Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema dei rapporti di coppia e le loro evoluzioni.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Corridonia che chiede: "Costringere la propria compagna a non interrompere la relazione può comportare delle responsabilità penali?"
A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda risolta poi in Cassazione dopo che i giudici di merito hanno ritenuto palese l'inaccettabile condotta aggressiva tenuta da un uomo nei confronti della compagna, condotta mirata a «non farsi lasciare dalla donna».
Per i giudici di primo e di secondo grado infatti è logico catalogare i comportamenti dell'uomo come vera e propria violenza privata nei confronti della donna. Dalla Cassazione ribadiscono richiamando il principio secondo cui «l'elemento oggettivo del reato di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare, od omettere una determinata cosa».
Ciò significa anche che «la condotta violenta o minacciosa deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore», ossia, come detto, «la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa».
Per quanto concerne la vicenda, i Giudici della Cassazione condividono in pieno le valutazioni compiute in appello: in sostanza, è evidente «il comportamento intimidatorio» dell'uomo che ha tenuto una condotta concretizzatasi nella «minaccia, anche di morte, rivolta alla compagna se quest'ultima avesse interrotto la loro relazione».
Per l’appunto, è logico catalogare come «violenza privata» il modus agendi dell'uomo, diretto «ad imporre un comportamento determinato alla compagna», ossia la prosecuzione della relazione e della convivenza.
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: "È violenza privata non accettare la decisione della compagna di interrompere il loro legame e pretendere attraverso una condotta aggressiva che il partner porti avanti per forza la relazione e non vada via di casa" (Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 20346/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra ex coniugi con esplicito riferimento all’attribuzione per colpa della separazione.
Il caso di specie scelto è di un lettore di Civitanova Marche che chiede: “A quali responsabilità può andare incontro l’investigatore privato assunto dalla moglie per provare il tradimento del proprio marito nel successivo giudizio di separazione con addebito di colpa?”.
A tal proposito risulta utile riportare il caso giuridico nel quale a finire sotto processo per diffamazione è il titolare dell’agenzia investigativa per aver consegnato alla cliente una nota investigativa redatta su carta intestata con cui veniva attribuita al marito una relazione sentimentale con una collega, relazione risalente a due anni e mezzo prima quando il matrimonio era ancora solido e i coniugi erano lontanissimi dall’idea della separazione.
Quel documento è stato poi utilizzato dalla donna, che ha commissionato l’attività investigativa nel procedimento di separazione personale con addebito proprio per tale “presunto” tradimento nel quale però veniva riscontrata l’assenza di effettivi elementi di riscontro in merito all’affermazione di tradimento contenuta nella stessa nota dell’investigatore.
La vicenda arrivata in Appello il cui Giudicante dichiarava che, la mail dell’investigatore privato inviata alla propria cliente con cui si comunicava che “da indagini espletate emerge che il proprio marito ha una relazione sentimentale da due anni e mezzo circa con una sua collega”, tanto da attribuire esplicitamente una relazione clandestina, iniziata quando era ancora pienamente operante il dovere di fedeltà nascente dal matrimonio, ha un’oggettiva idoneità lesiva della reputazione del coniuge traditore, a fronte della clamorosa assenza di elementi di riscontro in merito all’affermazione contenuta in tale nota.
Tirando le somme, “è munita di oggettiva idoneità lesiva della reputazione ed è obiettivamente pregiudizievole della reputazione della persona offesa l’attribuzione non veritiera di una relazione clandestina, in costanza di matrimonio, ad uno dei coniugi, atteso che integra lesione della reputazione altrui non solo l’attribuzione di un fatto illecito, perché posto in essere contro il divieto imposto da norme giuridiche, assistite o meno da sanzione o da patti riconosciuti vincolanti dal diritto civile, ma anche la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio".
E ancora. "Di conseguenza, descrivere la persona, oggetto di comunicazione con altri, capace di tradire la fiducia del coniuge, allacciando una relazione sentimentale con un’altra donna, si ritiene costituisca condotta idonea ad esporla al pubblico biasimo e, conseguentemente, a ledere la sua reputazione”, chiosa il Giudicante.
Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “E’ diffamazione l’attribuzione non confermata da dati certi di una relazione clandestina in costanza di matrimonio da parte dell’investigatore privato il quale non poteva ignorare che la cliente avrebbe fatto di quella notizia uso a proprio vantaggio, mettendone a parte terze persone, in quanto consapevole dello stato di coniuge separando della stessa e che quindi le avesse fornito la notizia della relazione extraconiugale del marito, con l’intento di farle conseguire un vantaggio nel giudizio di separazione" (Tribunale di Roma, 31 ottobre 2018). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti condominiali in presenza di mancati pagamenti.
Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Porto Recanati che chiede: “Il condomino in regola con i pagamenti può opporsi al precetto per la preventiva escussione dei condomini morosi?”.
Tale circostanza ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo ad una fattispecie molto dibattuta nelle aule di Tribunale, ed a tal proposito, la Suprema Corte recentemente ha avuto modo di pronunciarsi in una vicenda i cui protagonisti sono stati due condomini in regola con i pagamenti contro gli atti di precetto notificati da un creditore del condominio in forza di una sentenza divenuta esecutiva: i due condomini contestavano la propria regolare posizione con i pagamenti pro rata dovuti, invocando dunque la preventiva escussione dei condomini morosi, mentre il creditore soccombente ha proposto ricorso in Cassazione.
Il Collegio sottolinea come la sentenza impugnata abbia fatto corretta applicazione dell'art. 63 disp. att. c.c., come modificato dalla legge n. 220/2012. Il comma 1 dispone infatti che l'amministratore «è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi», mentre il comma 2 stabilisce che «[i] creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini». In capo ai condomini che abbiano regolarmente pagato la propria quota viene dunque a crearsi un'obbligazione sussidiaria ed eventuale, favorita dal “beneficium excussionis” avente ad oggetto non l'intera prestazione imputabile al condominio, quanto unicamente le somme dovute dai morosi.
La pronuncia afferma infatti il principio secondo cui «il condomino in regola coi pagamenti, al quale sia intimato precetto da un creditore sulla base di un titolo esecutivo giudiziale formatosi nei confronti del condominio, può proporre opposizione a norma dell'art. 615 c.p.c. per far valere il beneficio di preventiva escussione dei condomini morosi che condiziona l'obbligo sussidiario di garanzia di cui all'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., ciò attenendo ad una condizione dell'azione esecutiva nei confronti del condomino non moroso, e, quindi, al diritto del creditore di agire esecutivamente ai danni di quest'ultimo».
Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità e in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: “Il creditore del condominio avente un titolo esecutivo deve chiedere il pagamento prima ai condomini morosi e solo successivamente potrà rivolgersi ai condomini che risultano già in regola con i propri pagamenti pro rata” (Cass. Civ., Sez. II, Ordinanza del 17.02.2023, n. 5043). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti di vicinato, e, soprattutto, i disturbi che potrebbero sorgere.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Il titolare di un pub potrebbe andare incontro ad una responsabilità penale a causa degli schiamazzi notturni dei propri clienti?”.
Tale circostanza ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo ad una fattispecie molto dibattuta nei rapporti di vicinato soprattutto nei centri storici delle città, e a tal proposito, la Suprema Corte recentemente ha avuto modo di pronunciarsi in una vicenda i cui protagonisti sono stati il titolare di un pub imputato del reato di cui all’art. 659 c.p. (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle parsone) ed alcuni vicini quali parti civili costituite.
La Corte di Cassazione ha subito evidenziato come, nel caso di esercizi commerciali aperti al pubblico, debba essere riconosciuto in capo al titolare l'esistenza di una «posizione di garanzia», cui è correlato l'obbligo giuridico di impedire gli schiamazzi o comunque i rumori prodotti in maniera eccessiva dalla propria clientela (Cass., n. 22142 del 08/05/2017).
Tale obbligo, che si sostanzia nel doveroso esercizio di un potere di controllo, è configurabile rispetto alle condotte poste in essere da parte dei clienti sia che si trovino all'interno del locale, sia per gli schiamazzi e i rumori dagli stessi prodotti all'esterno del locale: la veste di titolare della gestione dell'esercizio pubblico, infatti, comporta l'assunzione dell'obbligo giuridico di controllare, con possibile ricorso ai vari mezzi offerti dall'ordinamento, come l'attuazione dello "ius excludendi" e il ricorso all'Autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica.
Infine, i Giudici precisano che la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, «sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo a essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluni se ne possano lamentare» (Cass., n. 2258 del 17/11/2020).
In altre parole, non è necessario che tutti i residenti sulla via limitrofa al locale percepiscano il rumore come superante la soglia di normale tollerabilità, essendo sufficiente che solo alcuni di essi ne abbiano subito turbamento nelle occupazioni e nel riposo e che altri potrebbero subirne altrettanto.
Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità e in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: “Integra il delitto di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, di cui all'art. 659 c.p., la condotta del gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati dagli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne, essendogli imposto l'obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso all'Autorità od allo "ius excludendi" che la frequentazione del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme di tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica”(Cass. Pen., sentenza n. 24397/2022).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti amorosi a volte troppo turbolenti. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Porto Recanati che chiede:“In un rapporto tra fidanzati reciprocamente turbolento posso sussistere delle responsabilità penali?"
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione purtroppo sempre più attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, riguardo ad una vicenda connotata da rapporti conflittuali tra l'uomo e la donna e frutto della interruzione non proprio definitiva del loro rapporto sentimentale.
In particolare, i giudici sottolineano che «dopo una apparente rottura della relazione, i due hanno continuato ad avere frequentazioni, anche intime» e aggiungono che «i comportamenti offensivi, di varia intensità, contestati all'uomo sono frutto di forme reattive per gli speculari atteggiamenti ingiuriosi e latamente aggressivi della donna. Per completare il quadro, poi, i giudici rilevano che «i due avevano frequenti litigi che sfociavano in pesanti offese reciproche con conseguenti periodi di allontanamento, che erano posi seguiti da riconciliazioni».
In sostanza,«tra l'uomo e la donna vi erano rapporti sentimentali burrascosi, segnati da reciproche aggressioni e offese, maturate da sentimenti di gelosia nutriti da entrambi», e, quindi, logicamente si può concludere che «le molestie mediante offese verbali furono poste in essere reciprocamente», e perciò «è impossibile individuare in uno dei due protagonisti di questa turbolenta relazione la responsabilità per l'iniziale comportamento aggressivo». In questo quadro, poi, gli ulteriori comportamenti dell'uomo, ossia «gli appostamenti sotto la casa della donna» o «gli inseguimenti» ai danni della donna, non incidono sulla correttezza dell'inquadramento dei fatti all'interno di «una reciprocità di atteggiamenti aggressivi e molesti» nell'ambito della coppia.
Pertanto, tenuto conto del principio secondo cui «non è configurabile il reato di molestia o di disturbo alle persone allorché vi sia reciprocità o ritorsione delle molestie», in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che, “I continui “alti e bassi” della coppia, con litigi, offese reciproche e repentine riconciliazioni sono sufficienti ad escludere la responsabilità penale per molestie (Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 43871/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al provvedimento adottato dal Governo circa la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime e la sua legittimità. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana ai numerosi titolari delle concessioni (leggi qui la loro opinione).
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi il Consiglio di Stato prendendo spunto dalla vicenda in cui con deliberazione della Giunta comunale, il Comune di Manduria, preso atto di quanto disposto dall'art. 1, commi 682, 683 e 684 della L. 30/12/2018, n. 45 e dall'art. 182, comma 2, del D.L. 19/5/2020, n. 34, conv. in L. 17/7/2020, n. 77, ha dato indicazioni al responsabile del competente servizio per la predisposizione degli atti finalizzati all'estensione, sino al 31 dicembre 2033, del termine di durata delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative. Tali concessioni sono state, poi, concretamente prorogate con apposite annotazioni apposte in calce ai relativi titoli.
Ritenendo la detta delibera e le concrete proroghe, in contrasto con gli artt. 49 e 56 del TFUE e, in generale, con la normativa unionale contenuta nella direttiva 12/12/2006, n. 2006/123/CE (c.d. direttiva Bolkestein), l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha notificato al comune il parere motivato di cui all'art. 21 bis della L. 10/10/1990, n. 287, evidenziando l'esigenza del previo espletamento di procedure a evidenza pubblica al fine di assicurare il rispetto dei principi di concorrenza e di libertà di stabilimento, anche in ambito transfrontaliero, significando, in particolare, il contrasto della normativa nazionale di proroga delle concessioni di cui trattasi con la direttiva n. 2006/123/CE, con conseguente obbligo di disapplicazione da parte di tutti gli organi dello Stato, sia giurisdizionali sia amministrativi.
Successivamente, poiché l'amministrazione comunale non si è adeguata ai rilievi mossi dall'Autorità, quest'ultima ha impugnato la menzionata delibera, n. 27/2020 con ricorso al T.A.R. Puglia – Lecce, il quale, con sentenza 29/6/2021, n. 981, per un verso, lo ha dichiarato inammissibile e, per altro verso, ritenuto di doverlo, comunque, esaminare nel merito, lo ha respinto.
Avverso tale sentenza ha proposto appello l'AGCM al Consiglio di Stato, il quale, inizialmente chiarisce la qualifica della concessione demaniale facendola rientrare in quella di finalità turistico-ricreativa in termini di autorizzazione di servizi ai sensi dell’art. 12 della direttiva 2006/123 così come già stabilito dall'Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato nelle sentenze gemelle 9/11/2021, nn. 17 e 18, tenuto conto dell’impulso dato dal diritto dell'Unione in materia di concessioni amministrative quale attribuzione del diritto di sfruttare in via esclusiva una risorsa naturale contingentata al fine di svolgere un'attività economica che procura al titolare vantaggi economicamente rilevanti in grado di incidere sensibilmente sull'assetto concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione dei servizi.
Dall'art. 4, punto 1, della direttiva 2006/123 risulta che per "servizio", ai fini di tale direttiva, si intende qualsiasi attività economica non salariata di cui all'articolo 57 TFUE, fornita normalmente dietro retribuzione. In particolare, "un'attività di locazione di un bene immobile [...], esercitata da una persona giuridica o da una persona fisica a titolo individuale, rientra nella nozione di «servizio», ai sensi dell'articolo 4, punto 1, della direttiva 2006/123" (Corte di giustizia, Grande sezione, 22.9.2020, C-724/2018 e C-727/2018, punto 34). La stessa decisione della Commissione 4 dicembre 2020 relativa al regime di aiuti SA. 38399 2019/C (ex 2018/E) "Tassazione dei porti in Italia" contiene l'affermazione per cui "la locazione di proprietà demaniali dietro il pagamento di un corrispettivo costituisce un'attività economica".
È allora evidente che il provvedimento che riserva in via esclusiva un'area demaniale (marittima, lacuale o fluviale) ad un operatore economico, consentendo a quest'ultimo di utilizzarlo come asset aziendale e di svolgere, grazie ad esso, un'attività d'impresa erogando servizi turistico-ricreativi va considerato, nell'ottica della direttiva 2006/123, un'autorizzazione di servizi contingentata e, come tale, da sottoporre alla procedura di gara.
Del resto, come ricordato dalla Corte di giustizia nella più volte citata sentenza Promoimpresa, "il considerando art. 39 della direttiva in questione precisa che la nozione di regime di autorizzazione dovrebbe comprendere, in particolare, le procedure amministrative per il rilascio di concessioni". E la stessa sentenza ha chiaramente affermato che "tali concessioni possono quindi essere qualificate come autorizzazioni, ai sensi delle disposizioni della direttiva 2006/123, in quanto costituiscono atti formali, qualunque sia la loro qualificazione nel diritto nazionale, che i prestatori devono ottenere dalle autorità nazionali al fine di poter esercitare la loro attività economica".
Pertanto, l'Adunanza plenaria non ha potuto che condividere tali conclusioni e ribadire che "le concessioni di beni demaniali per finalità turistico-ricreative rappresentano autorizzazioni di servizi ai sensi dell'art. 12 della direttiva c.d. servizi, come tali sottoposte all'obbligo di gara”.
Per poi, il Consiglio di Stato affrontare con chiarezza la legittimità o meno di tutti i provvedimenti anche governativi che riguardano la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime, facendo riferimento ai principi già enunciati nelle citate sentenze dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021 con le quali, in coerenza con l'orientamento in materia espresso dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea con la sentenza Promoimpresa, è stato affermato che:
a) l'art. 12 della direttiva 2006/123/CE, laddove sancisce il divieto di proroghe automatiche delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative è norma self executing e quindi immediatamente applicabile nell'ordinamento interno, con la conseguenza che le disposizioni legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle suddette concessioni sono con essa in contrasto e pertanto, non devono essere applicate (cfr., in termini, fra le tante, Cons. Stato, Sez. VII, 21/2/2023, n. 1780; 6/7/2022, n. 5625; 15/9/2022 n. 810);
b) il dovere di disapplicare la norma interna in contrasto con quella eurounitaria autoesecutiva, riguarda, per pacifico orientamento giurisprudenziale, tanto i giudici quanto la pubblica amministrazione (Corte Cost., 11/7/1989, n. 389; Cons Stato Sez. VI, 18/11/2019 n. 7874; 23/5/2006, n. 3072; Corte Giust. UE, 22/6/1989, in C- 103/88, Fratelli Costanzo, e 24/5/2012, in C-97/11, Amia);
c) l'art. 12 della menzionata direttiva 2006/123/CE, prescinde del tutto “dal requisito dell'interesse transfrontaliero certo, atteso che la Corte di giustizia si è espressamente pronunciata sul punto ritenendo che "l'interpretazione in base alla quale le disposizioni del capo III della direttiva 2006/123 si applicano non solo al prestatore che intende stabilirsi in un altro Stato membro, ma anche a quello che intende stabilirsi nel proprio Stato membro è conforme agli scopi perseguiti dalla suddetta direttiva" (Corte di giustizia, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, punto 103)”;
d) come più sopra rilevato in sede di esame dell'appello incidentale, i fini dell'applicabilità dell'art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE alle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative deve ritenersi sussistente il requisito della scarsità della risorsa naturale a disposizione di nuovi potenziali operatori economici.
Pertanto, in risposta ai nostri lettori, sulla base di quanto affermato dall'Adunanza Plenaria, con le ricordate sentenze nn. 17 e 18 del 2021, non solo i commi 682 e 683 dell'art. 1 della L. n. 145/2018, ma anche la nuova norma governativa contenuta nell'art. 10-quater, comma 3, del D.L. 29/12/2022, n. 198, conv. in L. 24/2/2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere fino al 31.12.2024, si pone in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all'art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato.
Rimane l’auspicio, a questo punto, che il legislatore intervenga con qualità, in una materia così delicata e sensibile, con una disciplina espressa e puntuale ad imporre, almeno, una gara rispettosa dei principi di trasparenza, pubblicità, imparzialità, non discriminazione e mutuo riconoscimento degli interessi coinvolti degli attuali titolari delle concessioni. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla tutela delle vittime di violenza di genere.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: "Quando è ipotizzabile il reato di maltrattamenti o quello di stalking in presenza di una relazione affettiva?".
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, riguardo al discrimine tra il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi di cui all'art. 572 c.p. e il reato di atti persecutori aggravato dall'esistenza, presente o passata, di una relazione affettiva che lega l'autore con la persona offesa, ai sensi dell'art. 612-bis, comma 2, c.p..
Il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) punisce chi ponga in essere atti coercitivi, anche solo minacciati o di minimale apparente portata lesiva, operanti a diversi livelli (fisico, sessuale, psicologico o economico), che siano volti a ledere la dignità della persona offesa, umiliandola o limitandone la sfera di libertà anche rispetto a scelte minimali del vivere quotidiano, affinché, stante la struttura abituale del reato, si sviluppi, fino a consolidarsi, un assetto di potere discriminatorio.
La riforma attuata con legge n. 172 del 2012, di ratifica della Convenzione di Lanzarote, ha inserito tra i soggetti attivi e passivi del reato, anche il convivente. La definizione di convivenza giuridicamente rilevante ai sensi dell'art. 572 c.p. è quella che proietta il rapporto, cioè la volontà di coppia, in una dimensione di impegno e di progetto di vita, al di là che poi in concreto la stabilità si realizzi, come nel caso in cui, assunta la decisione di vivere insieme, la convivenza cessi, ad esempio, proprio per le violenze.
Dalla nozione delineata discende che la convivenza non può essere esclusa quando sia sospesa o segnata da intervalli purché, però, restino intatti gli altri aspetti materiali e spirituali della comunione di vita e della volontà di condivisione. Questi andranno accertati dal giudice di merito in chiave fattuale tenendo conto anche della flessibilità che caratterizza questa dimensione affettiva rispetto al contesto sociale, lavorativo e alle scelte intime che muovono le condotte umane.
La coabitazione, ad esempio, può essere un indice importante per individuare una convivenza affettiva stabile in quanto vi è una casa comune all'interno della quale si svolge il programma di vita condiviso, ma non è un requisito che la connota. Infatti, la coabitazione può mancare per ragioni economiche, per condizioni oggettive, per scelte individuali, per necessità di assistenza di altri parenti, per esigenze lavorative e aspettative di studio o di carriera.
Al contrario, la coabitazione o la convivenza meramente anagrafica possono esistere in assenza di convivenza affettiva duratura quando dipendono da esigenze di mera opportunità, di cura, di amicizia o utilità economica (si pensi agli studenti o ai colleghi di lavoro che condividono le spese di un appartamento). La condotta costitutiva del reato di maltrattamenti appare indirizzata non genericamente contro una persona con cui si vive, ma contro chi ha una consuetudine di vita in comune con l'agente in una relazione intima che, attraverso condotte maltrattanti, genera un rapporto gerarchico e non paritario.
È proprio il rapporto di intimità, di fiducia e di affidamento, a prescindere dal legame formale, ad esporre alle vessazioni maltrattanti. La questione si pone in quanto la matrice relazionale propria del reato di maltrattamenti è riscontrabile anche nell'art. 612-bis c.p. Inizialmente, la distinzione con il reato di maltrattamenti era chiara perché ruotava intorno al dato, sia formale che fattuale, dell'attualità o meno del vincolo (di coniugio o affettivo): era configurabile l'art. 572 c.p. per le condotte consumate con relazione in atto, mentre era configurabile l'art. 612-bis, comma 2, c.p. per le condotte consumate dopo la cessazione del vincolo o a conclusione della convivenza.
Questo chiaro discrimine è venuto meno con la legge n. 119/2013, che ha esteso l'applicazione dell'aggravante anche agli atti persecutori commessi in costanza di relazione (coniugale, di convivenza o affettiva) determinando una vera e propria sovrapposizione con il delitto di maltrattamenti.
La modifica normativa che ha riguardato l'art. 612-bis, comma 2, c.p. prevede che ogni rapporto, sia che venga formalizzato o meno dal coniugio, sia che risulti cessato o attuale, meriti un aumento sanzionatorio per la grave insidiosità delle condotte e la maggiore pericolosità dell'autore.
Questi, infatti, proprio approfittando del legame sentimentale e dell'intimità (presente o passata) con la persona offesa, oltre che dell'abbassamento delle sue difese, è agevolato nella commissione del delitto essendo a conoscenza delle sue abitudini di vita, dei suoi comportamenti, dei suoi affetti più cari, delle sue conoscenze, dei suoi dati sensibili.
Per relazione affettiva ai sensi dell'art. 612-bis, comma 2, c.p. deve intendersi un legame sentimentale derivante da un rapporto di reciproco affidamento che facilita il delitto, in quanto l'autore sfrutta la fiducia che la vittima ripone in lui e ne approfitta per accedere violentemente o abusivamente nella sua sfera più intima.
La distinzione appare netta quando i fatti illeciti sono commessi dopo la chiusura del vincolo da parte dell'ex coniuge (divorzio), con conseguente applicazione della sola forma aggravata di cui all'art. 612-bis, comma 2, c.p. In questa ipotesi, infatti, sulla base dei criteri sopra indicati non è più in atto la convivenza.
Quando, invece, le condotte sopraffattorie e violente proseguono anche dopo la cessazione della convivenza e sono commesse dal coniuge separato o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, si pone il problema, dal momento che il delitto potrebbe essere punito sia dall'art. 612-bis, comma 2, c.p., sia dall'art. 572 c.p.
Secondo l'interpretazione costante di questa Corte, quando le azioni vessatorie, fisiche o psicologiche, siano commesse ai danni del coniuge separato si configura il solo reato di maltrattamenti, in quanto con il matrimonio o con l'unione civile la persona resta comunque "familiare", presupposto applicativo dell'art. 572 c.p.
Con riguardo, invece, ai casi in cui il fatto sia commesso da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, per distinguere se si configuri il reato di cui all'art. 572 c.p. o del 612-bis, comma 2, c.p. occorre analizzare due elementi: 1) l'esistenza di una effettiva convivenza (572 c.p.) e non solo di una relazione affettiva (612-bis c.p.); 2) l'effettiva interruzione della convivenza (612-bis c.p.).
Questo secondo requisito, cioè l'effettiva interruzione della convivenza, è cruciale in quanto dalla sua esistenza deriva l'applicazione dell'art. 612-bis, comma 2, c.p. e, di converso, l'esclusione del reato di maltrattamenti. Nei casi di cessazione della convivenza è necessario verificare se tra l'autore del reato e la persona offesa non vi sia più quella consuetudine di vita che connotava il precedente rapporto.
La verifica non sempre è agevole proprio per la fluidità e la complessità delle relazioni di coppia, specie quando vi siano figli piccoli e provvedimenti giudiziari, civili o minorili, che impongono una loro gestione comune; oppure per la necessità di un tempo di assestamento ai fini della definizione dei pregressi rapporti affettivi quando siano stati prolungati e la chiusura sia recente.
Tutto questo potrebbe far permanere modalità relazionali e abitudini di vita assai simili a quelle precedenti (mangiare nella stessa casa o passare le feste o le vacanze insieme o imporre all'ex convivente di sbrigare le faccende domestiche nell'appartamento del partner).
In questi casi, dunque, potrebbe proseguire una condizione di convivenza per la quale non basta accertare l'assenza di coabitazione, ma possono soccorrere altri indicatori volti a dimostrare che la convivenza sia cessata, come, ad esempio: la mancata disponibilità da parte dell'autore del reato delle chiavi di casa in cui vive la persona offesa e, dunque, l'impossibilità di accesso incondizionato ed incontrollato ai luoghi in cui questa abita o la non condivisione della responsabilità genitoriale.
Si tratta in sostanza di stabilire se la cessazione della convivenza sia davvero avvenuta o, al contrario, permangano le medesime condizioni controllanti su cui questa si fondava, con tutti i meccanismi, oggettivi e soggettivi, che la connotavano, tanto da rendere meramente astratta la decisione di interromperla.
È, dunque, necessario verificare se la persona offesa abbia effettivi spazi di autonomia, materiale e psicologica, rispetto al maltrattante nel qual caso ricorre la cessazione della convivenza e, dunque, si applica la fattispecie di cui all'art. 612-bis, comma 2, c.p. oppure continui ad esserne totalmente privata, come avveniva nel corso della convivenza, a tal punto da rendere le violenze senza soluzione di continuità, nel qual caso si applica la fattispecie di cui all'art. 572 c.p.
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: “Se la persona offesa ha effettivi spazi di autonomia, materiale e psicologica, rispetto al maltrattante - nel qual caso ricorre la cessazione della convivenza – si applica la fattispecie di cui all’art. 612 bis, comma 2, c.p.; se la persona offesa continua ad essere totalmente privata di spazi di autonomia, come avveniva nel corso della convivenza, a tal punto da rendere le violenze senza soluzione di continuità, si applica la fattispecie di cui all’art. 572 c.p.” (Cass. Pen.; Sez. VI; Sent. n. 9187 del 15.09.2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al risarcimento danni, soprattutto quelli dovuti alle cadute causate da buche presenti su marciapiedi e strade cittadine. Ecco la risposta dell’esperto alla domanda posta da una lettrice di Macerata, che chiede: “In caso di caduta rovinosa a terra con il proprio motorino a seguito delle buche presenti su di una strada comunale con relativi danni fisici: a quali responsabilità va incontro il Comune?"
Il caso di specie ci porta a quanto già consolidato dalla Cassazione a Sezioni Unite, da ultimo, con la sentenza n. 20943 del 2022 che ‘la responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo, e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell'attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l'onere della prova liberatoria del caso fortuito, rappresentato da un fatto naturale o del danneggiato o di un terzo, connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, dal punto di vista oggettivo e della regolarità o adeguatezza causale, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode.
La responsabilità ex art. 2051 c.c. ha natura oggettiva e discende dall'accertamento del rapporto causale fra la cosa in custodia e il danno, salva la possibilità per il custode di fornire la prova liberatoria del caso fortuito, ossia di un elemento esterno che valga ad elidere il nesso causale e che può essere costituito da un fatto naturale e dal fatto di un terzo o della stessa vittima; tale essendo la struttura della responsabilità ex art. 2051 c.c., l'onere probatorio gravante sul danneggiato si sostanzia nella duplice dimostrazione dell'esistenza (ed entità) del danno e della sua derivazione causale dalla cosa, residuando, a carico del custode - come detto - l'onere di dimostrare la ricorrenza del fortuito.
Nell'ottica della previsione dell'art. 2051 c.c., tutto si gioca dunque sul piano di un accertamento di tipo causale (della derivazione del danno dalla cosa e dell'eventuale interruzione di tale nesso per effetto del fortuito), senza che rilevino altri elementi, quali il fatto che la cosa avesse o meno natura "insidiosa" o la circostanza che l'nsidia fosse o meno percepibile ed evitabile da parte del danneggiato (trattandosi di elementi consentanei ad una diversa costruzione della responsabilità, condotta alla luce del paradigma dell'art. 2043 c.c.); al cospetto dell'art. 2051 c.c., la condotta del danneggiato può rilevare unicamente nella misura in cui valga ad integrare il caso fortuito, ossia presenti caratteri tali da sovrapporsi al modo di essere della cosa e da porsi essa stessa all'origine del danno.
Al riguardo, deve pertanto ritenersi che, ove il danno consegua alla interazione fra il modo di essere della cosa in custodia e l'agire umano, non basti a escludere il nesso causale fra la cosa e il danno la condotta colposa del danneggiato, richiedendosi anche che la stessa si connoti per oggettive caratteristiche di imprevedibilità ed imprevenibilità che valgano a determinare una definitiva cesura nella serie causale riconducibile alla cosa.
Giova richiamare, al riguardo, le lucide considerazioni svolte da Cass. n. 25837 del 2017 (già recepite, fra le altre, da Cass. n. 26524 del 2020 e da Cass. n. 4035 del 2021 ), secondo cui la eterogeneità tra i concetti di "negligenza della vittima" e di "imprevedibilità" della sua condotta da parte del custode ha per conseguenza che, una volta accertata una condotta negligente, distratta, imperita, imprudente, della vittima del danno da cose in custodia, ciò non basta di per sé ad escludere la responsabilità del custode.
L'esclusione della responsabilità del custode, pertanto, quando viene eccepita dal custode la colpa della vittima, esige un duplice accertamento: (a) che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; (b) che quella condotta non fosse prevedibile. (...) La condotta della vittima d'un danno da cosa in custodia può dirsi imprevedibile quando sia stata eccezionale, inconsueta, mai avvenuta prima, inattesa da una persona sensata. Stabilire se una certa condotta della vittima d'un danno arrecato da cose affidate alla custodia altrui fosse prevedibile o imprevedibile è un giudizio di fatto, come tale riservato al giudice di merito: ma il giudice di merito non può astenersi dal compierlo, limitandosi a prendere in esame soltanto la natura colposa della condotta della vittima.
Nel caso specifico della caduta dal motorino in corrispondenza di una buca stradale, non può evidentemente sostenersi che la stessa sia imprevedibile (rientrando nel notorio che la sconnessione possa determinare la caduta del passante) e imprevenibile (sussistendo, di norma, la possibilità di rimuovere il dislivello o, almeno, di segnalarlo adeguatamente); deve allora ritenersi che il mero rilievo di una condotta colposa del danneggiato non sia idoneo a interrompere il nesso causale, che è manifestamente insito nel fatto stesso che la caduta sia originata dalla (prevedibile e prevenibile) interazione fra la condizione pericolosa della cosa e l'agire umano.
Pertanto in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: “La caduta dal motorino dovuta ad una buca stradale non può essere catalogata come caso fortuito idoneo a rescindere il nesso causale tra la cosa in custodia al Comune ed il danno subito che dovrà pertanto essere risarcito dall’Ente stesso (Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 4051/2023)".
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le vicende che possono insorgere tra condomini nei rapporti di vicinato. Di seguito la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una nostra lettrice di Porto Potenza Picena, che chiede: "A quale responsabilità può andare incontro colui che pone in essere delle reiterate molestie nei confronti della propria vicina di casa?".
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ai controversi rapporti che possono insorgere tra condomini fino ad arrivare a causare quotidiane molestie in danno altrui. A tal proposito, risulta utile riportare una vicenda recentemente affrontata dalla Suprema Corte, nella quale una donna si ritrova a dover fare i conti con un vicino di casa che è un vero e proprio incubo: la pedina, le fa dispetti, la aggredisce verbalmente, la minaccia.
A certificare la gravità della situazione è anche il fatto che la donna si sia decisa, alla fine, "ad installare una telecamera di sicurezza ed un piccolo cancello sulla rampa delle scale" così da poter evitare il contatto diretto col fastidioso vicino.
A fronte degli elementi probatori raccolti, anche per la Corte di Cassazione la donna è stata vittima del reato di stalking; in particolare, i magistrati sottolineano «la ripetitività e la consistenza dei comportamenti» dell'uomo, comportamenti che «avevano destabilizzato la donna, costretta a ricorrere alle cure di uno specialista per il grave stato di ansia prodottosi» e decisasi, infine, «ad installare una telecamera di sicurezza ed un piccolo cancello sulla rampa delle scale» per provare a ridurre il potenziale pericolo di un contatto con lo sgradevole vicino di casa.
Impossibile, quindi, ridimensionare tali episodi nel reato di molestie poiché le condotte da lui tenute hanno instillato un profondo timore nella vicina di casa, spingendola a «mutare le proprie abitudini di vita» e a «ricorrere a un sistema di videosorveglianza e di difesa della propria casa».
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, “Il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di molestie, consiste nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie, sicché si configura il delitto di stalking di cui all'art. 612-bis c.p. solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l'alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato meno grave di molestie di cui all'art. 660 c.p. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (Sez. 5, n. 15625 del 09/02/2021 Rv. 281029).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’utilizzo incauto da parte del minore dei social, circostanza questa che potrebbe risultare dannosa.
Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Morrovalle che chiede: “Quali sono i doveri e/o responsabilità del genitore del minore che utilizza impropriamente internet?”
Si deve anzitutto dare atto che oggi è sempre più frequente l'utilizzo da parte dei minori di internet e in generale degli strumenti di comunicazione telematica, al fine di acquisire notizie e di esprimere le proprie opinioni, diritti questi tutelati dalla nostra Costituzione oltreché dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Tale diritto trova tuttavia un limite nella tutela della dignità della persona specie se minore di età: i minori sono infatti soggetti deboli e, in quanto tali, necessitano di apposita tutela, non avendo ancora raggiunto un’adeguata maturità ed essendo ancora in corso il processo relativo alla loro formazione.
A questo proposito la Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2006, n. 19069) ha affermato la necessità di tutela del minore nell’ambito del mondo della comunicazione, facendo riferimento in particolare all’art. 16 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989, che sancisce il diritto di ogni minore a non subire interferenze arbitrarie o illegali con riferimento alla vita privata, alla sua corrispondenza o al suo domicilio
È altresì riconosciuto il diritto del minore a non subire lesioni alla sua reputazione e al suo onore; l’art. 3 della medesima Convenzione prevede che in ogni procedimento davanti al giudice che coinvolga un minore, l’interesse superiore di quest’ultimo deve essere senz’altro considerato preminente.
Tale preminenza ha quindi luogo anche nel giudizio di bilanciamento con eventuali e diversi valori costituzionali, quali il diritto all’informazione e la libertà di espressione degli altri individui; inoltre, è bene anche ricordare che l’art. 17 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo attribuisce agli Stati parti il dovere di riconoscere l’importanza della funzione esercitata dai mass-media, in quanto mezzi idonei a garantire una sana crescita e una corretta formazione del minore stesso.
I pericoli ai quali il minore è esposto nell'uso della rete telematica rendono quindi necessaria una tutela degli stessi, indipendentemente poi dalle competenze digitali da loro maturate. E’ bene porre in evidenza che gli obblighi inerenti la responsabilità genitoriale impongono non solo il dovere di impartire al minore una adeguata educazione all’utilizzo dei mezzi di comunicazione ma anche di compiere un’attività vigilanza sul minore per quanto concerne il suddetto utilizzo.
L’educazione si pone, infatti, in funzione strumentale rispetto alla tutela dei minori al fine di prevenire che questi ultimi siano vittime dell'abuso di internet da parte di terzi. L’educazione deve essere, inoltre, finalizzata a evitare che i minori cagionino danni a terzi o a sé stessi mediante gli strumenti di comunicazione telematica.
Sotto tale profilo si deve osservare che l’anomalo utilizzo da parte del minore dei mezzi offerti dalla moderna tecnologia tale da lederne la dignità cagionando un serio pericolo per il sano sviluppo psicofisico dello stesso, può essere sintomatico di una scarsa educazione e vigilanza da parte dei genitori.
Riguardo all’uso della rete telematica l’adempimento del dovere di vigilanza dei genitori è, inoltre, strettamente connesso all'estrema pericolosità di quel sistema e di quella potenziale esondazione incontrollabile dei contenuti; al riguardo la giurisprudenza di merito ha affermato che “il dovere di vigilanza dei genitori deve sostanziarsi in una limitazione sia quantitativa che qualitativa di quell'accesso, al fine di evitare che quel potente mezzo fortemente relazionale e divulgativo possa essere utilizzato in modo non adeguato da parte dei minori e fonte, pertanto, di responsabilità civile dei genitori ai sensi dell’art. 2048 c.c.” (Trib. Teramo,16.01.2012).
Per tali ragioni in risposta alla nostra lettrice è corretto affermare che: “Oltre a possibili responsabilità civili e penali dei genitori, gli stessi sono comunque tenuti ad educare i minori al corretto utilizzo di tali mezzi di comunicazione mediante una limitazione sia quantitativa che qualitativa all’accesso e condivisione di contenuti".
"Pertantov - si aggiunge -, l’anomalo utilizzo degli strumenti telematici potrebbe essere sintomatico di una scarsa vigilanza ed educazione da parte dei genitori, i quali, sono tenuti a garantire un'educazione consona alle proprie condizioni socio-economiche e, ad adempiere un’attività di verifica e controllo sul sano sviluppo psicofisico del minore, tanto da rendersi necessaria un’attività di monitoraggio e supporto da parte di professionisti nei riguardi del minore e dei genitori al fine di verificare le effettive capacità educative e di vigilanza degli stessi” (Tribunale di Caltanissetta, sentenza depositata l’8 ottobre 2019).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante alle possibili responsabilità penali di un atleta nella pratica dello sport e nello specifico nel gioco del calcio. Ecco l’analisi dell’avv. Oberdan Pantana:
"Con grande piacere che mi accingo ad affrontare il seguente argomento sollecitato dalle mail dei lettori e nel farlo utilizzerò dei casi pratici che spesso e volentieri avvengono durante una competizione calcistica.
Ultimissimi minuti del match. Risultato – importantissimo – ancora in bilico. Contropiede fulmineo della squadra ospite. L’attaccante, palla al piede, si dirige verso l’area avversaria, quando irrompe il difensore che, pur volendo colpire la sfera, centra in pieno la gamba sinistra del ‘numero 9’.
Grave infortunio per l’attaccante: frattura della tibia. In primo e in secondo grado, viene confermata la condanna per il difensore locale per il reato di lesioni colpose di cui all’art. 590 c.p.; in Cassazione, invece, viene assolto con formula piena, per l’assenza di tale tipologia di responsabilità.
Smentita la visione tracciata dai giudici del Tribunale prima e da quelli della Corte d’appello poi: decisiva l’applicazione del cosiddetto "rischio consentito", con riferimento ad «eventi lesivi causati nel corso di incontri sportivi».
Nessun dubbio sulla dinamica del rilevante scontro di gioco, verificatosi durante tale partita; evidente, infatti, la condotta scorretta del difensore della squadra di casa, evento, però, frutto di un eccessivo «agonismo» e di un errore nel calcolo della «tempistica dell’intervento di gioco»: egli, infatti, ha mirato «il pallone», ma ha «finito per colpire la gamba dell’attaccante, che, in anticipo, già aveva allungato la sfera in avanti.
Rilevante il contesto: «l’infortunio maturò in un frangente particolarmente intenso», cioè «gli ultimi minuti dell’incontro», e durante «una azione di gioco decisiva» per un match «rilevante per il campionato». Significativo anche il fatto che l’azione del difensore, pur in trance agonistica, «era manifestamente indirizzata a interrompere l’azione di contropiede, mediante il tentativo di impossessarsi regolarmente del pallone», sottraendolo all’attaccante.
Tutto ciò, spiegano correttamente i magistrati della Cassazione, consente di ritenere meritevole di censura il gesto compiuto dal difensore, però solo nell’ambito dell’«ordinamento sportivo». Va esclusa, quindi, la «antigiuridicità» a livello penale del «fallo» compiuto sul campo da calcio.
Evidente la colpa del difensore, sanzionabile, però, solo in ambito sportivo, non certo in quello penale (Cassazione, sentenza n. 9559/2016, Sezione Quarta Penale). Così come: "derby infuocato", il difensore colpisce l’avversario con un pugno con l’azione di gioco distante da tale evento: in tal caso la Suprema Corte ha giustamente confermato la sentenza di condanna dell’imputato/difensore locale, “trattandosi di un’aggressione fisica intenzionale, per ragioni avulse dalla dinamica sportiva”.
Il Collegio di legittimità, ritenendo corretta la valutazione svolta dalla Corte territoriale, afferma che «in tema di competizioni sportive, non è applicabile la “scriminante atipica” del rischio consentito, qualora nel corso di un incontro di calcio, l’imputato colpisca l’avversario con un pugno al di fuori di un’azione ordinaria di gioco, trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva».
Il catalogo piuttosto ristretto delle scriminanti “codificate” non fa espressa menzione dell'esimente sportiva, che appartiene – per dottrina e giurisprudenza ormai ben consolidate – al novero delle esimenti non espressamente contemplate nel codice, ma di fatto esistenti.
Queste ultime sono figlie dell'evoluzione naturale del diritto penale, che, nel suo adeguarsi alla realtà sociale in cui si applica, deve necessariamente calibrare la risposta punitiva alle infinite, lecite, ma talvolta rischiose, forme in cui può esprimersi la condotta umana.
Lo sport è una di esse: chi lo pratica – non importa se professionalmente o per diletto - mette in conto di poter subire anche conseguenze pregiudizievoli per la propria integrità fisica: il rischio che ogni sportivo accetta è, appunto, un rischio consentito. Qual è, a questo punto, il limite che non deve essere oltrepassato per sconfinare nell'illecito penale?
Il consenso che – tacitamente – si esprime prendendo parte ad una competizione sportiva, implica, come già detto, l'accettazione di un rischio, più o meno calcolato. Questo calcolo si basa, evidentemente, anche sull'affidamento che tutti i partecipanti alla competizione conoscano e si conformino alle regole della disciplina sportiva praticata.
Secondo la giurisprudenza, che dimostra di non ignorare la “realtà naturale” dell'agonismo, l'involontario travalicamento delle regole di gioco non è sufficiente per aprire le porte alla responsabilità penale nel caso in cui dovessero verificarsi conseguenze lesive per alcuno degli atleti.
Il discorso cambia del tutto nell'ipotesi in cui l'incontro sportivo diventi un pretesto per dare sfogo a gesti gratuitamente violenti, o che comunque non sono giustificabili con il gesto atletico richiesto dal gioco del calcio. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla natura e agli effetti dell’atto di trasferimento della proprietà posto in essere in sede di separazione dei coniugi.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "La proprietà di un immobile trasferito da un ex coniuge in favore dell’altro può essere soggetto ad aggressione da parte dei creditori del primo?"
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente delicata, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.27409/2019, affermando testualmente quanto segue: “Gli accordi di separazione personale, contenenti attribuzioni patrimoniali relative a beni mobili o immobili, rispondono ad uno specifico spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento della separazione, il quale sfugge alle connotazioni classiche sia dell’atto di donazione sia dell’atto di vendita e svela una sua tipicità propria, la quale poi, di volta in volta, può colorarsi dei tratti dell’obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità. La necessità di accertare la natura onerosa o meno dell’atto rileva ai fini della disciplina di cui all’art. 2901 c.c." (Cass. Civ.; Sez. II; Ord. n. 27409/2019 del 25.10.2019).
Difatti, l’art. 2901 del codice civile citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a termine, può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio coi quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni […]”, disciplina l’istituto dell’azione revocatoria, la quale favorisce il creditore permettendogli di ottenere la dichiarazione di inefficacia, nei suoi confronti, degli atti di disposizione del patrimonio con cui il debitore abbia arrecato pregiudizio alle sue ragioni, ad esempio ponendo in essere un atto di trasferimento di proprietà a titolo gratuito e perciò, diminuendo in modo consistente il proprio patrimonio, a discapito del suddetto creditore.
A tal proposito occorre rilevare, che il problema principale sotteso a tale questione, attiene al profilo solutorio o meno dell'atto traslativo, dal momento che, essendo l'atto di adempimento di un'obbligazione notoriamente sottratto a siffatta azione revocatoria, la qualificazione dei negozi traslativi in esame, come negozi a carattere solutorio, fornirebbe un ostacolo insuperabile avverso le pretese dei creditori in sede di azione individuale ex art. 2901 c.c..
Per tali ragioni la giurisprudenza di legittimità si è dovuta occupare più volte della questione di come qualificare sotto il profilo causale le attribuzioni patrimoniali traslative che accompagnano la sistemazione dei rapporti economici tra ex marito e moglie, affermando al riguardo come non sia possibile una definizione aprioristica circa la natura di tali trasferimenti, dovendosi valutare caso per caso, a che titolo essi vengano disposti.
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice e in linea con l’unanime orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, si può affermare che: "Gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell'uno nei confronti dell'altro e concernenti beni mobili o immobili, non risultano collegati necessariamente alla presenza di uno specifico corrispettivo o di uno specifico riferimento ai tratti propri della donazione (dato il contesto come quello della separazione personale, caratterizzato proprio dalla dissoluzione delle ragioni dell'affettività), tanto più, che per quanto può interessare ai fini di una eventuale loro assoggettabilità all'actio revocatoria di cui all'art. 2901 c.c. rispondono, di norma, ad un più specifico e proprio originario spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell'evento di separazione consensuale, il quale, sfuggendo, in quanto tale, anche dalle connotazioni classiche dell'atto di vendita (attesa oltretutto l'assenza di un prezzo corrisposto), svela, di norma, una sua "tipicità" propria la quale poi, volta a volta, può, ai fini della disciplina di cui all'art. 2901 c.c., colorarsi dei tratti dell'obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità, in ragione dell'eventuale ricorrenza o meno, nel concreto, dei connotati di una sistemazione "solutorio-compensativa" più ampia e complessiva, di tutta quell'ampia serie di possibili rapporti patrimoniali maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale" (Cass. Civ.; Sez.III; Sent. n. 10443 dep. 15.04.2019).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla responsabilità medica; ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “E’ responsabile il medico del Pronto Soccorso che non approfondisce le condizioni del paziente che successivamente muore?”.
Ci è utile riguardo il caso di specie approfondire una recente vicenda nella quale un medico di pronto soccorso è stato condannato di omicidio colposo per avere, con condotte omissive e per colpa, cagionato la morte di un paziente, non essendo stato sottoposto ad ulteriori esami diagnostici che avrebbero potuto rilevare la sua patologia ischemica e sottoporlo a defibrillazione.
A tal proposito la Suprema Corte ha confermato quanto precedentemente provato sia in I° che in II° grado e precisamente che, “ove i necessari esami diagnostici fossero stati eseguiti dal medico nella prospettiva di una diagnosi differenziale, l'episodio infartuale acuto in corso sul paziente sarebbe stato immediatamente accertato, e lo stesso sarebbe stato immediatamente avviato all'unità di terapia intensiva coronarica, ove gli sarebbe stata praticata la defibrillazione e, con elevato grado di probabilità logica, il paziente stesso si sarebbe salvato”.
Riguardo alla natura colposa della condotta causante tenuta dal medico del Pronto Soccorso, la Cassazione osserva che, “vi erano tutte le condizioni che suggerivano, ed anzi imponevano al medico di turno di esperire accertamenti onde pervenire a una diagnosi differenziale, ossia di considerare l'ipotesi tutt'altro che remota che i sintomi presentati dal paziente potessero essere correlati a episodio di cardiopatia ischemica acuta e che si dovesse pertanto procedere ad accertamenti in tale direzione, i quali avrebbero nella specie dato conferma dell'evento”, tenuto infine conto che, “nel caso di specie il dolore ad ambedue le braccia, associato ad episodio emetico, avrebbe imposto un accertamento circa la possibile riferibilità del quadro clinico a patologia ischemica ciò che il dott. omise di fare”.
L’obbligo di garanzia del medico di Pronto Soccorso è definito dalle specifiche competenze che sono proprie di quella branca della medicina d’emergenza (o d’urgenza). Vi rientrano l’esecuzione di alcuni accertamenti clinici, la decisione circa le cure da prestare e l’individuazione delle prestazioni specialistiche eventualmente necessarie, nonché la decisione inerente al ricovero del paziente e alla scelta del reparto reputato più idoneo.
A fronte di una diagnosi differenziale non ancora risolta, il medico deve compiere gli accertamenti diagnostici necessari per accertare quale sia la patologia effettivamente patita e adeguare le cure a queste possibilità. Pertanto, l’esclusione di ulteriori accertamenti può essere giustificata solo dalla raggiunta certezza che una di queste patologie possa essere esclusa.
Fino a quando il dubbio diagnostico non sia stato risolto, invece, il medico non deve accontentarsi del raggiunto convincimento di aver individuato la patologia esistente quando non sia in grado di escludere patologie alternative.
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, “In tema di responsabilità medica, risponde di omicidio colposo il medico di pronto soccorso che ha cagionato la morte di un paziente per non aver disposto indagini diagnostiche atte ad effettuare la diagnosi differenziale e limitandosi a un esame superficiale” (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 1665/2023)
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento danni per fatti accorsi durante il viaggio o vacanza.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "Sono responsabili l’agenzia viaggi e il tour operator se dopo aver acquistato un pacchetto vacanza 'tutto compreso' scoppia un caso gastroenterite tra i turisti del villaggio?".
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte, riguardo una vicenda in cui una famiglia aveva acquistato un pacchetto turistico "all inclusive" per il soggiorno in un villaggio turistico, ma dopo due giorni dall'arrivo, prima un figlio, poi l'altro e infine la moglie venivano colpiti da gastroenterite e ricoverati nell'ospedale locale.
Rimane accertato che anche altri 20 ospiti del medesimo villaggio erano stati ricoverati per i medesimi disturbi intestinali, causati da cibi o bevande consumati nel villaggio.
A tal proposito risulta utile precisare che il contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" si distingue dal contratto di intermediazione di viaggio di cui alla Convenzione di Bruxelles del 1970 (resa esecutiva in Italia con l. n. 1084/1977), in quanto spicca la finalità turistica, che ne permea e connota la causa concreta (Cassazione civile sez. III, 02/03/2012, n.3256; Cassazione civile sez. III, 24/04/2008, n.10651).
Il contratto di viaggio tutto compreso (pacchetto turistico o package) è diretto a realizzare l'interesse del turista-consumatore al compimento di un viaggio con finalità turistica o a scopo di piacere, sicché tutte le attività e i servizi strumentali alla realizzazione dello scopo vacanziero sono essenziali e qualificano la causa e il contratto stesso.
Quindi l'organizzatore e il venditore devono operare con la diligenza professionale qualificata dalla specifica attività esercitata, per soddisfare l'interesse creditorio dell'acquirente il pacchetto. Così si evidenzia la differenza dal contratto di organizzazione o di intermediazione di viaggio, in base al quale un operatore turistico professionale si obbliga verso corrispettivo a procurare uno o più servizi di base (trasporto, albergo, etc.) per l'effettuazione di un viaggio o di un soggiorno.
Rispetto a quest'ultimo, le prestazioni e i servizi si profilano come separati e vengono in rilievo diversi tipi di rapporto, prevalendo gli aspetti dell'organizzazione e dell'intermediazione con applicazione in particolare della disciplina del trasporto ovvero - in difetto di diretta assunzione da parte dell'organizzatore dell'obbligo di trasporto del cliente - del mandato senza rappresentanza o dell'appalto di servizi.
Nel contratto di viaggio vacanza tutto compreso, invece, la pluralità di servizi ed accessori connota proprio la finalità turistica del contratto nella loro unitarietà funzionale. Si tratta di un'obbligazione di risultato nell'ambito del rischio di impresa (e nel rischio connaturato nell'avvalersi di terzi) nei confronti dell'acquirente e, pertanto, sussiste la responsabilità solidale (Cass. Civ., Sez. III, Ord. n. 1417/2023).
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di merito e di legittimità si può affermare che: "Il tour operator risponde dell'inadempimento del contratto di vendita di pacchetto turistico - con conseguente obbligo di risarcire i danni al turista a causa di disservizi o carenze nelle prestazioni promesse e poi concretamente fornite -, sia quando l'inadempimento sia imputabile direttamente al proprio operato o al fatto dei propri ausiliari, sia quando ascrivibile a terzi fornitori di servizi inclusi nel pacchetto turistico dei quali il tour operator si è servito per l'esecuzione dell'obbligazione (Trib. Torino, Sez. III, sentenza n. 3882/2022).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra comproprietari di beni immobili e relative problematiche.
Il caso di specie scelto è di un lettore di Morrovalle che chiede: "A quali responsabilità può andare incontro chi da proprietario al 50% di un immobile cambia la serratura della porta d’ingresso negando così l’entrata all’altro comproprietario?"
Il caso di specie ci porta ad analizzare il reato di cui all’art. 610 c.p. secondo il quale, “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni".
Difatti, come da orientamento giurisprudenziale consolidato di legittimità, "si ravvisa il delitto di violenza privata anche nella condotta di chi impedisce l’esercizio dell’altrui diritto di accedere ad un locale o ad una delle stanze di un’abitazione, chiudendone a chiave la serratura o cambiandola senza il consenso e la relativa consegna delle nuove chiavi" (Cass., Pen., Sez. V, n. 4284 del 29.9.2015).
A tal proposito, si evidenzia che, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il delitto di cui all’art 610 c.p. si qualifica come reato d’evento e a forma vincolata: il fatto tipico consiste, infatti, nel costringere altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, mediante l’impiego di violenza o di minaccia.
Quanto al concetto di violenza rilevante - che è quello che in questa sede interessa - esso è costituito dall’esplicarsi di una qualsiasi energia fisica da cui derivi una coazione personale; non rileva, né la qualità dei mezzi adoperati, né che essi siano diretti o indiretti, di carattere materiale o psicologico, occorrendo solo l’idoneità di essi al raggiungimento dello scopo che è quello di costringere altri a fare, tollerare od omettere qualcosa.
Si parla di violenza in due diverse accezioni: violenza propria e violenza impropria; la prima deve intendersi quella fisica che si esplica direttamente sulla vittima, mentre quella “impropria”, si esplica attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, configurabili anche laddove essa non si indirizzi contro l’altrui persona, ma sulle cose, alla sola condizione che dispieghi un’effettiva incidenza costrittiva sulla volontà della vittima.
Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “Integra il reato di violenza privata ex art. 610 c.p. impedire l'esercizio dell'altrui diritto di accedere ad una stanza di un'abitazione o di un locale chiudendola a chiave o cambiandone la serratura” (Cass. Pen.; sentenza n. 38910/2018). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato diversi argomenti a carattere natalizio e, data la diffusa atmosfera di festa, nonché la singolare curiosità espressa dai molteplici lettori per circostanze che riguardano direttamente e indirettamente le festività natalizie, si riportano di seguito le risposte dell’avv. Oberdan Pantana riguardo le seguenti situazioni:
- Di seguito la risposta alla domanda di un lettore di Civitanova che chiede: "Se durante il cenone della vigilia, nello stappare lo spumante colpisco con il tappo uno dei presenti, in quali responsabilità posso incorrere?"
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, il riferimento a quanto accaduto al titolare di un ristorante che, preso dall’euforia dei festeggiamenti, finiva per ferire all’occhio una cliente che sedeva poco distante, con il tappo dello spumante appena aperto.
La Suprema Corte pronunciatasi sulla vicenda, ravvisava nella condotta dell’euforico ristoratore, il reato di lesioni colpose, a causa della mancata adozione delle idonee cautele del caso, condannandolo alla pena prevista dall’art. 590 c.p. che stabilisce testualmente: “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a 309 euro”. (Cass. Pen., Sez. IV, n.32548 del 12.07.2016)
- In risposta alla domanda di un lettore di Porto Recanati che chiede: "Se a causa di un ritardo del volo prenotato, ci viene impedito di trascorrere le festività con i nostri cari, può essere richiesto il risarcimento del danno subito?"
Riportiamo la sentenza del Giudice di Pace di Cagliari (n. 571/2012) che, pronunciatosi su un caso molto simile, aveva condannato la compagnia aerea a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali ad un passeggero che era stato costretto a trascorrere la vigilia di Natale in aeroporto, consumando il “cenone” in solitaria con del cibo acquistato presso un bar poco distante dal gate. L'uomo difatti, oltre al risarcimento per il danno esistenziale subito, era stato ristorato anche dei danni patrimoniali comprese le spese per comprare i due "tristi" panini del “cenone natalizio”!
-Di seguito la risposta ad un lettore di Tolentino che ci chiede: "E’ legittimo il licenziamento di un dipendente che, in occasione delle festività natalizie, decide in piena autonomia di concedersi delle ferie per stare con la propria famiglia?"
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica molto importante sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20461 del 30.09.2010 in riferimento alla condotta posta in essere da un dipendente che, nonostante il rifiuto della richiesta da parte del datore di lavoro, decideva di non presentarsi comunque al lavoro, rimanendo a casa da Natale a Capodanno.
La Suprema Corte chiamata a pronunciarsi, aveva rilevato che “considerata la mancata prova delle circostanze che potevano rilevare nel rendere più lieve l'infrazione e quindi eccessiva la sanzione del licenziamento, ai fini del giudizio di necessaria proporzionalità, l'allontanamento arbitrario dal posto di lavoro dal 24 al 31 dicembre, malgrado il rifiuto dell'azienda datrice, costituiva giusta causa di recesso, conformemente peraltro a quanto previsto dall'art. 151 del CCNL”, che disciplina i tempi, le circostanze e le modalità con cui il lavoratore può legittimamente richiede un periodo di aspettativa al proprio datore di lavoro; circostanze non rispettate nel caso di specie.
Con tali motivazioni dunque, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso formulato dal lavoratore e dichiarava la legittimità del licenziamento posto in essere dal datore di lavoro.
- In risposta alla domanda posta da un lettore di Montegranaro che chiede: "Essere un giocatore di carte soprattutto nel periodo natalizio può comportare ripercussioni in sede di separazione?"
Riportiamo la decisione assunta dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.5395/2014, che, chiamata a pronunciarsi in merito ad un caso di separazione giudiziale dei coniugi, aveva stabilito l’addebito della separazione in capo al marito, il quale era solito spendere molto denaro nel gioco e che, solo nel periodo natalizio, aveva sperperato oltre 1.000 euro giocando a carte.
La Suprema Corte adita aveva infatti chiarito che “anche il gioco d'azzardo, ripetuto ed eccessivo, viola in modo grave gli obblighi matrimoniali sino a rendere la convivenza intollerabile e a far scaturire separazione e consequenziale addebito".
Difatti, il discutibile vizio che impegnava il marito della coppia per diverse ore al giorno, assentandosi quasi totalmente nel periodo natalizio oltre a rappresentare una cattiva abitudine, lo portava a stare spesso, e senza alcun giustificato motivo, fuori casa, non ottemperando ai propri doveri di marito e padre, per di più sottraendo grosse somme di denaro alla cura e al sostentamento della propria famiglia.
- In risposta alla domanda di un lettore di Corridonia che chiede: "È penalmente sanzionabile un soggetto che invia infausti auguri di Natale?"
Riportiamo la pronuncia del Tribunale di Bari, che con sentenza depositata il 25 febbraio 2015, ha condannato per estorsione un uomo che si era rivolto più volte alla sua vittima minacciandola ripetutamente del fatto che, se non gli avesse dato i soldi richiesti, la madre avrebbe passato “un brutto Natale”.
Difatti l’art. 629 c.p. punendo “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno” intende scongiurare che la prospettazione di un evento dannoso per l'incolumità fisica della vittima o di una persona ad essa molto vicina, spingano la stessa a gesti disperati o comunque non voluti.
Il Tribunale adito, specificava inoltre che “In tema di estorsione, la violenza o la minaccia può essere manifestata in modi e forme differenti, purché venga a crearsi la condizione di costrizione psichica della vittima volta, ad ottenere un profitto ingiusto per sé o per altri, con danno altrui".
Cari lettori, nel rimanere in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, colgo l’occasione per porgerVi i miei migliori auguri di Buone Feste!
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai metodi d’insegnamento degli insegnanti ed il rapporto con i loro alunni. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “A quali responsabilità va incontro la maestra che adotta metodi d’insegnamento anche violenti?
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui ha avuto modo recentemente di pronunciarsi la Corte di Cassazione, rappresentando, riguardo alle condotte contornate da qualsiasi utilizzo della violenza poste in essere da una maestra, che, Ipotizzare un mero abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il quale «consiste nell'uso non appropriato di metodi, strumenti e, comunque, comportamenti correttivi o educativi, in via ordinaria consentiti dalla disciplina generale e di settore nonché dalla scienza pedagogica, quali, a mero titolo esemplificativo, l'esclusione temporanea dalle attività ludiche o didattiche, l'obbligo di condotte riparatorie, forme di rimprovero non riservate».
Su questo fronte i giudici chiariscono che l'uso di determinati metodi poco ortodossi «deve ritenersi appropriato, quando ricorrano la necessità dell'intervento correttivo, in conseguenza dell'inosservanza, da parte dell'alunno, dei doveri di comportamento su di lui gravanti, e la proporzione tra tale violazione e l'intervento correttivo adottato, sotto il profilo del bene-interesse del destinatario su cui esso incide e della compressione che ne determina».
Di conseguenza, «qualsiasi forma di violenza, invece, sia essa fisica che psicologica, non costituisce mezzo di correzione o di disciplina, neanche se posta in essere a scopo educativo. E qualora di essa si faccia uso sistematico, quale ordinario trattamento del minore affidato, la condotta non rientra nella fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, bensì in quella di maltrattamenti».
Tirando le somme, «l'abuso di mezzi di correzione o di disciplina, qualora sistematico e tale da determinare all'interno della classe un regime di abituale prevaricazione in danno degli alunni e di una loro afflizione, integra il più grave delitto di maltrattamenti»; e per escludere l'abuso dei mezzi di correzione in luogo del più grave reato di maltrattamenti è sufficiente rilevare la commissione di vari e reiterati episodi da parte della maestra verso i suoi alunni condotte caratterizzate da violenza fisica, ingiurie e minacce, che come non possono mai annoverarsi tra i mezzi di correzione consentiti e, in ipotesi, suscettibili di un uso inappropriato».
Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità e in risposta alla domanda della nostra lettrice, si può affermare che: “Commette il reato più grave di maltrattamenti invece di quello di abuso dei mezzi di correzione la maestra che reitera condotte violente siano esse fisiche sia verbali quali minacce e ingiurie in quanto non possono mai annoverarsi tra i mezzi di correzione consentiti” (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 46924 del 12.10.2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alle cure mediche e nello specifico al rapporto medico-paziente.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "A quali responsabilità va incontro il medico di guardia che, contattato telefonicamente, non si reca a prestare l’assistenza medica domiciliare?"
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui ha avuto modo recentemente di pronunciarsi la Corte di Cassazione, secondo la quale: “Vero è che l'art. 13, comma 3, dell'accordo collettivo nazionale per la regolamentazione dei rapporti con i medici addetti al servizio di guardia medica ed emergenza territoriale, reso esecutivo (ai sensi dell'art. 48 legge 23 dicembre 1978, n. 833) con D.P.R. 25 gennaio 1941, n. 41, postula un apparente automatismo ove stabilisce che il medico di continuità assistenziale «è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che siano chiesti direttamente dall'utente [...] entro la fine del turno al quale è preposto»".
Tuttavia, altre fonti normative, rilevanti nel caso concreto, puntualizzano che, come d'altronde logico, il medico «deve valutare, sotto la propria responsabilità, l'opportunità di fornire un consiglio telefonico, recarsi al domicilio per una visita, invitare l'assistito in ambulatorio».
Nel caso di specie, si configuravano, pertanto, tre opzioni al cui interno il medico imputato era chiamato a scegliere, in base al suo apprezzamento della situazione concreta.
Ebbene, posto che la terza possibilità era fuori discussione a causa dell'età e delle condizioni della paziente (la signora per la quale era richiesto l'intervento era molto anziana ed ammalata e non era dunque nelle condizioni di recarsi a una visita ambulatoriale), dai fatti emerge come il medico non si fosse nemmeno prestato ad un consulto telefonico: «neppure ha rivolto consigli terapeutici puntuali, tale non potendo ritenersi l'alternativa di chiedere l'intervento di un'ambulanza ovvero, se la situazione fosse rimasta stazionaria, rivolgersi, il giorno dopo, al medico di base».
Deve ribadirsi che la necessità e l'urgenza di effettuare una visita domiciliare, in virtù di quanto previsto dal citato l'articolo 13 dell'accordo collettivo nazionale, è rimessa alla valutazione discrezionale del sanitario di guardia, sulla base della propria esperienza, ma tale valutazione sommaria non può prescindere dalla conoscenza del quadro clinico del paziente, acquisita dal medico attraverso la richiesta di indicazioni precise circa l'entità della patologia dichiarata (Sez. 6, n. 34047 del 14/01/2003, Miraglia, Rv. 226594): richiesta che, nel caso di specie, non risulta essere stata formulata.
Pertanto, l'unica opzione residua era, dunque, la visita domiciliare, in relazione alla cui mancata esecuzione l'imputato non ha addotto alcun legittimo impedimento.
Anche la censura della mancanza del requisito dell'urgenza, insito nella necessità - secondo il dettato dell'art. 328 cod. pen. - che l'atto vada «compiuto senza ritardo», sul punto, la giurisprudenza di legittimità riconosce pacificamente la connotazione discrezionale della valutazione del medico, riservando tuttavia al giudice il potere di sindacarla quando emergano elementi che evidenzino l'evidente erroneità di quest'ultima (in tal senso: Sez. 6, n. 23817 del 30/10/2012,dep.2013,Tomas,Rv, 255715;Sez. 6, n. 12143 del 11/02/2009, Bruno, Rv. 242922; Sez. 6, n. 34047 del 14/01/2003, Miraglia, cit.).
Si rileva che nel giudizio in esame, «È evidente che, nel caso di specie, il quadro clinico descritto dall'utente avrebbe imposto di recarsi immediatamente al domicilio della malata, affetta da difficoltà respiratorie in un contesto di età avanzata»; dunque, premesso che l'omissione di atti d'ufficio ha natura di reato di pericolo, sulla base della ricostruzione del fatto tale pericolo (nel caso di specie, per la salute dell'assistito) sussisteva al momento della realizzazione della condotta omissiva.
Per la stessa ragione risulta impossibile negare la sussistenza del dolo, poiché l'imputato non si sarebbe rappresentato la necessità di compiere l'atto senza ritardo, non avendo egli ritenuto urgente la condizione clinica della donna.
Infatti, in base alla ricostruzione operata dai giudici di merito, l'indifferibilità dell'atto dell'ufficio era ragionevolmente ipotizzabile al momento della telefonata, alla luce delle circostanze del fatto (quali le condizioni e l'età della donna, nonché la tipologia di sintomi riferita dal figlio), con la conseguenza che il soggetto agente non poteva che essersela rappresentata.
Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità e in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: "Commette il reato di omissione d’atti d’ufficio il medico che non va dalla paziente nell’impossibilità a muoversi data dall’età della stessa e soprattutto dalle gravi difficoltà respiratorie" (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 44057 del 28.10.2022).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento dei danni dovuti dall’affittuario a seguito di un contratto di locazione immobiliare.
Ecco la risposta del legal Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “A quali responsabilità va incontro l’inquilino, che alla scadenza di un contratto di locazione ad uso abitativo, riconsegna l’immobile danneggiato?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui spesso ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, sancendo il generale principio giuridico secondo il quale:
“Qualora, in violazione dell'art. 1590 c.c., al momento della riconsegna la cosa locata presenti danni eccedenti il degrado dovuto al normale uso della stessa, incombe al conduttore l'obbligo di risarcire tali danni; pertanto, il locatore può addebitare al conduttore la somma necessaria al ripristino del bene nelle stesse condizioni in cui era all'inizio della locazione, dedotto il deterioramento derivante dall'uso conforme al contratto” (Cass. Civ.; Sez. III; sentenza n.23721del 16/09/2008) .
Infatti l’art. 1590 c.c. al comma 1°, escludendo la naturale alterazione dello stato dell’immobile, conseguente all’utilizzo prolungato dello stesso, fissa in capo all’affittuario l’obbligo di riconsegnare in buone condizioni la cosa locata, stabilendo testualmente: “Il conduttore deve restituire la cosa al locatore nello stato medesimo in cui l'ha ricevuta, in conformità della descrizione che ne sia stata fatta dalle parti, salvo il deterioramento o il consumo risultante dall'uso della cosa in conformità del contratto”.
In aggiunta, con la recentissima Ordinanza n. 6596/2019, la Suprema Corte chiamata a pronunciarsi sulla colpevolezza del conduttore di un immobile riconsegnato con danni di gran lunga eccedenti il normale utilizzo, ha valutato la circostanza relativa alla gravosità della messa in ripristino dell’appartamento, estendendo la sua responsabilità, oltre che al risarcimento del costo dei lavori di ristrutturazione occorrenti, anche al pagamento dei canoni d’affitto per il periodo necessario alle riparazioni effettuate dal locatore, non potendo quest’ultimo disporre in nessun modo del proprio immobile, né dunque, trarne alcun vantaggio.
Difatti, la Corte adita, ha fatto proprio il principio giuridico secondo il quale, qualora a causa della condotta posta in essere dal conduttore, sia preclusa al locatore la diretta disponibilità dell’immobile, quest’ultimo conservi in ogni caso, il diritto a conseguire il corrispettivo convenuto, equiparando il periodo necessario per i lavori di restauro, alla ritardata restituzione dell’immobile, disciplinata dall’art. 1591 c.c., il quale prevede espressamente che: “Il conduttore in mora a restituire la cosa, è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno”.
Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità ed in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che:
“Qualora, in violazione dell’art. 1590 c.c., al momento della riconsegna l’immobile locato presenti danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, incombe al conduttore l’obbligo di risarcire tali danni, consistenti non solo nel costo delle opere necessarie per la rimessione in pristino, ma anche nel canone altrimenti dovuto per tutto il periodo necessario per l’esecuzione e il completamento di tali lavori, senza che, a quest’ultimo riguardo, il locatore sia tenuto a provare anche di aver ricevuto – da parte di terzi – richieste per la locazione, non soddisfatte a causa dei lavori” (Cass. Civ. ; Sez. III; Ord. n. 6596 del 07/03/2019). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avv. Oberdan Pantana,“Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili alla condotta di chi utilizza l’identità digitale di un altro soggetto, sostituendosi a questo per la generalità degli utenti in connessione, nel porre in essere le più disparate attività.
Di seguito la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche, che chiede: a quali responsabilità si va incontro qualora venga creato un account con le generalità di una persona terza, per il compimento di acquisti online?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica estremamente attuale sulla quale si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 42572/2018, affermando la responsabilità penale del soggetto ai sensi dell’art. 494 c.p., la cui norma sancisce espressamente:
“Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino a un anno”.
Difatti, la Suprema Corte adita ha statuito quanto segue: “Integra il reato di sostituzione di persona, ex art. 494 c.p. , la condotta di colui che crei ed utilizzi un account ed una casella di posta elettronica nonché proceda all’iscrizione su un sito e-commerce, servendosi dei dati anagrafici di un soggetto diverso e inconsapevole, con il fine di far ricadere su quest'ultimo l'inadempimento delle obbligazioni conseguente all'avvenuto acquisto di beni mediante la partecipazione ad aste in rete o ad altri strumenti contrattuali.
Tanto in quanto porre in essere una condotta con siffatta modalità è prova che l’agente abbia volontariamente sostituito, per la generalità degli utenti in connessione, alla propria identità quella di altri, a prescindere dalla propalazione all'esterno delle diverse generalità utilizzate” (Cass. Pen., Sez. V, n. 42572/2018, dep. il 27/09/2018).
Pertanto, nell’analizzare le ripercussioni giuridiche che tali condotte possono avere, è necessario considerare che in una realtà come quella contemporanea, nella quale si fa un uso sempre maggiore dei sistemi telematici per il compimento di una varietà in crescendo di attività, le credenziali adoperate per l’utilizzo delle varie piattaforme, rappresentano il soggetto agente tanto da costituire un vero e proprio surrogato della persona fisica; dunque, la tutela offerta dal legislatore, è intesa a garantire la pubblica fede ed evitare che l’utilizzo di raggiri e artifizi, nel contesto di una società in continua evoluzione, possano trarre in inganno quanti operano in tali settori.
Alla luce di tali considerazioni, e in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che, “chiunque in modo volontario e al fine specifico di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, utilizzi l’identità digitale di un soggetto terzo ignaro e inconsapevole, è punito ai sensi dell’art. 494 c.p. con la reclusione fino ad un anno” (Cass. Pen., Sez. V, n. 42572/2018). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.