E’ diventata un docufilm, presentato a settembre in anteprima mondiale a Milano, la storia di Angelo Massaro, detenuto in carcere per 21 interminabili anni con l’accusa di omicidio, sino a che venne riconosciuto vittima di un clamoroso errore giudiziario.
Il titolo del docufilm è “Peso morto”, realizzato dall’associazione senza fini di lucro errorigiudiziari.com di Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, la cui attività è testimoniata nell’omonimo sito internet, e ripercorre la storia di questo incubo che ha inghiottito un uomo e la sua famiglia.
Angelo Massaro, oggi 51enne della provincia di Taranto, era stato accusato dell'omicidio e occultamento di cadavere di Lorenzo Fersurella, ucciso in provincia di Taranto il 22 ottobre del 1995; è stato tratto in arresto in base ad una intercettazione telefonica e ad una dichiarazione di un collaboratore di giustizia che riferiva di aver saputo da terzi del coinvolgimento dell'uomo nel delitto.
Parlando al telefono con la moglie dopo l’omicidio del Fersurella, Massaro aveva pronunciato una frase in dialetto che venne fraintesa: “Sto portando stu muert”. Massaro voleva in realtà intendere “muers”che in dialetto indica un peso ingombrante attaccato al gancio di una vettura, e che lui stava trainando; mentre chi stava intercettando intese “muert” come il cadavere dell’uomo ucciso una settimana prima.
Il difensore di Massaro, dopo che finalmente la Cassazione nel 2015 accolse la richiesta di revisione del processo, è riuscito a dimostrare con nuove prove che il suo assistito si trovava in una località diversa da quella dell’omicidio. Nel 2017 giunse la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto.
Tra chi subisce un vero e proprio errore giudiziario in senso stretto (quelle persone che, dopo essere state condannate con sentenza definitiva, vengono assolte in seguito a un processo di revisione) e le vittime di ingiusta detenzione (cioè coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi venire assolte), dal 1992 ad oggi sono state più di 29.000 le vittime, con una media costante di 1.000 all’anno.
Veri e propri tunnel della disperazione che le vittime insieme alle proprie famiglie si trovano costretti a percorrere, mentre intorno, le certezze di una vita costruite sino a quel momento, si sgretolano, con inimmaginabili ripercussioni psicologiche che spesso si protraggono ben oltre il riconoscimento della loro innocenza.
Maxi operazione della Guardia di Finanza che ha condotto all’arresto di 36 persone, accusate di avere gestito un traffico internazionale di sostanze stupefacenti, con l’aggravante della finalità di agevolare la 'ndrangheta. La base logistica è il porto di Gioia Tauro, in Calabria. L’operazione, “allo stato del procedimento e fatte salve successive valutazioni in merito all’effettivo e definitivo accertamento della responsabilità”, si legge in una nota della G.d.F., ha portato al sequestro di oltre 4 tonnellate di cocaina che con la vendita al dettaglio avrebbe raggiunto oltre 800 milioni di euro, e di beni per 7 milioni di euro.
Con il coordinamento della Procura della Repubblica di Reggio Calabria- Direzione Distrettuale Antimafia, informa sempre la nota G.d.F., la collaborazione di Europol e della Dcsa (Direzione centrale per i servizi antidroga), nonché della Drug enforcement administration (Dea) americana, sono stati impiegati trecento militari del Comando Provinciale di Reggio Calabria della G.d.F. in 8 regioni da Nord a Sud tra le province Bari, Napoli, Roma, Terni, Vibo Valentia, Vicenza, Milano e Novara.
Tra gli arrestati anche un funzionario dell’Agenzia delle dogane in servizio nell’ufficio istituito nel porto di Gioia Tauro, che aveva collaborato più volte in passato con la Guardia di finanza in occasione dei numerosi sequestri di sostanza stupefacente effettuati nel porto. Il suo ruolo era quello di ‘bonificare’ i container che contenevano la droga proveniente dal Sud America, eludendo i controlli degli scanner.Il “compenso” pattuito per il suo servizio sarebbe stato il 3% del valore della droga custodita nei container: quasi nove milioni di euro.
Tra i nomi degli arrestati spunta anche quello del campano Raffaele Imperiale, boss della camorra, è uno dei più grossi trafficanti di droga del mondo. Al 48enne campano l'ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip distrettuale di Reggio Calabria è stata notificata in carcere dove stava scontando una pena definitiva di 8 anni e 4 mesi di reclusione per il traffico di droga. Era stato estradato nel mese di marzo in Italia da Dubai, dove ha vissuto per anni da latitante.
La 'ndrangheta calabrese ormai da tempo ha contatti con i maggiori cartelli del Centro e Sudamerica. Ingenti quantitativi di droga nascosti nelle navi portacontainer dal Sudamerica giungono in Calabria per poi essere spediti nel resto d’Europa. Il traffico interazionale dal Porto di Gioia Tauro ha assunto dimensioni di portata così vasta che ha portato le divisioi antidroga italiane a parlare di una “nuova rotta del Mediterraneo”.
“I sodalizi calabresi”, si legge nella relazione al Parlamento della Dia del secondo semestre 2021 depositato a fine settembre, “si confermano interlocutori privilegiati con le più qualificate organizzazioni sudamericane garantendo una sempre più solida affidabilita’”. Le inchieste concluse nel secondo semestre del 2021 trasmettono l’immagine di una ndrangheta “silente ma più che mai pervicace nella sua vocazione affaristico-imprenditoriale, nonché costantemente leader nel narcotraffico”.
Quindi narcotraffico da un lato, mondo degli affari ed imprenditoriale dall’altro, sono gli ambiti in cui la 'ndrangheta e con lei tutte le mafie dirigono il loro raggio d’azione: "sempre meno legato a eclatanti manifestazioni di violenza e rivolto invece verso l'infiltrazione economico-finanziaria".
La difesa di Davide Fontana ha depositato la richiesta di rito abbreviato per il suo assistito, assassino reo confesso della giovane mamma Carol Maltesi, con la quale l’uomo aveva avuto una breve relazione. L’ex bancario è detenuto nel carcere di Busto Arsizio, con l’accusa di omicidio volontario, distruzione di cadavere ed occultamento, sevizie e crudeltà. Il 13 ottobre prossimo presso il Tribunale di Brescia si celebrerà l’udienza in cui si deciderà sull’istanza. La richiesta dei difensori punta ad escludere le aggravanti e quindi ad ottenere uno sconto di pena pari ad un terzo della condanna.
L’atroce delitto aveva sconvolto tutta Italia per la sua efferatezza. Carol 26 anni, originaria di Varese ma residente nel milanese, è stata uccisa a gennaio di quest’anno. La giovane aveva comunicato al Fontana la decisione di lasciare il comune di Rescaldina dove entrambi vivevano, vicini di casa, per trasferirsi in Veneto ed essere così più vicina al suo bimbo di 6 anni, avuto da una precedente relazione.
L’uomo che non si era rassegnato alla fine di quel rapporto, la uccise colpendola ripetutamente in testa con un martello. Ha quindi sezionato il corpo in 15 parti e lo ha conservato nel frigorifero per mesi, durante i quali, impossessatosi del cellulare della vittima, rispondeva ai messaggi dei suoi amici e dei genitori per tranquillizzarli. Infine ha deciso di disfarsi del corpo mettendolo in 4 sacchi di plastica gettati in un dirupo in montagna, nel Comune di Borno, località dallo stesso conosciuta poiché vi trascorreva le vacanze in gioventù, dove vennero ritrovati.
Il giudizio abbreviato richiesto dai legali di Fontana è un procedimento speciale alternativo al giudizio ordinario. Di fatto, con questo rito l’imputato rinuncia alla fase del dibattimento, ed il processo viene definito in sede di udienza preliminare allo stato degli atti. In virtù di ciò è previsto per i delitti uno sconto di pena pari ad un terzo. La legge 33/2019 ha riformato i requisiti di ammissibilità di questo rito : dall’aprile 2019 il rito abbreviato non è più ammesso per i delitti puniti con l’ergastolo. Per l' omicidio, è previsto l’ergastolo quando ricorrano delle aggravanti e negli altri casi ex articolo 577 codice penale.
Verosimilmente, soltanto attraverso la dichiarazione dell’incapacità di intendere e di volere la difesa potrebbe riuscire nel tentativo di far escludere le aggravanti, mentre i legali dell’accusa certamente insisteranno proprio sulla premeditazione, le sevizie e la crudeltà.
Per le famiglie delle vittime, la richiesta dei riti premiali, la concessione degli sconti di pena, è comprensibilmente irrispettosa ed offensiva della memoria dei loro cari.
In tal senso ha manifestato tutto il suo sconforto e la sua rabbia la madre di un’altra giovane vittima uccisa barbaramente da suo marito. Giulia Galiotto è stata uccisa a Sassuolo nel 2009: l’uomo l’ha attirata nel garage dei genitori di lui e lì l’ha colpita alla testa, fracassandole il cranio con una pietra, per poi gettarla in un fiume, inscenarne il suicidio e crearsi un alibi con depistaggi e bugie. Bugie che tuttavia, sono durate molto poco, sino alla confessione e poi all’arresto.
All’assassino con sentenza emessa nel 2013 "non è stata riconosciuta la premeditazione” (aggravante ndr) ha raccontato Giovanna, la mamma di Giulia, intervistata da Fanpage nel 2019, “nonostante abbia compiuto una serie di azioni articolatissime subito dopo l'omicidio per inscenare il suicidio".
Condannato a 19 anni e 4 mesi confermati in Cassazione, ha ottenuto di scontare i suoi ultimi tre anni in regime di semilibertà: dopo neppure 13 anni di carcere (dal 2009), da febbraio di quest’anno si trova in prova ai servizi sociali. Per lui un nuovo lavoro ed una nuova vita. Quella che Giulia, come Carol, come tutte le altre vittime, non potranno più avere.
È di pochi minuti fa la notizia che l’uomo barricato in casa da ieri pomeriggio con il figlio di 4 anni ha permesso ai carabinieri di entrare nell’abitazione: il bambino sta bene. Notte di trattative quella appena trascorsa, tra i carabinieri e un padre separato che si è barricato in casa con il figlio di 4 anni a Roncadelle, comune del Bresciano.
Il bambino in sede di separazione era stato affidato dal Tribunale alla madre a causa di "comportamenti violenti del padre", con diritto per l’uomo di vederlo esclusivamente in incontri protetti. Il 35enne, di origine rumena, avrebbe precedenti di violenza domestica.
Ieri pomeriggio l’uomo, nel corso di uno di questi incontri protetti presso la casa della madre, avrebbe strappato il figlio dalle mani dell’assistente sociale, minacciandolo con una pistola, che a tuttora non si ha la certezza sia vera, per poi darsi alla fuga sino a raggiungere la propria abitazione.
I carabinieri, l’unità antiterrorismo e un negoziatore presenti sul posto sin da ieri pomeriggio, hanno accertato che le condizioni del bambino fossero buone. Dopo una lunga notte di trattative hanno potuto parlare con il piccolo solo questa mattina intorno alle 8.30.
Chiusa ogni possibile via di fuga per evitare che l’uomo potesse allontanarsi, le trattative si sono protratte per tutta la mattinata. È di poco fa la notizia che l’uomo ha permesso ai carabinieri di entrare in casa, aprendo loro la porta. I militari hanno trovato il bambino in buone condizioni di salute e l’hanno portato fuori, insieme al padre.
In casi di sequestro di ostaggi come questo, è fondamentale il ruolo estremamente delicato del negoziatore: di vitale importanza è stabilire una efficace comunicazione con il sequestratore. L’ ascolto empatico, che serve a comprendere la tipologia di persona che ci si trova di fronte e le sue motivazioni, è fondamentale tanto quanto la capacità persuasiva necessaria per mantenere sempre aperto il contatto.
Vasta esperienza e preparazione anche in ambito psicologico, flessibilità nell’accogliere le richieste, disponibilità all’ascolto, comunicazione con tono della voce calmo e pacato sono alcune delle caratteristiche imprenscindibili in queste figure professionali per concludere positivamente la contrattazione, come accaduto oggi, al fine di evitare l’intervento degli agenti con la forza.
(Credit foto: LocalTeam)
È di questi giorni la notizia dell’ordinanza con cui il gip di Milano ha respinto l'istanza dei difensori di Alessia Pifferi che chiedevano un accertamento neuro psichiatrico in carcere per la loro assistita.
Alessia Pifferi è accusata di omicidio volontario aggravato, per aver lasciato morire di stenti la sua piccola Diana di 16 mesi: l’ha abbandonata in casa da sola per 6 lunghi giorni per trascorrere del tempo in tranquillità con il suo compagno.
Secondo l’avvocato della donna, la 37enne non sarebbe ancora del tutto consapevole di quello che ha fatto: per questo la difesa ha avanzato, per la seconda volta, la richiesta di perizia in carcere, per valutare il grado di intenzionalità con cui la Pifferi ha agito.
La richiesta è stata tuttavia respinta dal gip, per la seconda volta, in quanto, scrive nella motivazione "si è sempre dimostrata consapevole, orientata e adeguata, nonché in grado di iniziare un percorso, nei colloqui psicologici periodici di monitoraggio, di narrazione ed elaborazione del proprio vissuto affettivo ed emotivo, anche dopo l’ingresso in carcere, come attestano le relazioni del Servizio di psichiatria interna".
La consulenza richiesta, quindi, "non si aggancerebbe ad alcun elemento fattuale", anche perché Pifferi non ha alcuna "storia di disagio psichico" nel suo passato. Sono trascorsi 20 anni dal delitto di Cogne, e secondo gli ultimi dati forniti dall’Eures - Ricerche economiche e sociali, dal 2010 a oggi in Italia sono stati commessi 268 figlicidi. Le madri risultano le autrici prevalenti del reato contro i figli di età compresa tra gli 0-5 anni, mentre dopo i 5 anni nella maggior parte dei casi l'autore dei figlicidi è il padre.
Il professor Vincenzo Mastronardi, psichiatra e criminologo clinico che nel 2007 ha pubblicato un libro dal titolo "Madri che Uccidono", ha spiegato che, laddove non sia presente una pregressa grave patologia psichiatrica tale da annullare la capacità di intendere e di volere, tra le madri che agiscono razionalmente "il raptus vero e proprio non esiste, alla base ci sono sempre ragioni precise".
Tali ragioni affondano radici nel quotidiano e possono così riassumersi:
– life stressor event (eventi di grande perdita affettiva: lutti, abbandoni reali o amplificati, separazione);
– pietas (omicidio altruistico, nella convinzione di risparmiare al figlio sofferenze nella vita);
– immaturità della madre;
– perché il bambino è iperattivo (bambino maltrattato);
– perché figlio della colpa;
– per sindrome di Medea (per vendetta nei confronti del compagno viene ucciso il figlio);
– per disturbo (dipendente, narcisistico oppure istrionico) di personalità;
– perché figlio indesiderato;
– per depressione (non maggiore) in soggetto narcisista;
– per disturbi comportamentali dovuti all’assunzione di alcool e droga.
In tali casi il figlicidio è un atto "razionale, lucido e consapevole" che nella maggior parte dei casi poteva essere evitato, spiega Mastronardi. Ecco perché in un’ottica preventiva la famiglia ha un ruolo importante nel fare attenzione a quei campanelli d’allarme che denunciano che la situazione di benessere della donna è gravemente compromessa.
Si sono concluse le indagini sull’omicidio del piccolo Alex, il bimbo di due anni ucciso dalla mamma con sette coltellate: secondo la ricostruzione della Procura di Perugia la donna lo avrebbe colpito "in rapida sequenza sette volte al collo, al torace e all'addome con un coltello”.
Alla donna è stata altresì contestata l’aggravante della premeditazione, dedotta sia dalle minacce che la stessa aveva fatto nel tempo, di uccidere il figlio, sia dal depistaggio messo in atto subito dopo l’omicidio. Per il collegio dei periti nominati dal Gip la donna avrebbe avuto la consapevolezza della grave azione posta in essere.
Il terribile delitto avvenne un anno e quattro giorni fa. La donna, in evidente stato confusionale, il primo ottobre 2021 entrava nel negozio Lidl di una frazione di Città della Pieve, e, dopo aver vagato tra le corsie in stato confusionale chiedendo aiuto, aveva adagiato sul nastro trasportatore della cassa il corpicino di un bambino, già morto, raccontando di averlo trovato all’esterno del supermercato.
I sanitari del 118, immediatamente allertati, giunti sul posto hanno constatato la morte del piccolo. Numerose le ferite al collo e all’addome procurate dai fendenti di un coltello, successivamente ritrovato nella borsa della stessa donna, dichiaratasi solo in un momento successivo madre del piccolo. Si trattava della 43enne ungherese Katalina Erzsebet Bradacs.
Sin da subito gli indizi a carico della 43enne erano gravi precisi e concordanti: la donna ha messo in atto depistaggi e raccontato bugie facilmente riconoscibili per gli inquirenti: dal possesso del coltello in borsa, giustificato per "difendersi dagli immigrati, che violentano le donne e uccidono i bambini" all’accusa di un fantomatico “uomo nero” che avrebbe aggredito ed ucciso il piccolo fuori dal supermercato, di cui neppure le telecamere di sorveglianza hanno rilevato la presenza.
Ben presto è emerso che il bimbo di due anni viveva in Ungheria con i genitori. Dopo una lunga battaglia legale tra i coniugi in fase di separazione, era stato affidato dal Tribunale al papà; l’uomo, solo qualche giorno prima del terribile delitto, aveva denunciato l'ex moglie in Ungheria per essersi allontanata con il loro figlio: "Lo ha rapito".
Il movente plausibilmente va rintracciato nelle poche parole che la donna aveva inviato ad un amico, insieme alla foto del corpicino del bimbo insanguinato, poche ore pima di entrare nel supermercato: “Non apparterrà a nessuno di noi ora”.
La preside di un liceo classico di Ancona ha raccontato ancora scioccata l’episodio accadutole nel pomeriggio di lunedì, in piazza Roma, nella città dorica, mentre si apprestava ad uscire da una banca dove aveva fatto alcune commissioni: un nutrito gruppo di adolescenti l'avrebbe riconosciuta; al grido “quella è la preside del classico”. La dirigente scolastica avrebbe, quindi, rimproverato una ragazzina del gruppo per il contegno poco educato.
La reazione dei bulli è stata immediata: volgarità, provocazioni, urla di sfida, minacce alla malcapitata che non ha potuto fare altro se non rientrare nella banca da cui era uscita per proteggersi, mentre chiedeva l’intervento del 112.
Ancona, come molte altre città di tutta Italia, non è nuova a questi episodi. "C’è bisogno di una educazione emotiva, fatta di molto cervello e anche di cuore" scriveva solo pochi giorni fa sulla propria pagina Facebook "ACBS – Associazione Vittime Contro il Bullismo scolastico", associazione no profit sorta con l’intento di prevenire e contrastare la diffusione del bullismo, attraverso l’ascolto delle vittime e la sensibilizzazione a livello nazionale su questi temi, anche con l’organizzazione di eventi di divulgazione e formazione.
Quando parliamo di bullismo pensiamo alle prepotenze messe in atto da un ragazzino, “il bullo” o un gruppo di bulli nei confronti di un suo coetaneo, che causano alla vittima indicibile sofferenza e gravi danni psicofisici. L’episodio verificatosi lunedì riguarda un'ulteriore ed altrettanto grave forma di bullismo, consistente in minacce ed aggressioni proprio nei confronti dei docenti.
È inquietante vedere in costante aumento il numero di video in cui giovanissimi aggrediscono verbalmente, quando non anche fisicamente, i docenti, o i casi in cui pesanti insulti vengono rivolti agli insegnanti nelle chat di gruppo su Whatsapp. Non solo insegnanti: spesso anche le forze dell’ordine, gli autisti dell’autobus, i controllori del treno sono oggetto di tali gravi atteggiamenti.
Il problema secondo gli esperti è sociale: è venuto a mancare il concetto di rispetto, nei confronti di persone e ruoli. E allora quella “educazione emotiva fatta di molto cervello e anche di cuore” citata in apertura, potrebbe concretizzarsi su due fronti: da un lato insegnando al giovane le conseguenze a cui andrà certamente incontro, in primis giuridiche.
Dall’altro lato insegnando in famiglia, con l’esempio, il concetto di "rispetto", verso se stessi e verso gli altri, che dovrebbe essere valore fondante di ogni educazione ed elemento imprescindibile di ogni relazione sana. La prevenzione della violenza in ogni sua forma comincia ed è efficace quando, sin da piccoli, i bambini imparano a conoscere e obbedire alle regole e a riconoscere empaticamente l’altro ed il suo valore.
"Mamma e papà non mi hanno mai creduto" ha raccontato agli agenti una giovanissima di Ancona, quando 3 anni fa, appena divenuta maggiorenne, ha deciso di denunciare il fratello, andando a raccontare la sua storia in Questura. La ragazza ha dichiarato di essere stata vittima di abusi sessuali da parte del suo fratello maggiore per anni.
La scelta di denunciare sarebbe giunta anche per l'ansia di proteggere la sua sorellina minore che aveva da poco compiuto 8 anni. Perchè proprio ad 8 anni il fratello maggiore avrebbe iniziato ad abusare di lei.
Questa vicenda, sulla quale è stata avviata un'indagine, è purtroppo una delle troppe vicende che vedono i minori vittime di abusi sessuali intrafamiliari. Gli studi svolti sull argomento sono concordi nel ritenere che gli abusi sessuali sui minori avvengono nel 70% dei casi proprio all'interno della famiglia e tra le persone conosciute e di cui il minore si fida.
Per un bambino raccontare un abuso è un evento altamente stressante che richiede del tempo. Spesso il racconto non viene affrontato direttamente poichè il minore teme l’abusante, o viene da lui minacciato, o ha paura di non essere creduto. Normalmente la confessione viene fatta alla madre, ad un insegnante o al migliore amico di scuola.
Quando la vittima riesce a “liberarsi” dell’accaduto raccontandolo all’adulto protettivo, solitamente la madre, dovrebbe trovarsi di fronte alla più importante figura di riferimento: quella in grado di confrontarsi con il trauma e con le sue conseguenze, dotata della la capacità di provvedere immediatamente alla tutela del minore.
Si è constatato invece che la tendenza sistematica è quella di negare comportamenti abusanti da parte di un membro della famiglia: si “preferisce” attribuire il racconto a fantasie di un' adolescente, o a supposti "fraintendimenti", tentando di minimizzare l’accaduto.
Spesso vengono trascurati quegli indicatori di abuso sessuale, comportamenti e segnali immediati di sofferenza che il bambino manda, e la reazione di incredulità prevale. I racconti di abuso di un minore dovrebbero essere sempre indagati e approfonditi da parte delle figure di riferimento che ne vengono a conoscenza, con l'aiuto di operatori con una adeguata formazione e competenza tecnica.
Anche laddove emerga che l’abuso sessuale non c’è realmente stato (tuttavia gli esperti sottolineano che solitamente quando un bambino confida un abuso, non mente) la narrazione esplicita di eventi sessuali subiti è comunque indice di un malessere del minore che deve essere analizzato insieme a professionisti del settore.
Un percorso diagnostico in campo psicologico, o pediatrico o ginecologico che possono confermare la diagnosi di abuso sessuale, devono essere attivati dalla preoccupazione dell’adulto più vicino al minore; preoccupazione che è anche un obbligo di intervento e di protezione gravante sul genitore che, in quanto tale, assume una posizione di garanzia in ordine alla tutela dell’integrità psicofisica del figlio.
L’immagine del territorio marchigiano non viene immediatamente associata alla presenza stabile di consorterie mafiose. Eppure, nella regione, si è evidenziata "la presenza e talvolta l’operatività di affiliati alla criminalità organizzata calabrese, pugliese e della camorra". A rilevarlo è lo studio della Relazione semestrale 2021 della Dia (Direzione Investigativa Antimafia).
Il riscontro si è avuto all’esito di operazioni investigative condotte nel territorio: in particolare "a San Benedetto del Tronto sarebbero stati individuati soggetti riconducibili alla ‘ndrangheta del catanzarese; in provincia di Macerata e a Fermo sarebbero emerse proiezioni riferibili alle cosche del crotonese".
"Nel territorio", si legge ancora nel rapporto della Dia, "si sarebbero registrate anche presenze collegate a sodalizi pugliesi impegnati in un 'pendolarismo criminale' finalizzato alla commissione di reati predatori, nonché a compagini camorristiche. Non solo organizzazioni nazionali" si legge nella relazione Dia.
Viene, inoltre, segnalato come "nella Regione Marche proseguono nella loro attività delinquenziale gruppi criminali di matrice etnica che occupano stabilmente settori legati al traffico di stupefacenti, a reati contro il patrimonio, allo sfruttamento della prostituzione". Tra le matrici più operative, soprattutto nel settore degli stupefacenti, si segnalano la criminalità albanese, quella nigeriana, la pakistana e l’afghana.
Tema caldo per le Marche, è la ricostruzione post-sisma attenzionata poichè a rischio di infiltrazioni malavitose nell’aggiudicazione dei relativi appalti e subappalti sia pubblici che privati. Per contrastare il fenomeno è stato siglato ad Ancona il "Protocollo in materia di criminalità organizzata e terrorismo" tra la Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e gli Uffici Giudiziari del Distretto delle Marche, finalizzato ad agevolare lo scambio di informazioni tra gli organi inquirenti per poter intervenire tempestivamente in sede di indagine con l’aggressione di capitali di provenienza mafiosa, "innalzando il livello di prevenzione e soprattutto di repressione".
Il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo di allora in occasione della sottoscrizione dell’ Accordo ebbe a dichiarare che la criminalità mafiosa si muove attraverso numerose figure insospettabili: "Si tratta di mediatori, facce pulite, come professionisti, commercianti, avvocati, che trattano e acquistano per conto della mafia. Il loro prestanome è in genere una persona che non ha precedenti, che non è conosciuta e a volte ha anche un passato economico-finanziario, un soggetto che ha già operato nel tessuto sociale ed economico e che quindi non è sospetto, ma alle spalle ha un’organizzazione mafiosa che lo sostiene".
E ancora: "La mimetizzazione è il meccanismo attraverso il quale opera la mafia nelle Marche. Anche grazie alle connivenze, a quella che chiamiamo la borghesia mafiosa, quella parte della società che appare pulita, mentre in realtà è contigua e collusa, se non addirittura intranea alle mafie. Grazie a un gioco di corrispettivi, il ricavo finisce per essere il collante che lega la borghesia alle mafie".
In chiusura, le parole del dottor Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro che, giunto all’Università Politecnica delle Marche di Ancona nel maggio scorso per la cerimonia di conferimento del dottorato di ricerca honoris causa in Management and law, alla domanda "come prevenire il rischio di infiltrazioni criminali in una regione, come le Marche, dove la ricostruzione post-sisma è appetibile alla criminalità" ha risposto: "Spiegando bene alla gente che in economia non ci sono scorciatoie, che quando ad un imprenditore marchigiano vengono offerti smaltimento dei rifiuti con il ribasso del 40%, manodopera basso costo e sottopagata, con ribassi del 30-40%, vince la mafia: nel breve periodo può sembrare un guadagno, poi nel medio lungo periodo vuol dire drogare l’economia, togliere libertà e quindi anche il sorriso alla gente".
Torna l'appuntamento con la rubrica "La Strada delle Vittime", nella quale si affronta l'analisi della casistica criminale con approccio vittimologico. Di seguito proponiamo il caso di questa puntata.
Benno è il 32enne reo confesso di aver ucciso i suoi genitori Laura Perselli e Peter Neumair nella loro casa di Bolzano, disfandosi dei loro cadaveri e gettandoli nel fiume Adige, nel gennaio del 2021. Abbiamo seguito la storia della famglia sin da quando ancora si cercavano i coniugi scomparsi, poiché in un primo momento era stato proprio il figlio a denunciarne la scomparsa. Abbiamo già conosciuto, attraverso le interviste, la lucida razionalità di Benno, abile a deviare gli inquirenti con una controllata freddezza, che però viste le circostanze, è stata il primo di una serie di indizi investigativi a carico del giovane, a far sospettare di lui. Martedì, in aula nel Tribunale di Trento dove si sta celebrando il processo che lo vede imputato per il duplice omicidio, Benno è però parso diverso dalle prime volte in cui compariva in udienza con un atteggiamento remissivo, a spalle basse: ieri molto aggressivo, ha alzato più volte la voce tanto da essere ripreso dal giudice.
Un aspetto della sua personalità che, come dichiarato dalla sorella Madè in un'intervista al Corriere del Veneto, in famiglia conoscevano purtroppo molto bene. Il profilo di Benno è stato indicato come quello di un ragazzo con tratti narcisistici di personalità, borderline; ciò non significa che la sua capacità di intendere e di volere al momento della commissione del reato fosse necessariamente compromessa. Questo è un equivoco in cui spesso si cade: i disturbi della personalità non coincidono automaticamente con l’incapacità di intendere e di volere, e quindi con la non imputabilità. Nel caso concreto, gli psichiatri consulenti della difesa sostengono la totale incapacità di Benno.
Il consulente di parte civile lo ha considerato al contrario pienamente capace di intendere e di volere nonostante un disturbo narcisistico di personalità; mentre per i periti nominati dal gip in incidente probatorio, Benno era seminfermo mentre uccideva il padre, per poi divenire perfettamente lucido durante l'uccisione della madre. Difficile pensare ad una "sanita' mentale" intermittente che va e viene in un arco di tempo così ristretto. A tal proposito, in un processo che si giocherà tutto sul campo delle perizie, anche lo psichiatra Crepet nutre dei dubbi su questo "meccanismo psicologico che io non conosco e che temo non esista". In un' intervista rilasciata quest'estate al Corriere del Veneto rifletteva sul fatto che la patologia mentale "non è un fiume carsico, che appare e scompare".
Secondo il professore: "Questo ragazzo ha ucciso i genitori, a mio avviso in maniera premeditata, ed è quindi un assassino che di conseguenza verrà condannato. Mi sembra che ci siano poi molte valutazioni psico-criminologiche di scarso rilievo".
Pamela non ha potuto festeggiare il suo 23esimo compleanno. Era la mattina del 30 gennaio 2018 quando i suoi resti furono ritrovati in due trolley a Pollenza. Pamela è stata uccisa a coltellate, il suo corpo smembrato, i suoi organi asportati, lavata con la candeggina messa in due trolley lasciati sul ciglio della strada.
La Cassazione ha condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio e lo scempio crudele e terrificante del corpo della giovane, Innocent Oseghale, killer che, secondo le motivazioni depositate dalla Cassazione a giugno, ha agito con “freddezza e con capacità di previsione". La Suprema Corte ha d’altro canto annullato con rinvio l’aggravante per violenza sessuale, sostenuta invece dall’accusa, impostazione che era stata accolta dai giudici di primo e di secondo grado che lo avevano condannato all'ergastolo. La pena effettiva che dovrà scontare Oseghale dipenderà quindi di fatto, da quanto si stabilirà nel giudizio di rinvio in Appello relativamente a questo capo d’imputazione.
Lo strazio per la mamma di Pamela, Alessandra Verni, prosegue, laddove la giustizia non è ancora giunta a mettere un punto su un processo che rinnova la lacerazione di una ferita insanabile. Accanto a lei, l’Avvocato Marco Valerio Verni, legale della famiglia di Pamela, zio di Pamela, che da sempre combatte al suo fianco per ottenere quella piena giustizia cui ogni vittima dovrebbe avere diritto.
E’ stato proprio l’avvocato Verni che , nello stesso giorno del compleanno di Pamela, il 23 agosto 2022, ha annunciato la nascita del “Comitato nazionale sulla criminalità etnica in Italia”. Il Comitato “si occuperà di raccogliere e analizzare i dati, le cause, le conseguenze e tutto ciò che possa riguardare tale fenomeno nel nostro Paese, collegato, naturalmente, a quello delle organizzazioni criminali autoctone e transnazionali. Nelle prossime settimane, il comitato si trasformerà in un osservatorio o in un centro studi dedicato a Pamela, la giovane studentessa romana trucidata per mano di un nigeriano condannato, per questo, in via definitiva. Questo lavoro sarà in ricordo di tutte le vittime di tale criminalità e dei loro familiari. Troppe volte abbiamo assistito a fatti di cronaca sottaciuti o non trattati nel giusto modo, salvo poi subire, inermi, la strumentalizzazione di altri che, certamente gravi, non possono però assurgere a criterio unico per etichettare una comunità o un Popolo intero come razzista o altro".
L’Avvocato, portavoce del Comitato, nell’occasione è tornato a richiedere l’attenzione sul fenomeno della mafia nigeriana, da tempo per lui oggetto di studio, “per molto tempo negata, nel nostro Paese, o non riconosciuta, o, ancora, sottaciuta, essa e' un grave fenomeno le cui prime vittime sono le nigeriane stesse”. Eppure, già in un rapporto della DIA del 2016, la criminalità organizzata nigeriana viene descritta come “la più pervasiva, formata da diverse cellule criminali indipendenti e con strutture operative differenziate ma interconnesse, dislocate in Italia e in altri Paesi europei ed extraeuropei”.
Ed ancora, nella realazione semestrale del 2021 della DIA si legge (pag.325) : “I sodalizi nigeriani risulterebbero in ogni caso inseriti a pieno titolo nel narcotraffico, utilizzando una complessa rete di corrieri “ovulatori” che introducono nel territorio nazionale eroina e cocaina avvalendosi dei normali vettori aerei e terrestri oppure sfruttando le rotte dei flussi migratori irregolari.” (..) La criminalità nigeriana sarebbe dedita anche alla tratta di esseri umani connessa con lo sfruttamento della prostituzione e all’accattonaggio forzoso. I sodalizi risultano inoltre attivi nelle estorsioni in danno di cittadini africani, nella falsificazione di documenti, nella contraffazione monetaria, nelle truffe e frodi informatiche, nonché nei reati contro la persona e il patrimonio. (..) Ad assumere particolare rilievo sono i c.d. secret cults le cui caratteristiche essenziali sono l’organizzazione gerarchica, la struttura paramilitare, i riti di affiliazione, i codici di comportamento e in generale un modus agendi al quale la Corte di Cassazione ha più volte riconosciuto la tipica connotazione di “mafiosità”.
Un’iniziativa quella del Comitato che , come si legge in un post su facebook nella pagina “La voce di Pamela Mastropietro” “Non basterà, nè per riportarti in vita, nè per cambiare le cose. Ma servirà, quantomeno, a far sì che, anche per noi che stiamo qui, il 30 gennaio 2018, possa considerarsi davvero la Tua nascita a nuova vita".
Un altro nome, Alessandra Matteuzzi, un'altra donna uccisa dall'ex compagno. La storia era finita ma lui non si era rassegnato. Minacce, pedinamenti, agguati. Lei comincia ad avere paura, teme per la sua incolumità. Trova il coraggio di denunciarlo per stalking. Ma ciò non è stato abbastanza. Perché? Perché l'uomo cui era stato imposto il divieto di avvicinamento, di fatto ha continuato a mettere in atto comportamenti persecutori nei confronti della donna. E quella misura cautelare per lui era tale e quale non fosse stata ordinata.
Alessandra nel tentativo di proteggersi è ricorsa persino al sostegno delle vicine di casa, raccomandando loro di non aprire mai il portone qualora lui avesse suonato per cercare di entrare. C'è chi parla di mala giustizia. Il ministro Cartabia ha chiesto agli uffici dell'ispettorato di "svolgere con urgenza i necessari accertamenti preliminari, formulando all'esito valutazioni e proposte". C'è chi parla di vuoti normativi, perché dopo aver denunciato, alla vittima non é assicurata un'efficace tutela.
Il procuratore di Bologna ha sollevato a questo proposito il problema sull'utilizzabilità del braccialetto elettronico, dichiarando: "Il problema è quello dei costi. Già oggi potremmo utilizzarli per alcuni reati, ma quando li vai a richiedere non si trovano. Quindi ci vuole la norma, ma poi anche la forza di poter creare dal punto di vista economico gli strumenti che quella norma la fanno funzionare".Il tema non è tanto trovare la falla del sistema, dopo che le aggressioni sono avvenute, dopo che lo stalker è divenuto tale, dopo che si è consumato l'omicidio. L'argomento dovrebbe essere affrontato in via preventiva: interventi sociali educativi e formativi ma anche e soprattutto certezza della pena.Sul primo versante si è già autorevolmente espressa anche la Convenzione di Istanbul, uno dei trattati più incisivi a livello mondiale per il rispetto dei diritti umani, dal punto di vista giuridico, culturale e politico. Oltre a condannare ogni violenza sulle donne, riconosce "la natura strutturale della violenza contro le donne in quanto basata sul genere" chiarendo l'essenzialità dell'elemento culturale da porre alla base dei piani di intervento.Quanto alla certezza della pena, La risposta dello Stato al crimine dovrebbe essere immediata. Già Cesare Beccaria, giurista, filosofo, economista dell'Illuminismo italiano, la cui opera principale è il trattato "Dei delitti e delle pene" (1764), aveva espresso questo concetto “il primo fattore di deterrenza è la certezza della punizione; esiti disastrosi si devono attendere da un sistema che, all’opposto, produce nei destinatari una convinzione prossima alla certezza che le pene minacciate non saranno eseguite”.Il codice rosso, in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, con i suoi 21 articoli e successive modificazioni ha l'indubbio merito di: aver inasprito le pene per alcuni reati, aver introdotto nuovi delitti, aver introdotto nuove aggravanti su misura delle vittime; aver previsto la fondamentale obbligatorietà dell’arresto in flagranza per chi violi le misure cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento alla persona offesa.Tuttavia nella sostanziale attuazione molti sono i punti critici su cui dovrebbe aprirsi il dibattito politico, tra questi: una stretta sulla concessione delle misure alternative alla detenzione, il miglioramento applicativo dell'uso del braccialetto elettronico, la tutela e la protezione, fisica e psicologica, delle donne nel momento immediatamente successivo alla denuncia e per tutto l'iter giudiziario che le attende.
«Sono disperata, mi hanno riconosciuta da quel video». Sono le parole della 55enne ucraina che ha subito una violenza sessuale in centro a Piacenza la mattina del 21 agosto. Parole che sono state riferite agli inquirenti nell’ambito dell’indagine sulla violenza.
L’aggressore è un ventisettenne della Guinea richiedente asilo, (che peraltro gli era stato rifiutato) e, da quanto emerso, dopo aver avvicinato la donna, l’avrebbe gettata a terra e avrebbe cominciato a spogliarla per abusare di lei, mentre la vittima tentava di difendersi con tutte le sue forze.
L’uomo è stato subito arrestato grazie ad un vicino di casa che ha allertato la Polizia, giunta prontamente sul posto. Lo stesso vicino avrebbe filmato la scena con il suo cellulare ed avrebbe consegnato il video alle forze dell’ordine. Poi lo stesso video è stato diffuso in rete, ma prima di finire sui social avrebbe girato sui telefoni di diverse persone senza alcuna precauzione.
Il Gip del Tribunale di Piacenza ha convalidato l'arresto per Sekou Souware il 27enne originario della Guinea, accusato di aver violentato la donna. Al termine dell'udienza preliminare, il gip ha riconosciuto un quadro indiziario particolarmente grave, desunto dal video e dalle dichiarazioni di chi ha ripreso la violenza, ed ha ravvisato esigenze cautelari per rischio di inquinamento probatorio, reiterazione e pericolo di fuga che hanno portato all’ordinanza di convalida.
La Procura ha aperto un fascicolo a carico di ignoti per diffusione illecita senza consenso del video, in violazione dell’art. 734 bis codice penale “Divulgazione delle generalità o dell’immagine di persona offesa da atti di violenza sessuale”. Facebook, Twitter ed Instagram hanno rimosso il video dello stupro perchè viola le loro regole.
Si è acceso un intenso dibattito politico dopo che la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha condiviso il video sui social. All’iniziale attacco di Enrico Letta «Il video postato da Giorgia Meloni su uno stupro è un video indecente e indecoroso», Meloni aveva replicato che la sua era stata un’espressione di solidarietà alla vittima, strumentalizzata per fare della “bieca propaganda” .
Concetto che ha ribadito martedì ad Ancona, dove ha aperto la campagna elettorale, dichiarando “Io ho preso un video pubblicato da un quotidiano, completamente oscurato, mi fido della stampa italiana.
Non ho parlato con questa persona, ma siccome sono molto sensibile a queste materie, non avrei mai pubblicato un video che potesse far riconoscere la vittima". Ed ancora “Quando il Pd ha pubblicato senza oscurarle le immagini di un omicidio, cioè dell'assassinio di Alika a Civitanova Marche, perché al tempo questa questione non ve la siete posta? (...) Le immagini della morte di quell'uomo sono state ampiamente pubblicate senza alcuna forma di oscuramento, tant'è che la famiglia disse che per loro rivedere quelle immagini è stato drammatico".
La questione focale è questa: una donna che ha subito una violenza, attraverso la diffusione del video ne sta subendo un’altra. Il suo consenso è stato violato nell’imposizione di un atto sessuale così come nella diffusione del video.
Vittima due volte anche per una propaganda elettorale che utilizza strumenti che non dovrebbero esserle propri. Si è perso di vista il reato che si è consumato nel pieno centro di una città. Si è persa di vista anche l’opportunità di fare eventuali riflessioni sulla circolazione di quel video.
Era necessaria la divulgazione di quel video per condannare la violenza sulle donne e per manifestare loro solidarietà? Quante violenze vengono perpetrate silenziosamente tra le pareti domestiche o nei luoghi di lavoro, riempiendo i fascicoli delle procure italiane, senza sollevare quotidianamente una “eco politica” così agguerrita? Una campagna elettorale non dovrebbe avere come unico fine quello di mostrare agli italiani i progetti per il futuro della loro Nazione?
L'indifferenza per quanto accaduto ieri pomeriggio nel centro di Civitanova, quando un uomo è stato aggredito ed ucciso di fronte agli occhi di tanti testimoni, continua. Continua e chiede di essere raccontata e documentata. Perché il dovere di cronaca dovrebbe avere anche la finalità, in casi gravi come quello accaduto, di scuotere le coscienze.
Per questo parliamo anche oggi di indifferenza. Parliamo di quell'indifferenza "urlata" dal luogo in cui si è verificato l'omicidio. Un luogo privo di una qualsiasi espressione di cordoglio alla famiglia della vittima, a sua moglie che ieri con le sue urla di dolore si è precipitata da San Severino, dove viveva con il figlio e il marito, in Corso Umberto, dove lo ha trovato a terra privo di vita.
Non un fiore, non una candela: chissà, sarebbero stati deposti se quell'uomo avesse fatto parte della comunità cittadina? Invece nulla per Alika Ogorchukwu, nigeriano di 39 anni, che si trovava a Civitanova per lavorare come ambulante.
Ieri sera l'unica traccia della tragedia che si era consumata intorno alle 14, era un sacchettino bianco rimasto a terra, che conteneva una birra Heineken intera. Quel sacchettino che la vittima dell'aggressione, come appare in un video che la nostra redazione sceglie di non mostrare, aveva lanciato a meno di un metro da lui, verosimilmente nel tentativo di liberarsi le mani per provare a difendersi.
Questa mattina un amico della redazione che ieri ha preso visione insieme a noi di quella triste scena, ha sentito il desiderio di provvedere per non lasciare così squallidamente vuoto quel marciapiede (come visibile in foto, ndr).
Le pagine dei giornali sono affollate di notizie che parlano di inaudita violenza esercitata contro i soggetti più deboli. Riteniamo doveroso far riflettere sul fatto che l'intervento di più persone unite a bloccare e ad allontanare l'aggressore dalla propria vittima, avrebbe forse condotto ad un finale diverso.
Riflessioni di un uomo di legge sulla cruda attualità dell’ultima settimana
Articolo scritto da Gt001
La scorsa settimana la nostra regione è stata funestata dalla morte di quattro uomini in divisa. Sono morti perché hanno scelto di morire: tutti si sono tolti la vita con l’arma di ordinanza. E’ un mondo che conosco bene e questi episodi inevitabilmente mi hanno indotto ad alcune riflessioni.
Ci sono molti modi di servire la Comunità a cui si appartiene: uno di questi è farlo cercando di dare il proprio contributo affinchè quelle norme di buon senso che tengono insieme una società vengano rispettate. Per molti, soprattutto quando si è giovani, è un concetto molto allettante, insieme all’idea di fare la differenza in positivo attraverso il proprio lavoro. Per queste ragioni si decide di vestire una divisa. Il problema sta nel fatto che è una semplice divisa e non un’armatura.
E’ difficile che nella vita lavorativa di un tutore dell’ordine, anche nelle carriere più longeve, ci siano molti episodi edificanti, mentre è certo il carico di disagio, dolore e disperazione con cui molto più spesso sarà inevitabile il confronto.
E’ un’utopia pensare che lo sguardo di un bambino abusato, gli occhi di una madre che sta perdendo un figlio inghiottito dalla droga, il fato malevolo che toglie un padre di famiglia all’amore dei sui cari magari in un tragico incidente di lavoro, non lascino solchi nell’animo di un uomo in divisa con il passare del tempo.
Ciò che spinge in avanti chi veste una divisa, è l’idea che comunque al male è necessario porre un argine. A volte le anime più sensibili, che non possono essere certo al sicuro dietro una divisa, giungono inevitabilmente alla conclusione che per quanto impegno, costanza e dedizione si metta, il male non può essere sconfitto in forma definitiva.
Forse è lì che qualcosa fa "crack"; ed in quel preciso istante i fantasmi di quel bambino, di quella madre o di quel padre morto, tenuti a debita distanza nella quotidianità del lavoro, vengono a bussare alla porta e finiscono per invadere quegli spazi sicuri che sono la famiglia e le relazioni sociali.
Un altro elemento peggiora le cose: chi per mestiere ha scelto di aiutare gli altri, difficilmente sarà capace di chiedere aiuto; è qualcosa che viene percepito come innaturale, quasi come spogliarsi nudi davanti alla folla. Per questo continuerà a fissare l’abisso, la maggior parte delle volte venendone inghiottito.
Mi piacerebbe pensare che la prossima volta che una paletta si presenterà davanti al nostro parabrezza, insieme al solito comprensibile “Uffa!” , aggiungeremo una piccola riflessione su quanto peso ci sia dietro a quel “ Buongiorno, mi dà i suoi documenti per favore?”
Le conversazioni con un caro amico, uomo di legge che affronta i temi più dibattuti della nostra attualità con grande equilibrio intellettuale, sono diventate per me occasione di arricchimento umano e professionale. “Perchè”, mi sono chiesta, “non condividere questa esperienza con altri?” Da qui l’idea, in accordo con il direttore, di chiedergli di partecipare con qualche intervento alle nostre pagine di Picchionews.
Articolo di Gt001
“Sì, ho paura di morire, ma cerco di addomesticarla...la morte cerco di razionalizzarla e di andare avanti, perché se mi fermo mi sento un vigliacco e per me non ha senso vivere da vigliacco”.
Le parole sono di Nicola Gratteri in una recente intervista: un magistrato in trincea contro la criminalità organizzata, a cui di recente è stata rinforzata la scorta per l’attualità e la concretezza delle minacce ricevute; circostanza per la quale, in questo momento storico, sarebbe più appropriato definirlo “il magistrato”, sostituendo l’articolo indeterminativo “un” con un più qualificativo “il” che racchiude il senso di un incarico pubblico un po’ “appannato” da una crisi che serpeggia nella magistratura da tempo.
Gratteri, spesso critico con gli organismi che influiscono sull’ autogoverno della magistratura, ha sempre testimoniato la sua distanza da tali logiche. Ha scelto di non essere iscritto a nessuna delle correnti politiche a cui la quasi totalità dei suoi colleghi ha aderito, spesso con una militanza ostentata con scarsa sobrietà, che è una delle cause principali dell’erosione della credibilità della stessa magistratura.
Mi sono soffermato su questi aspetti in relazione all’approssimarci al voto referendario che riguarda anche una serie di quesiti fortemente impattanti sulla magistratura. La magistratura è uno dei poteri dello Stato la cui azione riformatrice non sta nascendo in seno alla stessa istituzione (come sarebbe logico riguardo alla sua necessaria autonomia) ma trae origine, in maniera tanto legittima quanto inopportuna, da un mondo politico che, dopo la stagione di mani pulite, è sempre più parso come suo antagonista più che cooprotagonista nello svolgimento della vita democratica del nostro Paese.
Una sensazione traspare e non poco dalla stesura degli stessi quesiti referendari: l’arroccarsi della magistratura sull’ idea di “nessun cambiamento” sembra il naturale contrappeso ad un mal celato desiderio vendicativo da parte di un certo mondo politico, che strizza l’occhio sulla possibilità di avere “maggiormente gestiti dall’esecutivo” quella parte di magistrati che si occupano delle indagini (i Pubblici Ministeri).
In questo contesto, ho trovato gli appunti fatti da Gratteri come quelli più atti a rilevare la debolezza di questa azione riformatrice che dovrebbe avvenire sia attraverso il referendum, che attraverso la proposta di riforma dell’attuale Ministro della Giustizia D.ssa Cartabia; quanto meno perché vengono da qualcuno che sembra non aver vicinanza con nessuno dei due mondi in lotta e che ha dimostrato con i fatti di aver utilizzato lo strumento giuridico indirizzandolo contro il malaffare e la criminalità organizzata.
Secondo gli ultimi dati della XXVI Relazione semestrale curata dall'Ufficio del Commissario Straordinario del Governo per le persone scomparse, in Italia, dal primo gennaio 1974 al 30 novembre 2021, risultano da rintracciare: 68.027 persone.
Nel corso del 2021 (dal primo gennaio al 30 novembre 2021), le denunce di scomparsa sono state 17.650 di cui ben 11.023 quelle relative a minori: relativamente a queste, 4.491 minori sono stati ritrovati, mentre 6.532 sono quelli ancora da rintracciare.
Nelle Marche, dal 1974 al 2021, mancano all'appello oltre 700 persone. L’anno scorso (al 30 novembre 2021) sono pervenute alle forze dell'ordine 137 denunce di minori scomparsi in regione: 82 sono stati rintracciati, mentre 55 risultano da rintracciare.
L ’affiancamento alle famiglie che subiscono questo dramma, senza mai perdere la speranza di riabbracciare i loro cari, è di fondamentale importanza. E proprio questa è la missione dell'associazione Penelope Marche ODV, nata sulla scia del dramma della Famiglia Isidori: il piccolo Sergio Isidori scomparve misteriosamente nel 1979 da Villa Potenza a soli 5 anni e mezzo.
Moltissime le piste battute negli anni dagli inquirenti che però non hanno portato risultati concreti. La sorella, Giorgia Isidori, insieme alla sua famiglia non si è mai arresa, così ha fondato la rete territoriale di “Penelope Marche“ di cui è presidente.
In occasione della Giornata Internazionale dedicata ai bambini scomparsi di domani 25 maggio, l'Associazione ha organizzato, proprio in questa data, un convegno a Piobbico "Il dramma della scomparsa" su questo delicato e complesso tema, i cui lavori saranno coordinati proprio dalla presidente Isidori.
L’incontro, che si terrà dalle ore 15 al Castello Brancaleoni di Piobbico, con il patrocinio del Comune, è rivolto alle autorità istituzionali e politiche, ad esponenti della società civile, a legali, psicologi, assistenti sociali, alle famiglie.
Dopo i saluti di apertura, da parte di esponenti di autorità locali e regionali, il convegno entrerà nel vivo con una serie di autorevoli interventi: Andrea Grassi, Dirigente Superiore della Polizia di Stato, nello Staff dell'Ufficio del Commissario Straordinario del Governo per le persone scomparse, approfondirà “Il ruolo delle istituzioni nella scomparsa dei minori”; Elisa Pozza Tasca, portavoce nazionale Penelope (s)comparsi uniti presenterà una “Analisi del fenomeno delle persone scomparse”; Alessandro Mauceri, chairman Kiwanis Distretto Italia - San Marino, focalizzerà l’attenzione sul fenomeno dei minori scomparsi, con particolare riferimento ai minori stranieri non accompagnati; con l’avv. Irene Margherita Gonnelli, esperta in diritto internazionale della famiglia, si parlerà del fenomeno delle sottrazioni internazionali di minori; il dott. Fabio Nestola, direttore Csa di Roma (Centro studi applicati) relazionerà su “Le pari opportunità per i genitori vittime di sottrazioni e la protezione di minori”; infine Emilio Vincioni, porterà la sua testimonianza come padre vittima di sottrazione internazionale di minore.
Al termine del convegno verrà presentato il video clip “Memorie - Viaggio tra musica e parole” progetto artistico curato da Penelope Marche odv, che tra paesaggi, parole e fotografie, vuole far riflettere sul tema delle persone scomparse.
“La pedofilia è una minaccia costante all’integrità di bambini e ragazzi che oggi travalica il mondo reale e si diffonde anche online.(..) Quanto accaduto negli ultimi due anni per l’emergenza pandemica, ha accelerato i processi di avvicinamento tra bambini e internet, ha intensificato il rapporto di reciproca attrazione che già esisteva tra adolescenza e servizi di rete sociale online ed ha influenzato le abitudini quotidiane di ognuno di noi, imponendo una relazione sempre più stretta con il mondo virtuale, mostrando però altrettanto velocemente il suo lato oscuro".
E’ quanto ha affermato Alessandra Belardini, dirigente del compartimento Polizia Postale e delle Comunicazioni, nella ricorrenza del 5 maggio, giornata nazionale contro la pedofilia e la pedopornografia.
I dati resi noti dalla Polizia Postale parlano di un incremento del numero dei bambini coinvolti in casi di pedopornografia e adescamento pari al 45% nel 2021.
Social network, videogiochi e messaggistica rappresentano per i giovanissimi un pericolo concreto: i criminali sfruttano la rete per entrare in contatto con le loro vittime.
L’adulto abusante, spiega la Polizia Postale nel sito online, “mira a costruire un legame “pseudo affettivo”, farcito di emoticons, linguaggio edulcorato e fantasie di innamoramento, per preparare il terreno a richieste di immagini sessuali, induzioni a atti di autoerotismo, sino ad arrivare a proporre un incontro sessuale offline”.
Se da un lato la Polizia Postale ribadisce “l’impegno, innanzitutto repressivo, nella protezione delle piccole vittime di un crimine aberrante e vergognoso”, la prevenzione deve partire dalle nostre case.
La navigazione dei bambini va controllata: il parental control può essere un valido aiuto per i genitori. Si tratta di un sistema che dà la possibilità di monitorare o bloccare la navigazione del bambino in siti pornografici o escludere l’accesso ad immagini violente.
Senza dimenticare che tablet, cellulari, computer, non possono assurgere al ruolo di babysitter; i genitori hanno il dovere di far sentire il loro affettuoso controllo ai figli, per proteggerli dalle minacce del web e da esperienze che possono influire negativamente per sempre nella loro vita.
E’ in corso il processo in Corte d’Assise, iniziato il 10 febbraio 2022 a carico dei familiari di Rosina Carsetti, la 78enne uccisa nel tardo pomeriggio del 24 dicembre del 2020 nella sua abitazione di Montecassiano.
La figlia di Rosina, Arianna Orazi, il nipote Enea Simonetti e il marito Enrico Orazi, ascoltati nell'immediatezza del fatto, avevano riferito agli inquirenti di un tentativo di rapina durante il quale l’aggressore avrebbe aggredito ed ucciso la povera donna, ma dal loro racconto sono emerse diverse contraddizioni tanto che immediatamente i sospetti sono ricaduti proprio sulla famiglia.
I tre sono ora accusati di omicidio premeditato pluriaggravato, di maltrattamenti, simulazione di reato, rapina, estorsione, violenza privata, induzione a non rendere dichiarazioni e furto.
Sono 70 i testimoni chiamati a fare chiarezza sul delitto, consumato in un contesto familiare che per la povera donna, secondo la ricostruzione della Procura, era un vero e proprio inferno.
Nel corso dell’udienza di giovedi 5 maggio, sono state assunte le testimonianze di amici e vicini di casa che hanno raccontato delle violenze morali e psicologiche che Rosina doveva subire dalla figlia e dal nipote. L'anziana donna non nascondeva che i suoi familiari le facevano dispetti: le toglievano l’acqua calda quando faceva la doccia, le spegnevano il riscaldamento. Il nipote la offendeva, la insultava, le diceva che era brutta, e la insultava con cattiveria.
"Le era stato vietato usare la macchina - hanno raccontato le amiche - ed era costretta a vivere con non più di 10 euro al giorno, vergognandosi di questa situazione che la faceva sentire una mendicante, una pezzente”.
Rosina si sfogava con le sue amiche dicendo: “Tanto alla fine mi ammazzano”. Sembra che abbia tristemente previsto come sarebbe finita questa terribile storia.
Il Cesap, Centro Studi Abusi Psicologici, insieme all’Associazione Giovanni XXIII coordinata da Don Aldo Bonaiuto che, dal 2006, collabora con la Polizia di Stato nel gruppo d'indagine denominato S.A.S (Squadra Anti Sette), è una delle poche strutture che da anni opera in favore delle vittime delle sette, offrendo supporto psicologico e legale.
La fondatrice del Cesap, la psicologa Lorita Tinelli, spiega che quello delle sette è “un fenomeno sotterraneo che può contare su circa 500 organizzazioni settarie, con migliaia di adepti e una stima di un milione di vittime in Italia”.
Le chiamate per chiedere aiuto al numero verde nazionale antisette (800.228.866) negli ultimi due anni sono nettamente aumentate. La dottoressa Tinelli, in un’intervista rilasciata al Gazzettino, ha spiegato che la distanza dalla scuola durante la pandemia ha acuito il fenomeno tra i giovanissimi.
“Tanti ragazzi sui 18/19 anni, impauriti dal futuro, entrano in contatto con individui che promettono cose impossibili", ha affermato. Molte le telefonate dei genitori disperati perchè i propri figli hanno lasciato casa, “sedotti” da sedicenti guru, anche essi spesso molto giovani che, attraverso la manipolazione psicologica, li plagiano, spesso rendendoli vittime di truffe, maltrattamenti e nei casi più gravi di violenze sessuali.
E proprio di ciò è stato accusato Matteo Valdambrini, studente di Economia 25enne di Prato, condannato a 6 anni di reclusione con il rito abbreviato lo scorso dicembre.
Il ragazzo a capo di una setta, che trascorreva molto tempo online per adescare le sue vittime, è stato accusato di aver ridotto in schiavitù i suoi adepti, e di averli costretti a subire atti sessuali, dopo averli convinti di essere il 'Diavolo' e di averli scelti per salvare il mondo.
Avrebbe convinto le sue vittime a subire queste pratiche in quanto necessarie per superare un presunto 'blocco sessuale', eliminato il quale avrebbero potuto sviluppare poteri soprannaturali.
Le indagini che, nel giugno del 2020, hanno portato all’arresto del Valdambrini dai poliziotti della squadra mobile di Firenze e dello Sco (Servizio centrale operativo della Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato) sono partite grazie alla denuncia di una mamma che aveva notato nei suoi due figli di 17 e 18 anni dei comportamenti anomali.
Sette e psicosette promettono risposte immediate a chi ha le difese psichiche più basse ed è alla ricerca di un miglioramento economico o spirituale della propria vita, a chi ha un disagio da risolvere o non riesce a trovare risposte ai propri dubbi esistenziali.
Vittime soprattutto i giovani, più deboli alle promesse seduttive di queste sette, ma non solo. Ci sono anche adulti, non necessariamente anziani e sprovveduti; in comune hanno tutti una situazione di fragilità e un sentimento di isolamento e solitudine. Persone in difficoltà che hanno bisogno di essere ascoltate.
Le sette, spesso, si propongono in sostituzione della famiglia e con abili manipolazioni promettono di realizzare ogni bisogno irrealizzato, perpetrando invece spesso gravi reati che solo l’occhio vigile di un genitore, di un familiare o di un amico delle vittime può riuscire a riconoscere e denunciare alle competenti autorità.