono ogni sovranità reale dell'Europa stessa, rendendola de facto e de jure una colonia dell'impero a stelle e strisce. Con la conseguenza paradossale per cui gli stessi che invocano goffamente la difesa comune europea non dicono che il primo gesto per rendere l'Europa autonoma e sovrana deve essere quello di liberazione dalla occupazione militare americana. Tutto questo non compare nemmeno per errore nei claudicanti ragionamenti in materia di Tajani. La cui seconda dichiarazione può facilmente comprendersi anche in questa luce. Tajani ha detto che "ci vuole più Europa". Una frase non particolarmente originale, invero, se si considera che è ormai da anni il cavallo di battaglia del discorso unico europeisticamente corretto diffuso urbi et orbi dal coro virtuoso degli euroinomani delle brume di Bruxelles. Il paradosso è lampante, se si considera che quando si fa notare che l'Unione Europea sta producendo tutta una serie di contraddizioni macroscopiche, il buon euroinomane di Bruxelles, il militonto europeista, risponde che ci vuole più Europa: che è un po' come se il drogato che soffre dicesse che per superare la propria sofferenza ci vuole più eroina, in questo caso più "euroina". Il trionfo del non sequitur, in effetti: è come dire che per risolvere gli effetti contraddittori bisogna potenziare le cause che li hanno prodotti. Una prova di più del fatto che viviamo nel tempo del cogito interrotto, come sempre mi piace dire variando Cartesio. Per quel che riguarda la sinistra, nei giorni scorsi, è uscita su "La Repubblica", rotocalco turbomondialista e voce del padronato cosmopolitico, una imperdibile intervista a Lorenzo Guerini, già ministro della difesa. Il quale ha detto - e il rotocalco turbomondialista lo enfatizza con lirica approvazione fin dal titolo - quanto segue: "Pd dalla parte giusta: con Israele come già con l’Ucraina". Credo che in questa frase sia racchiusa per intero la catastrofe della sinistra sul piano delle relazioni internazionali. Come abbiamo provato a mostrare nel nostro studio "Sinistrash", il comunismo si è contraddistinto sul piano politico per la lotta dalla parte del lavoro contro il capitale e per il sostegno alle lotte patriottiche di liberazione dall'imperialismo. Ebbene, la sinistra metamorfica kafkiana ormai divenuta un fenomeno trash - da cui il lemma sinistrash - non soltanto ha abbandonato le classi lavoratrici al loro destino, schierandosi in toto dalla parte del capitale contro il lavoro: ha anche messo in congedo il supporto alle lotte di liberazione nazionale contro l'imperialismo, di fatto schierandosi dalla parte di quest'ultimo, nobilitato naturalmente come esportazione della democrazia, lotta al terrorismo, estensione dei diritti umani. Si tratta con tutta evidenza di foglie di fico con cui la barbarie dell'imperialismo prova a mascherarsi e a giustificarsi agli occhi dell'opinione pubblica. Rovesciando l'asserto di Guerini, il Pd ha scelto di schierarsi - proprio come la destra liberale, ma questa non è una novità - dalla parte sbagliata della storia, quella dei rapporti di forza dominanti della globalizzazione americanocentrica macchiata col sangue dell'imperialismo più brutale. Per quel che riguarda Israele, le sue politiche sono quelle dell'imperialismo genocidario di Netanyahu: la vecchia sinistra rossa avrebbe difeso indubbiamente le ragioni del popolo palestinese e della sua lotta di liberazione, ma la new left fucsia e arcobaleno sta invece dalla parte di Israele e dei suoi massacri disumani. Per quel che riguarda l'Ucraina, ormai lo sanno anche i sassi: questa non è la guerra della Russia contro l'Ucraina, è invece il conflitto che l'occidente, anzi l'uccidente liberal-atlantista ha scatenato contro la Russia utilizzando l'Ucraina del guitto di Kiev come semplice instrumentum belli. Anche in questo caso, la vecchia sinistra rossa si sarebbe schierata strenuamente contro l'imperialismo americano e in difesa dei paesi resistenti, e invece la neosinistra dell'arcobaleno si pone dalla parte dell'imperialismo occidentale presentato come esportatore di civiltà e diritti. Non mi stanco di ripeterlo da anni e voglio sottolinearlo anche ora: se la sinistra smette di interessarsi a Marx e a Gramsci, dobbiamo smettere di interessarci alla sinistra per continuare sulle orme di Marx e di Gramsci e della loro lotta dalla parte del lavoro e contro l'imperialismo. La situazione è tragica, ma non seria.

Terremoto in Francia: Le Pen ineleggibile
Un vero terremoto sta sconvolgendo in questi giorni la Francia: il tribunale ha condannato Marine Le Pen a cinque anni di ineleggibilità, con effetto immediato, compromettendo in tal guisa la sua candidatura alla presidenza per una quarta volta nel 2027. Un voto per il quale - va sottolineato - i sondaggi la davano favorita almeno al primo turno. Dunque, con la condanna, vola in frantumi il sogno dell'Eliseo. Sulla questione, bisogna essere decisamente chiari. Se degli illeciti vi sono stati, allora indubbiamente giusto è che la Le Pen paghi. Ma non può non stupire la decisione della ineleggibilità, per più ragioni, tutte inquietanti. Intanto sorge il sospetto di un uso politico della giustizia, cosa peraltro non nuova, e che noi italiani conosciamo particolarmente bene. Sembra che effettivamente il caso della Romania abbia fatto scuola, come usa dire: Georgescu è stato egli stesso dichiarato ineleggibile, non prima dell'annullamento delle elezioni che in Romania lo avevano visto trionfare qualche mese addietro. L'avevamo detto da subito: si è spalancata una insidiosa finestra di Overton, che rischia ora di contagiare l'Europa tutta. Una finestra di Overton insidiosissima, che rischia di far volare in frantumi quel poco che resta di democrazia nel vecchio continente. D'altro canto, anche in Italia Carlo Calenda ha proposto di introdurre un demenziale "scudo democratico" teso a impedire l'elezione democratica di chi sia in qualche modo sospettato di essere vicino alla Russia o comunque a forze sgradite a Bruxelles e a Washington. Insomma, sarebbe opportuno domandarsi seriamente che cosa resti di democratico nella tanto celebrata democrazia europea, che sempre più simile appare a una tecnocrazia neoliberale a base finanziaria e imperialistica; una plutocrazia neoliberale nei cui spazi alienati sono ammesse le democratiche elezioni, a patto che vincano sempre e solo forze che abbiano preventivamente giurato fedeltà a Bruxelles e a Washington. L'uso dei tribunali per impedire a un candidato politico, quale che sia il suo orientamento, di partecipare alle elezioni è una misura chiaramente politica, che intacca il funzionamento delle procedure democratiche. Deve comunque essere chiaro che il partito della Le Pen non è affatto antisistemico, essendo strutturalmente un partito liberale e dunque organico all'ordine dominante, anche se in misura decisamente minore rispetto al partito di Macron, prodotto in vitro dei Rothschild. Che vi possa essere un uso politico della giustizia è un dubbio legittimo, anche alla luce della vicenda della signora von der Leyen, vestale del neoliberismo finanziario made in UE. "Von der Leyen condannata per mancata trasparenza sui vaccini: la sentenza della Corte Ue (alla vigilia del voto)": così titolava "Il Messaggero" il 17 luglio del 2024. In quel caso però l'ineleggibilità non valeva? Bene ha detto Varoufakis: a prescindere da quel che pensiamo del singolo candidato in questione, risulta pericolosissimo il fatto che i tribunali decidano della vita politica dei popoli e impediscano ai candidati di gareggiare.

Romano Prodi e la biasimevole tirata di capelli alla giornalista
L'immagine collaudata di Romano Prodi come uomo mite, mansueto e bonario non risponde del tutto al vero, soprattutto dopo l'ultimo episodio, che molto sta facendo discutere in questi giorni: al cospetto di una giornalista di Mediaset, che lo ha posto dinanzi a un estratto del Manifesto di Ventotene in cui si parla dell'abolizione della proprietà privata, l'euroinomane Prodi ha sbottato con veemenza. E si è infuriato oltre ogni misura: «Che cavolo mi chiede? Ma il senso della storia ce l'ha lei o no?». Il suo volto era livoroso, le sue parole palesemente stizzite e contrariate. La giornalista di Mediaset ha successivamente affermato quanto segue, secondo quel che viene ad esempio riportato da "Open": «Mi ha tirato i capelli, uno shock». Insomma, Romano Prodi ha letteralmente perso la calma e si è infuriato. Anziché rispondere pacatamente alla domanda, ha rovesciato la scacchiera e ha sbottato contro la giornalista, addirittura - secondo quanto da lei dichiarato - tirandole i capelli. Per chi avesse scarsa memoria, ricordiamo che Romano Prodi fu Presidente del Consiglio nonché Presidente della Commissione europea, ma poi anche consulente in Goldman Sachs dal 1990 al 1993. Una figura emblematica, dunque, della politica italiana ed europea e del sistema finanziario egemonico: come abbiamo estesamente mostrato nel nostro studio "Marx a Wall Street", esiste una sorta di porta girevole, in forza della quale i finanzieri diventano politici della Ue, e i politici della Ue diventano finanzieri (è il caso di Barroso, che, finito il suo mandato alla UE, è passato direttamente in Golman Sachs). Con ciò è confermata la nostra tesi, secondo cui l'Unione Europea, lungi dall'essere il grande laboratorio democratico celebrato ideologicamente da Roberto Benigni (alla modica cifra di un milione di euro: tanto è costato il suo show ideologico), rappresenta il trionfo del capitale finanziario a nocumento dei popoli e dei lavoratori della vecchia Europa. Tra l'altro, ancora nei giorni scorsi, Romano Prodi ha celebrato con enfasi il riarmo dell'Europa proposto dalla vestale del neoliberismo cosmopolita Ursula von der Leyen e si è anzi lamentato che si tratta di un piano "troppo prudente". Sarebbe d'uopo rammentare anche il fatto che Prodi, uno dei protagonisti dell'ingresso dell'Italia nell'euro, ebbe a dire a suo tempo che grazie all'euro avremmo lavorato un giorno in meno alla settimana guadagnando come se avessimo lavorato un giorno in più. Si trattava, con tutte evidenza, di una tesi inconsistente, presto smentita dalle dure repliche della realtà. Come d'altro canto è stata smentita la tesi, infinite volte ripetuta, secondo cui l'Unione Europea ci proteggerebbe dalle guerre: abbiamo ora appreso dolorosamente che le propizia in ogni modo. Adesso non ci stupiremmo davvero se Romano Prodi ci spiegasse che grazie all'euro e all'Unione Europea combatteremo un giorno in meno come se avessimo combattuto un giorno in più. Va sottolineato come gli euroinomani e gli austerici di Bruxelles si rivelino attualmente piuttosto tesi e pronti a sbottare contro chiunque osi mettere in discussione la loro narrazione intrinsecamente ideologica, che sempre più fa acqua da tutte le parti. Sia quel che sia, si è molto discusso in questi giorni dell'intervista, particolarmente sgradevole, per i toni rigorosi e palesemente infastiditi di Romano Prodi. La giornalista aveva dichiarato che l'euroinomane di Bruxelles le aveva addirittura tirato i capelli: ma fino a quel momento, in assenza di prove, era la sua parola contro quella di Prodi. Tant'è che molteplici araldi dell'ordine liberal-progressista e dell'armata Brancaleone della sinistrash che ha rinnegato Marx, Gramsci e le classi lavoratrici si erano apertamente schierati senza se e senza ma dalla parte di Prodi. Enrico Letta, ad esempio, aveva cinguettato su X spostando una sua foto accanto a Prodi e scrivendo icasticamente "io sto con Romano". Più in là ancora si era spinto il giornalista Giannini, firma del rotocalco turbomondialista e voce del padronato cosmopolitico "La Repubblica": il quale aveva asserito che Romano Prodi aveva dato una bella lezione ai giornalisti sicari. La signora Serracchiani, in una sua epifania catodica, aveva detto che non si può pretendere da Prodi la pazienza di Giobbe. Però adesso sono spuntate le prove, e segnatamente il video che mostra come effettivamente Romano Prodi abbia tirato i capelli alla giornalista di Mediaset: perfino "Il Corriere della sera" ha pubblicato il video, dedicandogli un articolo specifico. Insomma, Prodi non si è limitato a perdere verbalmente la pazienza, ma è passato alle azioni, più precisamente ad azioni francamente deplorevoli sotto ogni riguardo. E ora femministe, me too e politici liberal-progressisti che diranno? Enrico Letta dirà ancora "Io sto con Romano"? E il giornalista Giannini dirà ancora che Prodi ha dato una bella lezione ai giornalisti? Vi sarà, come è auspicabile, una collettiva presa di posizione contro il contegno francamente criticabilissimo di Romano Prodi o, in maniera opposta, le sinistre liberal-progressiste, sempre in barricata a difesa dell'inclusività e delle donne, preferiranno alzare le spalle e voltare lo sguardo dall'altra parte? Staremo a vedere, intanto registriamo con sgomento l'accaduto, una pagina davvero triste della recente storia italiana, essa stessa, in generale, particolarmente triste.

La demenziale piazza per l'Europa e i costi della guerra
Sul palco della demenziale e surreale Piazza dell'Europa, in cui si cantava "Bella Ciao" invocando orwellianamente il riarmo dell'Europa, vi era anche il cantautore Roberto Vecchioni. Quest'ultimo ha tenuto un discorso da fare accapponare la pelle, pronunziando parole di una gravità inaudita, che ci inducono a pensare che forse sarebbe davvero meglio se Vecchioni si limitasse a cantare: tanto sono belle indubbiamente le sue canzoni, quanto sono orrende le parole pronunciate sul palco della demenziale piazza per l'Europa, la piazza più demenziale dell'intera storia umana. "Non si può accettare qualsiasi pace", ha asserito il cantautore meneghino. In buona sostanza, secondo Vecchioni, sbagliano quelli che vogliono la pace in maniera incondizionata, poiché la vera pace nel contesto è quella di chi vuole armarsi: non occorre aver conseguito un dottorato in logica a Oxford per capire che il sofisma utilizzato da Vecchioni e dalla nutrita banda degli euroinomani belligeranti è quello secondo cui la vera pace coincide con la guerra, laddove chi respinge la guerra non è un sostenitore della pace ma un pericolo per l'Unione Europea, tempio vuoto che santifica il turbocapitalismo finanziario e il nulla della cancel culture. Del resto, non deve sfuggire a nessuno: dicono di voler difendere la pace, tra bandieroni arcobaleno all'insegna del nulla, e intanto propiziano il riarmo dell'Europa, secondo il folle piano della vestale del neoliberismo europeo, la signora Ursula von der Leyen; folle piano che, oltretutto, si realizzerà probabilmente attingendo a piene mani dalle tasche dei contribuenti europei, secondo quello che già è in discussione a Bruxelles. Come se non bastasse, Roberto Vecchioni ha anche avuto il coraggio di pronunziare queste parole davvero incredibili: «adesso chiudete gli occhi e pensate ai nomi che vi dico: Socrate, Cartesio, Hegel e Marx; vi dico Shakespeare, Pirandello e Leopardi. Ma gli altri le hanno queste cose?». Si tratta di parole fumettistiche e caricaturali, per non dire platealmente senza senso: è bensì vero che la nostra civiltà ha avuto questi spiriti magni, di cui non possiamo che essere fieri; ma è una mossa davvero indecorosa mobilitare i nomi di questi eroi del pensiero e della nostra civiltà per giustificare politiche infami di riarmo che nulla hanno a che vedere con la loro grandezza. Proprio perché abbiamo avuto tali spiriti magni dovremmo avere la dignità di respingere la guerra e di difendere le ragioni della pace e del dialogo. Per non parlare poi del fatto che suona palesemente ridicolo lo schema di pensiero per cui si citano eroi della nostra civiltà per sminuire quelle altrui, come ha fatto senza perifrasi Roberto Vecchioni. Il quale forse ignora che se in Europa abbiamo avuto Dante e Cartesio, in Russia hanno avuto Dostoevskij e Puškin. Ancora, forse Vecchioni ignora che la Russia non è un altro mondo rispetto all'Europa, ma è parte integrante della nostra cultura. Roberto Vecchioni farebbe bene a menzionare Cartesio e Shakespeare per prendere coscienza di come l'Unione Europea li abbia traditi e non ne sia affatto erede in alcun modo. È davvero un peccato che Vecchioni abbia smesso di essere anzitutto un cantautore di successo per vestire i panni del predicatore politico allineato all'ordine dominante, spingendosi addirittura, come ha fatto dal palco della piazza per l'Europa, a celebrare il riarmo europeo voluto dagli euroinomani di Bruxelles e dai banchieri apolidi che comandano attualmente il vecchio continente. Per parte nostra, con spirito di carità, continueremo a ricordare con ammirazione il Vecchioni cantante, stendendo un velo pietoso sulle sue recenti orazioni politiche omologate all'ordine discorsivo egemonico di una Unione Europea sempre più simile a un treno in corsa verso l'abisso. Dovrebbe essere, almeno in teoria, un punto fermo quello per cui la guerra ha i suoi costi. E, come sempre, a sostenerli sono coloro i quali appartengono al popolo degli abissi, gli stessi che peraltro vengono mandati al fronte a morire pur non volendo la guerra. Anche il nostro presente, naturalmente, non fa eccezione. E adesso che si parla a tambur battente di riarmo dell'Europa e di investimenti per 800 miliardi di euro per le armi, sorge ovviamente il problema di dove prenderli. Non è difficile, in effetti, capire donde li prenderanno. La signora Ursula von der Leyen, vestale del neoliberismo cosmopolita e sacerdotessa dei mercati finanziari speculativi, lo ha già lasciato intravedere nitidamente: bisognerà trasformare i risparmi privati in investimenti necessari, ha detto senza perifrasi edulcoranti. E adesso le fa eco anche l'euroinomane di Bruxelles, l'unto dai mercati, l'austerico delle brume europee, Mario Draghi: il quale dichiara che, per il folle programma del Rearm Europe, forse 800 miliardi non bastano ed è opportuno - sono parole sue - "coinvolgere i privati". Una formula decisamente perifrastica, per non dire orwelliana: una formula mediante la quale l'euroinomane di Bruxelles lascia intendere che, presto o tardi, gli araldi dell'ordine disordinato del capitalismo finanziario no border potranno mettere mano ai nostri conti. Magari dapprima lo faranno mediante la via della persuasione, provando a convincere anzitutto i militanti o, meglio, i militonti delle varie piazze per l'Europa circa la necessità di investire i propri denari a beneficio di un progetto volto a difendere i sacri valori dell'Europa odierna, vale a dire finanza e fiscal compact, transizione verde e cancel culture. In seconda battuta, però, non ci sorprenderemmo se i pretoriani dell'ordine liberal-progressista dovessero arrivare alla extrema ratio di un prelievo forzoso, magari simile a quello compiuto nel 1992 dal governo Amato: prelievo in grazia del quale, con il favore delle tenebre, prelevarono il 6 per mille dai conti di tutti gli italiani. Insomma, possiamo dire davvero che la situazione è tutto fuorché tranquilla, anche per quel che riguarda le nostre vite e i risparmi accumulati con fatica per i figli e per i nipoti. L'accumulazione capitalistica per spossamento, come l'ha definita David Harvey, si basa d'altro canto esattamente su questo principio: prelevare la ricchezza dal lavoro per portarla ai piani alti delle classi dominanti transnazionali. Il teorema, tanto caro agli aedi dell'ordine liberista, secondo cui l'arricchimento dei ceti dominanti genera lo sgocciolamento a beneficio del basso deve essere capovolto: l'arricchimento dei piani alti si basa proprio sullo sgocciolamento al rovescio, tale per cui le ricchezze della plutocrazia neoliberale vengono accumulate estraendo danari dalle classi che vivono del proprio lavoro. Si chiama lotta di classe dall'alto.