Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti tra coeredi riguardo ad immobili oggetto di successione ereditaria. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Quando il coerede può usucapire l’immobile oggetto dell’eredità?”
Il caso di specie ci porta ad una vicenda recentemente risolta dalla Suprema Corte nella quale una coerede affermava l’avvenuta usucapione dell’immobile oggetto dell’eredità poiché già in possesso da tempo di tale bene per aver coabitato con l’oramai “de cuius” tanto da usucapire la quota degli altri eredi prima della divisione ereditaria.
La Cassazione nell’applicare il consolidato principio secondo il quale, “il coerede che, dopo la morte del "de cuius", sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso.
A tal fine, però, egli, che già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", risultando a tal fine insufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune” (Cass. Civ. Sez.II, 22.1.2019, n. 1642), rappresentava che la Corte d'appello nel giudizio di 2° grado, pur avendo richiamato la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non ne ha fatto corretta applicazione in quanto ha ritenuto sufficienti le dichiarazioni dei testi che avevano riferito dell'esercizio del possesso di tale coerede uti dominus su tutti i beni ereditari sin dalla morte dei genitori, senza chiarire se il godimento dei beni sia stato esclusivo, non essendo sufficiente che vi sia stata l'astensione degli altri partecipanti all'uso della cosa comune; ed inoltre aggiunge, “ si esclude che la coabitazione con il de cuius e la disponibilità delle chiavi sia indice del possesso esclusivo dell'immobile”(Cassazione civile sez. II, 08/04/2021, n. 9359).
Pertanto, in risposta al nostro lettore si ritiene corretto affermare che, “Il coerede che, dopo la morte del "de cuius", sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, però, egli, che già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", risultando a tal fine insufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune o il fatto di aver coabitato con il de cuius ed aver avuto la disponibilità delle chiavi” (Cass. Civ. Sez. VI, Ordinanza del 03.11.2022 n. 32413). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all’Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti in sede di separazione tra gli ex coniugi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Monte San Giusto che chiede: “A quali responsabilità va incontro l’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie?”
Tale circostanza ci porta subito ad applicare il principio giuridico oramai divenuto consolidato espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 13407/2019, secondo il quale: “Sussiste il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni laddove il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice a fronte della contestazione o dell’ostacolo posto da terzi, come nel caso di un ex marito che, a seguito della mancata voltura delle utenze domestiche dell’abitazione familiare assegnata all’ex moglie, aveva provveduto personalmente a staccare i contatori”.
Difatti, proprio in riferimento ad un caso simile a quello prospettato dalla nostra lettrice, nel quale l’ex marito, dopo aver intimato più volte all’ex moglie di procedere alla voltura delle forniture di energia elettrica e gas dell’abitazione familiare a lei assegnata in sede di separazione, aveva provveduto personalmente al distacco in quanto le spese in questione erano state accollate all’ex moglie in sede di separazione, costringendo la donna e i figli a stare nell’appartamento senza poter usufruire di tali servizi, la Corte di Cassazione ha confermato la configurabilità in capo all’imputato del reato di cui all’art. 393 c.p., in quanto, il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice di fronte alla contestazione o all’ostacolo posto da terzi; a tal proposito, la Suprema Corte aggiunge che, “non è consentito legittimare l’autosoddisfazione per il superamento degli ostacoli che si frappongono al concreto esercizio del diritto”.
Viene, infine, precisato che, “si ritiene legittima la violenza sulle cose solo quando sia esercitata al fine di difendere il diritto di possesso in presenza di un atto di turbativa nel godimento della res, sempre che l’azione reattiva avvenga nell’immediatezza di quella lesiva del diritto, non si tratti di compossesso e sia impossibile il ricorso immediato al giudice, sussistendo la necessità impellente di ripristinare il possesso perduto o il pacifico esercizio del diritto di godimento del bene”.
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice si ritiene corretto affermare che, “Nel caso dell’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie, lo stesso commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto e punito ai sensi dell’art. 393 c.p., in quanto tale diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso all’Autorità Giudiziaria”(Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 13407/19; depositata il 27 marzo). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le controversie in materia di diritti reali e nello specifico quelle poste in essere dai coniugi in comunione legale.
Ecco la risposta del legale Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “Quali sono i diritti del coniuge non proprietario del suolo in cui è stata costruita l’abitazione in presenza di comunione legale?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una fattispecie molto dibattuta nelle aule dei Tribunali in occasione delle separazioni dei coniugi o cessazioni degli effetti civili del matrimonio.
Nello specifico, ai sensi dell’art. 934 c.c. il proprietario del suolo acquista, a titolo originario, qualunque piantagione, costruzione od opera insistente sopra o sotto il medesimo suolo. Si tratta, ad onor del vero, di una forma di espansione automatica del diritto di proprietà. Questo automatismo nell’acquisto avviene, è bene ribadirlo, a titolo originario e non derivativo, e può essere escluso soltanto se il titolo o la legge prevedono diversamente.
Suddetto principio è valevole ancorché la costruzione sia stata realizzata in costanza di matrimonio e nella vigenza del regime patrimoniale della comunione legale. L’acquisto della proprietà per accessione, infatti, avviene a titolo originario senza la necessità di apposita manifestazione di volontà. Ciò significa che il principio in forza del quale il proprietario del suolo acquista ipso iure al momento dell'incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata non è derogato dalla disciplina della comunione legale tra coniugi.
Mentre, l’art. 177 c.c. sancisce che costituiscono oggetto della comunione legali gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali; i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione; i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati e le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.
Nel dettaglio, la disposizione de qua prevede al n.1, la contitolarità al 50% dei beni provenienti dagli acquisti compiuti dai coniugi anche separatamente, in costanza di matrimonio quali acquisti aventi carattere derivativo. Occorre ora comprendere come si coniugano il principio di accessione ex art. 934 c.c. e il regime della comunione legale ex art. 177, comma 1, c.c.
È principio acquisito e costante nella giurisprudenza che, «quando per effetto del principio enunciato dall'art. 934 c.c. il coniuge proprietario esclusivo del suolo acquisti la proprietà dell'immobile realizzato su di esso in regime di comunione legale, la tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non sul piano del diritto reale, nel senso che in mancanza di un titolo o di una norma non può vantare alcun diritto di comproprietà, anche superficiaria, sulla costruzione, ma sul piano obbligatorio, nel senso che a costui compete un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione» (ex multis Cass. n. 28258/19).
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: “La tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non sul piano reale bensì su quello meramente obbligatorio, rimanendo a carico della ricorrente l’onere di fornire la prova della provenienza del denaro o dei beni utilizzati per la costruzione del fabbricato sul suolo di proprietà esclusiva dell’altro coniuge.
È quindi onere del coniuge non proprietario del suolo dimostrare che le somme di denaro e i materiali utilizzati per la realizzazione del fabbricato siano di sua provenienza o provengano dalla comunione legale, non potendosi in alcun modo presumere tale provenienza (Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 4794/20).Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avv. Oberdan Pantana,“Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al rapporto tra moglie e marito e nello specifico le cause che possono portare all’addebito della separazione dei coniugi.
Di seguito la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Se mia moglie non cucina posso chiedere la separazione con addebito?”
Il caso di specie ci rimanda ad una vicenda recentemente definita giudizialmente, nella quale il coniuge si è lamentato dinanzi al giudice, spiegando che «la moglie ha mostrato negli anni un contegno di disinteresse e di indifferenza per il partner, contegno teso a violare gli obblighi coniugali della collaborazione e della contribuzione nell’interesse della famiglia» nonché a far mancare «l’assistenza materiale e morale»; in particolare, l’uomo parla di «comportamenti manifestati nel rifiuto» della moglie «di predisporre piatti caldi, piuttosto che lavare gli indumenti personali», e aggiunge, in sostanza, di avere spesso «provveduto a fare la spesa» e di essersi spesso recato «a consumare la colazione a casa della madre», la quale poi provvedeva «a lavargli gli abiti da lavoro».
A tal proposito risulta utile ricordare che, «a seguito del matrimonio i coniugi assumono gli stessi diritti e gli stessi doveri, sono tenuti all’obbligo reciproco di fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia ed alla coabitazione»; insomma, moglie e marito «sono posti su un piano del tutto paritario», e di conseguenza, «non è previsto che su un coniuge siano addossati tutti i compiti di cura della casa e della prole, poiché entrambi i coniugi sono tenuti a svolgere le stesse mansioni, e ciò anche nell’ipotesi in cui uno solo di essi lavori, poiché non sarebbe ammissibile una situazione di sottomissione dell’altro partner a svolgere lavori di mera cura dell’ordine domestico, al quale sono peraltro tenuti anche i figli, nell’ottica di una educazione responsabile».
Alla luce di tali considerazioni, ed in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che, “Moglie e marito pari sono. Anche nella suddivisione dei compiti per portare avanti materialmente ogni giorno la famiglia, come, ad esempio, cucinare, fare la spesa e lavare i panni. Ciò comporta che l’uomo non può addebitare la crisi della coppia alla consorte che non si comporta da casalinga provetta e in servizio permanente” (Tribunale di Foggia, sentenza n. 1092/21, Sez. I Civile, depositata il 05.05.2021). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente tematiche scolastiche quali le possibili bocciature ingiuste. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Recanati che chiede: “È possibile chiedere un risarcimento danni in caso di bocciatura illegittima?”
Utile a tal proposito la recente sentenza del Tar Liguria con la quale è stata risolta una vicenda giudiziaria nella quale una studentessa è “stata costretta a ripetere il terzo anno della scuola media superiore, ritardando il percorso scolastico e accademico, nonché, conseguentemente, l'accesso al mercato del lavoro nello specifico come architetto”.
Dettagliata anche la pretesa economica avanzata nei confronti della scuola e del Ministero: «il danno morale per il turbamento emotivo interiore sofferto» e «il danno patrimoniale per il mancato guadagno per un anno di prestazioni professionali come architetto o la perdita della chance di ottenere quel reddito». Per i giudici del TAR Liguria è palese «l'illegittimità degli atti adottati dall'istituto scolastico», anche perché sono stati, non a caso, «annullati gli atti concernenti la bocciatura comminata nel 2011 alla studentessa».
Nello specifico, «gli atti dell'amministrazione scolastica – vale a dire il verbale di scrutinio finale nel giugno del 2011 e il provvedimento di sospensione del giudizio di ammissione nelle materie di matematica e fisica, i verbali di verifica finale delle prove di matematica e fisica svolte alla fine di agosto del 2011, il verbale di integrazione dello scrutinio finale, sempre alla fine di agosto del 2011, e il provvedimento di non ammissione al quarto anno del corso di studio – sono stati giudicati affetti da plurime illegittimità: il consiglio di classe non aveva valutato la preparazione complessiva dell'allieva, né nello scrutinio di giugno, né in sede di esami di riparazione ad agosto, mentre l'apprezzamento del rendimento generale sarebbe stato necessario sia alla luce dei buoni voti da lei conseguiti nelle altre materie (per le quali aveva riportato una media di 7,4/10), sia per via del conclamato conflitto insorto tra l'allieva (ed altre compagne) e la professoressa di matematica, sia in ragione del fatto che i metodi didattici dell'insegnante erano stati oggetto di dubbi e contestazioni; i voti negativi in matematica e fisica attribuiti alla studentessa nello scrutinio di giugno non erano presenti sul registro dell'insegnante.
La professoressa aveva utilizzato per la ragazza un metro valutativo molto più rigoroso rispetto a quello applicato ai suoi compagni, come provato da apposita perizia di parte in cui la consulente aveva evidenziato che, per compiti in classe svolti in modo pressoché identico a quelli di altri alunni, alla allieva erano stati assegnati voti più bassi, con palese disparità di trattamento; due esercizi della prova di recupero di fisica presupponevano la conoscenza di elementi di trigonometria, argomento estraneo al programma trattato durante l'anno scolastico».
Conseguente, quindi, la colpa dell'amministrazione scolastica per aver emanato gli atti relativi alla bocciatura della studentessa, poiché, osservano i giudici, «le illegittimità riscontrate appaiono infatti rimproverabili e non scusabili, sia per la loro numerosità, sia per la sussistenza (anche) del vizio di disparità di trattamento, particolarmente stigmatizzabile per il suo carattere odioso, tanto più in quanto inficiante l'attività valutativa condotta nell'ambito del sistema pubblico di istruzione e nei confronti di una ragazza minorenne». Tutto ciò ha leso l'interesse della studentessa ad essere ammessa alla classe quarta.
Peraltro, «se l'azione amministrativa non fosse stata inficiata da molteplici vizi, la studentessa avrebbe potuto ottenere l'agognata promozione», osservano i giudici. Invece, «in conseguenza della bocciatura, ella ha dovuto rifrequentare la classe terza, rallentando il suo percorso di istruzione ed il suo ingresso nel mondo del lavoro»: difatti tutto ciò ha differito di un anno gli studi universitari e l'inizio dell'attività professionale», studi che le hanno consentito di ottenere la laurea magistrale in Architettura con il voto di 110/110 e lode, poi il superamento dell'esame di abilitazione per diventare architetto, con la possibilità di esercitare la professione e di ottenere i primi guadagni nell'agosto del 2021.
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che:“Alla professionista bocciata ingiustamente in terza superiore deve essere riconosciuto dall’istituto scolastico e dal Ministero dell’Istruzione il risarcimento sia per il danno morale subito da tale illegittimo evento sia quello per il diminuito utile causato dal ritardo di un anno nella chiusura del percorso di studi” (Tar Liguria, sentenza del 05.10.2022, n. 834). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente i comportamenti tenuti durante l’orario lavorativo e precisamente quello dai cosiddetti “furbetti del cartellino”.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata, che chiede: “A quali conseguenze può andare incontro, il dipendente pubblico che durante l’orario di lavoro, timbra il proprio badge e si allontana dalla postazione lavorativa, senza alcun giustificato motivo?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo a un diffuso malcostume relativo ai comportamenti tenuti, durante l’orario lavorativo, dai “furbetti del cartellino”.
Occorre specificare che con tale espressione si fa riferimento a coloro che, specialmente nell’ambito del pubblico impiego, provvedono a timbrare il proprio cartellino o a farlo timbrare da colleghi compiacenti, risultando in tal modo regolarmente in servizio, salvo poi assentarsi inspiegabilmente dal luogo di lavoro, per i motivi più disparati.
Come recentemente riportato anche dai principali organi di informazione, in merito a lavoratori che, dopo aver timbrato il proprio badge, si erano recati durante l’orario di lavoro a fare la spesa o addirittura in montagna.
Quindi, tale illegittima condotta posta in essere ai danni della Pubblica Amministrazione, risulta perfettamente idonea a configurare il reato di truffa aggravata, così come previsto dall’articolo 640 del codice penale.
L'articolo punisce espressamente chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, prevedendo in particolare al comma successivo, un aumento di pena, nel caso in cui la condotta fraudolenta venga compiuta ai danni dello Stato o di un altro ente pubblico.
A tal proposito, la Suprema Corte con una recentissima pronuncia, ha riconosciuto la responsabilità penale di colui che in maniera fraudolenta attesta la propria presenza sul luogo di lavoro, stabilendo quanto segue: “La falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata qualora il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino, i periodi di assenza, sempre che questi siano economicamente apprezzabili per la P.A.” (Cassazione Penale, Sez. II, sentenza n. 3262/19; depositata il 23gennaio 2019).
Ebbene, la falsa attestazione sul luogo di lavoro, oltre ad integrare la fattispecie penalmente rilevante della truffa aggravata, comporta anche un rilevante danno di natura economica all’erario e all’Ente truffato, considerato che il lavoratore fornisce in tal modo una prestazione lavorativa nettamente inferiore rispetto a quella effettivamente dovuta contrattualmente.
Conseguentemente, il comportamento del dipendente pubblico che è diretto a raggirare il sistema di rilevamento delle presenza, va ad incidere sulla organizzazione della Pubblica Amministrazione, andando a modificare arbitrariamente i prestabiliti orari di presenza in ufficio; tutto ciò, risulta certamente idoneo a ledere il rapporto fiduciario che si instaura tra il singolo dipendente e l’Ente stesso.
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: “È legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente non presente in ufficio, pur a fronte della timbratura del proprio badge, effettuata da un collega. Infatti, la falsa attestazione, mediante timbratura del badge identificativo ad opera di un terzo, implica la violazione di fondamentali doveri scaturenti dal vincolo della subordinazione, venendo intaccato gravemente ed irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro” (Cassazione Civile Sez. Lavoro, 28/05/2018, n. 13269).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana,“Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra ex coniugi con esplicito riferimento all’addebito della relativa separazione.
Di seguito la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda di un lettore di Tolentino che chiede: “L’anteriorità dell’assenza dei rapporti tra i coniugi rispetto al successivo tradimento può dimostrare ai fini dell’addebito la precedente crisi coniugale?”
A tal proposito risulta utile riportare una vicenda giuridica del Tribunale di Milano nella quale pronunciava la separazione di una coppia, accogliendo la domanda di addebito avanzata dalla moglie per la violazione del dovere di fedeltà da parte del marito. La decisione è stata confermata anche in appello. Il marito ha dunque proposto ricorso in Cassazione dolendosi, per quanto qui d'interesse, per l'addebito della separazione in quanto riteneva non provato il nesso causale tra violazione dei doveri coniugali e intollerabilità della prosecuzione della convivenza. La Corte accoglie il ricorso.
Ricordando che grava sulla parte che richiede l'addebito l'onere di provare sia la violazione dei doveri coniugali da parte del coniuge, sia l'efficacia causale di tale comportamento sull'intollerabilità della convivenza, la S.C. specifica che in caso di inosservanza dell'obbligo di fedeltà tale onere della prova si fa ancora più rigoroso, ferma restando la possibilità per l'altro coniuge di provare l'anteriorità della crisi matrimoniale rispetto al tradimento (v. Cass. 3923/2018; Cass. 2059/2012).
Nella vicenda in esame, la moglie però non ha fornito alcuna prova sul fatto che la relazione extraconiugale risalisse ad un'epoca precedente, anzi l'unica dimostrazione ottenuta a mezzo di relazione investigativa si riferisce ad un episodio addirittura successivo rispetto alla dichiarazione del marito di volersi separare.
Sulla base di tali risultanze, la Corte territoriale avrebbe dovuto dedurre che «al di là della apparente vita comune che la coppia svolgeva, la crisi era molto più risalente, e non certo dovuta alla relazione extraconiugale del marito, che ne è stata una conseguenza. Tanto più che l'assenza di rapporti sessuali tra coniugi da tempo, non era stata contestata dalla moglie».
Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “In tema di separazione dei coniugi grava sulla parte che richiede l’addebito l’onere di provare sia la violazione dei doveri coniugali da parte dell’altro coniuge sia l’efficacia causale di tale comportamento sull’intollerabilità della convivenza.
In caso di inosservanza dell’obbligo di fedeltà il coniuge fedifrago può sottrarsi dall’addebito della separazione dimostrando che la crisi patrimoniale era antecedente e che il tradimento è stata conseguenza; anche l’assenza dei rapporti sessuali tra i coniugi può dimostrare l’anteriorità della crisi matrimoniale rispetto al tradimento del marito” (Cass. Civ., Sez. I, Ordinanza n. 27771/22). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti sentimentali che spesso e volentieri vanno a terminare. Di seguito la domanda di una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "A quale responsabilità può andare incontro l’ex compagno che invia messaggi telefonici per riprendere una relazione sentimentale che sa di essere definitivamente terminata?"
A tal proposito è utile ricordare che con il reato di molestia o disturbo alle persone il legislatore ha inteso tutelare la tranquillità pubblica per l’incidenza che il suo turbamento ha sull’ordine pubblico, data l’astratta possibilità di reazione. L’interesse privato individuale riceve una protezione soltanto riflessa e la tutela penale è accordata anche senza e pur contro la volontà delle persone molestate o disturbate, dal momento che ciò che viene in rilievo è la tutela della tranquillità pubblica per i potenziali riflessi sullordine pubblico di quei comportamenti idonei a suscitare nel destinatario reazioni violente o moti di ribellione.
L’elemento materiale della molestia è costituito dall’interferenza non accettata che altera fastidiosamente o in modo inopportuno, immediato o mediato, lo stato psichico di una persona (Sez. 1, n. 19718 del 24/03/2005) e l’atto per essere molesto deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma deve essere anche ispirato da biasimevole, ossia riprovevole motivo o rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire nella sfera privata di altri attraverso una condotta fastidiosamente insistente e invadente (Sez. 1, Sentenza n. 6064 del 06/12/2017). Inoltre si rileva come il reato di molestia non ha natura necessariamente abituale e richiede necessariamente una reiterazione di comportamenti intrusivi e sgraditi nella vita altrui, sicché può essere realizzato anche con una sola azione purché particolarmente sintomatica dei motivi specifici che l’hanno ispirata.
L’elemento soggettivo del reato invece consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non biasimevole o addirittura per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto (Sez. 1, n. 50381 del 07/06/2018). Con riferimento all'intento della condotta costituito da biasimevole motivo, è sufficiente anche il compimento di un unico gesto, come nel caso di una sola telefonata effettuata con modalità rivelatrici dell’intrusione nella sfera privata del destinatario (Sez. 1, n. 3758 del 07/11/2013).
Quanto alla possibilità che il reato sia integrato mediante l’invio di sms e messaggi WhatsApp, secondo quanto condivisibilmente affermato di recente dalla Suprema Corte, ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola "è il carattere invasivo della comunicazione non vocale, rappresentato dalla percezione immediata da parte del destinatario dell’avvertimento acustico che indica l’arrivo del messaggio, ma anche - va soggiunto - dalla percezione immediata e diretta del suo contenuto o di parte di esso, attraverso l’anteprimadi testo che compare sulla schermata di blocco", realizzandosi in tal modo in concreto una diretta e immediata intrusione del mittente nella sfera delle attività del ricevente (Sez. 1, n. 37974 del 18/03/2021).
Si è altresì ritenuto che il carattere invasivo della messaggistica telematica non può essere escluso per il fatto che il destinatario di messaggi non desiderati, inviati da un determinato utente (sgradito), possa evitarne agevolmente la ricezione, senza compromettere in alcun modo la propria libertà di comunicazione, semplicemente escludendo o bloccando il contatto indesiderato (in tal senso, Sez. 1, n. 24670 del 07/06/2012); in realtà, tenuto conto che il reato di cui all’art. 660 c.p. mira a tutelare, non già la libertà di comunicazione del destinatario dell’atto molesto, ma a prevenire il turbamento della tranquillità pubblica, e considerato altresì che anche le telefonate sgradite, persino su apparato fisso, possono attualmente essere "bloccate" attraverso la apposita funzionalità, ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola, "è l’invasività in sé del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario, non la possibilità per quest’ultimo di interrompere l’azione perturbatrice, già subita e avvertita come tale, ovvero di prevenirne la reiterazione, escludendo il contatto o l’utenza sgradita senza nocumento della propria libertà di comunicazione" (Sez. 1, n. 37974 del 18/03/2021).
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che: "Integra il reato di molestie la condotta dell’uomo che non riesce ad accettare la rottura della relazione con la compagna e prova a convincerla a riprendere il rapporto inviandole ripetuti messaggi telefonici nonostante poi la stessa lo abbia bloccato" (Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 34821/22).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra condomini che spesso e volentieri vanno a deteriorarsi per comportatemi incivili di alcuni nei confronti di altri. Il caso di specie scelto è di un lettore di Macerata che chiede: “A quale responsabilità può andare incontro il condomino che per dispetto ed inciviltà butta le cicche delle sigarette ed altra spazzatura sul terrazzo sottostante?
A tal proposito risulta utile portare un caso giuridico terminato in Cassazione, nel quale un condomino era stato vittima di dispetti del proprio vicino con il balcone sopra al proprio tanto da far diventare il piano inferiore come “immondezzaio” con lanci di cicche di sigarette, carta ed altri oggetti.
I giudici della Suprema Corte, con sentenza n.16459/2013, hanno ritenuto inammissibile il ricorso proposto dal condomino incivile, il quale si era visto condannare in secondo grado per i reati di cui agli artt. 81 cpv e 674 cod. pen., avendo arrecato molestia al condomino del piano inferiore.
Difatti, la condotta del ricorrente è stata qualificata non soltanto "incivile", ma considerata una fattispecie integrante il reato di "getto pericoloso di cose", ex art. 674 c.p., secondo cui è punito "chiunque getta o versa in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte ad offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissione di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti".
Si ricorda che quello in analisi è un tipico reato contravvenzionale, punibile indifferentemente a titolo di dolo o colpa; pertanto, ne risponde chiunque abbia agito volontariamente ovvero per semplice negligenza o leggerezza.
I giudici della Cassazione precisano che sì «la contravvenzione di “getto pericoloso di cose” non è configurabile quando l’offesa, l’imbrattamento o la molestia abbiano ad oggetto esclusivamente cose e non persone» ma «ai fini della configurabilità del reato di “getto pericoloso di cose” non si richiede che la condotta contestata abbia cagionato un effettivo nocumento, essendo sufficiente che essa sia idonea ad offendere, imbrattare o molestare le persone», e in questa vicenda è certo che «il getto ha interessato il balcone», cioè «un luogo abitualmente frequentato dalle persone che abitavano l’appartamento».
Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: "Integra il reato di getto pericoloso di cosa chiunque getta o versa nel balcone sottostante cicche di sigarette, carta o altro oggetto atto ad offendere o imbrattare o molestare persone”(Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 9474/18). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legaal Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa agli anziani e alla loro cura. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Fiuminata che chiede: “Un anziano assistito da una badante può intestare alla stessa la propria abitazione?”
Spesso gli anziani sono curati dalle badanti, anche per lungo tempo, cosicché si instaura un rapporto di fiducia ed affetto per cui il soggetto assistito desidera intestare alla badante, in segno di riconoscenza, la propria abitazione.
Passando all'esame del caso di specie, è accaduto in una recente vicenda giudiziaria che gli eredi di una anziana donna, hanno impugnato il contratto stipulato dalla cara estinta con la badante e con il quale, conservando l'usufrutto dell'immobile di proprietà, ha ceduto la nuda proprietà alla persona che si occupava della sua cura, con l'obbligo da parte di quest'ultima di continuare ad assisterla fino alla morte.
Contratto che il Tribunale ha definito "atto di trasferimento a titolo oneroso, qualificabile come un contratto di mantenimento vitalizio oneroso", stipulato dall'anziana donna bisognosa di cure, nel totale disinteresse dei parenti che hanno agito in giudizio, al fine di cristallizzare un rapporto che andava avanti da tempo e che si caratterizzava "da una parte il suo bisogno di cura della persona e di ogni altra esigenza quotidiana di vita materiale e anche di natura morale, dall'altra la disponibilità della badante a prendersi cura di ogni bisogno della anziana signora, dedizione di durata già quindicennale e promessa anche per il futuro fino a vita natural durante, ivi compresa quella di farle personalmente compagnia”.
Difatti, la normativa vigente prevede il contratto di vitalizio assistenziale, detto anche rendita vitalizia, per il quale è possibile cedere la nuda proprietà dell'immobile ad un estraneo, con riserva del diritto di usufrutto per il proprietario, in cambio di assistenza morale e materiale sino alla morte; in sostanza, a fronte della cessione della nuda proprietà si ha la controprestazione di assistenza materiale e morale.
Affinchè tale tipologia contrattuale sia valida devono, però, ricorrere due condizioni: che l'anziano sia capace di intendere e di volere al momento del rogito, e che l'anziano non si trovi in condizioni di salute troppo precarie o, addirittura, in fase terminale.
Dal punto di vista pratico per effetto del contratto di vitalizio, in pratica la badante si obbliga a fornire prestazioni di assistenza morale e materiale all'anziano, vita natural durante, in cambio del trasferimento dell'immobile al momento della morte; qualora la badante risulti inadempiente rispetto alle esigenze di salute dell'anziano non prestando assistenza, perderà la nuda proprietà e sarà chiamata, eventualmente, al risarcimento del danno.
Cosicché i parenti dell'anziano possono senza dubbio impugnare il contratto di vitalizio, ma solo a certe condizioni, ossia se gli stessi sono in grado di dimostrare: che l'anziano, al momento della stipula del contratto era incapace di intendere e di volere, non è indispensabile essere stati dichiarati interdetti o inabilitati, e che al momento della stipula del contratto, l'anziano risultava gravemente malato e quasi prossimo al decesso.
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice ed in linea con la più autorevole giurisprudenza, si può affermare che, “Il contratto di vitalizio si caratterizza per essere atto di trasferimento a titolo oneroso, qualificabile come un contratto di mantenimento, pienamente legittimo se risponde ad interessi meritevoli di tutela.
Esso si caratterizza per l'alea rappresentata dalla durata della vita del vitaliziato e dalla conseguente non prevedibilità delle obbligazioni assunte dall'obbligato alla cura” (Tribunale di Benevento, sentenza del 02.02.2022), tenuto conto che, “Il contratto vitalizio assistenziale è nullo per mancanza di alea ove, al momento della sua conclusione, il beneficiario sia affetto da malattia che, per natura e gravità, renda estremamente probabile un esito letale e ne provochi la morte dopo breve tempo o abbia un'età talmente avanzata da non poter certamente sopravvivere oltre un arco di tempo determinabile” (Cass. Civ., sentenza n. 25624 del 2017). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al contratto di comodato d’uso gratuito avente ad oggetto un immobile e concluso a beneficio di un familiare. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Porto Recanati che chiede: “Il proprietario di un immobile concesso in comodato d’uso gratuito per esigenze familiari al proprio figlio, può richiedere il possesso del bene in caso di separazione della coppia beneficiaria?”
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, stabilendo il seguente principio di diritto: “Il comodato di un immobile che sia pattuito per la destinazione di esso a soddisfare le esigenze abitative familiari, non è assoggettabile al recesso “ad nutum” da parte del comodante, dal momento che il rapporto creato secondo lo schema contrattuale di cui all’art. 1809 cod. civ., sorge per un uso determinato ed ha una durata funzionalmente legata alla permanenza della famiglia, pur se in crisi” (Corte di Cassazione; Sez. Un.; Sent. n. 20448 dep. il 29.09.2014).
Difatti, l’art. 1809 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevedendo espressamente che, “Il comodatario è obbligato a restituire la cosa alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se n’è servito in conformità del contratto”, sancisce un nesso inscindibile tra la finalità per la quale il comodato viene perfezionato e la durata dello stesso, impedendo dunque al proprietario concedente, di rientrare con semplice richiesta, nel possesso del bene oggetto di tale contatto, fino a che permanga l’esigenza che si intende soddisfare.
A tal proposito, occorre osservare che, in un’altra recente sentenza, la n. 21785/2019, la stessa Suprema Corte si è pronunciata in ordine al legittimo recesso della proprietaria di un appartamento concesso in comodato d’uso gratuito al figlio e alla rispettiva ex moglie, la quale anche dopo il divorzio da quest’ultimo, aveva continuato ad utilizzare l’immobile ad oggetto, esclusivamente per la notte, pur avendo costituito un nuovo nucleo familiare con un altro uomo ed acquistato una nuova casa, rilevando come in tale circostanza, “Le caratteristiche concrete del rapporto quali dedotte in giudizio, fanno protendere per la cessazione della finalità del comodato, in ragione del venir meno della reale destinazione dell’appartamento.
Essendo lo stesso appartamento rimasto occupato soltanto di notte e a meri fini strumentali, per evitare cioè una pronuncia di restituzione alla legittima proprietaria. Da tali motivi ne deriva che le esigenze connesse all’uso familiare dell’immobile concesso in comodato d’uso gratuito siano certamente venute meno”, così legittimando il recesso della proprietaria comodante (Cass. Civ.; Sez. III; Sent. n. 21785/2019; dep. 29.08.2019).
Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: “Quando un terzo abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di separazione o divorzio dei beneficiari, non modifica la natura e il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto a patto che permangano le effettive esigenze abitative di ciascun soggetto” (Cass. Civ.; SS.UU.; Sent. n. 13603/2004). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente l’ultimo evento temporalesco accorso nella nostra provincia e nello specifico riguardo alla tematica sulla responsabilità degli enti locali per i danni causati dalla caduta di alberi o rami in occasione di temporali.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “E’ possibile ottenere il risarcimento dei danni riportati dalla propria autovettura a seguito della caduta di un albero causata da un forte temporale?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente sensibile, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi il Tribunale di Cagliari, con una pronuncia che ha posto le basi all’unanime orientamento della Corte di Cassazione, secondo il quale: “È configurabile la responsabilità del Comune a norma dell’art. 2051 c.c. per il danno cagionato al privato da un bene demaniale, atteso che questo si trova nella custodia della amministrazione medesima e quindi rientra nel suo potere di amministrazione e custodia”, ed ancora: “ La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, può essere esclusa solo se si provi il caso fortuito, consistente in un evento imprevedibile ed eccezionale. Non può quindi ritenersi caso fortuito interruttivo del nesso di causalità, un temporale, seppur caratterizzato da forti raffiche di vento e caduta di grandine” (Trib. Cagliari; Sent. del 06.12.1995).
Difatti il richiamato art. 2051 del codice civile, prevedendo espressamente che: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”, disciplina l’istituto della responsabilità della cosa in custodia, la quale assume carattere oggettivo, dal momento che prescinde dall’effettivo coinvolgimento del custode della cosa nell’evento lesivo provocato da quest’ultima, introducendo, nel caso che ci occupa, la questione della diretta riconducibilità del danneggiamento riportato dal veicolo, agli enti amministrativi, quali Comune, Provincia, Regione, tenuti alla sicurezza e alla manutenzione delle strade, urbane nel primo caso, extraurbane negli altri due, nonché delle relative pertinenze, come marciapiedi e alberi, riconducibilità superabile solo con la prova dell’accadimento di un caso fortuito, inteso quale elemento estraneo alla sfera soggettiva del custode, del tutto autonomo, imprevedibile nonché di assoluta eccezionalità, tale da interrompere il nesso di causalità e risultare idoneo a rappresentare l’esclusiva causa del danno.
A tal proposito, con riferimento ai danni cagionati da precipitazioni atmosferiche, la Suprema Corte più volte chiamata a pronunciarsi su tale questione, è stata chiara nell’escludere l’ipotesi di caso fortuito o della forza maggiore in presenza di fenomeni metereologici anche di particolare forza e intensità, se questi rientrano comunque, per quanto rari e sporadici, nella normale prevedibilità, arrivando inoltre a stabilire con una recentissima sentenza che: “In tema di responsabilità ex art. 2051 c.c., la riconducibilità degli eventi atmosferici alla nozione di 'caso fortuito' è condizionata alla presenza dei requisiti dell'eccezionalità e dell'imprevedibilità, i quali non possono ritenersi provati neanche per il fatto che sia stato dichiarato lo stato di emergenza sulla base di valutazioni operate dalla protezione civile, poiché la 'calamità naturale', che determina lo stato d'emergenza, non costituisce di per sé un evento eccezionale e imprevedibile, pur potendo essere determinata anche da eventi di tal natura, le cui caratteristiche devono essere accertate sulla base di elementi di prova concreti e specifici” (Cass. Civ.; Sez. III; Sent. n. 14861; dep. 31.05.2019).
Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare la legittimità della richiesta di risarcimento avanzata nei confronti dell’Ente per i danni causati dai beni sui quali quest’ultimo svolge la propria attività custodiale, di gestione e manutenzione. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla responsabilità medica; ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “È responsabile il medico specialista ospedaliero il cui paziente a seguito di una colonscopia muore?”
Ci è utile riguardo il caso di specie approfondire una recente vicenda nella quale un medico specialista ha eseguito un esame di colonscopia per finalità diagnostiche, stante la manifestazione di dolore continuo lamentato dalla donna all'emiaddome destro. Il medico nell'eseguire l'esame ha provocato la morte della paziente in conseguenza di una lacerazione della parete colica.
Il medico è stato quindi ritenuto responsabile del reato di omicidio colposo per colpa generica dovuta a negligenza, imprudenza e imperizia e colpa specifica in quanto lo stesso ha eseguito l'esame, che nel caso di specie appariva sproporzionato tenuto conto anche delle avanzata della paziente, senza rispettare le linee guida, omettendo di eseguire un preliminare approfondimento diagnostico con tecniche meno invasive ed in assenza di adeguata preparazione intestinale.
Anche per la Cassazione, a cui il medico ha ricorso per contestare la condanna, non sono in discussione le cause della morte della paziente in quanto entrambi i giudici di merito hanno ritenuto che l'imputato non ha valutato le linee guida in materia, in quanto le stesse prevedono che la colonscopia è un esame invasivo a rischio di perforazione nelle donne in età avanzata.
Prima di eseguire un esame del genere lo specialista deve quindi procedere a un corretto inquadramento anamnestico e clinico e a una corretta valutazione della indicazione dell'esame prescritto dal medico generico o da altro specialista, ciò perché, secondo la concorde valutazione dei giudici di merito, non si può ritenere che lo specialista endoscopista sia il "mero esecutore" di indagini richieste da altri, non fosse altro perché tale valutazione è necessariamente richiesta al fine di procedere ad un'informazione adeguata necessaria al fine di "raccogliere una valida disposizione di volontà del paziente".
Pertanto, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che, “In tema di colpa professionale medica, qualora ricorra l'ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, allorquando venga prescritto un esame diagnostico invasivo (nel caso esaminato una colonscopia), il medico specialista chiamato ad effettuare l'esame non può esimersi dal valutare, oltre che la presenza di fattori che possano condizionare negativamente l'esame stesso (assunzione di farmaci, parametri vitali, esito esami ematochimici), anche la bontà della scelta diagnostica operata dal medico richiedente in relazione alla sintomatologia lamentata dal paziente ed all'esistenza o meno di precedenti indagini diagnostiche che avvalorino il sospetto della malattia ipotizzata".
"Questo soprattutto allorquando l'esame in questione sia stato prescritto da un medico non specialista (nel caso in esame il medico di medicina generale che seguiva la paziente)".(Cass. Pen., sentenza n. 30051/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai prodotti alimentari, soprattutto quelli proposti dai ristoratori.
Il caso di specie scelto è di una lettrice di Civitanova Marche che è capitato di mangiare durante una cena dei prodotti surgelati dati per freschi e pertanto non indicati nel menù consegnato al tavolo, e che chiede: “A quali responsabilità va incontro il ristoratore di uno chalet che fa passare per fresco del pesce invece surgelato?”.
Tale circostanza ci porta subito ad applicare il principio giuridico oramai divenuto consolidato espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 4735/2018 secondo il quale:“Il menù, sistemato sui tavoli di un ristorante o consegnato ai clienti, equivale ad una proposta contrattuale nei confronti degli avventori e manifesta l’intenzione del ristoratore di offrire i prodotti indicati nella lista. Da ciò consegue che la mera disponibilità di alimenti surgelati nel ristorante, non indicati nel menù, configura il reato di frode in commercio”.
Difatti, la Cassazione ha ribadito che la frode prevista dall’art. 515 c.p. si configura quando «l’alienante compie atti idonei diretti in modo non equivoco a consegnare all’acquirente una cosa per un’altra ovvero una cosa, per origine, qualità o quantità diversa da quella pattuita o dichiarata».
Inoltre, osserva la Suprema Corte, costituisce il delitto di frode in commercio anche il non indicare nella lista delle pietanze che determinati prodotti sono congelati, “giacché il ristoratore ha l’obbligo di dichiarare la qualità della merce offerta ai consumatori indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore”.
Infine, la Corte ha precisato che “In relazione alle modalità di rappresentazione dell’offerta dei prodotti è corretto ritenere che anche l’esposizione di immagini del prodotto offerto, in luogo della sua descrizione nel menù, sia idonea a configurare la condotta di reato, state proprio la natura delle immagini, volta ad incentivare la consumazione del prodotto” (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 4735/18; depositata il 1° febbraio 2018).
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che “La disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menù o negli espositori nei quali gli stessi siano esposti a disposizione della clientela, integra il reato di tentativo di frode in commercio da parte del titolare” (Cass. Pen. Sez. III, sentenza n. 10375/20). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana,“Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento danni derivanti dallo smarrimento del proprio bagaglio in occasione della partenza per le vacanze estive. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Matelica che chiede: “Si può chiedere il risarcimento danni alla compagnia aerea per il furto di oggetti contenuti nel proprio bagaglio depositato in stiva durante il viaggio?”
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla qua-le ha avuto modo di pronunciarsi il Giudice di Pace di Pistoia, il quale ha approfondito e disciplinato in modo del tutto innovativo, una nuova fattispecie in materia di tutela del passeggero e di danno da vacanza, stabilendo testualmente quanto segue: “Nei casi di smarrimento di bagagli, è da ritenersi pacifico che il danno e la relativa responsabilità siano da attribuire esclusivamente al vettore ai sensi della Convezione di Montreal, del codice del consumatore e dell’art. 1681 c.c., non potendo essere invocata una colpa in capo alla impresa di handling gerente il traffico di bagagli presso lo scalo aeroportuale, in virtù del contratto sottoscritto col cliente” (Giudice di Pace di Pistoia, Sent. n. 902/2013).
Difatti l’art. 1681 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevedendo testualmente al comma 1° che: “Salva la responsabilità per il ritardo e per l'inadempimento nell'esecuzione del trasporto, il vettore risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio e della perdita o dell'avaria delle cose che il viaggiatore porta con sé, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”, stabilisce, pertanto, una presunzione di colpevolezza a carico del vettore per il sinistro che colpisca il passeggero durante il viaggio, circostanza questa che opera sul presupposto che sussista un nesso di causalità tra l’evento dannoso occorso al viaggiatore e l’esecuzione del trasporto.
A tal proposito, occorre rilevare che al fine di ampliare la tutela del consumatore/viaggiatore, il legislatore ha previsto un onere probatorio aggravato in capo al vettore, e dunque, alla compagnia aerea, alla quale sia mosso un addebito circa la propria responsabilità; difatti la stessa dovrà dimostrare di aver adottato tutte le opportune precauzioni e di aver posto in essere l’esatto adempimento della propria prestazione, oltre alla sopravvenienza per caso fortuito o forza maggiore, di un evento imprevedibile ed improvviso, dal quale sia derivato il fatto lesivo ai danni del viaggiatore, il quale al contrario, dovrà semplicemente dimostrare la sussistenza di un contratto di trasporto col vettore, nonché l’evidente nesso causale col furto subito.
In aggiunta, è opportuno osservare come la sentenza citata, abbia apportato un contributo innovativo a tale disciplina, estendendo la responsabilità del vettore, non solo allo smarrimento dell’intero bagaglio, ma anche al furto degli oggetti in esso contenuti, escludendo tassativamente ogni responsabilità in capo alla ditta di smistamento dei bagagli selezionata dalla stessa compagnia aerea, la quale, in virtù della relazione contrattuale sussistente con lo sfortunato turista e perfezionato al momento dell’acquisto del biglietto, resterà in ogni caso, l’unica obbligata a provvedere al trasporto, alla custodia e a tutte le attività funzionali.
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice e in linea con la più autorevole giurisprudenza di merito e di legittimità in tema di risarcimento danni da furto di bagaglio, si può affermare che: “Con l’acquisto del biglietto aereo, il viaggiatore acquirente conclude un contratto che vincola la compagnia aerea all’esatto adempimento della propria prestazione, la quale comprende il trasporto e la custodia dei bagagli, con presunzione di colpa in capo a quest’ultima, per il sinistro che colpisca il passeggero durante il viaggio, operando sul presupposto di un nesso di causalità tra l’evento e l’esecuzione del trasporto, nonché legittimando le pretese risarcitorie per i danni patrimoniali e non patrimoniali da quest’ultimo sofferti” (Cass. Civ. sez. III, Sent. n. 12143/2016). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema della tutela degli animali e nello specifico il caso in cui gli amici a quattro zampe vengano abbandonati dai propri padroni, orrenda circostanza questa spesso posta in essere proprio in questo periodo in quanto a ridosso delle ferie estive. Il caso in parola ci offre la possibilità di esaminare giuridicamente tale deplorevole condotta penalmente rilevante.
Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “Il proprietario di un cane abbandona l’animale ai bordi di una strada proprio prima di partire per le proprie ferie estive senza essere visto da alcuna persona che potrebbe denunciare immediatamente tale fatto alla Polizia Giudiziaria. L’animale viene poi salvato da un passante che denuncia tale ritrovamento all’Autorità Pubblica: quali le responsabilità in capo al proprietario dell’animale?”.
Il caso di specie ci porta ad analizzare il reato di “Abbandono di Animali”, previsto e disciplinato dall’art. 727 del codice penale, secondo il quale: “Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l'arresto fino ad un anno o con l'ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze”.
A tal proposito, il concetto di abbandono va ricondotto alla trascuratezza o al disinteresse verso l’animale e non invece all’incrudelimento nei suoi confronti o all’inflizione di sofferenze gratuite, atteggiamenti questi rientranti, di fatto, nel reato di “Maltrattamento di animali” previsto e punito dall’art. 544- ter del codice penale.
L’abbandono, in ogni caso, non va individuato nella sola precisa volontà di abbandonare l’animale, ma nell’intento più generale di non prendersene più cura nella consapevolezza dell’incapacità dell’animale di provvedere autonomamente a se stesso. Pertanto, nel caso che ci occupa, risulta evidente l’applicazione dell’art. 727 c.p. nei confronti del proprietario del cane abbandonato, il quale, pur non essendo stato visto da alcuna persona, non ha tenuto conto della presenza del microchip addosso all’animale; per tali ragioni, sarà poi agevole per il Servizio Veterinario, poter risalire al proprietario del cane abbandonato per poi denunciarlo all’Autorità Giudiziaria per il reato di abbandono di animali.
Difatti, la stessa Corte di Cassazione specifica che la nozione di abbandono di animali è da intendersi non solo come precisa volontà di abbandonare definitivamente l'animale ma anche come il non prendersene più cura, "ben consapevoli dell'incapacità dell'animale di non poter più provvedere a sé stesso come quando era affidato alle cure del proprio padrone".
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, "Il concetto di abbandono, come delineato dall'art. 727 c.p., implica semplicemente quella trascuratezza o disinteresse che rappresentano una delle variabili possibili in aggiunta a chi addirittura abbandona il proprio cane ai bordi di una strada circostanza questa che va a palesare ancor più la commissione del reato di abbandono di animali (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 18892/11).
Nel consigliare a tutti di denunciare prontamente tali spregevoli comportamenti penalmente rilevanti, come sempre rimango in attesa delle vostre richieste via mail dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato. Questa settimana, le numerose mail arrivate, hanno interessato principalmente una tematica tipica della stagione estiva e relativa alla responsabilità da vacanza rovinata. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Porto Recanati che chiede: “A cosa va incontro chi mette un annuncio online per l’affitto estivo di una casa vacanza che poi si rivela inesistente?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale si è pronunciato recentemente il Tribunale di Avellino, con sentenza n. 1064/2018, nei confronti di un uomo che aveva raggirato una giovane coppia, fingendo di essere proprietario di una bellissima casa sul mare, posta in affitto per il periodo estivo su alcuni siti online, per poi sparire dopo aver ricevuto una consistente caparra, e condannandolo per il delitto di truffa cosiddetta contrattuale ex art. 640 c.p..
Difatti, il Giudice chiamato a pronunciarsi sulla questione, in attenta valutazione delle circostanze del caso di specie, aveva statuito che: “La condotta tenuta dall’imputato, ed in tali termini acclarata, lungi dall'esaurirsi in un mero inadempimento civilistico, finisce senz'altro con l'integrare il reato di truffa, ricorrente ogniqualvolta l'agente abbia posto in essere artifici e raggiri al momento della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo, indotto pertanto a prestare un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato”.
A tal proposito, occorre osservare che, in aggiunta al danno economico sofferto dalla coppia, nell’irrogare l’adeguata sanzione penale, il Giudice di merito, in senso conforme alla più consolidata giurisprudenza di legittimità, operava un’attenta valutazione anche dell’entità danno non patrimoniale patito dalle parti offese, e relativo alla vacanza rovinata, intesa come pregiudizio al benessere psichico e materiale sofferto dai malcapitati per non aver potuto godere della vacanza quale occasione di piacere, svago e riposo; difatti, come pure sancito dalla Suprema Corte:
"Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata, secondo quanto espressamente previsto in attuazione della Direttiva n. 90/314/CEE, costituisce uno dei "casi previsti dalla legge" nei quali, il pregiudizio non patrimoniale è risarcibile ai sensi dell'art. 2059 c.c., e si concreta in una tipologia di danno costituito da disagio e sofferenze per il presumibile stravolgimento delle aspettative con riguardo alla qualità e serenità della vacanza”(Cassazione civile; Sez. III, Sent. n. 17724 del 06/07/2018).
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice e in linea con la più autorevole giurisprudenza sia di merito, sia di legittimità, si può affermare che:“Il soggetto che pone in essere una condotta fraudolenta con artifici e raggiri consistiti nel proporre in affitto un appartamento per le vacanze ed inducendo in errore le vittime sulla reale esistenza dello stesso, nonché procurandosi un ingiusto profitto, va condannato per il delitto di truffa ex art. 640 c.p., oltre al risarcimento di tutti i danni derivati dalla stessa condotta acclarata, la cui liquidazione non può prescindere dal danno emergente corrispondente all'importo inutilmente corrisposto in anticipo, oltreché al danno da vacanza rovinata subito dalle parti offese” (Tribunale sez. I , - Avellino, 04/06/2018, n. 1064 ). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’indebita percezione del Reddito di Cittadinanza. Ecco la risposta dell legale Pantana alla domanda posta da un lettore di Mogliano che chiede: “A cosa va incontro chi percepisce il Reddito di Cittadinanza e lavora in nero?”
Il decreto legge n. 4/2019 che ha istituito il Reddito di Cittadinanza, illustra puntualmente tutti i requisiti per beneficiarne, alla cui base ovviamente è richiesta la veridicità delle attestazioni e dichiarazioni da parte dei futuri fruitori, in particolare riguardo alla cittadinanza, residenza e soggiorno, reddito e patrimonio. Proprio allo scopo di dissuadere chiunque dal rendere false attestazioni o dall'omettere indispensabili informazioni, l'art. 7 del D.L. prescrive specifiche sanzioni anche di natura penale e istituisce nuove fattispecie incriminatrici dal trattamento sanzionatorio particolarmente severo.
Difatti, salvo che il fatto costituisca più grave reato, viene punito con la reclusione da 2 a 6 anni chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio economico, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute. Si rischia, invece, la reclusione da 1 a 3 anni in caso di omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio.
L'immediata revoca del beneficio, con efficacia retroattiva, viene disposta dall'Inps nei confronti di colui che venga condannato in via definitiva per le condotte appena riportate, nonché per il delitto previsto dall'art. 640 c.p. (Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche), oppure "patteggi" per gli stessi reati; in tal caso il beneficio non potrà essere nuovamente richiesto prima che siano decorsi 10 anni dalla condanna.
La revoca immediata, sempre con efficacia retroattiva, viene altresì disposta dalla stessa amministrazione erogante qualora quest'ultima accerti la non corrispondenza al vero delle dichiarazioni e delle informazioni poste a fondamento dell'istanza, ovvero l'omessa successiva comunicazione di qualsiasi intervenuta variazione del reddito, del patrimonio e della composizione del nucleo familiare dell'istante.
A seguito della revoca, il beneficiario sarà tenuto alla restituzione di quanto indebitamente percepito. In tutta una serie di ipotesi, invece, è prevista la decadenza dal Reddito di Cittadinanza: a titolo esemplificativo, questa scatta quando uno dei componenti il nucleo familiare, che è tenuto a farlo, non effettui la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro, oppure non sottoscriva il Patto per il lavoro o il Patto per l'inclusione sociale. La decadenza dal beneficio è inoltre disposta qualora il nucleo familiare abbia percepito tale beneficio economico in misura maggiore rispetto a quanto gli sarebbe spettato, per effetto di una dichiarazione mendace in sede di DSU o di altra dichiarazione nell'ambito della procedura di richiesta del beneficio.
L'irrogazione delle sanzioni diverse da quelle penali e il recupero delle somme indebitamente percepite sono effettuati dall'INPS; i Comuni, invece, saranno responsabili delle verifiche e dei controlli anagrafici attraverso l'incrocio delle informazioni dichiarate ai fini ISEE con quelle disponibili presso gli uffici anagrafici e quelle raccolte dai servizi sociali e ogni altra informazione utile per individuare omissioni nelle dichiarazioni o dichiarazioni mendaci al fine del riconoscimento del Reddito di Cittadinanza.
Per tali ragioni in risposta al nostro lettore è corretto affermare che: “Viola l'art. 7, comma 2 della legge n. 26/2019 con conferma alla condanna alla reclusione di anni 1 e mesi 1 chi percepisce il reddito di cittadinanza e lavora in nero anche se la retribuzione per tale attività è avvenuta tramite regalie occasionali non comunicate all'Inps” (Cass. Pen., sentenza n. 25306/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’utilizzo incauto da parte del minore dei social, circostanza questa che potrebbe risultare dannosa. Ecco la risposta del legale Pantana alla domanda posta da una lettrice di Montecosaro che chiede: “Quali sono i doveri e/o responsabilità del genitore del minore che utilizza impropriamente internet?”
Si deve anzitutto dare atto che oggi è sempre più frequente l'utilizzo da parte dei minori di internet e in generale degli strumenti di comunicazione telematica, al fine di acquisire notizie e di esprimere le proprie opinioni, diritti questi tutelati dalla nostra Costituzione oltreché dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; tale diritto trova tuttavia un limite nella tutela della dignità della persona specie se minore di età: i minori sono infatti soggetti deboli e, in quanto tali, necessitano di apposita tutela, non avendo ancora raggiunto un’adeguata maturità ed essendo ancora in corso il processo relativo alla loro formazione.
A questo proposito la Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2006, n. 19069) ha affermato la necessità di tutela del minore nell’ambito del mondo della comunicazione, facendo riferimento in particolare all’art. 16 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989, che sancisce il diritto di ogni minore a non subire interferenze arbitrarie o illegali con riferimento alla vita privata, alla sua corrispondenza o al suo domicilio; è altresì riconosciuto il diritto del minore a non subire lesioni alla sua reputazione e al suo onore; l’art. 3 della medesima Convenzione prevede che in ogni procedimento davanti al giudice che coinvolga un minore, l’interesse superiore di quest’ultimo deve essere senz’altro considerato preminente.
Tale preminenza ha quindi luogo anche nel giudizio di bilanciamento con eventuali e diversi valori costituzionali, quali il diritto all’informazione e la libertà di espressione degli altri individui; inoltre, è bene anche ricordare che l’art. 17 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo attribuisce agli Stati parti il dovere di riconoscere l’importanza della funzione esercitata dai mass-media, in quanto mezzi idonei a garantire una sana crescita e una corretta formazione del minore stesso; i pericoli ai quali il minore è esposto nell'uso della rete telematica rendono quindi necessaria una tutela degli stessi, indipendentemente poi dalle competenze digitali da loro maturate.
È bene porre in evidenza che gli obblighi inerenti la responsabilità genitoriale impongono non solo il dovere di impartire al minore una adeguata educazione all’utilizzo dei mezzi di comunicazione ma anche di compiere un’attività vigilanza sul minore per quanto concerne il suddetto utilizzo; l’educazione si pone, infatti, in funzione strumentale rispetto alla tutela dei minori al fine di prevenire che questi ultimi siano vittime dell'abuso di internet da parte di terzi.
L’educazione deve essere, inoltre, finalizzata a evitare che i minori cagionino danni a terzi o a sé stessi mediante gli strumenti di comunicazione telematica; sotto tale profilo si deve osservare che l’anomalo utilizzo da parte del minore dei mezzi offerti dalla moderna tecnologia tale da lederne la dignità cagionando un serio pericolo per il sano sviluppo psicofisico dello stesso, può essere sintomatico di una scarsa educazione e vigilanza da parte dei genitori.
Riguardo all’uso della rete telematica l’adempimento del dovere di vigilanza dei genitori è, inoltre, strettamente connesso all'estrema pericolosità di quel sistema e di quella potenziale esondazione incontrollabile dei contenuti; al riguardo la giurisprudenza di merito ha affermato che “il dovere di vigilanza dei genitori deve sostanziarsi in una limitazione sia quantitativa che qualitativa di quell'accesso, al fine di evitare che quel potente mezzo fortemente relazionale e divulgativo possa essere utilizzato in modo non adeguato da parte dei minori e fonte, pertanto, di responsabilità civile dei genitori ai sensi dell’art. 2048 c.c.” (Trib. Teramo,16.01.2012).
Per tali ragioni in risposta alla nostra lettrice è corretto affermare che: “Oltre a possibili responsabilità civili e penali dei genitori, gli stessi sono comunque tenuti ad educare i minori al corretto utilizzo di tali mezzi di comunicazione mediante una limitazione sia quantitativa che qualitativa all’accesso e condivisione di contenuti.
Pertanto, l’anomalo utilizzo degli strumenti telematici potrebbe essere sintomatico di una scarsa vigilanza ed educazione da parte dei genitori, i quali, sono tenuti a garantire un’educazione consona alle proprie condizioni socio-economiche e, ad adempiere un’attività di verifica e controllo sul sano sviluppo psicofisico del minore, tanto da rendersi necessaria un’attività di monitoraggio e supporto da parte di professionisti nei riguardi del minore e dei genitori al fine di verificare le effettive capacità educative e di vigilanza degli stessi” (Tribunale di Caltanissetta, sentenza depositata l’8 ottobre 2019). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti tra i coniugi oltre all’istituto della donazione. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Porto Recanati che chiede: “È possibile revocare una donazione della moglie al marito che la tradisce?
A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda risolta poi in Cassazione la quale è stata chiamata a pronunciarsi sulla revoca di più donazioni indirette mobiliari ed immobiliari effettuate dalla moglie nei confronti del marito che nel frattempo la tradiva con la propria cognata (la moglie del fratello di lei) mettendo in crisi non solo la coppia ma le intere famiglie coinvolte ed infine anche l’azienda di famiglia della donna tradita nella quale però lavorava tutti i protagonisti della vicenda adulterina.
Nei primi due gradi di giudizio veniva confermata la revoca di tali donazioni fatte in quanto dall’istruttoria erano emersi comportamenti posti in essere dal donatario direttamente nei confronti della donante, che confermavano l’evidenza di un sentimento di disistima ed irrispettosità del marito nei confronti della moglie. Tenuto conto del principio oramai consolidato giurisprudenziale secondo il quale, « l'ingiuria grave richiesta dall'art. 801 c.c. quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale la sua natura di offesa all'onore ed al decoro della persona, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, dovrebbero invece improntarne l'atteggiamento, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatario» (Cass. civ., n. 20722/2018).
Di fatti tali comportamenti erano qualificabili, ai fini previsti dall'art. 801 c.c., come una grave ingiuria, trattandosi, in effetti, di "una pluralità di comportamenti strettamente connessi e rivolti verso la persona della domante e tale non poter essere tollerati secondo un sentire ed una valutazione di normalità". In effetti, l'ingiuria grave richiesta dall'art. 801 c.c. quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatario (Cass. n. 22013 del 2016).
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: “La donazione va incontro alla revocabilità in presenza di una ingiuria grave del marito donatario consistente in un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e nell’irrispettosità della dignità della moglie donante se il marito tradisce la consorte addirittura con la cognata con relativa messa in crisi non solo della coppia ma anche delle famiglie coinvolte oltre all'azienda di famiglia” (Cass. Civ., Sez. III, Ordinanza del 20.06.2022, n. 19816). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.