Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le multe e in particolare la circolazione in Italia di veicoli con targa straniera.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata: "È legittima la multa per aver circolato in Italia con un veicolo con targa straniera verso il proprietario che risiede da più di 60 giorni in Italia?".
A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda giudiziaria che ha riguardato una persona, residente da più di sessanta giorni in Italia, trovata alla guida di un ciclomotore immatricolato all'estero, condannata al pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria di 1.424 euro.
Ciò in applicazione dei commi 1-bis e 7-bis dell'art. 93 del Codice della strada, introdotti dal d.l. n. 113/2018, come convertito. Sanzione verso la quale l'uomo ha sollevato la questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 77, co. 2, della Costituzione.
La disciplina censurata vieta, a chi ha stabilito la residenza in Italia da oltre sessanta giorni, di circolare con un veicolo immatricolato all'estero. Il divieto in parola è punito con una sanzione pecuniaria da 711 a 2.842 euro, unitamente al sequestro del veicolo e alla confisca del medesimo nel caso in cui, entro sei mesi, il proprietario non provveda a immatricolare il veicolo in Italia o a condurlo all'estero tramite il foglio di via.
L'unica eccezione a tale obbligo di immatricolazione è prevista con riguardo ai veicoli concessi in leasing o in locazione senza conducente da parte di imprese costituite in un altro Stato membro dell'Unione europea o dello Spazio economico europeo che non hanno stabilito in Italia una sede secondaria, nonché nell'ipotesi di veicoli concessi in comodato a soggetti residenti in Italia e legati da un rapporto di lavoro o di collaborazione con imprese costituite in un altro Stato membro dell'Unione europea o aderente allo Spazio economico europeo che non hanno stabilito in Italia una sede secondaria od altra sede effettiva.
Affinché tali presupposti rendano lecita la circolazione dei veicoli con targa estera, a bordo del veicolo deve essere custodito un documento, sottoscritto dall'intestatario e recante data certa, dal quale risultino il titolo e la durata della disponibilità del veicolo.
In mancanza di tale documento, la disponibilità del veicolo si considera in capo al conducente. Il giudice a quo si duole unicamente del fatto che la disciplina censurata sia stata introdotta, in sede di conversione, nel Capo II del Titolo II del d.l. n. 113/2018, contenente “Disposizioni in materia di prevenzione e contrasto alla criminalità mafiosa”, in aperto contrasto con il requisito della necessaria omogeneità tra il decreto-legge e la successiva legge di conversione, in violazione dell'art. 77, co. 2, Cost.
Le norme impugnate, infatti, sarebbero del tutto estranee al fenomeno mafioso o alla materia della sicurezza pubblica. L'obiettivo perseguito dall'inasprimento del trattamento sanzionatorio riservato a chi, residente in Italia da più di sessanta giorni, circoli in Italia con veicolo immatricolato all'estero sarebbe, in realtà, quello di contrastare il fenomeno della cosiddetta esterovestizione dei veicoli.
Ovvero la condotta di chi, residente in Italia, utilizzi veicoli immatricolati all'estero e intestati (spesso fittiziamente) a terzi, al fine di evitare il pagamento dell'imposta di bollo e degli oneri fiscali connessi all'assicurazione per la responsabilità civile, di rendere più difficile la riscossione delle sanzioni amministrative per gli illeciti commessi e, più in generale, di sfuggire ai controlli del fisco, occultando indici della propria capacità contributiva, evidentemente difforme da quella dichiarata.
Per il giudice a quo, l'estraneità di tale obiettivo a quelli perseguiti dal d.l. n. 113/2018 interromperebbe il “nesso di interrelazione funzionale” tra decreto-legge e legge di conversione, in violazione dell'evocato parametro costituzionale.
Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la legge di conversione rappresenta un atto normativo a competenza funzionalizzata e specializzata, perché rivolto unicamente a stabilizzare gli effetti del decreto-legge, con la conseguenza che esso è limitatamente emendabile, potendosi aprire solo a disposizioni coerenti con quelle originarie dal punto di vista materiale o finalistico (cfr. Corte Cost., n. 6/2023, n. 245/2022 e n. 210/2021).
Tale continuità viene meno quando le disposizioni aggiunte siano totalmente estranee o addirittura “intruse” rispetto a quei contenuti e a quegli obiettivi, giacché solo la palese “estraneità delle norme impugnate rispetto all'oggetto e alle finalità del decreto-legge” o la “evidente o manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell'originario decreto-legge” possono inficiare di per sé la legittimità costituzionale della norma introdotta con la legge di conversione (Corte Cost., n. 181/2019, n. 154 del 2015 e n. 22/2012).
Alla luce della palese estraneità delle disposizioni censurate agli ambiti e alle finalità del d.l. n. 113 del 2018, si deve ritenere che le prime presentino il carattere di norme “intruse”, con riguardo tanto all'oggetto della disciplina, quanto alla ratio complessiva del provvedimento di urgenza, quanto, infine, all'esigenza di «coordinamento rispetto alle materie “occupate” dall'atto di decretazione» (sentenza n. 247 del 2019).
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: "Deve, pertanto, essere dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 93, commi 1-bis e 7-bis, cod. strada, introdotti dall'art. 29-bis del d.l. n. 113 del 2018, come convertito in considerazione della riscontrata violazione dell'art. 77, secondo comma, Cost." (Corte Costituzionale, sentenza del 6 giugno 2023, n. 113), così da rendere illegittima la multa. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti tra i coniugi oltre all’istituto della donazione. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Porto Recanati che chiede: "È possibile revocare una donazione della moglie al marito che la tradisce?".
A tal proposito risulta utile portare una recente vicenda risolta poi in Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla revoca di più donazioni indirette mobiliari ed immobiliari effettuate dalla moglie nei confronti del marito.
L'uomo, infatti, nel frattempo la tradiva con la propria cognata (la moglie del fratello di lei) mettendo in crisi non solo la coppia ma le intere famiglie coinvolte ed infine anche l’azienda di famiglia della donna tradita nella quale lavoravano tutti i protagonisti della vicenda adulterina.
Nei primi due gradi di giudizio veniva confermata la revoca di tali donazioni fatte in quanto dall’istruttoria erano emersi comportamenti posti in essere dal donatario direttamente nei confronti della donante, che confermavano l’evidenza di un sentimento di disistima ed irrispettosità del marito nei confronti della moglie.
Tutto ciò tenuto conto del principio oramai consolidato giurisprudenziale secondo il quale, «l'ingiuria grave richiesta dall'art. 801 c.c. quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale la sua natura di offesa all'onore ed al decoro della persona, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, dovrebbero invece improntarne l'atteggiamento, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatario» (Cass. civ., n. 20722/2018).
I comportamenti erano qualificabili, ai fini previsti dall'art. 801 c.c., come una grave ingiuria, trattandosi, in effetti, di "una pluralità di comportamenti strettamente connessi e rivolti verso la persona della donante e tali da non poter essere tollerati secondo un sentire ed una valutazione di normalità".
In effetti, l'ingiuria grave richiesta dall'art. 801 c.c. quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatario (Cass. n. 22013 del 2016).
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: "La donazione va incontro alla revocabilità in presenza di una ingiuria grave del marito donatario consistente in un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e nell’irrispettosità della dignità della moglie donante se il marito tradisce la consorte addirittura con la cognata con relativa messa in crisi non solo della coppia ma anche delle famiglie coinvolte oltre all'azienda di famiglia” (Cass. Civ., Sez. III, Ordinanza del 20.06.2022, n. 19816).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente le problematiche relative ai rapporti di coppia e nello specifico gli atteggiamenti tenuti. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "Il marito è giustificabile se tiene atteggiamenti maltrattanti nei confronti della moglie per gelosia?".
A tal proposito risulta utile portare una recente vicenda risolta poi in Cassazione riguardante un marito che ha più volte tenuto comportamenti aggressivi nei confronti della moglie a causa di un’assurda gelosia connessa, nell’ottica difensiva, anche ai comportamenti della donna.
A fronte della specifica obiezione proposta dal legale, i Giudici di Cassazione ribattono in modo netto: è incontestabile, spiegano, «la non riconoscibilità di alcun valore morale o sociale alla gelosia», con conseguente «incompatibilità della provocazione con il reato di maltrattamenti».
In particolare, i Giudici ribadiscono il principio secondo cui «il movente della gelosia non riveste quelle caratteristiche di altruismo e di nobiltà che costituiscono il presupposto per la configurabilità dell'attenuante» prevista in caso di azione criminosa commessa per «un motivo di particolare valore morale o sociale».
Al contrario, «la gelosia costituisce uno stato passionale sfavorevolmente apprezzato dalla comune coscienza etica, essendo espressione di un sentimento egoistico tutt'altro che nobile ed elevato», sottolineano i Giudici.
E in questa ottica viene anche ribadita «l'incompatibilità della circostanza attenuante della provocazione con un reato di natura abituale quale il delitto di maltrattamenti, essendo questo connotato dalla reiterazione nel tempo di comportamenti antigiuridici». Di fatti, l'essere preda della gelosia non potrà mai giustificare né rendere meno gravi i comportamenti aggressivi tenuti dal marito nei confronti della consorte.
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice si può affermare che: "In tema di maltrattamenti in famiglia, ai fini della configurabilità delle circostanze attenuanti di cui all'art. 62 n. 1 e 2 c.p., il movente della gelosia non riveste quelle caratteristiche di altruismo e di nobiltà che costituiscono il presupposto per la configurabilità dell'attenuante del motivo di particolare valore morale o sociale, prevista dall'art. 62 n. 1, c.p., ma, al contrario, costituisce uno stato passionale sfavorevolmente apprezzato dalla comune coscienza etica, essendo espressione di un sentimento egoistico tutt'altro che nobile ed elevato (Sez. 5, n. 10644 del 04/07/1991, Pasqui, Rv. 188306)".
"Va, infine, ribadita l'incompatibilità della circostanza attenuante della provocazione ex art. 62 n. 2, c.p., con un reato di natura abituale quale il delitto di maltrattamenti, essendo questo connotato dalla reiterazione nel tempo di comportamenti antigiuridici (Sez. 6, n. 13562 del 05/02/2020, Rv. 278757)". (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n.22374/2023). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente le problematiche relative alla responsabilità medica e nello specifico in ambito sportivo. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "Il medico sportivo può essere responsabile della morte di un atleta per infarto?"
A tal proposito risulta utile portare una recente vicenda risolta poi in Cassazione che ha riguardato proprio un atleta al quale era stato rilasciato il certificato di idoneità sportiva agonistica nonostante alcune anomalie riscontrate durante la visita specialistica cardiologica.
I giudici di merito hanno chiaramente evidenziato che già gli esiti degli Ecg avrebbero dovuto ingenerare nel medico il sospetto della sussistenza di una cardiopatia ischemica, per cui sarebbe stato necessario svolgere esami strumentali maggiormente specifici rispetto ad un semplice ecocardiogramma.
È stato correttamente sottolineato, pertanto, che, stante la presenza di elementi diagnostici indicativi con certezza di ischemia miocardica inducibile e di aritmie ventricolari complesse, il medico avrebbe dovuto astenersi dal rilasciare nel 2012 e nel 2013 il certificato di idoneità allo svolgimento di attività sportiva agonistica sulla base dei "Protocolli cardiologici per il giudizio di idoneità allo sport agonistico".
Quanto alla sussistenza del nesso causale tra la condotta omissiva colposa e il decesso si è chiarito che, a fronte di un tracciato ECG patologico, il medico non avrebbe dovuto rilasciare il certificato di idoneità alla pratica agonistica bensì indirizzare il paziente ad una completa valutazione cardiologica, in modo da prevenire future aritmie.
L'omesso riconoscimento dell'idoneità alla pratica sportiva agonistica lo avrebbe indotto a non proseguire gli allenamenti intensi, idonei a provocare "una discrepanza ossigenativa su una parte del muscolo scheletrico".
Si è conseguentemente attribuita la morte dell’atleta, avvenuta per arresto cardiaco improvviso nel corso di attività sportiva, alla scarsa ossigenazione di una parte del tessuto miocardico - circostanza ascrivibile all'ischemia del miocardio non diagnosticata - aggravata dal superamento di una certa soglia di sforzo fisico, che aveva innescato le aritmie ventricolari maligne.
L'impiego esigibile della media diligenza e perizia medica avrebbe dovuto comportare, non già la superficiale diagnosi che aveva dato luogo al rilascio del certificato di idoneità sportiva, bensì l'effettuazione di esami maggiormente approfonditi che avrebbero evitato, con ampio margine di probabilità, la morte del predetto, la quale invece, avveniva improvvisamente durante l’attività fisica espletata.
In altri termini, i giudici di merito hanno accertato che la morte improvvisa dell’atleta poteva e doveva essere scongiurata mediante un diligente e oculato comportamento professionale del medico, per cui, quello diverso da lui tenuto, nel caso concreto, si palesava, sotto il duplice profilo della negligenza e dell'imperizia, colposo ed eziologicamente incisivo sul determinismo dell'evento mortale, avendo consentito l'automatica ammissione del soggetto all'attività sportiva, incompatibile con la sua situazione clinica.
Di contro, è razionalmente credibile che la sua morte sarebbe stata evitata, se non avesse svolto l'allenamento (Sez. 4, n. 38154 del 05/06/2009, R.C., Rv. 245781-2, secondo cui risponde di omicidio colposo il cardiologo, che attesti l'idoneità alla pratica sportiva agonistica di un atleta, in seguito deceduto nel corso di un incontro ufficiale di calcio a causa di una patologia cardiologia - nella specie, "cardiomiopatia ipertrofica" - non diagnosticata dal sanitario per l'omessa effettuazione di esami strumentali di secondo livello che, ancorché non richiesti dai protocolli medici, dovevano ritenersi necessari in presenza di anomalie del tracciato elettrocardiografico desumibili dagli esami di primo livello; Sez. 4, n. 18981 del 09/03/2009, Giusti, Rv. 243993).
Pertanto, in risposta al nostro lettore si può affermare che: "E’ responsabile di omicidio colposo il medico sportivo che rilascia un certificato di idoneità sportiva agonistica nonostante le riscontrate anomalie cardiache nell’atleta deceduto a seguito di infarto durante un allenamento" (Cass. Pen., Sez. IV, sentenza n. 20943/2023). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente le problematiche relative alle compravendite immobiliari e nello specifico il ruolo del mediatore.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "Il mediatore immobiliare reticente o mendace deve risarcire l’acquirente?".
A tal proposito risulta utile portare una recente vicenda risolta poi in Cassazione che ha riguardato proprio un mediatore immobiliare che era stato reticente circa la presenza di abusi edilizi sull’immobile nei confronti del promissario acquirente.
La Suprema Corte ricorda in primo luogo che «il mediatore - tanto nell'ipotesi tipica in cui abbia agito in modo autonomo, quanto nell'ipotesi in cui si sia attivato su incarico di una delle parti (c.d. mediazione atipica) - ha, ai sensi dell'art. 1759, comma 1, c.c., l'obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede, nel cui ambito è incluso l'obbligo specifico di riferire alle parti le circostanze dell'affare a sua conoscenza, ovvero che avrebbe dovuto conoscere con l'uso della diligenza qualificata propria della sua categoria, idonee ad incidere sul buon esito dell'affare».
Dalla lettura combinata dell'art. 1759, comma 1, c.c. con gli artt. 1175 e 1176 c.c., nonché con la legge n. 39/1989, si desume la natura professionale dell'attività del mediatore, il quale (pur non essendo tenuto, se non in forza di uno specifico impegno contrattuale, a svolgere apposite indagini di natura tecnico giuridica) riveste comunque un ruolo che gli permette di «svolgere ogni attività complementare o necessaria per la conclusione dell'affare».
Da tale affermazione discende la responsabilità del mediatore anche per informazioni obiettivamente non vere su fatti di indubbio rilievo, dei quali egli non abbia consapevolezza e che non abbia controllato.
Nella vicenda in esame, la mancata informazione del promissario acquirente sull'esistenza di una irregolarità urbanistica o edilizia non ancora sanata, della quale il mediatore stesso doveva e poteva essere edotto, lo rende responsabile verso il cliente (affiancandosi tale responsabilità alla eventuale responsabilità del venditore) e può essere fatta valere sia chiedendo al mediatore il risarcimento del danno, sia rifiutando il pagamento della provvigione.
Pertanto, in risposta al nostro lettore si può affermare che: “In tema di mediazione immobiliare è configurabile una responsabilità risarcitoria del mediatore in caso di mancata informazione del promissario acquirente circa l’esistenza di irregolarità urbanistiche o edilizie non ancora sanate relative all’immobile oggetto della promessa di vendita” (Cass. Civ., Sez. II, ordinanza del 02.05.2023 n. 11371). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata da Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema del risarcimento danni a seguito di un sinistro stradale. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: “In caso di sinistro di un automezzo con danni superiori al suo valore di mercato, è possibile chiedere il totale risarcimento della riparazione?
A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda risolta poi in Cassazione dopo che i giudici di merito hanno ritenuto liquidare la proprietaria di un’autovettura per equivalente e non in forma specifica in quanto i danni risultavano più onerosi del valore di mercato del mezzo incidentato, senza tenere conto però che, la liquidazione del danno in forma specifica e per equivalente si pongono in un rapporto di regola ed eccezione, «nel senso che la reintegrazione in forma specifica (che vale a ripristinare la situazione patrimoniale lesa mediante la riparazione del bene) costituisce la modalità ordinaria, che può tuttavia essere derogata dal giudice -con valutazione rimessa al suo prudente apprezzamento (“può disporre”)- in favore del risarcimento per equivalente, laddove la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per la parte obbligata».
Il concetto di eccessiva onerosità è stato interpretato dalla giurisprudenza nel senso che essa ricorre quanto il costo delle riparazioni superi notevolmente il valore di mercato del veicolo (Cass. civ. n. 10196/2022). Infatti «nel bilanciamento fra l'esigenza di reintegrare il danneggiato nella situazione antecedente al sinistro e quella di non gravare il danneggiante di un costo eccessivo, l'eventuale locupletazione per il danneggiato costituisca un elemento idoneo a orientare il giudice nella scelta della modalità liquidatoria».
Sulla base di tale premessa, il Collegio precisa che «deve dunque ritenersi che, ai fini dell'applicazione dell'art. 2058, comma 2, c.c., la verifica di eccessiva onerosità non possa basarsi soltanto sull'entità dei costi, ma debba anche valutare se la reintegrazione in forma specifica comporti o meno una locupletazione per il danneggiato, tale da superare la finalità risarcitoria che le è propria e da rendere ingiustificata la condanna del debitore a una prestazione che ecceda notevolmente il valore di mercato del bene danneggiato».
Inoltre viene precisato che «laddove il danneggiato decida -com'è suo diritto- di procedere alla riparazione anziché alla sostituzione del mezzo danneggiato, non risulta giustificato (perché si tradurrebbe in una indebita locupletazione per il responsabile) il mancato riconoscimento di tutte le voci di danno che competerebbero in caso di rottamazione e sostituzione del veicolo». In altre parole, laddove il giudice proceda alla liquidazione per equivalente, deve riconoscere necessariamente tutte le voci di danno che sarebbero spettate al danneggiato se non avesse scelto di riparare il mezzo, compresi i costi non effettivamente sostenuti ma che devono comunque essere considerati nella liquidazione per equivalente proprio per la natura intrinseca di tale tecnica liquidatoria.
Pertanto, in risposta al nostro lettore si può affermare che: “Laddove il danneggiato decida, ed è un suo diritto, di procedere alla riparazione anziché alla sostituzione del mezzo danneggiato, il giudice nella liquidazione del danno deve ricomprendere tutte le voci di danno che comporterebbero in caso di rottamazione e sostituzione del veicolo” (Cass. Civ., Sez. III, ordinanza del 20.04.2023 n. 10686).Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema dei rapporti di coppia e le loro evoluzioni.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Corridonia che chiede: "Costringere la propria compagna a non interrompere la relazione può comportare delle responsabilità penali?"
A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda risolta poi in Cassazione dopo che i giudici di merito hanno ritenuto palese l'inaccettabile condotta aggressiva tenuta da un uomo nei confronti della compagna, condotta mirata a «non farsi lasciare dalla donna».
Per i giudici di primo e di secondo grado infatti è logico catalogare i comportamenti dell'uomo come vera e propria violenza privata nei confronti della donna. Dalla Cassazione ribadiscono richiamando il principio secondo cui «l'elemento oggettivo del reato di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare, od omettere una determinata cosa».
Ciò significa anche che «la condotta violenta o minacciosa deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore», ossia, come detto, «la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa».
Per quanto concerne la vicenda, i Giudici della Cassazione condividono in pieno le valutazioni compiute in appello: in sostanza, è evidente «il comportamento intimidatorio» dell'uomo che ha tenuto una condotta concretizzatasi nella «minaccia, anche di morte, rivolta alla compagna se quest'ultima avesse interrotto la loro relazione».
Per l’appunto, è logico catalogare come «violenza privata» il modus agendi dell'uomo, diretto «ad imporre un comportamento determinato alla compagna», ossia la prosecuzione della relazione e della convivenza.
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: "È violenza privata non accettare la decisione della compagna di interrompere il loro legame e pretendere attraverso una condotta aggressiva che il partner porti avanti per forza la relazione e non vada via di casa" (Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 20346/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra ex coniugi con esplicito riferimento all’attribuzione per colpa della separazione.
Il caso di specie scelto è di un lettore di Civitanova Marche che chiede: “A quali responsabilità può andare incontro l’investigatore privato assunto dalla moglie per provare il tradimento del proprio marito nel successivo giudizio di separazione con addebito di colpa?”.
A tal proposito risulta utile riportare il caso giuridico nel quale a finire sotto processo per diffamazione è il titolare dell’agenzia investigativa per aver consegnato alla cliente una nota investigativa redatta su carta intestata con cui veniva attribuita al marito una relazione sentimentale con una collega, relazione risalente a due anni e mezzo prima quando il matrimonio era ancora solido e i coniugi erano lontanissimi dall’idea della separazione.
Quel documento è stato poi utilizzato dalla donna, che ha commissionato l’attività investigativa nel procedimento di separazione personale con addebito proprio per tale “presunto” tradimento nel quale però veniva riscontrata l’assenza di effettivi elementi di riscontro in merito all’affermazione di tradimento contenuta nella stessa nota dell’investigatore.
La vicenda arrivata in Appello il cui Giudicante dichiarava che, la mail dell’investigatore privato inviata alla propria cliente con cui si comunicava che “da indagini espletate emerge che il proprio marito ha una relazione sentimentale da due anni e mezzo circa con una sua collega”, tanto da attribuire esplicitamente una relazione clandestina, iniziata quando era ancora pienamente operante il dovere di fedeltà nascente dal matrimonio, ha un’oggettiva idoneità lesiva della reputazione del coniuge traditore, a fronte della clamorosa assenza di elementi di riscontro in merito all’affermazione contenuta in tale nota.
Tirando le somme, “è munita di oggettiva idoneità lesiva della reputazione ed è obiettivamente pregiudizievole della reputazione della persona offesa l’attribuzione non veritiera di una relazione clandestina, in costanza di matrimonio, ad uno dei coniugi, atteso che integra lesione della reputazione altrui non solo l’attribuzione di un fatto illecito, perché posto in essere contro il divieto imposto da norme giuridiche, assistite o meno da sanzione o da patti riconosciuti vincolanti dal diritto civile, ma anche la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio".
E ancora. "Di conseguenza, descrivere la persona, oggetto di comunicazione con altri, capace di tradire la fiducia del coniuge, allacciando una relazione sentimentale con un’altra donna, si ritiene costituisca condotta idonea ad esporla al pubblico biasimo e, conseguentemente, a ledere la sua reputazione”, chiosa il Giudicante.
Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “E’ diffamazione l’attribuzione non confermata da dati certi di una relazione clandestina in costanza di matrimonio da parte dell’investigatore privato il quale non poteva ignorare che la cliente avrebbe fatto di quella notizia uso a proprio vantaggio, mettendone a parte terze persone, in quanto consapevole dello stato di coniuge separando della stessa e che quindi le avesse fornito la notizia della relazione extraconiugale del marito, con l’intento di farle conseguire un vantaggio nel giudizio di separazione" (Tribunale di Roma, 31 ottobre 2018). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti condominiali in presenza di mancati pagamenti.
Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Porto Recanati che chiede: “Il condomino in regola con i pagamenti può opporsi al precetto per la preventiva escussione dei condomini morosi?”.
Tale circostanza ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo ad una fattispecie molto dibattuta nelle aule di Tribunale, ed a tal proposito, la Suprema Corte recentemente ha avuto modo di pronunciarsi in una vicenda i cui protagonisti sono stati due condomini in regola con i pagamenti contro gli atti di precetto notificati da un creditore del condominio in forza di una sentenza divenuta esecutiva: i due condomini contestavano la propria regolare posizione con i pagamenti pro rata dovuti, invocando dunque la preventiva escussione dei condomini morosi, mentre il creditore soccombente ha proposto ricorso in Cassazione.
Il Collegio sottolinea come la sentenza impugnata abbia fatto corretta applicazione dell'art. 63 disp. att. c.c., come modificato dalla legge n. 220/2012. Il comma 1 dispone infatti che l'amministratore «è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi», mentre il comma 2 stabilisce che «[i] creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini». In capo ai condomini che abbiano regolarmente pagato la propria quota viene dunque a crearsi un'obbligazione sussidiaria ed eventuale, favorita dal “beneficium excussionis” avente ad oggetto non l'intera prestazione imputabile al condominio, quanto unicamente le somme dovute dai morosi.
La pronuncia afferma infatti il principio secondo cui «il condomino in regola coi pagamenti, al quale sia intimato precetto da un creditore sulla base di un titolo esecutivo giudiziale formatosi nei confronti del condominio, può proporre opposizione a norma dell'art. 615 c.p.c. per far valere il beneficio di preventiva escussione dei condomini morosi che condiziona l'obbligo sussidiario di garanzia di cui all'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., ciò attenendo ad una condizione dell'azione esecutiva nei confronti del condomino non moroso, e, quindi, al diritto del creditore di agire esecutivamente ai danni di quest'ultimo».
Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità e in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: “Il creditore del condominio avente un titolo esecutivo deve chiedere il pagamento prima ai condomini morosi e solo successivamente potrà rivolgersi ai condomini che risultano già in regola con i propri pagamenti pro rata” (Cass. Civ., Sez. II, Ordinanza del 17.02.2023, n. 5043). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti di vicinato, e, soprattutto, i disturbi che potrebbero sorgere.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Il titolare di un pub potrebbe andare incontro ad una responsabilità penale a causa degli schiamazzi notturni dei propri clienti?”.
Tale circostanza ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo ad una fattispecie molto dibattuta nei rapporti di vicinato soprattutto nei centri storici delle città, e a tal proposito, la Suprema Corte recentemente ha avuto modo di pronunciarsi in una vicenda i cui protagonisti sono stati il titolare di un pub imputato del reato di cui all’art. 659 c.p. (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle parsone) ed alcuni vicini quali parti civili costituite.
La Corte di Cassazione ha subito evidenziato come, nel caso di esercizi commerciali aperti al pubblico, debba essere riconosciuto in capo al titolare l'esistenza di una «posizione di garanzia», cui è correlato l'obbligo giuridico di impedire gli schiamazzi o comunque i rumori prodotti in maniera eccessiva dalla propria clientela (Cass., n. 22142 del 08/05/2017).
Tale obbligo, che si sostanzia nel doveroso esercizio di un potere di controllo, è configurabile rispetto alle condotte poste in essere da parte dei clienti sia che si trovino all'interno del locale, sia per gli schiamazzi e i rumori dagli stessi prodotti all'esterno del locale: la veste di titolare della gestione dell'esercizio pubblico, infatti, comporta l'assunzione dell'obbligo giuridico di controllare, con possibile ricorso ai vari mezzi offerti dall'ordinamento, come l'attuazione dello "ius excludendi" e il ricorso all'Autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica.
Infine, i Giudici precisano che la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, «sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo a essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluni se ne possano lamentare» (Cass., n. 2258 del 17/11/2020).
In altre parole, non è necessario che tutti i residenti sulla via limitrofa al locale percepiscano il rumore come superante la soglia di normale tollerabilità, essendo sufficiente che solo alcuni di essi ne abbiano subito turbamento nelle occupazioni e nel riposo e che altri potrebbero subirne altrettanto.
Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità e in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: “Integra il delitto di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, di cui all'art. 659 c.p., la condotta del gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati dagli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne, essendogli imposto l'obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso all'Autorità od allo "ius excludendi" che la frequentazione del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme di tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica”(Cass. Pen., sentenza n. 24397/2022).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti amorosi a volte troppo turbolenti. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Porto Recanati che chiede:“In un rapporto tra fidanzati reciprocamente turbolento posso sussistere delle responsabilità penali?"
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione purtroppo sempre più attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, riguardo ad una vicenda connotata da rapporti conflittuali tra l'uomo e la donna e frutto della interruzione non proprio definitiva del loro rapporto sentimentale.
In particolare, i giudici sottolineano che «dopo una apparente rottura della relazione, i due hanno continuato ad avere frequentazioni, anche intime» e aggiungono che «i comportamenti offensivi, di varia intensità, contestati all'uomo sono frutto di forme reattive per gli speculari atteggiamenti ingiuriosi e latamente aggressivi della donna. Per completare il quadro, poi, i giudici rilevano che «i due avevano frequenti litigi che sfociavano in pesanti offese reciproche con conseguenti periodi di allontanamento, che erano posi seguiti da riconciliazioni».
In sostanza,«tra l'uomo e la donna vi erano rapporti sentimentali burrascosi, segnati da reciproche aggressioni e offese, maturate da sentimenti di gelosia nutriti da entrambi», e, quindi, logicamente si può concludere che «le molestie mediante offese verbali furono poste in essere reciprocamente», e perciò «è impossibile individuare in uno dei due protagonisti di questa turbolenta relazione la responsabilità per l'iniziale comportamento aggressivo». In questo quadro, poi, gli ulteriori comportamenti dell'uomo, ossia «gli appostamenti sotto la casa della donna» o «gli inseguimenti» ai danni della donna, non incidono sulla correttezza dell'inquadramento dei fatti all'interno di «una reciprocità di atteggiamenti aggressivi e molesti» nell'ambito della coppia.
Pertanto, tenuto conto del principio secondo cui «non è configurabile il reato di molestia o di disturbo alle persone allorché vi sia reciprocità o ritorsione delle molestie», in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che, “I continui “alti e bassi” della coppia, con litigi, offese reciproche e repentine riconciliazioni sono sufficienti ad escludere la responsabilità penale per molestie (Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 43871/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al provvedimento adottato dal Governo circa la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime e la sua legittimità. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana ai numerosi titolari delle concessioni (leggi qui la loro opinione).
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi il Consiglio di Stato prendendo spunto dalla vicenda in cui con deliberazione della Giunta comunale, il Comune di Manduria, preso atto di quanto disposto dall'art. 1, commi 682, 683 e 684 della L. 30/12/2018, n. 45 e dall'art. 182, comma 2, del D.L. 19/5/2020, n. 34, conv. in L. 17/7/2020, n. 77, ha dato indicazioni al responsabile del competente servizio per la predisposizione degli atti finalizzati all'estensione, sino al 31 dicembre 2033, del termine di durata delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative. Tali concessioni sono state, poi, concretamente prorogate con apposite annotazioni apposte in calce ai relativi titoli.
Ritenendo la detta delibera e le concrete proroghe, in contrasto con gli artt. 49 e 56 del TFUE e, in generale, con la normativa unionale contenuta nella direttiva 12/12/2006, n. 2006/123/CE (c.d. direttiva Bolkestein), l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha notificato al comune il parere motivato di cui all'art. 21 bis della L. 10/10/1990, n. 287, evidenziando l'esigenza del previo espletamento di procedure a evidenza pubblica al fine di assicurare il rispetto dei principi di concorrenza e di libertà di stabilimento, anche in ambito transfrontaliero, significando, in particolare, il contrasto della normativa nazionale di proroga delle concessioni di cui trattasi con la direttiva n. 2006/123/CE, con conseguente obbligo di disapplicazione da parte di tutti gli organi dello Stato, sia giurisdizionali sia amministrativi.
Successivamente, poiché l'amministrazione comunale non si è adeguata ai rilievi mossi dall'Autorità, quest'ultima ha impugnato la menzionata delibera, n. 27/2020 con ricorso al T.A.R. Puglia – Lecce, il quale, con sentenza 29/6/2021, n. 981, per un verso, lo ha dichiarato inammissibile e, per altro verso, ritenuto di doverlo, comunque, esaminare nel merito, lo ha respinto.
Avverso tale sentenza ha proposto appello l'AGCM al Consiglio di Stato, il quale, inizialmente chiarisce la qualifica della concessione demaniale facendola rientrare in quella di finalità turistico-ricreativa in termini di autorizzazione di servizi ai sensi dell’art. 12 della direttiva 2006/123 così come già stabilito dall'Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato nelle sentenze gemelle 9/11/2021, nn. 17 e 18, tenuto conto dell’impulso dato dal diritto dell'Unione in materia di concessioni amministrative quale attribuzione del diritto di sfruttare in via esclusiva una risorsa naturale contingentata al fine di svolgere un'attività economica che procura al titolare vantaggi economicamente rilevanti in grado di incidere sensibilmente sull'assetto concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione dei servizi.
Dall'art. 4, punto 1, della direttiva 2006/123 risulta che per "servizio", ai fini di tale direttiva, si intende qualsiasi attività economica non salariata di cui all'articolo 57 TFUE, fornita normalmente dietro retribuzione. In particolare, "un'attività di locazione di un bene immobile [...], esercitata da una persona giuridica o da una persona fisica a titolo individuale, rientra nella nozione di «servizio», ai sensi dell'articolo 4, punto 1, della direttiva 2006/123" (Corte di giustizia, Grande sezione, 22.9.2020, C-724/2018 e C-727/2018, punto 34). La stessa decisione della Commissione 4 dicembre 2020 relativa al regime di aiuti SA. 38399 2019/C (ex 2018/E) "Tassazione dei porti in Italia" contiene l'affermazione per cui "la locazione di proprietà demaniali dietro il pagamento di un corrispettivo costituisce un'attività economica".
È allora evidente che il provvedimento che riserva in via esclusiva un'area demaniale (marittima, lacuale o fluviale) ad un operatore economico, consentendo a quest'ultimo di utilizzarlo come asset aziendale e di svolgere, grazie ad esso, un'attività d'impresa erogando servizi turistico-ricreativi va considerato, nell'ottica della direttiva 2006/123, un'autorizzazione di servizi contingentata e, come tale, da sottoporre alla procedura di gara.
Del resto, come ricordato dalla Corte di giustizia nella più volte citata sentenza Promoimpresa, "il considerando art. 39 della direttiva in questione precisa che la nozione di regime di autorizzazione dovrebbe comprendere, in particolare, le procedure amministrative per il rilascio di concessioni". E la stessa sentenza ha chiaramente affermato che "tali concessioni possono quindi essere qualificate come autorizzazioni, ai sensi delle disposizioni della direttiva 2006/123, in quanto costituiscono atti formali, qualunque sia la loro qualificazione nel diritto nazionale, che i prestatori devono ottenere dalle autorità nazionali al fine di poter esercitare la loro attività economica".
Pertanto, l'Adunanza plenaria non ha potuto che condividere tali conclusioni e ribadire che "le concessioni di beni demaniali per finalità turistico-ricreative rappresentano autorizzazioni di servizi ai sensi dell'art. 12 della direttiva c.d. servizi, come tali sottoposte all'obbligo di gara”.
Per poi, il Consiglio di Stato affrontare con chiarezza la legittimità o meno di tutti i provvedimenti anche governativi che riguardano la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime, facendo riferimento ai principi già enunciati nelle citate sentenze dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021 con le quali, in coerenza con l'orientamento in materia espresso dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea con la sentenza Promoimpresa, è stato affermato che:
a) l'art. 12 della direttiva 2006/123/CE, laddove sancisce il divieto di proroghe automatiche delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative è norma self executing e quindi immediatamente applicabile nell'ordinamento interno, con la conseguenza che le disposizioni legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle suddette concessioni sono con essa in contrasto e pertanto, non devono essere applicate (cfr., in termini, fra le tante, Cons. Stato, Sez. VII, 21/2/2023, n. 1780; 6/7/2022, n. 5625; 15/9/2022 n. 810);
b) il dovere di disapplicare la norma interna in contrasto con quella eurounitaria autoesecutiva, riguarda, per pacifico orientamento giurisprudenziale, tanto i giudici quanto la pubblica amministrazione (Corte Cost., 11/7/1989, n. 389; Cons Stato Sez. VI, 18/11/2019 n. 7874; 23/5/2006, n. 3072; Corte Giust. UE, 22/6/1989, in C- 103/88, Fratelli Costanzo, e 24/5/2012, in C-97/11, Amia);
c) l'art. 12 della menzionata direttiva 2006/123/CE, prescinde del tutto “dal requisito dell'interesse transfrontaliero certo, atteso che la Corte di giustizia si è espressamente pronunciata sul punto ritenendo che "l'interpretazione in base alla quale le disposizioni del capo III della direttiva 2006/123 si applicano non solo al prestatore che intende stabilirsi in un altro Stato membro, ma anche a quello che intende stabilirsi nel proprio Stato membro è conforme agli scopi perseguiti dalla suddetta direttiva" (Corte di giustizia, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, punto 103)”;
d) come più sopra rilevato in sede di esame dell'appello incidentale, i fini dell'applicabilità dell'art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE alle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative deve ritenersi sussistente il requisito della scarsità della risorsa naturale a disposizione di nuovi potenziali operatori economici.
Pertanto, in risposta ai nostri lettori, sulla base di quanto affermato dall'Adunanza Plenaria, con le ricordate sentenze nn. 17 e 18 del 2021, non solo i commi 682 e 683 dell'art. 1 della L. n. 145/2018, ma anche la nuova norma governativa contenuta nell'art. 10-quater, comma 3, del D.L. 29/12/2022, n. 198, conv. in L. 24/2/2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere fino al 31.12.2024, si pone in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all'art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato.
Rimane l’auspicio, a questo punto, che il legislatore intervenga con qualità, in una materia così delicata e sensibile, con una disciplina espressa e puntuale ad imporre, almeno, una gara rispettosa dei principi di trasparenza, pubblicità, imparzialità, non discriminazione e mutuo riconoscimento degli interessi coinvolti degli attuali titolari delle concessioni. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla tutela delle vittime di violenza di genere.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: "Quando è ipotizzabile il reato di maltrattamenti o quello di stalking in presenza di una relazione affettiva?".
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, riguardo al discrimine tra il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi di cui all'art. 572 c.p. e il reato di atti persecutori aggravato dall'esistenza, presente o passata, di una relazione affettiva che lega l'autore con la persona offesa, ai sensi dell'art. 612-bis, comma 2, c.p..
Il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) punisce chi ponga in essere atti coercitivi, anche solo minacciati o di minimale apparente portata lesiva, operanti a diversi livelli (fisico, sessuale, psicologico o economico), che siano volti a ledere la dignità della persona offesa, umiliandola o limitandone la sfera di libertà anche rispetto a scelte minimali del vivere quotidiano, affinché, stante la struttura abituale del reato, si sviluppi, fino a consolidarsi, un assetto di potere discriminatorio.
La riforma attuata con legge n. 172 del 2012, di ratifica della Convenzione di Lanzarote, ha inserito tra i soggetti attivi e passivi del reato, anche il convivente. La definizione di convivenza giuridicamente rilevante ai sensi dell'art. 572 c.p. è quella che proietta il rapporto, cioè la volontà di coppia, in una dimensione di impegno e di progetto di vita, al di là che poi in concreto la stabilità si realizzi, come nel caso in cui, assunta la decisione di vivere insieme, la convivenza cessi, ad esempio, proprio per le violenze.
Dalla nozione delineata discende che la convivenza non può essere esclusa quando sia sospesa o segnata da intervalli purché, però, restino intatti gli altri aspetti materiali e spirituali della comunione di vita e della volontà di condivisione. Questi andranno accertati dal giudice di merito in chiave fattuale tenendo conto anche della flessibilità che caratterizza questa dimensione affettiva rispetto al contesto sociale, lavorativo e alle scelte intime che muovono le condotte umane.
La coabitazione, ad esempio, può essere un indice importante per individuare una convivenza affettiva stabile in quanto vi è una casa comune all'interno della quale si svolge il programma di vita condiviso, ma non è un requisito che la connota. Infatti, la coabitazione può mancare per ragioni economiche, per condizioni oggettive, per scelte individuali, per necessità di assistenza di altri parenti, per esigenze lavorative e aspettative di studio o di carriera.
Al contrario, la coabitazione o la convivenza meramente anagrafica possono esistere in assenza di convivenza affettiva duratura quando dipendono da esigenze di mera opportunità, di cura, di amicizia o utilità economica (si pensi agli studenti o ai colleghi di lavoro che condividono le spese di un appartamento). La condotta costitutiva del reato di maltrattamenti appare indirizzata non genericamente contro una persona con cui si vive, ma contro chi ha una consuetudine di vita in comune con l'agente in una relazione intima che, attraverso condotte maltrattanti, genera un rapporto gerarchico e non paritario.
È proprio il rapporto di intimità, di fiducia e di affidamento, a prescindere dal legame formale, ad esporre alle vessazioni maltrattanti. La questione si pone in quanto la matrice relazionale propria del reato di maltrattamenti è riscontrabile anche nell'art. 612-bis c.p. Inizialmente, la distinzione con il reato di maltrattamenti era chiara perché ruotava intorno al dato, sia formale che fattuale, dell'attualità o meno del vincolo (di coniugio o affettivo): era configurabile l'art. 572 c.p. per le condotte consumate con relazione in atto, mentre era configurabile l'art. 612-bis, comma 2, c.p. per le condotte consumate dopo la cessazione del vincolo o a conclusione della convivenza.
Questo chiaro discrimine è venuto meno con la legge n. 119/2013, che ha esteso l'applicazione dell'aggravante anche agli atti persecutori commessi in costanza di relazione (coniugale, di convivenza o affettiva) determinando una vera e propria sovrapposizione con il delitto di maltrattamenti.
La modifica normativa che ha riguardato l'art. 612-bis, comma 2, c.p. prevede che ogni rapporto, sia che venga formalizzato o meno dal coniugio, sia che risulti cessato o attuale, meriti un aumento sanzionatorio per la grave insidiosità delle condotte e la maggiore pericolosità dell'autore.
Questi, infatti, proprio approfittando del legame sentimentale e dell'intimità (presente o passata) con la persona offesa, oltre che dell'abbassamento delle sue difese, è agevolato nella commissione del delitto essendo a conoscenza delle sue abitudini di vita, dei suoi comportamenti, dei suoi affetti più cari, delle sue conoscenze, dei suoi dati sensibili.
Per relazione affettiva ai sensi dell'art. 612-bis, comma 2, c.p. deve intendersi un legame sentimentale derivante da un rapporto di reciproco affidamento che facilita il delitto, in quanto l'autore sfrutta la fiducia che la vittima ripone in lui e ne approfitta per accedere violentemente o abusivamente nella sua sfera più intima.
La distinzione appare netta quando i fatti illeciti sono commessi dopo la chiusura del vincolo da parte dell'ex coniuge (divorzio), con conseguente applicazione della sola forma aggravata di cui all'art. 612-bis, comma 2, c.p. In questa ipotesi, infatti, sulla base dei criteri sopra indicati non è più in atto la convivenza.
Quando, invece, le condotte sopraffattorie e violente proseguono anche dopo la cessazione della convivenza e sono commesse dal coniuge separato o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, si pone il problema, dal momento che il delitto potrebbe essere punito sia dall'art. 612-bis, comma 2, c.p., sia dall'art. 572 c.p.
Secondo l'interpretazione costante di questa Corte, quando le azioni vessatorie, fisiche o psicologiche, siano commesse ai danni del coniuge separato si configura il solo reato di maltrattamenti, in quanto con il matrimonio o con l'unione civile la persona resta comunque "familiare", presupposto applicativo dell'art. 572 c.p.
Con riguardo, invece, ai casi in cui il fatto sia commesso da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, per distinguere se si configuri il reato di cui all'art. 572 c.p. o del 612-bis, comma 2, c.p. occorre analizzare due elementi: 1) l'esistenza di una effettiva convivenza (572 c.p.) e non solo di una relazione affettiva (612-bis c.p.); 2) l'effettiva interruzione della convivenza (612-bis c.p.).
Questo secondo requisito, cioè l'effettiva interruzione della convivenza, è cruciale in quanto dalla sua esistenza deriva l'applicazione dell'art. 612-bis, comma 2, c.p. e, di converso, l'esclusione del reato di maltrattamenti. Nei casi di cessazione della convivenza è necessario verificare se tra l'autore del reato e la persona offesa non vi sia più quella consuetudine di vita che connotava il precedente rapporto.
La verifica non sempre è agevole proprio per la fluidità e la complessità delle relazioni di coppia, specie quando vi siano figli piccoli e provvedimenti giudiziari, civili o minorili, che impongono una loro gestione comune; oppure per la necessità di un tempo di assestamento ai fini della definizione dei pregressi rapporti affettivi quando siano stati prolungati e la chiusura sia recente.
Tutto questo potrebbe far permanere modalità relazionali e abitudini di vita assai simili a quelle precedenti (mangiare nella stessa casa o passare le feste o le vacanze insieme o imporre all'ex convivente di sbrigare le faccende domestiche nell'appartamento del partner).
In questi casi, dunque, potrebbe proseguire una condizione di convivenza per la quale non basta accertare l'assenza di coabitazione, ma possono soccorrere altri indicatori volti a dimostrare che la convivenza sia cessata, come, ad esempio: la mancata disponibilità da parte dell'autore del reato delle chiavi di casa in cui vive la persona offesa e, dunque, l'impossibilità di accesso incondizionato ed incontrollato ai luoghi in cui questa abita o la non condivisione della responsabilità genitoriale.
Si tratta in sostanza di stabilire se la cessazione della convivenza sia davvero avvenuta o, al contrario, permangano le medesime condizioni controllanti su cui questa si fondava, con tutti i meccanismi, oggettivi e soggettivi, che la connotavano, tanto da rendere meramente astratta la decisione di interromperla.
È, dunque, necessario verificare se la persona offesa abbia effettivi spazi di autonomia, materiale e psicologica, rispetto al maltrattante nel qual caso ricorre la cessazione della convivenza e, dunque, si applica la fattispecie di cui all'art. 612-bis, comma 2, c.p. oppure continui ad esserne totalmente privata, come avveniva nel corso della convivenza, a tal punto da rendere le violenze senza soluzione di continuità, nel qual caso si applica la fattispecie di cui all'art. 572 c.p.
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: “Se la persona offesa ha effettivi spazi di autonomia, materiale e psicologica, rispetto al maltrattante - nel qual caso ricorre la cessazione della convivenza – si applica la fattispecie di cui all’art. 612 bis, comma 2, c.p.; se la persona offesa continua ad essere totalmente privata di spazi di autonomia, come avveniva nel corso della convivenza, a tal punto da rendere le violenze senza soluzione di continuità, si applica la fattispecie di cui all’art. 572 c.p.” (Cass. Pen.; Sez. VI; Sent. n. 9187 del 15.09.2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al risarcimento danni, soprattutto quelli dovuti alle cadute causate da buche presenti su marciapiedi e strade cittadine. Ecco la risposta dell’esperto alla domanda posta da una lettrice di Macerata, che chiede: “In caso di caduta rovinosa a terra con il proprio motorino a seguito delle buche presenti su di una strada comunale con relativi danni fisici: a quali responsabilità va incontro il Comune?"
Il caso di specie ci porta a quanto già consolidato dalla Cassazione a Sezioni Unite, da ultimo, con la sentenza n. 20943 del 2022 che ‘la responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo, e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell'attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l'onere della prova liberatoria del caso fortuito, rappresentato da un fatto naturale o del danneggiato o di un terzo, connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, dal punto di vista oggettivo e della regolarità o adeguatezza causale, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode.
La responsabilità ex art. 2051 c.c. ha natura oggettiva e discende dall'accertamento del rapporto causale fra la cosa in custodia e il danno, salva la possibilità per il custode di fornire la prova liberatoria del caso fortuito, ossia di un elemento esterno che valga ad elidere il nesso causale e che può essere costituito da un fatto naturale e dal fatto di un terzo o della stessa vittima; tale essendo la struttura della responsabilità ex art. 2051 c.c., l'onere probatorio gravante sul danneggiato si sostanzia nella duplice dimostrazione dell'esistenza (ed entità) del danno e della sua derivazione causale dalla cosa, residuando, a carico del custode - come detto - l'onere di dimostrare la ricorrenza del fortuito.
Nell'ottica della previsione dell'art. 2051 c.c., tutto si gioca dunque sul piano di un accertamento di tipo causale (della derivazione del danno dalla cosa e dell'eventuale interruzione di tale nesso per effetto del fortuito), senza che rilevino altri elementi, quali il fatto che la cosa avesse o meno natura "insidiosa" o la circostanza che l'nsidia fosse o meno percepibile ed evitabile da parte del danneggiato (trattandosi di elementi consentanei ad una diversa costruzione della responsabilità, condotta alla luce del paradigma dell'art. 2043 c.c.); al cospetto dell'art. 2051 c.c., la condotta del danneggiato può rilevare unicamente nella misura in cui valga ad integrare il caso fortuito, ossia presenti caratteri tali da sovrapporsi al modo di essere della cosa e da porsi essa stessa all'origine del danno.
Al riguardo, deve pertanto ritenersi che, ove il danno consegua alla interazione fra il modo di essere della cosa in custodia e l'agire umano, non basti a escludere il nesso causale fra la cosa e il danno la condotta colposa del danneggiato, richiedendosi anche che la stessa si connoti per oggettive caratteristiche di imprevedibilità ed imprevenibilità che valgano a determinare una definitiva cesura nella serie causale riconducibile alla cosa.
Giova richiamare, al riguardo, le lucide considerazioni svolte da Cass. n. 25837 del 2017 (già recepite, fra le altre, da Cass. n. 26524 del 2020 e da Cass. n. 4035 del 2021 ), secondo cui la eterogeneità tra i concetti di "negligenza della vittima" e di "imprevedibilità" della sua condotta da parte del custode ha per conseguenza che, una volta accertata una condotta negligente, distratta, imperita, imprudente, della vittima del danno da cose in custodia, ciò non basta di per sé ad escludere la responsabilità del custode.
L'esclusione della responsabilità del custode, pertanto, quando viene eccepita dal custode la colpa della vittima, esige un duplice accertamento: (a) che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; (b) che quella condotta non fosse prevedibile. (...) La condotta della vittima d'un danno da cosa in custodia può dirsi imprevedibile quando sia stata eccezionale, inconsueta, mai avvenuta prima, inattesa da una persona sensata. Stabilire se una certa condotta della vittima d'un danno arrecato da cose affidate alla custodia altrui fosse prevedibile o imprevedibile è un giudizio di fatto, come tale riservato al giudice di merito: ma il giudice di merito non può astenersi dal compierlo, limitandosi a prendere in esame soltanto la natura colposa della condotta della vittima.
Nel caso specifico della caduta dal motorino in corrispondenza di una buca stradale, non può evidentemente sostenersi che la stessa sia imprevedibile (rientrando nel notorio che la sconnessione possa determinare la caduta del passante) e imprevenibile (sussistendo, di norma, la possibilità di rimuovere il dislivello o, almeno, di segnalarlo adeguatamente); deve allora ritenersi che il mero rilievo di una condotta colposa del danneggiato non sia idoneo a interrompere il nesso causale, che è manifestamente insito nel fatto stesso che la caduta sia originata dalla (prevedibile e prevenibile) interazione fra la condizione pericolosa della cosa e l'agire umano.
Pertanto in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: “La caduta dal motorino dovuta ad una buca stradale non può essere catalogata come caso fortuito idoneo a rescindere il nesso causale tra la cosa in custodia al Comune ed il danno subito che dovrà pertanto essere risarcito dall’Ente stesso (Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 4051/2023)".
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le vicende che possono insorgere tra condomini nei rapporti di vicinato. Di seguito la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Porto Potenza Picena, che chiede: "A quale responsabilità può andare incontro colui che pone in essere delle reiterate molestie nei confronti della propria vicina di casa?".
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ai controversi rapporti che possono insorgere tra condomini fino ad arrivare a causare quotidiane molestie in danno altrui. A tal proposito, risulta utile riportare una vicenda recentemente affrontata dalla Suprema Corte, nella quale una donna si ritrova a dover fare i conti con un vicino di casa che è un vero e proprio incubo: la pedina, le fa dispetti, la aggredisce verbalmente, la minaccia.
A certificare la gravità della situazione è anche il fatto che la donna si sia decisa, alla fine, "ad installare una telecamera di sicurezza ed un piccolo cancello sulla rampa delle scale" così da poter evitare il contatto diretto col fastidioso vicino.
A fronte degli elementi probatori raccolti, anche per la Corte di Cassazione la donna è stata vittima del reato di stalking; in particolare, i magistrati sottolineano «la ripetitività e la consistenza dei comportamenti» dell'uomo, comportamenti che «avevano destabilizzato la donna, costretta a ricorrere alle cure di uno specialista per il grave stato di ansia prodottosi» e decisasi, infine, «ad installare una telecamera di sicurezza ed un piccolo cancello sulla rampa delle scale» per provare a ridurre il potenziale pericolo di un contatto con lo sgradevole vicino di casa.
Impossibile, quindi, ridimensionare tali episodi nel reato di molestie poiché le condotte da lui tenute hanno instillato un profondo timore nella vicina di casa, spingendola a «mutare le proprie abitudini di vita» e a «ricorrere a un sistema di videosorveglianza e di difesa della propria casa».
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, “Il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di molestie, consiste nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie, sicché si configura il delitto di stalking di cui all'art. 612-bis c.p. solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l'alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato meno grave di molestie di cui all'art. 660 c.p. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (Sez. 5, n. 15625 del 09/02/2021 Rv. 281029).
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Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’utilizzo incauto da parte del minore dei social, circostanza questa che potrebbe risultare dannosa.
Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Morrovalle che chiede: “Quali sono i doveri e/o responsabilità del genitore del minore che utilizza impropriamente internet?”
Si deve anzitutto dare atto che oggi è sempre più frequente l'utilizzo da parte dei minori di internet e in generale degli strumenti di comunicazione telematica, al fine di acquisire notizie e di esprimere le proprie opinioni, diritti questi tutelati dalla nostra Costituzione oltreché dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Tale diritto trova tuttavia un limite nella tutela della dignità della persona specie se minore di età: i minori sono infatti soggetti deboli e, in quanto tali, necessitano di apposita tutela, non avendo ancora raggiunto un’adeguata maturità ed essendo ancora in corso il processo relativo alla loro formazione.
A questo proposito la Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2006, n. 19069) ha affermato la necessità di tutela del minore nell’ambito del mondo della comunicazione, facendo riferimento in particolare all’art. 16 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989, che sancisce il diritto di ogni minore a non subire interferenze arbitrarie o illegali con riferimento alla vita privata, alla sua corrispondenza o al suo domicilio
È altresì riconosciuto il diritto del minore a non subire lesioni alla sua reputazione e al suo onore; l’art. 3 della medesima Convenzione prevede che in ogni procedimento davanti al giudice che coinvolga un minore, l’interesse superiore di quest’ultimo deve essere senz’altro considerato preminente.
Tale preminenza ha quindi luogo anche nel giudizio di bilanciamento con eventuali e diversi valori costituzionali, quali il diritto all’informazione e la libertà di espressione degli altri individui; inoltre, è bene anche ricordare che l’art. 17 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo attribuisce agli Stati parti il dovere di riconoscere l’importanza della funzione esercitata dai mass-media, in quanto mezzi idonei a garantire una sana crescita e una corretta formazione del minore stesso.
I pericoli ai quali il minore è esposto nell'uso della rete telematica rendono quindi necessaria una tutela degli stessi, indipendentemente poi dalle competenze digitali da loro maturate. E’ bene porre in evidenza che gli obblighi inerenti la responsabilità genitoriale impongono non solo il dovere di impartire al minore una adeguata educazione all’utilizzo dei mezzi di comunicazione ma anche di compiere un’attività vigilanza sul minore per quanto concerne il suddetto utilizzo.
L’educazione si pone, infatti, in funzione strumentale rispetto alla tutela dei minori al fine di prevenire che questi ultimi siano vittime dell'abuso di internet da parte di terzi. L’educazione deve essere, inoltre, finalizzata a evitare che i minori cagionino danni a terzi o a sé stessi mediante gli strumenti di comunicazione telematica.
Sotto tale profilo si deve osservare che l’anomalo utilizzo da parte del minore dei mezzi offerti dalla moderna tecnologia tale da lederne la dignità cagionando un serio pericolo per il sano sviluppo psicofisico dello stesso, può essere sintomatico di una scarsa educazione e vigilanza da parte dei genitori.
Riguardo all’uso della rete telematica l’adempimento del dovere di vigilanza dei genitori è, inoltre, strettamente connesso all'estrema pericolosità di quel sistema e di quella potenziale esondazione incontrollabile dei contenuti; al riguardo la giurisprudenza di merito ha affermato che “il dovere di vigilanza dei genitori deve sostanziarsi in una limitazione sia quantitativa che qualitativa di quell'accesso, al fine di evitare che quel potente mezzo fortemente relazionale e divulgativo possa essere utilizzato in modo non adeguato da parte dei minori e fonte, pertanto, di responsabilità civile dei genitori ai sensi dell’art. 2048 c.c.” (Trib. Teramo,16.01.2012).
Per tali ragioni in risposta alla nostra lettrice è corretto affermare che: “Oltre a possibili responsabilità civili e penali dei genitori, gli stessi sono comunque tenuti ad educare i minori al corretto utilizzo di tali mezzi di comunicazione mediante una limitazione sia quantitativa che qualitativa all’accesso e condivisione di contenuti".
"Pertantov - si aggiunge -, l’anomalo utilizzo degli strumenti telematici potrebbe essere sintomatico di una scarsa vigilanza ed educazione da parte dei genitori, i quali, sono tenuti a garantire un'educazione consona alle proprie condizioni socio-economiche e, ad adempiere un’attività di verifica e controllo sul sano sviluppo psicofisico del minore, tanto da rendersi necessaria un’attività di monitoraggio e supporto da parte di professionisti nei riguardi del minore e dei genitori al fine di verificare le effettive capacità educative e di vigilanza degli stessi” (Tribunale di Caltanissetta, sentenza depositata l’8 ottobre 2019).
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Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante alle possibili responsabilità penali di un atleta nella pratica dello sport e nello specifico nel gioco del calcio. Ecco l’analisi dell’avv. Oberdan Pantana:
"Con grande piacere che mi accingo ad affrontare il seguente argomento sollecitato dalle mail dei lettori e nel farlo utilizzerò dei casi pratici che spesso e volentieri avvengono durante una competizione calcistica.
Ultimissimi minuti del match. Risultato – importantissimo – ancora in bilico. Contropiede fulmineo della squadra ospite. L’attaccante, palla al piede, si dirige verso l’area avversaria, quando irrompe il difensore che, pur volendo colpire la sfera, centra in pieno la gamba sinistra del ‘numero 9’.
Grave infortunio per l’attaccante: frattura della tibia. In primo e in secondo grado, viene confermata la condanna per il difensore locale per il reato di lesioni colpose di cui all’art. 590 c.p.; in Cassazione, invece, viene assolto con formula piena, per l’assenza di tale tipologia di responsabilità.
Smentita la visione tracciata dai giudici del Tribunale prima e da quelli della Corte d’appello poi: decisiva l’applicazione del cosiddetto "rischio consentito", con riferimento ad «eventi lesivi causati nel corso di incontri sportivi».
Nessun dubbio sulla dinamica del rilevante scontro di gioco, verificatosi durante tale partita; evidente, infatti, la condotta scorretta del difensore della squadra di casa, evento, però, frutto di un eccessivo «agonismo» e di un errore nel calcolo della «tempistica dell’intervento di gioco»: egli, infatti, ha mirato «il pallone», ma ha «finito per colpire la gamba dell’attaccante, che, in anticipo, già aveva allungato la sfera in avanti.
Rilevante il contesto: «l’infortunio maturò in un frangente particolarmente intenso», cioè «gli ultimi minuti dell’incontro», e durante «una azione di gioco decisiva» per un match «rilevante per il campionato». Significativo anche il fatto che l’azione del difensore, pur in trance agonistica, «era manifestamente indirizzata a interrompere l’azione di contropiede, mediante il tentativo di impossessarsi regolarmente del pallone», sottraendolo all’attaccante.
Tutto ciò, spiegano correttamente i magistrati della Cassazione, consente di ritenere meritevole di censura il gesto compiuto dal difensore, però solo nell’ambito dell’«ordinamento sportivo». Va esclusa, quindi, la «antigiuridicità» a livello penale del «fallo» compiuto sul campo da calcio.
Evidente la colpa del difensore, sanzionabile, però, solo in ambito sportivo, non certo in quello penale (Cassazione, sentenza n. 9559/2016, Sezione Quarta Penale). Così come: "derby infuocato", il difensore colpisce l’avversario con un pugno con l’azione di gioco distante da tale evento: in tal caso la Suprema Corte ha giustamente confermato la sentenza di condanna dell’imputato/difensore locale, “trattandosi di un’aggressione fisica intenzionale, per ragioni avulse dalla dinamica sportiva”.
Il Collegio di legittimità, ritenendo corretta la valutazione svolta dalla Corte territoriale, afferma che «in tema di competizioni sportive, non è applicabile la “scriminante atipica” del rischio consentito, qualora nel corso di un incontro di calcio, l’imputato colpisca l’avversario con un pugno al di fuori di un’azione ordinaria di gioco, trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva».
Il catalogo piuttosto ristretto delle scriminanti “codificate” non fa espressa menzione dell'esimente sportiva, che appartiene – per dottrina e giurisprudenza ormai ben consolidate – al novero delle esimenti non espressamente contemplate nel codice, ma di fatto esistenti.
Queste ultime sono figlie dell'evoluzione naturale del diritto penale, che, nel suo adeguarsi alla realtà sociale in cui si applica, deve necessariamente calibrare la risposta punitiva alle infinite, lecite, ma talvolta rischiose, forme in cui può esprimersi la condotta umana.
Lo sport è una di esse: chi lo pratica – non importa se professionalmente o per diletto - mette in conto di poter subire anche conseguenze pregiudizievoli per la propria integrità fisica: il rischio che ogni sportivo accetta è, appunto, un rischio consentito. Qual è, a questo punto, il limite che non deve essere oltrepassato per sconfinare nell'illecito penale?
Il consenso che – tacitamente – si esprime prendendo parte ad una competizione sportiva, implica, come già detto, l'accettazione di un rischio, più o meno calcolato. Questo calcolo si basa, evidentemente, anche sull'affidamento che tutti i partecipanti alla competizione conoscano e si conformino alle regole della disciplina sportiva praticata.
Secondo la giurisprudenza, che dimostra di non ignorare la “realtà naturale” dell'agonismo, l'involontario travalicamento delle regole di gioco non è sufficiente per aprire le porte alla responsabilità penale nel caso in cui dovessero verificarsi conseguenze lesive per alcuno degli atleti.
Il discorso cambia del tutto nell'ipotesi in cui l'incontro sportivo diventi un pretesto per dare sfogo a gesti gratuitamente violenti, o che comunque non sono giustificabili con il gesto atletico richiesto dal gioco del calcio. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla natura e agli effetti dell’atto di trasferimento della proprietà posto in essere in sede di separazione dei coniugi.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "La proprietà di un immobile trasferito da un ex coniuge in favore dell’altro può essere soggetto ad aggressione da parte dei creditori del primo?"
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente delicata, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.27409/2019, affermando testualmente quanto segue: “Gli accordi di separazione personale, contenenti attribuzioni patrimoniali relative a beni mobili o immobili, rispondono ad uno specifico spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento della separazione, il quale sfugge alle connotazioni classiche sia dell’atto di donazione sia dell’atto di vendita e svela una sua tipicità propria, la quale poi, di volta in volta, può colorarsi dei tratti dell’obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità. La necessità di accertare la natura onerosa o meno dell’atto rileva ai fini della disciplina di cui all’art. 2901 c.c." (Cass. Civ.; Sez. II; Ord. n. 27409/2019 del 25.10.2019).
Difatti, l’art. 2901 del codice civile citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a termine, può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio coi quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni […]”, disciplina l’istituto dell’azione revocatoria, la quale favorisce il creditore permettendogli di ottenere la dichiarazione di inefficacia, nei suoi confronti, degli atti di disposizione del patrimonio con cui il debitore abbia arrecato pregiudizio alle sue ragioni, ad esempio ponendo in essere un atto di trasferimento di proprietà a titolo gratuito e perciò, diminuendo in modo consistente il proprio patrimonio, a discapito del suddetto creditore.
A tal proposito occorre rilevare, che il problema principale sotteso a tale questione, attiene al profilo solutorio o meno dell'atto traslativo, dal momento che, essendo l'atto di adempimento di un'obbligazione notoriamente sottratto a siffatta azione revocatoria, la qualificazione dei negozi traslativi in esame, come negozi a carattere solutorio, fornirebbe un ostacolo insuperabile avverso le pretese dei creditori in sede di azione individuale ex art. 2901 c.c..
Per tali ragioni la giurisprudenza di legittimità si è dovuta occupare più volte della questione di come qualificare sotto il profilo causale le attribuzioni patrimoniali traslative che accompagnano la sistemazione dei rapporti economici tra ex marito e moglie, affermando al riguardo come non sia possibile una definizione aprioristica circa la natura di tali trasferimenti, dovendosi valutare caso per caso, a che titolo essi vengano disposti.
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice e in linea con l’unanime orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, si può affermare che: "Gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell'uno nei confronti dell'altro e concernenti beni mobili o immobili, non risultano collegati necessariamente alla presenza di uno specifico corrispettivo o di uno specifico riferimento ai tratti propri della donazione (dato il contesto come quello della separazione personale, caratterizzato proprio dalla dissoluzione delle ragioni dell'affettività), tanto più, che per quanto può interessare ai fini di una eventuale loro assoggettabilità all'actio revocatoria di cui all'art. 2901 c.c. rispondono, di norma, ad un più specifico e proprio originario spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell'evento di separazione consensuale, il quale, sfuggendo, in quanto tale, anche dalle connotazioni classiche dell'atto di vendita (attesa oltretutto l'assenza di un prezzo corrisposto), svela, di norma, una sua "tipicità" propria la quale poi, volta a volta, può, ai fini della disciplina di cui all'art. 2901 c.c., colorarsi dei tratti dell'obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità, in ragione dell'eventuale ricorrenza o meno, nel concreto, dei connotati di una sistemazione "solutorio-compensativa" più ampia e complessiva, di tutta quell'ampia serie di possibili rapporti patrimoniali maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale" (Cass. Civ.; Sez.III; Sent. n. 10443 dep. 15.04.2019).
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Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla responsabilità medica; ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “E’ responsabile il medico del Pronto Soccorso che non approfondisce le condizioni del paziente che successivamente muore?”.
Ci è utile riguardo il caso di specie approfondire una recente vicenda nella quale un medico di pronto soccorso è stato condannato di omicidio colposo per avere, con condotte omissive e per colpa, cagionato la morte di un paziente, non essendo stato sottoposto ad ulteriori esami diagnostici che avrebbero potuto rilevare la sua patologia ischemica e sottoporlo a defibrillazione.
A tal proposito la Suprema Corte ha confermato quanto precedentemente provato sia in I° che in II° grado e precisamente che, “ove i necessari esami diagnostici fossero stati eseguiti dal medico nella prospettiva di una diagnosi differenziale, l'episodio infartuale acuto in corso sul paziente sarebbe stato immediatamente accertato, e lo stesso sarebbe stato immediatamente avviato all'unità di terapia intensiva coronarica, ove gli sarebbe stata praticata la defibrillazione e, con elevato grado di probabilità logica, il paziente stesso si sarebbe salvato”.
Riguardo alla natura colposa della condotta causante tenuta dal medico del Pronto Soccorso, la Cassazione osserva che, “vi erano tutte le condizioni che suggerivano, ed anzi imponevano al medico di turno di esperire accertamenti onde pervenire a una diagnosi differenziale, ossia di considerare l'ipotesi tutt'altro che remota che i sintomi presentati dal paziente potessero essere correlati a episodio di cardiopatia ischemica acuta e che si dovesse pertanto procedere ad accertamenti in tale direzione, i quali avrebbero nella specie dato conferma dell'evento”, tenuto infine conto che, “nel caso di specie il dolore ad ambedue le braccia, associato ad episodio emetico, avrebbe imposto un accertamento circa la possibile riferibilità del quadro clinico a patologia ischemica ciò che il dott. omise di fare”.
L’obbligo di garanzia del medico di Pronto Soccorso è definito dalle specifiche competenze che sono proprie di quella branca della medicina d’emergenza (o d’urgenza). Vi rientrano l’esecuzione di alcuni accertamenti clinici, la decisione circa le cure da prestare e l’individuazione delle prestazioni specialistiche eventualmente necessarie, nonché la decisione inerente al ricovero del paziente e alla scelta del reparto reputato più idoneo.
A fronte di una diagnosi differenziale non ancora risolta, il medico deve compiere gli accertamenti diagnostici necessari per accertare quale sia la patologia effettivamente patita e adeguare le cure a queste possibilità. Pertanto, l’esclusione di ulteriori accertamenti può essere giustificata solo dalla raggiunta certezza che una di queste patologie possa essere esclusa.
Fino a quando il dubbio diagnostico non sia stato risolto, invece, il medico non deve accontentarsi del raggiunto convincimento di aver individuato la patologia esistente quando non sia in grado di escludere patologie alternative.
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, “In tema di responsabilità medica, risponde di omicidio colposo il medico di pronto soccorso che ha cagionato la morte di un paziente per non aver disposto indagini diagnostiche atte ad effettuare la diagnosi differenziale e limitandosi a un esame superficiale” (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 1665/2023)
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Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento danni per fatti accorsi durante il viaggio o vacanza.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "Sono responsabili l’agenzia viaggi e il tour operator se dopo aver acquistato un pacchetto vacanza 'tutto compreso' scoppia un caso gastroenterite tra i turisti del villaggio?".
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte, riguardo una vicenda in cui una famiglia aveva acquistato un pacchetto turistico "all inclusive" per il soggiorno in un villaggio turistico, ma dopo due giorni dall'arrivo, prima un figlio, poi l'altro e infine la moglie venivano colpiti da gastroenterite e ricoverati nell'ospedale locale.
Rimane accertato che anche altri 20 ospiti del medesimo villaggio erano stati ricoverati per i medesimi disturbi intestinali, causati da cibi o bevande consumati nel villaggio.
A tal proposito risulta utile precisare che il contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" si distingue dal contratto di intermediazione di viaggio di cui alla Convenzione di Bruxelles del 1970 (resa esecutiva in Italia con l. n. 1084/1977), in quanto spicca la finalità turistica, che ne permea e connota la causa concreta (Cassazione civile sez. III, 02/03/2012, n.3256; Cassazione civile sez. III, 24/04/2008, n.10651).
Il contratto di viaggio tutto compreso (pacchetto turistico o package) è diretto a realizzare l'interesse del turista-consumatore al compimento di un viaggio con finalità turistica o a scopo di piacere, sicché tutte le attività e i servizi strumentali alla realizzazione dello scopo vacanziero sono essenziali e qualificano la causa e il contratto stesso.
Quindi l'organizzatore e il venditore devono operare con la diligenza professionale qualificata dalla specifica attività esercitata, per soddisfare l'interesse creditorio dell'acquirente il pacchetto. Così si evidenzia la differenza dal contratto di organizzazione o di intermediazione di viaggio, in base al quale un operatore turistico professionale si obbliga verso corrispettivo a procurare uno o più servizi di base (trasporto, albergo, etc.) per l'effettuazione di un viaggio o di un soggiorno.
Rispetto a quest'ultimo, le prestazioni e i servizi si profilano come separati e vengono in rilievo diversi tipi di rapporto, prevalendo gli aspetti dell'organizzazione e dell'intermediazione con applicazione in particolare della disciplina del trasporto ovvero - in difetto di diretta assunzione da parte dell'organizzatore dell'obbligo di trasporto del cliente - del mandato senza rappresentanza o dell'appalto di servizi.
Nel contratto di viaggio vacanza tutto compreso, invece, la pluralità di servizi ed accessori connota proprio la finalità turistica del contratto nella loro unitarietà funzionale. Si tratta di un'obbligazione di risultato nell'ambito del rischio di impresa (e nel rischio connaturato nell'avvalersi di terzi) nei confronti dell'acquirente e, pertanto, sussiste la responsabilità solidale (Cass. Civ., Sez. III, Ord. n. 1417/2023).
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di merito e di legittimità si può affermare che: "Il tour operator risponde dell'inadempimento del contratto di vendita di pacchetto turistico - con conseguente obbligo di risarcire i danni al turista a causa di disservizi o carenze nelle prestazioni promesse e poi concretamente fornite -, sia quando l'inadempimento sia imputabile direttamente al proprio operato o al fatto dei propri ausiliari, sia quando ascrivibile a terzi fornitori di servizi inclusi nel pacchetto turistico dei quali il tour operator si è servito per l'esecuzione dell'obbligazione (Trib. Torino, Sez. III, sentenza n. 3882/2022).
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