Chiedilo all'avvocato

Difensore provoca all'attaccante frattura della tibia: normale fallo di gioco o responsabilità penale?

Difensore provoca all'attaccante frattura della tibia: normale fallo di gioco o responsabilità penale?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante alle possibili responsabilità penali di un atleta nella pratica dello sport e nello specifico nel gioco del calcio. Ecco l’analisi dell’avv. Oberdan Pantana: "Con grande piacere che mi accingo ad affrontare il seguente argomento sollecitato dalle mail dei lettori e nel farlo utilizzerò dei casi pratici che spesso e volentieri avvengono durante una competizione calcistica. Ultimissimi minuti del match. Risultato – importantissimo – ancora in bilico. Contropiede fulmineo della squadra ospite. L’attaccante, palla al piede, si dirige verso l’area avversaria, quando irrompe il difensore che, pur volendo colpire la sfera, centra in pieno la gamba sinistra del ‘numero 9’.  Grave infortunio per l’attaccante: frattura della tibia. In primo e in secondo grado, viene confermata la condanna per il difensore locale per il reato di lesioni colpose di cui all’art. 590 c.p.; in Cassazione, invece, viene assolto con formula piena, per l’assenza di tale tipologia di responsabilità. Smentita la visione tracciata dai giudici del Tribunale prima e da quelli della Corte d’appello poi: decisiva l’applicazione del cosiddetto "rischio consentito", con riferimento ad «eventi lesivi causati nel corso di incontri sportivi». Nessun dubbio sulla dinamica del rilevante scontro di gioco, verificatosi durante tale partita; evidente, infatti, la condotta scorretta del difensore della squadra di casa, evento, però, frutto di un eccessivo «agonismo» e di un errore nel calcolo della «tempistica dell’intervento di gioco»: egli, infatti, ha mirato «il pallone», ma ha «finito per colpire la gamba dell’attaccante, che, in anticipo, già aveva allungato la sfera in avanti. Rilevante il contesto: «l’infortunio maturò in un frangente particolarmente intenso», cioè «gli ultimi minuti dell’incontro», e durante «una azione di gioco decisiva» per un match «rilevante per il campionato». Significativo anche il fatto che l’azione del difensore, pur in trance agonistica, «era manifestamente indirizzata a interrompere l’azione di contropiede, mediante il tentativo di impossessarsi regolarmente del pallone», sottraendolo all’attaccante. Tutto ciò, spiegano correttamente i magistrati della Cassazione, consente di ritenere meritevole di censura il gesto compiuto dal difensore, però solo nell’ambito dell’«ordinamento sportivo». Va esclusa, quindi, la «antigiuridicità» a livello penale del «fallo» compiuto sul campo da calcio. Evidente la colpa del difensore, sanzionabile, però, solo in ambito sportivo, non certo in quello penale (Cassazione, sentenza n. 9559/2016, Sezione Quarta Penale). Così come: "derby infuocato", il difensore colpisce l’avversario con un pugno con l’azione di gioco distante da tale evento: in tal caso la Suprema Corte ha giustamente confermato la sentenza di condanna dell’imputato/difensore locale, “trattandosi di un’aggressione fisica intenzionale, per ragioni avulse dalla dinamica sportiva”. Il Collegio di legittimità, ritenendo corretta la valutazione svolta dalla Corte territoriale, afferma che «in tema di competizioni sportive, non è applicabile la “scriminante atipica” del rischio consentito, qualora nel corso di un incontro di calcio, l’imputato colpisca l’avversario con un pugno al di fuori di un’azione ordinaria di gioco, trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva». Il catalogo piuttosto ristretto delle scriminanti “codificate” non fa espressa menzione dell'esimente sportiva, che appartiene – per dottrina e giurisprudenza ormai ben consolidate – al novero delle esimenti non espressamente contemplate nel codice, ma di fatto esistenti. Queste ultime sono figlie dell'evoluzione naturale del diritto penale, che, nel suo adeguarsi alla realtà sociale in cui si applica, deve necessariamente calibrare la risposta punitiva alle infinite, lecite, ma talvolta rischiose, forme in cui può esprimersi la condotta umana. Lo sport è una di esse: chi lo pratica – non importa se professionalmente o per diletto - mette in conto di poter subire anche conseguenze pregiudizievoli per la propria integrità fisica: il rischio che ogni sportivo accetta è, appunto, un rischio consentito. Qual è, a questo punto, il limite che non deve essere oltrepassato per sconfinare nell'illecito penale? Il consenso che – tacitamente – si esprime prendendo parte ad una competizione sportiva, implica, come già detto, l'accettazione di un rischio, più o meno calcolato. Questo calcolo si basa, evidentemente, anche sull'affidamento che tutti i partecipanti alla competizione conoscano e si conformino alle regole della disciplina sportiva praticata. Secondo la giurisprudenza, che dimostra di non ignorare la “realtà naturale” dell'agonismo, l'involontario travalicamento delle regole di gioco non è sufficiente per aprire le porte alla responsabilità penale nel caso in cui dovessero verificarsi conseguenze lesive per alcuno degli atleti. Il discorso cambia del tutto nell'ipotesi in cui l'incontro sportivo diventi un pretesto per dare sfogo a gesti gratuitamente violenti, o che comunque non sono giustificabili con il gesto atletico richiesto dal gioco del calcio. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                             

12/02/2023 10:10
"Crisi coniugale" e trasferimento immobiliare: gli effetti dell'accordo

"Crisi coniugale" e trasferimento immobiliare: gli effetti dell'accordo

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla natura e agli effetti dell’atto di trasferimento della proprietà posto in essere in sede di separazione dei coniugi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "La proprietà di un immobile trasferito da un ex coniuge in favore dell’altro può essere soggetto ad aggressione da parte dei creditori del primo?" Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente delicata, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.27409/2019, affermando testualmente quanto segue: “Gli accordi di separazione personale, contenenti attribuzioni patrimoniali relative a beni mobili o immobili, rispondono ad uno specifico spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento della separazione, il quale sfugge alle connotazioni classiche sia dell’atto di donazione sia dell’atto di vendita e svela una sua tipicità propria, la quale poi, di volta in volta, può colorarsi dei tratti dell’obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità. La necessità di accertare la natura onerosa o meno dell’atto rileva ai fini della disciplina di cui all’art. 2901 c.c." (Cass. Civ.; Sez. II; Ord. n. 27409/2019 del 25.10.2019). Difatti, l’art. 2901 del codice civile citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a termine, può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio coi quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni […]”, disciplina l’istituto dell’azione revocatoria, la quale favorisce il creditore permettendogli di ottenere la dichiarazione di inefficacia, nei suoi confronti, degli atti di disposizione del patrimonio con cui il debitore abbia arrecato pregiudizio alle sue ragioni, ad esempio ponendo in essere un atto di trasferimento di proprietà a titolo gratuito e perciò, diminuendo in modo consistente il proprio patrimonio, a discapito del suddetto creditore. A tal proposito occorre rilevare, che il problema principale sotteso a tale questione, attiene al profilo solutorio o meno dell'atto traslativo, dal momento che, essendo l'atto di adempimento di un'obbligazione notoriamente sottratto a siffatta azione revocatoria, la qualificazione dei negozi traslativi in esame, come negozi a carattere solutorio, fornirebbe un ostacolo insuperabile avverso le pretese dei creditori in sede di azione individuale ex art. 2901 c.c.. Per tali ragioni la giurisprudenza di legittimità si è dovuta occupare più volte della questione di come qualificare sotto il profilo causale le attribuzioni patrimoniali traslative che accompagnano la sistemazione dei rapporti economici tra ex marito e moglie, affermando al riguardo come non sia possibile una definizione aprioristica circa la natura di tali trasferimenti, dovendosi valutare caso per caso, a che titolo essi vengano disposti. Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice e in linea con l’unanime orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, si può affermare che: "Gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell'uno nei confronti dell'altro e concernenti beni mobili o immobili, non risultano collegati necessariamente alla presenza di uno specifico corrispettivo o di uno specifico riferimento ai tratti propri della donazione (dato il contesto come quello della separazione personale, caratterizzato proprio dalla dissoluzione delle ragioni dell'affettività), tanto più, che per quanto può interessare ai fini di una eventuale loro assoggettabilità all'actio revocatoria di cui all'art. 2901 c.c. rispondono, di norma, ad un più specifico e proprio originario spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell'evento di separazione consensuale, il quale, sfuggendo, in quanto tale, anche dalle connotazioni classiche dell'atto di vendita (attesa oltretutto l'assenza di un prezzo corrisposto), svela, di norma, una sua "tipicità" propria la quale poi, volta a volta, può, ai fini della disciplina di cui all'art. 2901 c.c., colorarsi dei tratti dell'obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità, in ragione dell'eventuale ricorrenza o meno, nel concreto, dei connotati di una sistemazione "solutorio-compensativa" più ampia e complessiva, di tutta quell'ampia serie di possibili rapporti patrimoniali maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale" (Cass. Civ.; Sez.III; Sent. n. 10443 dep. 15.04.2019). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

05/02/2023 10:20
Medico del Pronto Soccorso non approfondisce le condizioni del paziente: condannato per omicidio colposo

Medico del Pronto Soccorso non approfondisce le condizioni del paziente: condannato per omicidio colposo

Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla responsabilità medica; ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “E’ responsabile il medico del Pronto Soccorso che non approfondisce le condizioni del paziente che successivamente muore?”. Ci è utile riguardo il caso di specie approfondire una recente vicenda nella quale un medico di pronto soccorso è stato condannato di omicidio colposo per avere, con condotte omissive e per colpa, cagionato la morte di un paziente, non essendo stato sottoposto ad ulteriori esami diagnostici che avrebbero potuto rilevare la sua patologia ischemica e sottoporlo a defibrillazione. A tal proposito la Suprema Corte ha confermato quanto precedentemente provato sia in I° che in II° grado e precisamente che, “ove i necessari esami diagnostici fossero stati eseguiti dal medico nella prospettiva di una diagnosi differenziale, l'episodio infartuale acuto in corso sul paziente sarebbe stato immediatamente accertato, e lo stesso sarebbe stato immediatamente avviato all'unità di terapia intensiva coronarica, ove gli sarebbe stata praticata la defibrillazione e, con elevato grado di probabilità logica, il paziente stesso si sarebbe salvato”. Riguardo alla natura colposa della condotta causante tenuta dal medico del Pronto Soccorso, la Cassazione osserva che, “vi erano tutte le condizioni che suggerivano, ed anzi imponevano al medico di turno di esperire accertamenti onde pervenire a una diagnosi differenziale, ossia di considerare l'ipotesi tutt'altro che remota che i sintomi presentati dal paziente potessero essere correlati a episodio di cardiopatia ischemica acuta e che si dovesse pertanto procedere ad accertamenti in tale direzione, i quali avrebbero nella specie dato conferma dell'evento”, tenuto infine conto che, “nel caso di specie il dolore ad ambedue le braccia, associato ad episodio emetico, avrebbe imposto un accertamento circa la possibile riferibilità del quadro clinico a patologia ischemica ciò che il dott. omise di fare”. L’obbligo di garanzia del medico di Pronto Soccorso è definito dalle specifiche competenze che sono proprie di quella branca della medicina d’emergenza (o d’urgenza). Vi rientrano l’esecuzione di alcuni accertamenti clinici, la decisione circa le cure da prestare e l’individuazione delle prestazioni specialistiche eventualmente necessarie, nonché la decisione inerente al ricovero del paziente e alla scelta del reparto reputato più idoneo. A fronte di una diagnosi differenziale non ancora risolta, il medico deve compiere gli accertamenti diagnostici necessari per accertare quale sia la patologia effettivamente patita e adeguare le cure a queste possibilità. Pertanto, l’esclusione di ulteriori accertamenti può essere giustificata solo dalla raggiunta certezza che una di queste patologie possa essere esclusa. Fino a quando il dubbio diagnostico non sia stato risolto, invece, il medico non deve accontentarsi del raggiunto convincimento di aver individuato la patologia esistente quando non sia in grado di escludere patologie alternative. Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, “In tema di responsabilità medica, risponde di omicidio colposo il medico di pronto soccorso che ha cagionato la morte di un paziente per non aver disposto indagini diagnostiche atte ad effettuare la diagnosi differenziale e limitandosi a un esame superficiale” (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 1665/2023) Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

29/01/2023 10:00
Pacchetto vacanza “tutto compreso”, ma gastroenterite nel villaggio turistico: scatta risarcimento

Pacchetto vacanza “tutto compreso”, ma gastroenterite nel villaggio turistico: scatta risarcimento

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento danni per fatti accorsi durante il viaggio o vacanza. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "Sono responsabili l’agenzia viaggi e il tour operator se dopo aver acquistato un pacchetto vacanza 'tutto compreso' scoppia un caso gastroenterite tra i turisti del villaggio?".  Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte, riguardo una vicenda in cui una famiglia aveva acquistato un pacchetto turistico "all inclusive" per il soggiorno in un villaggio turistico, ma dopo due giorni dall'arrivo, prima un figlio, poi l'altro e infine la moglie venivano colpiti da gastroenterite e ricoverati nell'ospedale locale. Rimane accertato che anche altri 20 ospiti del medesimo villaggio erano stati ricoverati per i medesimi disturbi intestinali, causati da cibi o bevande consumati nel villaggio. A tal proposito risulta utile precisare che il contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" si distingue dal contratto di intermediazione di viaggio di cui alla Convenzione di Bruxelles del 1970 (resa esecutiva in Italia con l. n. 1084/1977), in quanto spicca la finalità turistica, che ne permea e connota la causa concreta (Cassazione civile sez. III, 02/03/2012, n.3256; Cassazione civile sez. III, 24/04/2008, n.10651). Il contratto di viaggio tutto compreso (pacchetto turistico o package) è diretto a realizzare l'interesse del turista-consumatore al compimento di un viaggio con finalità turistica o a scopo di piacere, sicché tutte le attività e i servizi strumentali alla realizzazione dello scopo vacanziero sono essenziali e qualificano la causa e il contratto stesso. Quindi l'organizzatore e il venditore devono operare con la diligenza professionale qualificata dalla specifica attività esercitata, per soddisfare l'interesse creditorio dell'acquirente il pacchetto. Così si evidenzia la differenza dal contratto di organizzazione o di intermediazione di viaggio, in base al quale un operatore turistico professionale si obbliga verso corrispettivo a procurare uno o più servizi di base (trasporto, albergo, etc.) per l'effettuazione di un viaggio o di un soggiorno. Rispetto a quest'ultimo, le prestazioni e i servizi si profilano come separati e vengono in rilievo diversi tipi di rapporto, prevalendo gli aspetti dell'organizzazione e dell'intermediazione con applicazione in particolare della disciplina del trasporto ovvero - in difetto di diretta assunzione da parte dell'organizzatore dell'obbligo di trasporto del cliente - del mandato senza rappresentanza o dell'appalto di servizi. Nel contratto di viaggio vacanza tutto compreso, invece, la pluralità di servizi ed accessori connota proprio la finalità turistica del contratto nella loro unitarietà funzionale. Si tratta di un'obbligazione di risultato nell'ambito del rischio di impresa (e nel rischio connaturato nell'avvalersi di terzi) nei confronti dell'acquirente e, pertanto, sussiste la responsabilità solidale (Cass. Civ., Sez. III, Ord. n. 1417/2023). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di merito e di legittimità si può affermare che: "Il tour operator risponde dell'inadempimento del contratto di vendita di pacchetto turistico - con conseguente obbligo di risarcire i danni al turista a causa di disservizi o carenze nelle prestazioni promesse e poi concretamente fornite -, sia quando l'inadempimento sia imputabile direttamente al proprio operato o al fatto dei propri ausiliari, sia quando ascrivibile a terzi fornitori di servizi inclusi nel pacchetto turistico dei quali il tour operator si è servito per l'esecuzione dell'obbligazione (Trib. Torino, Sez. III, sentenza n. 3882/2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                                               

22/01/2023 10:07
Cambia la serratura di casa per non far entrare comproprietario: condannato

Cambia la serratura di casa per non far entrare comproprietario: condannato

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra comproprietari di beni immobili e relative problematiche. Il caso di specie scelto è di un lettore di Morrovalle che chiede: "A quali responsabilità può andare incontro chi da proprietario al 50% di un immobile cambia la serratura della porta d’ingresso negando così l’entrata all’altro comproprietario?" Il caso di specie ci porta ad analizzare il reato di cui all’art. 610 c.p. secondo il quale, “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni". Difatti, come da orientamento giurisprudenziale consolidato di legittimità, "si ravvisa il delitto di violenza privata anche nella condotta di chi impedisce l’esercizio dell’altrui diritto di accedere ad un locale o ad una delle stanze di un’abitazione, chiudendone a chiave la serratura o cambiandola senza il consenso e la relativa consegna delle nuove chiavi" (Cass., Pen., Sez. V, n. 4284 del 29.9.2015).  A tal proposito, si evidenzia che, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il delitto di cui all’art 610 c.p. si qualifica come reato d’evento e a forma vincolata: il fatto tipico consiste, infatti, nel costringere altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, mediante l’impiego di violenza o di minaccia. Quanto al concetto di violenza rilevante - che è quello che in questa sede interessa - esso è costituito dall’esplicarsi di una qualsiasi energia fisica da cui derivi una coazione personale; non rileva, né la qualità dei mezzi adoperati, né che essi siano diretti o indiretti, di carattere materiale o psicologico, occorrendo solo l’idoneità di essi al raggiungimento dello scopo che è quello di costringere altri a fare, tollerare od omettere qualcosa. Si parla di violenza in due diverse accezioni: violenza propria e violenza impropria; la prima deve intendersi quella fisica che si esplica direttamente sulla vittima, mentre quella “impropria”, si esplica attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, configurabili anche laddove essa non si indirizzi contro l’altrui persona, ma sulle cose, alla sola condizione che dispieghi un’effettiva incidenza costrittiva sulla volontà della vittima.  Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “Integra il reato di violenza privata ex art. 610 c.p. impedire l'esercizio dell'altrui diritto di accedere ad una stanza di un'abitazione o di un locale chiudendola a chiave o cambiandone la serratura” (Cass. Pen.; sentenza n. 38910/2018). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.              

15/01/2023 09:50
Gioca a carte e perde oltre mille euro a Natale: la moglie chiede separazione

Gioca a carte e perde oltre mille euro a Natale: la moglie chiede separazione

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato diversi argomenti a carattere natalizio e, data la diffusa atmosfera di festa, nonché la singolare curiosità espressa dai molteplici lettori per circostanze che riguardano direttamente e indirettamente le festività natalizie, si riportano di seguito le risposte dell’avv. Oberdan Pantana riguardo le seguenti situazioni: - Di seguito la risposta alla domanda di un lettore di Civitanova che chiede: "Se durante il cenone della vigilia, nello stappare lo spumante colpisco con il tappo uno dei presenti, in quali responsabilità posso incorrere?" Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, il riferimento a quanto accaduto al titolare di un ristorante che, preso dall’euforia dei festeggiamenti, finiva per ferire all’occhio una cliente che sedeva poco distante, con il tappo dello spumante appena aperto. La Suprema Corte pronunciatasi sulla vicenda, ravvisava nella condotta dell’euforico ristoratore, il reato di lesioni colpose, a causa della mancata adozione delle idonee cautele del caso, condannandolo alla pena prevista dall’art. 590 c.p. che stabilisce testualmente: “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a 309 euro”. (Cass. Pen., Sez. IV, n.32548 del 12.07.2016) - In risposta alla domanda di un lettore di Porto Recanati che chiede: "Se a causa di un ritardo del volo prenotato, ci viene impedito di trascorrere le festività con i nostri cari, può essere richiesto il risarcimento del danno subito?" Riportiamo la sentenza del Giudice di Pace di Cagliari (n. 571/2012) che, pronunciatosi su un caso molto simile, aveva condannato la compagnia aerea a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali ad un passeggero che era stato costretto a trascorrere la vigilia di Natale in aeroporto, consumando il “cenone” in solitaria con del cibo acquistato presso un bar poco distante dal gate. L'uomo difatti, oltre al risarcimento per il danno esistenziale subito, era stato ristorato anche dei danni patrimoniali comprese le spese per comprare i due "tristi" panini del “cenone natalizio”!  -Di seguito la risposta ad un lettore di Tolentino che ci chiede: "E’ legittimo il licenziamento di un dipendente che, in occasione delle festività natalizie, decide in piena autonomia di concedersi delle ferie per stare con la propria famiglia?" Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica molto importante sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20461 del 30.09.2010 in riferimento alla condotta posta in essere da un dipendente che, nonostante il rifiuto della richiesta da parte del datore di lavoro, decideva di non presentarsi comunque al lavoro, rimanendo a casa da Natale a Capodanno. La Suprema Corte chiamata a pronunciarsi, aveva rilevato che “considerata la mancata prova delle circostanze che potevano rilevare nel rendere più lieve l'infrazione e quindi eccessiva la sanzione del licenziamento, ai fini del giudizio di necessaria proporzionalità, l'allontanamento arbitrario dal posto di lavoro dal 24 al 31 dicembre, malgrado il rifiuto dell'azienda datrice, costituiva giusta causa di recesso, conformemente peraltro a quanto previsto dall'art. 151 del CCNL”, che disciplina i tempi, le circostanze e le modalità con cui il lavoratore può legittimamente richiede un periodo di aspettativa al proprio datore di lavoro; circostanze non rispettate nel caso di specie. Con tali motivazioni dunque, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso formulato dal lavoratore e dichiarava la legittimità del licenziamento posto in essere dal datore di lavoro.  - In risposta alla domanda posta da un lettore di Montegranaro che chiede: "Essere un giocatore di carte soprattutto nel periodo natalizio può comportare ripercussioni in sede di separazione?" Riportiamo la decisione assunta dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.5395/2014, che, chiamata a pronunciarsi in merito ad un caso di separazione giudiziale dei coniugi, aveva stabilito l’addebito della separazione in capo al marito, il quale era solito spendere molto denaro nel gioco e che, solo nel periodo natalizio, aveva sperperato oltre 1.000 euro giocando a carte.  La Suprema Corte adita aveva infatti chiarito che “anche il gioco d'azzardo, ripetuto ed eccessivo, viola in modo grave gli obblighi matrimoniali sino a rendere la convivenza intollerabile e a far scaturire separazione e consequenziale addebito".  Difatti, il discutibile vizio che impegnava il marito della coppia per diverse ore al giorno, assentandosi quasi totalmente nel periodo natalizio oltre a rappresentare una cattiva abitudine, lo portava a stare spesso, e senza alcun giustificato motivo, fuori casa, non ottemperando ai propri doveri di marito e padre, per di più sottraendo grosse somme di denaro alla cura e al sostentamento della propria famiglia.  - In risposta alla domanda di un lettore di Corridonia che chiede: "È penalmente sanzionabile un soggetto che invia infausti auguri di Natale?" Riportiamo la pronuncia del Tribunale di Bari, che con sentenza depositata il 25 febbraio 2015, ha condannato per estorsione un uomo che si era rivolto più volte alla sua vittima minacciandola ripetutamente del fatto che, se non gli avesse dato i soldi richiesti, la madre avrebbe passato “un brutto Natale”. Difatti l’art. 629 c.p. punendo “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno” intende scongiurare che la prospettazione di un evento dannoso per l'incolumità fisica della vittima o di una persona ad essa molto vicina, spingano la stessa a gesti disperati o comunque non voluti. Il Tribunale adito, specificava inoltre che “In tema di estorsione, la violenza o la minaccia può essere manifestata in modi e forme differenti, purché venga a crearsi la condizione di costrizione psichica della vittima volta, ad ottenere un profitto ingiusto per sé o per altri, con danno altrui".  Cari lettori, nel rimanere in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, colgo l’occasione per porgerVi i miei migliori auguri di Buone Feste!  

25/12/2022 09:00
Maestra adotta metodi d’insegnamento eccessivi: a quali responsabilità va incontro?

Maestra adotta metodi d’insegnamento eccessivi: a quali responsabilità va incontro?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai metodi d’insegnamento degli insegnanti ed il rapporto con i loro alunni. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “A quali responsabilità va incontro la maestra che adotta metodi d’insegnamento anche violenti? Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui ha avuto modo recentemente di pronunciarsi la Corte di Cassazione, rappresentando, riguardo alle condotte contornate da qualsiasi utilizzo della violenza poste in essere da una maestra, che, Ipotizzare un mero abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il quale «consiste nell'uso non appropriato di metodi, strumenti e, comunque, comportamenti correttivi o educativi, in via ordinaria consentiti dalla disciplina generale e di settore nonché dalla scienza pedagogica, quali, a mero titolo esemplificativo, l'esclusione temporanea dalle attività ludiche o didattiche, l'obbligo di condotte riparatorie, forme di rimprovero non riservate». Su questo fronte i giudici chiariscono che l'uso di determinati metodi poco ortodossi «deve ritenersi appropriato, quando ricorrano la necessità dell'intervento correttivo, in conseguenza dell'inosservanza, da parte dell'alunno, dei doveri di comportamento su di lui gravanti, e la proporzione tra tale violazione e l'intervento correttivo adottato, sotto il profilo del bene-interesse del destinatario su cui esso incide e della compressione che ne determina». Di conseguenza, «qualsiasi forma di violenza, invece, sia essa fisica che psicologica, non costituisce mezzo di correzione o di disciplina, neanche se posta in essere a scopo educativo. E qualora di essa si faccia uso sistematico, quale ordinario trattamento del minore affidato, la condotta non rientra nella fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, bensì in quella di maltrattamenti». Tirando le somme, «l'abuso di mezzi di correzione o di disciplina, qualora sistematico e tale da determinare all'interno della classe un regime di abituale prevaricazione in danno degli alunni e di una loro afflizione, integra il più grave delitto di maltrattamenti»; e per escludere l'abuso dei mezzi di correzione in luogo del più grave reato di maltrattamenti è sufficiente rilevare la commissione di vari e reiterati episodi da parte della maestra verso i suoi alunni condotte caratterizzate da violenza fisica, ingiurie e minacce, che come non possono mai annoverarsi tra i mezzi di correzione consentiti e, in ipotesi, suscettibili di un uso inappropriato». Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità e in risposta alla domanda della nostra lettrice, si può affermare che: “Commette il reato più grave di maltrattamenti invece di quello di abuso dei mezzi di correzione la maestra che reitera condotte violente siano esse fisiche sia verbali quali minacce e ingiurie in quanto non possono mai annoverarsi tra i mezzi di correzione consentiti” (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 46924 del 12.10.2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

18/12/2022 11:05
Medico di guardia non va dalla paziente: a quali responsabilità va incontro?

Medico di guardia non va dalla paziente: a quali responsabilità va incontro?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alle cure mediche e nello specifico al rapporto medico-paziente.  Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "A quali responsabilità va incontro il medico di guardia che, contattato telefonicamente, non si reca a prestare l’assistenza medica domiciliare?" Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui ha avuto modo recentemente di pronunciarsi la Corte di Cassazione, secondo la quale: “Vero è che l'art. 13, comma 3, dell'accordo collettivo nazionale per la regolamentazione dei rapporti con i medici addetti al servizio di guardia medica ed emergenza territoriale, reso esecutivo (ai sensi dell'art. 48 legge 23 dicembre 1978, n. 833) con D.P.R. 25 gennaio 1941, n. 41, postula un apparente automatismo ove stabilisce che il medico di continuità assistenziale «è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che siano chiesti direttamente dall'utente [...] entro la fine del turno al quale è preposto»". Tuttavia, altre fonti normative, rilevanti nel caso concreto, puntualizzano che, come d'altronde logico, il medico «deve valutare, sotto la propria responsabilità, l'opportunità di fornire un consiglio telefonico, recarsi al domicilio per una visita, invitare l'assistito in ambulatorio».  Nel caso di specie, si configuravano, pertanto, tre opzioni al cui interno il medico imputato era chiamato a scegliere, in base al suo apprezzamento della situazione concreta. Ebbene, posto che la terza possibilità era fuori discussione a causa dell'età e delle condizioni della paziente (la signora per la quale era richiesto l'intervento era molto anziana ed ammalata e non era dunque nelle condizioni di recarsi a una visita ambulatoriale), dai fatti emerge come il medico non si fosse nemmeno prestato ad un consulto telefonico: «neppure ha rivolto consigli terapeutici puntuali, tale non potendo ritenersi l'alternativa di chiedere l'intervento di un'ambulanza ovvero, se la situazione fosse rimasta stazionaria, rivolgersi, il giorno dopo, al medico di base». Deve ribadirsi che la necessità e l'urgenza di effettuare una visita domiciliare, in virtù di quanto previsto dal citato l'articolo 13 dell'accordo collettivo nazionale, è rimessa alla valutazione discrezionale del sanitario di guardia, sulla base della propria esperienza, ma tale valutazione sommaria non può prescindere dalla conoscenza del quadro clinico del paziente, acquisita dal medico attraverso la richiesta di indicazioni precise circa l'entità della patologia dichiarata (Sez. 6, n. 34047 del 14/01/2003, Miraglia, Rv. 226594): richiesta che, nel caso di specie, non risulta essere stata formulata. Pertanto, l'unica opzione residua era, dunque, la visita domiciliare, in relazione alla cui mancata esecuzione l'imputato non ha addotto alcun legittimo impedimento. Anche la censura della mancanza del requisito dell'urgenza, insito nella necessità - secondo il dettato dell'art. 328 cod. pen. - che l'atto vada «compiuto senza ritardo», sul punto, la giurisprudenza di legittimità riconosce pacificamente la connotazione discrezionale della valutazione del medico, riservando tuttavia al giudice il potere di sindacarla quando emergano elementi che evidenzino l'evidente erroneità di quest'ultima (in tal senso: Sez. 6, n. 23817 del 30/10/2012,dep.2013,Tomas,Rv, 255715;Sez. 6, n. 12143 del 11/02/2009, Bruno, Rv. 242922; Sez. 6, n. 34047 del 14/01/2003, Miraglia, cit.).  Si rileva che nel giudizio in esame, «È evidente che, nel caso di specie, il quadro clinico descritto dall'utente avrebbe imposto di recarsi immediatamente al domicilio della malata, affetta da difficoltà respiratorie in un contesto di età avanzata»; dunque, premesso che l'omissione di atti d'ufficio ha natura di reato di pericolo, sulla base della ricostruzione del fatto tale pericolo (nel caso di specie, per la salute dell'assistito) sussisteva al momento della realizzazione della condotta omissiva. Per la stessa ragione risulta impossibile negare la sussistenza del dolo, poiché l'imputato non si sarebbe rappresentato la necessità di compiere l'atto senza ritardo, non avendo egli ritenuto urgente la condizione clinica della donna. Infatti, in base alla ricostruzione operata dai giudici di merito, l'indifferibilità dell'atto dell'ufficio era ragionevolmente ipotizzabile al momento della telefonata, alla luce delle circostanze del fatto (quali le condizioni e l'età della donna, nonché la tipologia di sintomi riferita dal figlio), con la conseguenza che il soggetto agente non poteva che essersela rappresentata.  Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità e in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: "Commette il reato di omissione d’atti d’ufficio il medico che non va dalla paziente nell’impossibilità a muoversi data dall’età della stessa e soprattutto dalle gravi difficoltà respiratorie" (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 44057 del 28.10.2022).  Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

11/12/2022 09:50
Riconsegna della casa in affitto danneggiata: l’inquilino paga il canone per il periodo dei lavori

Riconsegna della casa in affitto danneggiata: l’inquilino paga il canone per il periodo dei lavori

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv.  Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento dei danni dovuti dall’affittuario a seguito di un contratto di locazione immobiliare. Ecco la risposta del legal Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “A quali responsabilità va incontro l’inquilino, che alla scadenza di un contratto di locazione ad uso abitativo, riconsegna l’immobile danneggiato?” Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui spesso ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, sancendo il generale principio giuridico secondo il quale: “Qualora, in violazione dell'art. 1590 c.c., al momento della riconsegna la cosa locata presenti danni eccedenti il degrado dovuto al normale uso della stessa, incombe al conduttore l'obbligo di risarcire tali danni; pertanto, il locatore può addebitare al conduttore la somma necessaria al ripristino del bene nelle stesse condizioni in cui era all'inizio della locazione, dedotto il deterioramento derivante dall'uso conforme al contratto” (Cass. Civ.; Sez. III; sentenza n.23721del 16/09/2008) . Infatti l’art. 1590 c.c. al comma 1°, escludendo la naturale alterazione dello stato dell’immobile, conseguente all’utilizzo prolungato dello stesso, fissa in capo all’affittuario l’obbligo di riconsegnare in buone condizioni la cosa locata, stabilendo testualmente: “Il conduttore deve restituire la cosa al locatore nello stato medesimo in cui l'ha ricevuta, in conformità della descrizione che ne sia stata fatta dalle parti, salvo il deterioramento o il consumo risultante dall'uso della cosa in conformità del contratto”. In aggiunta, con la recentissima Ordinanza n. 6596/2019, la Suprema Corte chiamata a pronunciarsi sulla colpevolezza del conduttore di un immobile riconsegnato con danni di gran lunga eccedenti il normale utilizzo, ha valutato la circostanza relativa alla gravosità della messa in ripristino dell’appartamento, estendendo la sua responsabilità, oltre che al risarcimento del costo dei lavori di ristrutturazione occorrenti, anche al pagamento dei canoni d’affitto per il periodo necessario alle riparazioni effettuate dal locatore, non potendo quest’ultimo disporre in nessun modo del proprio immobile, né dunque, trarne alcun vantaggio. Difatti, la Corte adita, ha fatto proprio il principio giuridico secondo il quale, qualora a causa della condotta posta in essere dal conduttore, sia preclusa al locatore la diretta disponibilità dell’immobile, quest’ultimo conservi in ogni caso, il diritto a conseguire il corrispettivo convenuto, equiparando il periodo necessario per i lavori di restauro, alla ritardata restituzione dell’immobile, disciplinata dall’art. 1591 c.c., il quale prevede espressamente che: “Il conduttore in mora a restituire la cosa, è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno”. Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità ed in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: “Qualora, in violazione dell’art. 1590 c.c., al momento della riconsegna l’immobile locato presenti danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, incombe al conduttore l’obbligo di risarcire tali danni, consistenti non solo nel costo delle opere necessarie per la rimessione in pristino, ma anche nel canone altrimenti dovuto per tutto il periodo necessario per l’esecuzione e il completamento di tali lavori, senza che, a quest’ultimo riguardo, il locatore sia tenuto a provare anche di aver ricevuto – da parte di terzi – richieste per la locazione, non soddisfatte a causa dei lavori” (Cass. Civ. ; Sez. III; Ord. n. 6596 del 07/03/2019). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

04/12/2022 11:30
Sostituzione di persona: utilizza l’identità digitale di un altro per il proprio vantaggio

Sostituzione di persona: utilizza l’identità digitale di un altro per il proprio vantaggio

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avv. Oberdan Pantana,“Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili alla condotta di chi utilizza l’identità digitale di un altro soggetto, sostituendosi a questo per la generalità degli utenti in connessione, nel porre in essere le più disparate attività. Di seguito la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche, che chiede: a quali responsabilità si va incontro qualora venga creato un account con le generalità di una persona terza, per il compimento di acquisti online? Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica estremamente attuale sulla quale si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 42572/2018, affermando la responsabilità penale del soggetto ai sensi dell’art. 494 c.p., la cui norma sancisce espressamente: “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino a un anno”. Difatti, la Suprema Corte adita ha statuito quanto segue: “Integra il reato di sostituzione di persona, ex art. 494 c.p. , la condotta di colui che crei ed utilizzi un account ed una casella di posta elettronica nonché proceda all’iscrizione su un sito e-commerce, servendosi dei dati anagrafici di un soggetto diverso e inconsapevole, con il fine di far ricadere su quest'ultimo l'inadempimento delle obbligazioni conseguente all'avvenuto acquisto di beni mediante la partecipazione ad aste in rete o ad altri strumenti contrattuali. Tanto in quanto porre in essere una condotta con siffatta modalità è prova che l’agente abbia volontariamente sostituito, per la generalità degli utenti in connessione, alla propria identità quella di altri, a prescindere dalla propalazione all'esterno delle diverse generalità utilizzate”  (Cass. Pen., Sez. V, n. 42572/2018, dep. il 27/09/2018). Pertanto, nell’analizzare le ripercussioni giuridiche che tali condotte possono avere, è necessario considerare che in una realtà come quella contemporanea, nella quale si fa un uso sempre maggiore dei sistemi telematici per il compimento di una varietà in crescendo di attività, le credenziali adoperate per l’utilizzo delle varie piattaforme, rappresentano il soggetto agente tanto da costituire un vero e proprio surrogato della persona fisica; dunque, la tutela offerta dal legislatore, è intesa a garantire la pubblica fede ed evitare che l’utilizzo di raggiri e artifizi, nel contesto di una società in continua evoluzione, possano trarre in inganno quanti operano in tali settori. Alla luce di tali considerazioni, e in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che, “chiunque in modo volontario e al fine specifico di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, utilizzi l’identità digitale di un soggetto terzo ignaro e inconsapevole, è punito ai sensi dell’art. 494 c.p. con la reclusione fino ad un anno” (Cass. Pen., Sez. V, n. 42572/2018).  Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

20/11/2022 11:45
Successione ereditaria: quando il coerede può usucapire l’immobile ereditato

Successione ereditaria: quando il coerede può usucapire l’immobile ereditato

Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti tra coeredi riguardo ad immobili oggetto di successione ereditaria. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Quando il coerede può usucapire l’immobile oggetto dell’eredità?” Il caso di specie ci porta ad una vicenda recentemente risolta dalla Suprema Corte nella quale una coerede affermava l’avvenuta usucapione dell’immobile oggetto dell’eredità poiché già in possesso da tempo di tale bene per aver coabitato con l’oramai “de cuius” tanto da usucapire la quota degli altri eredi prima della divisione ereditaria. La Cassazione nell’applicare il consolidato principio secondo il quale, “il coerede che, dopo la morte del "de cuius", sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso.  A tal fine, però, egli, che già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", risultando a tal fine insufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune” (Cass. Civ. Sez.II, 22.1.2019, n. 1642), rappresentava che la Corte d'appello nel giudizio di 2° grado, pur avendo richiamato la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non ne ha fatto corretta applicazione in quanto ha ritenuto sufficienti le dichiarazioni dei testi che avevano riferito dell'esercizio del possesso di tale coerede uti dominus su tutti i beni ereditari sin dalla morte dei genitori, senza chiarire se il godimento dei beni sia stato esclusivo, non essendo sufficiente che vi sia stata l'astensione degli altri partecipanti all'uso della cosa comune; ed inoltre aggiunge, “ si esclude che la coabitazione con il de cuius e la disponibilità delle chiavi sia indice del possesso esclusivo dell'immobile”(Cassazione civile sez. II, 08/04/2021, n. 9359). Pertanto, in risposta al nostro lettore si ritiene corretto affermare che, “Il coerede che, dopo la morte del "de cuius", sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, però, egli, che già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", risultando a tal fine insufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune o il fatto di aver coabitato con il de cuius ed aver avuto la disponibilità delle chiavi” (Cass. Civ. Sez. VI, Ordinanza del 03.11.2022 n. 32413). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                       

13/11/2022 11:05
Stacca luce e gas alla ex moglie e ai figli per mancata voltura: quale reato e condanna prevista?

Stacca luce e gas alla ex moglie e ai figli per mancata voltura: quale reato e condanna prevista?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all’Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti in sede di separazione tra gli ex coniugi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Monte San Giusto che chiede: “A quali responsabilità va incontro l’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie?” Tale circostanza ci porta subito ad applicare il principio giuridico oramai divenuto consolidato espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 13407/2019, secondo il quale: “Sussiste il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni laddove il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice a fronte della contestazione o dell’ostacolo posto da terzi, come nel caso di un ex marito che, a seguito della mancata voltura delle utenze domestiche dell’abitazione familiare assegnata all’ex moglie, aveva provveduto personalmente a staccare i contatori”. Difatti, proprio in riferimento ad un caso simile a quello prospettato dalla nostra lettrice, nel quale l’ex marito, dopo aver intimato più volte all’ex moglie di procedere alla voltura delle forniture di energia elettrica e gas dell’abitazione familiare a lei assegnata in sede di separazione, aveva provveduto personalmente al distacco in quanto le spese in questione erano state accollate all’ex moglie in sede di separazione, costringendo la donna e i figli a stare nell’appartamento senza poter usufruire di tali servizi, la Corte di Cassazione ha confermato la configurabilità in capo all’imputato del reato di cui all’art. 393 c.p., in quanto, il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice di fronte alla contestazione o all’ostacolo posto da terzi; a tal proposito, la Suprema Corte aggiunge che, “non è consentito legittimare l’autosoddisfazione per il superamento degli ostacoli che si frappongono al concreto esercizio del diritto”. Viene, infine, precisato che, “si ritiene legittima la violenza sulle cose solo quando sia esercitata al fine di difendere il diritto di possesso in presenza di un atto di turbativa nel godimento della res, sempre che l’azione reattiva avvenga nell’immediatezza di quella lesiva del diritto, non si tratti di compossesso e sia impossibile il ricorso immediato al giudice, sussistendo la necessità impellente di ripristinare il possesso perduto o il pacifico esercizio del diritto di godimento del bene”. Pertanto, in risposta alla nostra lettrice si ritiene corretto affermare che, “Nel caso dell’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie, lo stesso commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto e punito ai sensi dell’art. 393 c.p., in quanto tale diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso all’Autorità Giudiziaria”(Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 13407/19; depositata il 27 marzo). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

06/11/2022 10:00
Abitazione costruita in comunione legale sopra il suolo di proprietà di uno dei coniugi: chi ne è proprietario?

Abitazione costruita in comunione legale sopra il suolo di proprietà di uno dei coniugi: chi ne è proprietario?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le controversie in materia di diritti reali e nello specifico quelle poste in essere dai coniugi in comunione legale. Ecco la risposta del legale Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “Quali sono i diritti del coniuge non proprietario del suolo in cui è stata costruita l’abitazione in presenza di comunione legale?”  Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una fattispecie molto dibattuta nelle aule dei Tribunali in occasione delle separazioni dei coniugi o cessazioni degli effetti civili del matrimonio. Nello specifico, ai sensi dell’art. 934 c.c. il proprietario del suolo acquista, a titolo originario, qualunque piantagione, costruzione od opera insistente sopra o sotto il medesimo suolo. Si tratta, ad onor del vero, di una forma di espansione automatica del diritto di proprietà. Questo automatismo nell’acquisto avviene, è bene ribadirlo, a titolo originario e non derivativo, e può essere escluso soltanto se il titolo o la legge prevedono diversamente. Suddetto principio è valevole ancorché la costruzione sia stata realizzata in costanza di matrimonio e nella vigenza del regime patrimoniale della comunione legale. L’acquisto della proprietà per accessione, infatti, avviene a titolo originario senza la necessità di apposita manifestazione di volontà. Ciò significa che il principio in forza del quale il proprietario del suolo acquista ipso iure al momento dell'incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata non è derogato dalla disciplina della comunione legale tra coniugi. Mentre, l’art. 177 c.c. sancisce che costituiscono oggetto della comunione legali gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali; i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione; i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati e le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio. Nel dettaglio, la disposizione de qua prevede al n.1, la contitolarità al 50% dei beni provenienti dagli acquisti compiuti dai coniugi anche separatamente, in costanza di matrimonio quali acquisti aventi carattere derivativo. Occorre ora comprendere come si coniugano il principio di accessione ex art. 934 c.c. e il regime della comunione legale ex art. 177, comma 1, c.c. È principio acquisito e costante nella giurisprudenza che, «quando per effetto del principio enunciato dall'art. 934 c.c. il coniuge proprietario esclusivo del suolo acquisti la proprietà dell'immobile realizzato su di esso in regime di comunione legale, la tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non sul piano del diritto reale, nel senso che in mancanza di un titolo o di una norma non può vantare alcun diritto di comproprietà, anche superficiaria, sulla costruzione, ma sul piano obbligatorio, nel senso che a costui compete un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione» (ex multis Cass. n. 28258/19). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: “La tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non sul piano reale bensì su quello meramente obbligatorio, rimanendo a carico della ricorrente l’onere di fornire la prova della provenienza del denaro o dei beni utilizzati per la costruzione del fabbricato sul suolo di proprietà esclusiva dell’altro coniuge. È quindi onere del coniuge non proprietario del suolo dimostrare che le somme di denaro e i materiali utilizzati per la realizzazione del fabbricato siano di sua provenienza o provengano dalla comunione legale, non potendosi in alcun modo presumere tale provenienza (Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 4794/20).Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                              

30/10/2022 11:58
Il marito si lamenta: “Mia moglie non cucina": la separazione è addebitabile alla coniuge?

Il marito si lamenta: “Mia moglie non cucina": la separazione è addebitabile alla coniuge?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avv. Oberdan Pantana,“Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al rapporto tra moglie e marito e nello specifico le cause che possono portare all’addebito della separazione dei coniugi. Di seguito la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Se mia moglie non cucina posso chiedere la separazione con addebito?” Il caso di specie ci rimanda ad una vicenda recentemente definita giudizialmente, nella quale il coniuge si è lamentato dinanzi al giudice, spiegando che «la moglie ha mostrato negli anni un contegno di disinteresse e di indifferenza per il partner, contegno teso a violare gli obblighi coniugali della collaborazione e della contribuzione nell’interesse della famiglia» nonché a far mancare «l’assistenza materiale e morale»; in particolare, l’uomo parla di «comportamenti manifestati nel rifiuto» della moglie «di predisporre piatti caldi, piuttosto che lavare gli indumenti personali», e aggiunge, in sostanza, di avere spesso «provveduto a fare la spesa» e di essersi spesso recato «a consumare la colazione a casa della madre», la quale poi provvedeva «a lavargli gli abiti da lavoro». A tal proposito risulta utile ricordare che, «a seguito del matrimonio i coniugi assumono gli stessi diritti e gli stessi doveri, sono tenuti all’obbligo reciproco di fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia ed alla coabitazione»; insomma, moglie e marito «sono posti su un piano del tutto paritario», e di conseguenza, «non è previsto che su un coniuge siano addossati tutti i compiti di cura della casa e della prole, poiché entrambi i coniugi sono tenuti a svolgere le stesse mansioni, e ciò anche nell’ipotesi in cui uno solo di essi lavori, poiché non sarebbe ammissibile una situazione di sottomissione dell’altro partner a svolgere lavori di mera cura dell’ordine domestico, al quale sono peraltro tenuti anche i figli, nell’ottica di una educazione responsabile». Alla luce di tali considerazioni, ed in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che, “Moglie e marito pari sono. Anche nella suddivisione dei compiti per portare avanti materialmente ogni giorno la famiglia, come, ad esempio, cucinare, fare la spesa e lavare i panni. Ciò comporta che l’uomo non può addebitare la crisi della coppia alla consorte che non si comporta da casalinga provetta e in servizio permanente” (Tribunale di Foggia, sentenza n. 1092/21, Sez. I Civile, depositata il 05.05.2021). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

23/10/2022 11:10
Bocciatura illegittima con ritardo nell’accesso alla professione: vale un risarcimento danni?

Bocciatura illegittima con ritardo nell’accesso alla professione: vale un risarcimento danni?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente tematiche scolastiche quali le possibili bocciature ingiuste. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Recanati che chiede: “È possibile chiedere un risarcimento danni in caso di bocciatura illegittima?” Utile a tal proposito la recente sentenza del Tar Liguria con la quale è stata risolta una vicenda giudiziaria nella quale una studentessa è “stata costretta a ripetere il terzo anno della scuola media superiore, ritardando il percorso scolastico e accademico, nonché, conseguentemente, l'accesso al mercato del lavoro nello specifico come architetto”. Dettagliata anche la pretesa economica avanzata nei confronti della scuola e del Ministero: «il danno morale per il turbamento emotivo interiore sofferto» e «il danno patrimoniale per il mancato guadagno per un anno di prestazioni professionali come architetto o la perdita della chance di ottenere quel reddito». Per i giudici del TAR Liguria è palese «l'illegittimità degli atti adottati dall'istituto scolastico», anche perché sono stati, non a caso, «annullati gli atti concernenti la bocciatura comminata nel 2011 alla studentessa». Nello specifico, «gli atti dell'amministrazione scolastica – vale a dire il verbale di scrutinio finale nel giugno del 2011 e il provvedimento di sospensione del giudizio di ammissione nelle materie di matematica e fisica, i verbali di verifica finale delle prove di matematica e fisica svolte alla fine di agosto del 2011, il verbale di integrazione dello scrutinio finale, sempre alla fine di agosto del 2011, e il provvedimento di non ammissione al quarto anno del corso di studio – sono stati giudicati affetti da plurime illegittimità: il consiglio di classe non aveva valutato la preparazione complessiva dell'allieva, né nello scrutinio di giugno, né in sede di esami di riparazione ad agosto, mentre l'apprezzamento del rendimento generale sarebbe stato necessario sia alla luce dei buoni voti da lei conseguiti nelle altre materie (per le quali aveva riportato una media di 7,4/10), sia per via del conclamato conflitto insorto tra l'allieva (ed altre compagne) e la professoressa di matematica, sia in ragione del fatto che i metodi didattici dell'insegnante erano stati oggetto di dubbi e contestazioni; i voti negativi in matematica e fisica attribuiti alla studentessa nello scrutinio di giugno non erano presenti sul registro dell'insegnante.  La professoressa aveva utilizzato per la ragazza un metro valutativo molto più rigoroso rispetto a quello applicato ai suoi compagni, come provato da apposita perizia di parte in cui la consulente aveva evidenziato che, per compiti in classe svolti in modo pressoché identico a quelli di altri alunni, alla allieva erano stati assegnati voti più bassi, con palese disparità di trattamento; due esercizi della prova di recupero di fisica presupponevano la conoscenza di elementi di trigonometria, argomento estraneo al programma trattato durante l'anno scolastico». Conseguente, quindi, la colpa dell'amministrazione scolastica per aver emanato gli atti relativi alla bocciatura della studentessa, poiché, osservano i giudici, «le illegittimità riscontrate appaiono infatti rimproverabili e non scusabili, sia per la loro numerosità, sia per la sussistenza (anche) del vizio di disparità di trattamento, particolarmente stigmatizzabile per il suo carattere odioso, tanto più in quanto inficiante l'attività valutativa condotta nell'ambito del sistema pubblico di istruzione e nei confronti di una ragazza minorenne». Tutto ciò ha leso l'interesse della studentessa ad essere ammessa alla classe quarta. Peraltro, «se l'azione amministrativa non fosse stata inficiata da molteplici vizi, la studentessa avrebbe potuto ottenere l'agognata promozione», osservano i giudici. Invece, «in conseguenza della bocciatura, ella ha dovuto rifrequentare la classe terza, rallentando il suo percorso di istruzione ed il suo ingresso nel mondo del lavoro»: difatti tutto ciò ha differito di un anno gli studi universitari e l'inizio dell'attività professionale», studi che le hanno consentito di ottenere la laurea magistrale in Architettura con il voto di 110/110 e lode, poi il superamento dell'esame di abilitazione per diventare architetto, con la possibilità di esercitare la professione e di ottenere i primi guadagni nell'agosto del 2021. Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che:“Alla professionista bocciata ingiustamente in terza superiore deve essere riconosciuto dall’istituto scolastico e dal Ministero dell’Istruzione il risarcimento sia per il danno morale subito da tale illegittimo evento sia quello per il diminuito utile causato dal ritardo di un anno nella chiusura del percorso di studi” (Tar Liguria, sentenza del 05.10.2022, n. 834). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

16/10/2022 11:10
Furbetti del cartellino: è legittimo il licenziamento per l’uscita ingiustificata dal lavoro?

Furbetti del cartellino: è legittimo il licenziamento per l’uscita ingiustificata dal lavoro?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente i comportamenti tenuti durante l’orario lavorativo e precisamente quello dai cosiddetti “furbetti del cartellino”. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata, che chiede: “A quali conseguenze può andare incontro, il dipendente pubblico che durante l’orario di lavoro, timbra il proprio badge e si allontana dalla postazione lavorativa, senza alcun giustificato motivo?” Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo a un diffuso malcostume relativo ai comportamenti tenuti, durante l’orario lavorativo, dai “furbetti del cartellino”. Occorre specificare che con tale espressione si fa riferimento a coloro che, specialmente nell’ambito del pubblico impiego, provvedono a timbrare il proprio cartellino o a farlo timbrare da colleghi compiacenti, risultando in tal modo regolarmente in servizio, salvo poi assentarsi inspiegabilmente dal luogo di lavoro, per i motivi più disparati. Come recentemente riportato anche dai principali organi di informazione, in merito a lavoratori che, dopo aver timbrato il proprio badge, si erano recati durante l’orario di lavoro a fare la spesa o addirittura in montagna. Quindi, tale illegittima condotta posta in essere ai danni della Pubblica Amministrazione, risulta perfettamente idonea a configurare il reato di truffa aggravata, così come previsto dall’articolo 640 del codice penale. L'articolo punisce espressamente chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, prevedendo in particolare al comma successivo, un aumento di pena, nel caso in cui la condotta fraudolenta venga compiuta ai danni dello Stato o di un altro ente pubblico.  A tal proposito, la Suprema Corte con una recentissima pronuncia, ha riconosciuto la responsabilità penale di colui che in maniera fraudolenta attesta la propria presenza sul luogo di lavoro, stabilendo quanto segue: “La falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata qualora il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino, i periodi di assenza, sempre che questi siano economicamente apprezzabili per la P.A.” (Cassazione Penale, Sez. II, sentenza n. 3262/19; depositata il 23gennaio 2019). Ebbene, la falsa attestazione sul luogo di lavoro, oltre ad integrare la fattispecie penalmente rilevante della truffa aggravata, comporta anche un rilevante danno di natura economica all’erario e all’Ente truffato, considerato che il lavoratore fornisce in tal modo una prestazione lavorativa nettamente inferiore rispetto a quella effettivamente dovuta contrattualmente.  Conseguentemente, il comportamento del dipendente pubblico che è diretto a raggirare il sistema di rilevamento delle presenza, va ad incidere sulla organizzazione della Pubblica Amministrazione, andando a modificare arbitrariamente i prestabiliti orari di presenza in ufficio; tutto ciò, risulta certamente idoneo a ledere il rapporto fiduciario che si instaura tra il singolo dipendente e l’Ente stesso. Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che: “È  legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente non presente in ufficio, pur a fronte della timbratura del proprio badge, effettuata da un collega. Infatti, la falsa attestazione, mediante timbratura del badge identificativo ad opera di un terzo, implica la violazione di fondamentali doveri scaturenti dal vincolo della subordinazione, venendo intaccato gravemente ed irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro” (Cassazione Civile Sez. Lavoro, 28/05/2018, n. 13269). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

09/10/2022 10:30
L'assenza di rapporti tra i coniugi può dimostrare l’anteriorità della crisi rispetto al tradimento?

L'assenza di rapporti tra i coniugi può dimostrare l’anteriorità della crisi rispetto al tradimento?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana,“Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra ex coniugi con esplicito riferimento all’addebito della relativa separazione. Di seguito la risposta del legale Oberdan Pantana alla domanda di un lettore di Tolentino che chiede: “L’anteriorità dell’assenza dei rapporti tra i coniugi rispetto al successivo tradimento può dimostrare ai fini dell’addebito la precedente crisi coniugale?” A tal proposito risulta utile riportare una vicenda giuridica del Tribunale di Milano nella quale pronunciava la separazione di una coppia, accogliendo la domanda di addebito avanzata dalla moglie per la violazione del dovere di fedeltà da parte del marito. La decisione è stata confermata anche in appello. Il marito ha dunque proposto ricorso in Cassazione dolendosi, per quanto qui d'interesse, per l'addebito della separazione in quanto riteneva non provato il nesso causale tra violazione dei doveri coniugali e intollerabilità della prosecuzione della convivenza. La Corte accoglie il ricorso. Ricordando che grava sulla parte che richiede l'addebito l'onere di provare sia la violazione dei doveri coniugali da parte del coniuge, sia l'efficacia causale di tale comportamento sull'intollerabilità della convivenza, la S.C. specifica che in caso di inosservanza dell'obbligo di fedeltà tale onere della prova si fa ancora più rigoroso, ferma restando la possibilità per l'altro coniuge di provare l'anteriorità della crisi matrimoniale rispetto al tradimento (v. Cass. 3923/2018; Cass. 2059/2012). Nella vicenda in esame, la moglie però non ha fornito alcuna prova sul fatto che la relazione extraconiugale risalisse ad un'epoca precedente, anzi l'unica dimostrazione ottenuta a mezzo di relazione investigativa si riferisce ad un episodio addirittura successivo rispetto alla dichiarazione del marito di volersi separare. Sulla base di tali risultanze, la Corte territoriale avrebbe dovuto dedurre che «al di là della apparente vita comune che la coppia svolgeva, la crisi era molto più risalente, e non certo dovuta alla relazione extraconiugale del marito, che ne è stata una conseguenza. Tanto più che l'assenza di rapporti sessuali tra coniugi da tempo, non era stata contestata dalla moglie». Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “In tema di separazione dei coniugi grava sulla parte che richiede l’addebito l’onere di provare sia la violazione dei doveri coniugali da parte dell’altro coniuge sia l’efficacia causale di tale comportamento sull’intollerabilità della convivenza. In caso di inosservanza dell’obbligo di fedeltà il coniuge fedifrago può sottrarsi dall’addebito della separazione dimostrando che la crisi patrimoniale era antecedente e che il tradimento è stata conseguenza; anche l’assenza dei rapporti sessuali tra i coniugi può dimostrare l’anteriorità della crisi matrimoniale rispetto al tradimento del marito” (Cass. Civ., Sez. I, Ordinanza n. 27771/22). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                       

02/10/2022 10:20
Messaggi telefonici per convincere l’ex compagna e riprendere la relazione: vale una condanna

Messaggi telefonici per convincere l’ex compagna e riprendere la relazione: vale una condanna

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti sentimentali che spesso e volentieri vanno a terminare. Di seguito la domanda di una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "A quale responsabilità può andare incontro l’ex compagno che invia messaggi telefonici per riprendere una relazione sentimentale che sa di essere definitivamente terminata?" A tal proposito è utile ricordare che con il reato di molestia o disturbo alle persone il legislatore ha inteso tutelare la tranquillità pubblica per l’incidenza che il suo turbamento ha sull’ordine pubblico, data l’astratta possibilità di reazione. L’interesse privato individuale riceve una protezione soltanto riflessa e la tutela penale è accordata anche senza e pur contro la volontà delle persone molestate o disturbate, dal momento che ciò che viene in rilievo è la tutela della tranquillità pubblica per i potenziali riflessi sullordine pubblico di quei comportamenti idonei a suscitare nel destinatario reazioni violente o moti di ribellione. L’elemento materiale della molestia è costituito dall’interferenza non accettata che altera fastidiosamente o in modo inopportuno, immediato o mediato, lo stato psichico di una persona (Sez. 1, n. 19718 del 24/03/2005) e l’atto per essere molesto deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma deve essere anche ispirato da biasimevole, ossia riprovevole motivo o rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire nella sfera privata di altri attraverso una condotta fastidiosamente insistente e invadente (Sez. 1, Sentenza n. 6064 del 06/12/2017). Inoltre si rileva come il reato di molestia non ha natura necessariamente abituale e richiede necessariamente una reiterazione di comportamenti intrusivi e sgraditi nella vita altrui, sicché può essere realizzato anche con una sola azione purché particolarmente sintomatica dei motivi specifici che l’hanno ispirata. L’elemento soggettivo del reato invece consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non biasimevole o addirittura per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto (Sez. 1, n. 50381 del 07/06/2018). Con riferimento all'intento della condotta costituito da biasimevole motivo, è sufficiente anche il compimento di un unico gesto, come nel caso di una sola telefonata effettuata con modalità rivelatrici dell’intrusione nella sfera privata del destinatario (Sez. 1, n. 3758 del 07/11/2013). Quanto alla possibilità che il reato sia integrato mediante l’invio di sms e messaggi WhatsApp, secondo quanto condivisibilmente affermato di recente dalla Suprema Corte, ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola "è il carattere invasivo della comunicazione non vocale, rappresentato dalla percezione immediata da parte del destinatario dell’avvertimento acustico che indica l’arrivo del messaggio, ma anche - va soggiunto - dalla percezione immediata e diretta del suo contenuto o di parte di esso, attraverso l’anteprimadi testo che compare sulla schermata di blocco", realizzandosi in tal modo in concreto una diretta e immediata intrusione del mittente nella sfera delle attività del ricevente (Sez. 1, n. 37974 del 18/03/2021). Si è altresì ritenuto che il carattere invasivo della messaggistica telematica non può essere escluso per il fatto che il destinatario di messaggi non desiderati, inviati da un determinato utente (sgradito), possa evitarne agevolmente la ricezione, senza compromettere in alcun modo la propria libertà di comunicazione, semplicemente escludendo o bloccando il contatto indesiderato (in tal senso, Sez. 1, n. 24670 del 07/06/2012); in realtà, tenuto conto che il reato di cui all’art. 660 c.p. mira a tutelare, non già la libertà di comunicazione del destinatario dell’atto molesto, ma a prevenire il turbamento della tranquillità pubblica, e considerato altresì che anche le telefonate sgradite, persino su apparato fisso, possono attualmente essere "bloccate" attraverso la apposita funzionalità, ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola, "è l’invasività in sé del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario, non la possibilità per quest’ultimo di interrompere l’azione perturbatrice, già subita e avvertita come tale, ovvero di prevenirne la reiterazione, escludendo il contatto o l’utenza sgradita senza nocumento della propria libertà di comunicazione" (Sez. 1, n. 37974 del 18/03/2021). Pertanto, in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che: "Integra il reato di molestie la condotta dell’uomo che non riesce ad accettare la rottura della relazione con la compagna e prova a convincerla a riprendere il rapporto inviandole ripetuti messaggi telefonici nonostante poi la stessa lo abbia bloccato" (Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 34821/22). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

25/09/2022 11:22
Acqua, carta e cicche lanciate sul balcone del vicino: vale una condanna

Acqua, carta e cicche lanciate sul balcone del vicino: vale una condanna

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra condomini che spesso e volentieri vanno a deteriorarsi per comportatemi incivili di alcuni nei confronti di altri. Il caso di specie scelto è di un lettore di Macerata che chiede: “A quale responsabilità può andare incontro il condomino che per dispetto ed inciviltà butta le cicche delle sigarette ed altra spazzatura sul terrazzo sottostante? A tal proposito risulta utile portare un caso giuridico terminato in Cassazione, nel quale un condomino era stato vittima di dispetti del proprio vicino con il balcone sopra al proprio tanto da far diventare il piano inferiore come “immondezzaio” con lanci di cicche di sigarette, carta ed altri oggetti. I giudici della Suprema Corte, con sentenza n.16459/2013, hanno ritenuto inammissibile il ricorso proposto dal condomino incivile, il quale si era visto condannare in secondo grado per i reati di cui agli artt. 81 cpv e 674 cod. pen., avendo arrecato molestia al condomino del piano inferiore. Difatti, la condotta del ricorrente è stata qualificata non soltanto "incivile", ma considerata una fattispecie integrante il reato di "getto pericoloso di cose", ex art. 674 c.p., secondo cui è punito "chiunque getta o versa in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte ad offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissione di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti". Si ricorda che quello in analisi è un tipico reato contravvenzionale, punibile indifferentemente a titolo di dolo o colpa; pertanto, ne risponde chiunque abbia agito volontariamente ovvero per semplice negligenza o leggerezza. I giudici della Cassazione precisano che sì «la contravvenzione di “getto pericoloso di cose” non è configurabile quando l’offesa, l’imbrattamento o la molestia abbiano ad oggetto esclusivamente cose e non persone» ma «ai fini della configurabilità del reato di “getto pericoloso di cose” non si richiede che la condotta contestata abbia cagionato un effettivo nocumento, essendo sufficiente che essa sia idonea ad offendere, imbrattare o molestare le persone», e in questa vicenda è certo che «il getto ha interessato il balcone», cioè «un luogo abitualmente frequentato dalle persone che abitavano l’appartamento». Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: "Integra il reato di getto pericoloso di cosa chiunque getta o versa nel balcone sottostante cicche di sigarette, carta o altro oggetto atto ad offendere o imbrattare o molestare persone”(Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 9474/18). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima

18/09/2022 11:12
Vitalizio assistenziale: è possibile intestare la propria abitazione alla badante?

Vitalizio assistenziale: è possibile intestare la propria abitazione alla badante?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legaal Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa agli anziani e alla loro cura. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Fiuminata che chiede: “Un anziano assistito da una badante può intestare alla stessa la propria abitazione?” Spesso gli anziani sono curati dalle badanti, anche per lungo tempo, cosicché si instaura un rapporto di fiducia ed affetto per cui il soggetto assistito desidera intestare alla badante, in segno di riconoscenza, la propria abitazione. Passando all'esame del caso di specie, è accaduto in una recente vicenda giudiziaria che gli eredi di una anziana donna, hanno impugnato il contratto stipulato dalla cara estinta con la badante e con il quale, conservando l'usufrutto dell'immobile di proprietà, ha ceduto la nuda proprietà alla persona che si occupava della sua cura, con l'obbligo da parte di quest'ultima di continuare ad assisterla fino alla morte. Contratto che il Tribunale ha definito "atto di trasferimento a titolo oneroso, qualificabile come un contratto di mantenimento vitalizio oneroso", stipulato dall'anziana donna bisognosa di cure, nel totale disinteresse dei parenti che hanno agito in giudizio, al fine di cristallizzare un rapporto che andava avanti da tempo e che si caratterizzava "da una parte il suo bisogno di cura della persona e di ogni altra esigenza quotidiana di vita materiale e anche di natura morale, dall'altra la disponibilità della badante a prendersi cura di ogni bisogno della anziana signora, dedizione di durata già quindicennale e promessa anche per il futuro fino a vita natural durante, ivi compresa quella di farle personalmente compagnia”. Difatti, la normativa vigente prevede il contratto di vitalizio assistenziale, detto anche rendita vitalizia, per il quale è possibile cedere la nuda proprietà dell'immobile ad un estraneo, con riserva del diritto di usufrutto per il proprietario, in cambio di assistenza morale e materiale sino alla morte; in sostanza, a fronte della cessione della nuda proprietà si ha la controprestazione di assistenza materiale e morale. Affinchè tale tipologia contrattuale sia valida devono, però, ricorrere due condizioni: che l'anziano sia capace di intendere e di volere al momento del rogito, e che l'anziano non si trovi in condizioni di salute troppo precarie o, addirittura, in fase terminale. Dal punto di vista pratico per effetto del contratto di vitalizio, in pratica la badante si obbliga a fornire prestazioni di assistenza morale e materiale all'anziano, vita natural durante, in cambio del trasferimento dell'immobile al momento della morte; qualora la badante risulti inadempiente rispetto alle esigenze di salute dell'anziano non prestando assistenza, perderà la nuda proprietà e sarà chiamata, eventualmente, al risarcimento del danno. Cosicché i parenti dell'anziano possono senza dubbio impugnare il contratto di vitalizio, ma solo a certe condizioni, ossia se gli stessi sono in grado di dimostrare: che l'anziano, al momento della stipula del contratto era incapace di intendere e di volere, non è indispensabile essere stati dichiarati interdetti o inabilitati, e che al momento della stipula del contratto, l'anziano risultava gravemente malato e quasi prossimo al decesso.   Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice ed in linea con la più autorevole giurisprudenza, si può affermare che, “Il contratto di vitalizio si caratterizza per essere atto di trasferimento a titolo oneroso, qualificabile come un contratto di mantenimento, pienamente legittimo se risponde ad interessi meritevoli di tutela. Esso si caratterizza per l'alea rappresentata dalla durata della vita del vitaliziato e dalla conseguente non prevedibilità delle obbligazioni assunte dall'obbligato alla cura” (Tribunale di Benevento, sentenza del 02.02.2022), tenuto conto che, “Il contratto vitalizio assistenziale è nullo per mancanza di alea ove, al momento della sua conclusione, il beneficiario sia affetto da malattia che, per natura e gravità, renda estremamente probabile un esito letale e ne provochi la morte dopo breve tempo o abbia un'età talmente avanzata da non poter certamente sopravvivere oltre un arco di tempo determinabile” (Cass. Civ., sentenza n. 25624 del 2017). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

11/09/2022 10:50
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