Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al diritto riconosciuto all’ex convivente della ripetizione di specifiche somme corrisposte al partner durante il periodo di convivenza.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: "Terminata la convivenza si può ottenere la restituzione di quanto pagato per la costruzione di quella che sarebbe dovuta essere la casa familiare senza esserne il proprietario?".
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.24721/2019, in accoglimento del ricorso posto in essere dall’ex convivente.
Nella sentenza si afferma testualmente: "L’accertamento in fatto che la dazione di denaro era rivolta al solo scopo di realizzare la casa familiare, destinata, nelle previsioni della ricorrente, a divenire comune, giustifica, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il rimborso delle somme versate a titolo di concorso nelle spese di costruzione del manufatto rimasto in proprietà esclusiva dell’altro ex convivente, risultando tale contribuzione a tutti gli effetti, indebita" (Cass. Civ.; Sez. II; Sent. n. 2973/2016).
Difatti, l’art. 2033 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che "chi ha eseguito un pagamento non dovuto, ha diritto di ripetere ciò che ha pagato […]", disciplina l’istituto della ripetizione dell’indebito avente come suo fondamento, l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una clausola risolutiva espressa.
A tal proposito, occorre rilevare che, sebbene la convivenza di fatto rappresenti ormai a tutti gli effetti una formazione sociale riconosciuta e tutelata dal nostro ordinamento giuridico, con la quale sorgono doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, è tuttavia necessario che tali prestazioni rese, trovino giustificazione nella solidarietà e nella reciproca assistenza fra i conviventi, sussistendo al contrario, un'inconciliabilità logico-giuridica fra convivenza more uxorio e arricchimento ingiustificato.
Pertanto, in risposta alla domanda dalla nostra lettrice e in linea con la più autorevole e consolidata giurisprudenza di legittimità, si può affermare che "le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente "more uxorio" effettuate nel corso del rapporto configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza; in caso di attribuzioni economico patrimoniali eseguite in corso di convivenza, a titolo di concorso alle spese di costruzione della casa familiare, si ha diritto al rimborso delle somme date se, terminata la convivenza, il conferimento non si concretizza nell’acquisto della proprietà del bene, esulando tale prestazione, dal mero adempimento di suddette obbligazioni" (Cassazione civile sez. VI, 15/02/2019, n.4659).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al contratto di comodato d’uso gratuito avente ad oggetto un immobile e concluso a beneficio di un familiare.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Porto Recanati che chiede: "Il proprietario di un immobile concesso in comodato d’uso gratuito per esigenze familiari al proprio figlio, può richiedere il possesso del bene in caso di separazione della coppia beneficiaria?".
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, stabilendo il seguente principio di diritto: "Il comodato di un immobile che sia pattuito per la destinazione di esso a soddisfare le esigenze abitative familiari, non è assoggettabile al recesso 'ad nutum' da parte del comodante, dal momento che il rapporto creato secondo lo schema contrattuale di cui all’art. 1809 cod. civ., sorge per un uso determinato ed ha una durata funzionalmente legata alla permanenza della famiglia, pur se in crisi" (Corte di Cassazione; Sez. Un.; Sent. n. 20448 dep. il 29.09.2014).
Difatti, l’art. 1809 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevedendo espressamente che, "il comodatario è obbligato a restituire la cosa alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se n’è servito in conformità del contratto", sancisce un nesso inscindibile tra la finalità per la quale il comodato viene perfezionato e la durata dello stesso, impedendo dunque al proprietario concedente, di rientrare con semplice richiesta, nel possesso del bene oggetto di tale contatto, fino a che permanga l’esigenza che si intende soddisfare.
A tal proposito, occorre osservare che, in un’altra recente sentenza, la n. 21785/2019, la stessa Suprema Corte si è pronunciata in ordine al legittimo recesso della proprietaria di un appartamento concesso in comodato d’uso gratuito al figlio e alla rispettiva ex moglie, la quale anche dopo il divorzio da quest’ultimo, aveva continuato ad utilizzare l’immobile ad oggetto, esclusivamente per la notte, pur avendo costituito un nuovo nucleo familiare con un altro uomo ed acquistato una nuova casa, rilevando come in tale circostanza.
"Le caratteristiche concrete del rapporto quali dedotte in giudizio, fanno protendere per la cessazione della finalità del comodato, in ragione del venir meno della reale destinazione dell’appartamento, essendo lo stesso rimasto occupato soltanto di notte e a meri fini strumentali, per evitare cioè una pronuncia di restituzione alla legittima proprietaria. Da tali motivi ne deriva che le esigenze connesse all’uso familiare dell’immobile concesso in comodato d’uso gratuito siano certamente venute meno", così legittimando il recesso della proprietaria comodante (Cass. Civ.; Sez. III; Sent. n. 21785/2019; dep. 29.08.2019).
Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: "Quando un terzo abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di separazione o divorzio dei beneficiari, non modifica la natura e il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto a patto che permangano le effettive esigenze abitative di ciascun soggetto" (Cass. Civ.; SS.UU.; Sent. n. 13603/2004).
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Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti sentimentali che spesso e volentieri vanno a terminare. Di seguito la domanda di una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “A quale responsabilità può andare incontro l’ex compagno che invia messaggi telefonici per riprendere una relazione sentimentale che sa di essere definitivamente terminata?"
A tal proposito è utile ricordare che con il reato di molestia o disturbo alle persone il legislatore ha inteso tutelare la tranquillità pubblica per l'incidenza che il suo turbamento ha sull'ordine pubblico, data l'astratta possibilità di reazione. L'interesse privato individuale riceve una protezione soltanto riflessa e la tutela penale è accordata anche senza e pur contro la volontà delle persone molestate o disturbate, dal momento che ciò che viene in rilievo è la tutela della tranquillità pubblica per i potenziali riflessi sull'ordine pubblico di quei comportamenti idonei a suscitare nel destinatario reazioni violente o moti di ribellione.
L'elemento materiale della molestia è costituito dall'interferenza non accettata che altera fastidiosamente o in modo inopportuno, immediato o mediato, lo stato psichico di una persona (Sez. 1, n. 19718 del 24/03/2005) e l'atto per essere molesto deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma deve essere anche ispirato da biasimevole, ossia riprovevole motivo o rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire nella sfera privata di altri attraverso una condotta fastidiosamente insistente e invadente (Sez. 1, Sentenza n. 6064 del 06/12/2017). Inoltre si rileva come il reato di molestia non ha natura necessariamente abituale e richiede necessariamente una reiterazione di comportamenti intrusivi e sgraditi nella vita altrui, sicché può essere realizzato anche con una sola azione purché particolarmente sintomatica dei motivi specifici che l'hanno ispirata.
L'elemento soggettivo del reato invece consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l'eventuale convinzione dell'agente di operare per un fine non biasimevole o addirittura per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto (Sez. 1, n. 50381 del 07/06/2018). Con riferimento all'intento della condotta costituito da biasimevole motivo, è sufficiente anche il compimento di un unico gesto, come nel caso di una sola telefonata effettuata con modalità rivelatrici dell'intrusione nella sfera privata del destinatario (Sez. 1, n. 3758 del 07/11/2013).
Quanto alla possibilità che il reato sia integrato mediante l'invio di sms e messaggi WhatsApp, secondo quanto condivisibilmente affermato di recente dalla Suprema Corte, ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola "è il carattere invasivo della comunicazione non vocale, rappresentato dalla percezione immediata da parte del destinatario dell'avvertimento acustico che indica l'arrivo del messaggio, ma anche -va soggiunto- dalla percezione immediata e diretta del suo contenuto o di parte di esso, attraverso l'anteprima di testo che compare sulla schermata di blocco", realizzandosi in tal modo in concreto una diretta e immediata intrusione del mittente nella sfera delle attività del ricevente (Sez. 1, n. 37974 del 18/03/2021).
Si è altresì ritenuto che il carattere invasivo della messaggistica telematica non può essere escluso per il fatto che il destinatario di messaggi non desiderati, inviati da un determinato utente (sgradito), possa evitarne agevolmente la ricezione, senza compromettere in alcun modo la propria libertà di comunicazione, semplicemente escludendo o bloccando il contatto indesiderato (in tal senso, Sez. 1, n. 24670 del 07/06/2012); in realtà, tenuto conto che il reato di cui all'art. 660 c.p. mira a tutelare, non già la libertà di comunicazione del destinatario dell'atto molesto, ma a prevenire il turbamento della tranquillità pubblica, e considerato altresì che anche le telefonate sgradite, persino su apparato fisso, possono attualmente essere "bloccate" attraverso la apposita funzionalità, ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola, "è l'invasività in sé del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario, non la possibilità per quest'ultimo di interrompere l'azione perturbatrice, già subita e avvertita come tale, ovvero di prevenirne la reiterazione, escludendo il contatto o l'utenza sgradita senza nocumento della propria libertà di comunicazione" (Sez. 1, n. 37974 del 18/03/2021).
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che: "Integra il reato di molestie la condotta dell’uomo che non riesce ad accettare la rottura della relazione con la compagna e prova a convincerla a riprendere il rapporto inviandole ripetuti messaggi telefonici nonostante poi la stessa lo abbia bloccato” (Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 34821/22).
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Torna come ogni domenica, la rubrica curata dall'Avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti coniugali ed extraconiugali e le relative condotte poste in essere dagli stessi protagonisti con relative responsabilità.
Ecco la risposta dell'avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: "Commette reato l’amante che rivela alla moglie il tradimento del marito?"
L'amante stanca di essere trattata come la seconda scelta, non ne può proprio più, decide così di rivelare il tradimento del fedifrago. In casi come questi commette un reato? Può cioè essere perseguibile penalmente per aver sbugiardato il coniuge traditore?
Cerchiamo di capirlo insieme, premettendo che la tecnologia in questi casi, è uno strumento potentissimo. Non è infrequente infatti ai giorni nostri che i matrimoni finiscano per foto pubblicate sui social o messaggini inviati al coniuge tradito. In ogni caso è bene sapere che la giurisprudenza non ha mancato di punire in certi casi l'amante vendicativa. Vediamo in che modo e a che titolo.
La Corte di Cassazione, ad esempio, con la sentenza n. 28852/2009 ha inquadrato la condotta dell'amante che, inviando alcuni sms alla moglie tradita, l'ha informata del tradimento del marito, come molestia e disturbo alle persone.
Illecito che le è costato le spese processuali e una multa di 1000 euro. A nulla sono valse le difese dell'amante, che in sua difesa ha affermato che il tradimento era già noto alla moglie e che comunque si è limitata a inviare solo qualche sms.
Per gli Ermellini (i giudici della Cassazione, ndr) anche pochi messaggi possono ledere la dignità, il decoro e l'onore della persona offesa, soprattutto se gli stessi riportano anche espressioni di disprezzo dell'uomo verso la sua compagna di vita.
Con la sentenza n. 28493/2015 la Cassazione è giunta alle stesse conclusioni, in relazione alle rivelazioni che la ex amante, per vendetta, ha comunicato alla moglie del traditore, in tre lunghe telefonate.
Gli Ermellini non hanno tenuto conto del fatto che le conversazioni, a detta dell'amante, non sono state assillanti e che comunque era nell'interesse della moglie essere informata della condotta del coniuge.
In un altro caso invece, sul quale la Cassazione si è pronunciata con la sentenza n. 29826/2015, ha commesso reato di atti persecutori (stalking) l'amante che ha rivelato al marito il tradimento della moglie, lo ha reso pubblico, ha inviando lettere al tradito sul luogo di lavoro e numerosi sms dal contenuto volgare e infine ha scritto frasi ingiuriose proprio sui muri della scuola frequentata dai figli della donna.
Gli Ermellini hanno valorizzato ai fini del reato le svariate condotte persecutorie che hanno recato un indubbio danno alla riservatezza e all'intimità sessuale, provocando uno stato persistente di disagio e ansia a tutti i membri della famiglia, che hanno subito ripercussioni anche nell'ambiente lavorativo e scolastico.
Diverse sentenze hanno condannato anche per diffamazione l'amante che ha rivelato la propria relazione con una persona spostata, pubblicando foto e messaggi espliciti della relazione sulla propria pagina Facebook o su altro social.
Il reato si configura in questi casi perché la vita di relazione tra due coniugi non è un fatto d'interesse pubblico, per cui nel momento si rende noto a un numero indeterminato di soggetti il tradimento si lede il diritto alla riservatezza delle persone offese.
È anche possibile che l'amante ferita si limiti anche solo a minacciare il coniuge di rivelare all'altro il tradimento; in questo caso, il soggetto a cui la minaccia è rivolta può denunciare l'amante gelosa e la stessa può andare incontro alla condanna per il reato di minacce di cui all'articolo 612 del codice penale.
Pertanto, in risposta al nostro lettore, la condotta dell’amante che rivela alla moglie il tradimento del marito può comportare a seconda della modalità utilizzata condotte penalmente rilevanti che vanno dalla molestia allo stalking. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento dei danni dovuti dall’affittuario a seguito di un contratto di locazione immobiliare. Ecco la risposta dell'avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "A quali responsabilità va incontro l’inquilino, che alla scadenza di un contratto di locazione ad uso abitativo, riconsegna l'immobile danneggiato?".
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui spesso ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, sancendo il generale principio giuridico secondo il quale "qualora, in violazione dell'art. 1590 c.c., al momento della riconsegna la cosa locata presenti danni eccedenti il degrado dovuto al normale uso della stessa, incombe al conduttore l'obbligo di risarcire tali danni; pertanto, il locatore può addebitare al conduttore la somma necessaria al ripristino del bene nelle stesse condizioni in cui era all'inizio della locazione, dedotto il deterioramento derivante dall'uso conforme al contratto" (Cass. Civ.; Sez. III; sentenza n.23721del 16/09/2008).
Infatti l’articolo 1590 del codice civile al comma 1°, escludendo la naturale alterazione dello stato dell'immobile, conseguente all’utilizzo prolungato dello stesso, fissa in capo all’affittuario l’obbligo di riconsegnare in buone condizioni la cosa locata, stabilendo testualmente: "Il conduttore deve restituire la cosa al locatore nello stato medesimo in cui l'ha ricevuta, in conformità della descrizione che ne sia stata fatta dalle parti, salvo il deterioramento o il consumo risultante dall'uso della cosa in conformità del contratto".
In aggiunta, con la recentissima Ordinanza n. 6596/2019, la Suprema Corte chiamata a pronunciarsi sulla colpevolezza del conduttore di un immobile riconsegnato con danni di gran lunga eccedenti il normale utilizzo, ha valutato la circostanza relativa alla gravosità della messa in ripristino dell’appartamento, estendendo la sua responsabilità, oltre che al risarcimento del costo dei lavori di ristrutturazione occorrenti, anche al pagamento dei canoni d’affitto per il periodo necessario alle riparazioni effettuate dal locatore, non potendo quest’ultimo disporre in nessun modo del proprio immobile, né dunque, trarne alcun vantaggio.
Difatti, la Corte adita, ha fatto proprio il principio giuridico secondo il quale, qualora a causa della condotta posta in essere dal conduttore, sia preclusa al locatore la diretta disponibilità dell’immobile, quest'ultimo conservi in ogni caso, il diritto a conseguire il corrispettivo convenuto, equiparando il periodo necessario per i lavori di restauro, alla ritardata restituzione dell’immobile, disciplinata dall’articolo 1591 codice cile, il quale prevede espressamente che: "Il conduttore in mora a restituire la cosa, è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno".
Pertanto, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità ed in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: "Qualora, in violazione dell’art. 1590 c.c., al momento della riconsegna l’immobile locato presenti danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, incombe al conduttore l’obbligo di risarcire tali danni, consistenti non solo nel costo delle opere necessarie per la rimessione in pristino, ma anche nel canone altrimenti dovuto per tutto il periodo necessario per l’esecuzione e il completamento di tali lavori, senza che, a quest’ultimo riguardo, il locatore sia tenuto a provare anche di aver ricevuto - da parte di terzi - richieste per la locazione, non soddisfatte a causa dei lavori" (Cass. Civ. ; Sez. III; Ord. n. 6596 del 07/03/2019).
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti tra la coppia e nello specifico la liceità o meno di condotte a tutela della privacy. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: "Controllare il cellulare del proprio coniuge comporta un reato?".
La Costituzione tutela le libertà individuali quali diritti fondamentali e inviolabili di ogni essere umano. In particolare l'articolo 15 tutela la libertà e segretezza della corrispondenza prevedendo che «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili».
Per corrispondenza deve intendersi non solo la posta epistolare ma tutte le attuali forme di comunicazione come ad esempio sms, email, Whatsapp, Facebook. Nessun rapporto tra persone, nemmeno il rapporto matrimoniale tra i coniugi, quindi, può limitare tale diritto.
Già nel 1974 la Suprema Corte aveva stabilito che gli artt. 143, 144 e 145 c.c., seppure in un contesto ordinamentale in cui la donna non aveva parità di diritti nel rapporto coniugale, non riconoscevano al marito, nè espressamente né implicitamente, un jus corrigendi sulla moglie, né il diritto di controllarne fraudolentemente le telefonate o la corrispondenza, neppure se l'attività fraudolenta fosse stata ispirata dal desiderio di accertare la sospetta infedeltà della moglie, di tentare di ricondurre la donna sulla via dell'onestà e di non far affidare nel giudizio di separazione l'educazione del figlio a madre non degna (Cass. pen., 24 maggio 1974 n. 8198).
Tale principio è stato poi confermato dalla stessa Corte con la sentenza n. 6727/1994 che ha stabilito che i doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio non sono incompatibili con il diritto alla riservatezza di ciascuno dei coniugi ma ne presuppongono anzi l'esistenza, dal momento che la solidarietà si realizza solo tra persone che si riconoscono di piena e pari dignità.
Ciò vale anche nel caso di infedeltà del coniuge, poiché la violazione dei doveri di solidarietà coniugale non è sanzionata dalla perdita del diritto alla riservatezza.
Pertanto, quando ci si impadronisce del cellulare del coniuge con l'intento di spiarne il contenuto, bisogna essere consapevoli che tale semplice gesto può avere delle conseguenze più o meno gravi. A tal proposito, bisogna scindere ciò che è illecito in sede penale e ciò che è lecito, a seconda del fine, in sede civile.
Analizzando il profilo penalistico della questione, e in risposta, pertanto, alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che per la giurisprudenza di legittimità e di merito leggere le email, i messaggi su Facebook e su Whatsapp, gli sms e tutto ciò che può essere contenuto in programmi tecnologici di messaggistica, senza avere ottenuto il preventivo consenso del coniuge, costituisce reato.
Per meglio specificare le varie condotte, se ne riportano alcuni esempi. Per ciò che concerne l'email, la Suprema Corte si è più volte pronunciata sul punto affermando che integra il reato di cui all'art. 615-ter c.p., "Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico", la condotta di colui che accede abusivamente all'altrui casella di posta elettronica trattandosi di una spazio di memoria, protetto da una password personalizzata, di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi, o di informazioni di altra natura, nell'esclusiva disponibilità del suo titolare, identificato da un account registrato presso il provider del servizio (Cass. pen., Sez. V, 28 ottobre 2015, n. 13057).
Alla luce di tale principio, è agevole rilevare che anche leggere la chat altrui violando la password o prenderne visione quando il titolare dell'account sia momentaneamente assente, configura il suddetto reato.
La Corte di appello di Taranto con la Sentenza n. 24/2016 ha ritenuto configurabile il reato previsto dall'art. 616, comma 1 c.p., "Violazione della corrispondenza altrui", quando uno dei coniugi apre la posta elettronica dell'altro attraverso una password di accesso, il cui possesso non è stato frutto di una rivelazione di tale password, ma il risultato di una operazione di memorizzazione eseguita dal computer all'atto dell'utilizzo da parte di chi ne ha diritto ed avvenuta all'insaputa dello stesso.
E ancora, la Suprema Corte ha ritenuto configurabile il reato di rapina ex art. 628 c.p. nel caso di un soggetto, che aveva sottratto mediante violenza alla ex fidanzata il telefono cellulare, al fine di rivelare al padre della donna, la relazione sentimentale che questa aveva instaurato con un altro uomo.
La Corte ha ritenuto sussistente il dolo specifico richiesto quale elemento soggettivo del reato, in quanto il profitto può concretarsi in ogni utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene.
Alla luce di ciò, ha statuito il seguente principio di diritto «nel diritto di rapina sussiste l'ingiustizia del profitto quando l'agente, impossessandosi della cosa altrui (nella specie un telefono cellulare), persegua esclusivamente un'utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da un altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell'autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane» (Cass. pen., Sez. II, 10 marzo 2015, n. 11467; Cass. pen., Sez. II, 10 giugno 2016, n. 24297).
Infine, qualora, invece, si proceda a installare apparecchiature atte ad intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni telefoniche, si configurerà il reato previsto dall'art. 617-bis c.p., con una pena prevista da 1 a 4 anni di reclusione. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento danni derivanti dallo smarrimento del proprio bagaglio in occasione della partenza per le vacanze estive.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Matelica che chiede: "Si può chiedere il risarcimento danni alla compagnia aerea per il furto di oggetti contenuti nel proprio bagaglio depositato in stiva durante il viaggio?".
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi il Giudice di Pace di Pistoia, il quale ha approfondito e disciplinato in modo del tutto innovativo, una nuova fattispecie in materia di tutela del passeggero e di danno da vacanza, stabilendo testualmente che 2nei casi di smarrimento di bagagli, è da ritenersi pacifico che il danno e la relativa responsabilità siano da attribuire esclusivamente al vettore ai sensi della Convezione di Montreal, del codice del consumatore e dell’art. 1681 c.c., non potendo essere invocata una colpa in capo alla impresa di handling gerente il traffico di bagagli presso lo scalo aeroportuale, in virtù del contratto sottoscritto col cliente” (Giudice di Pace di Pistoia, Sent. n. 902/2013).
Difatti l’art. 1681 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevedendo testualmente al comma 1° che: "Salva la responsabilità per il ritardo e per l'inadempimento nell'esecuzione del trasporto, il vettore risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio e della perdita o dell'avaria delle cose che il viaggiatore porta con sé, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.
Stabilisce, pertanto, una presunzione di colpevolezza a carico del vettore per il sinistro che colpisca il passeggero durante il viaggio, circostanza questa che opera sul presupposto che sussista un nesso di causalità tra l’evento dannoso occorso al viaggiatore e l’esecuzione del trasporto.
A tal proposito, occorre rilevare che al fine di ampliare la tutela del consumatore/viaggiatore, il legislatore ha previsto un onere probatorio aggravato in capo al vettore, e dunque, alla compagnia aerea, alla quale sia mosso un addebito circa la propria responsabilità-
La stessa compagnia dovrà dimostrare di aver adottato tutte le opportune precauzioni e di aver posto in essere l’esatto adempimento della propria prestazione, oltre alla sopravvenienza per caso fortuito o forza maggiore, di un evento imprevedibile ed improvviso, dal quale sia derivato il fatto lesivo ai danni del viaggiatore, il quale al contrario, dovrà semplicemente dimostrare la sussistenza di un contratto di trasporto col vettore, nonché l’evidente nesso causale col furto subito.
In aggiunta, è opportuno osservare come la sentenza citata, abbia apportato un contributo innovativo a tale disciplina, estendendo la responsabilità del vettore, non solo allo smarrimento dell’intero bagaglio, ma anche al furto degli oggetti in esso contenuti, escludendo tassativamente ogni responsabilità in capo alla ditta di smistamento dei bagagli selezionata dalla stessa compagnia aerea, la quale, in virtù della relazione contrattuale sussistente con lo sfortunato turista e perfezionato al momento dell’acquisto del biglietto, resterà in ogni caso, l’unica obbligata a provvedere al trasporto, alla custodia e a tutte le attività funzionali.
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice e in linea con la più autorevole giurisprudenza di merito e di legittimità in tema di risarcimento danni da furto di bagaglio, si può affermare che: "Con l’acquisto del biglietto aereo, il viaggiatore acquirente conclude un contratto che vincola la compagnia aerea all’esatto adempimento della propria prestazione, la quale comprende il trasporto e la custodia dei bagagli, con presunzione di colpa in capo a quest’ultima, per il sinistro che colpisca il passeggero durante il viaggio, operando sul presupposto di un nesso di causalità tra l’evento e l’esecuzione del trasporto, nonché legittimando le pretese risarcitorie per i danni patrimoniali e non patrimoniali da quest’ultimo sofferti" (Cass. Civ. sez. III, Sent. n. 12143/2016). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana "Chiedilo all'Avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate, hanno interessato principalmente una tematica tipica della stagione estiva e relativa alla responsabilità da vacanza rovinata.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Tolentino che chiede: "A cosa va incontro chi mette un annuncio online per l’affitto estivo di una casa vacanza che poi si rivela inesistente?".
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale si è pronunciato recentemente il Tribunale di Avellino, con sentenza n. 1064/2018, nei confronti di un uomo che aveva raggirato una giovane coppia, fingendo di essere proprietario di una bellissima casa a Posillipo, posta in affitto per il periodo estivo su alcuni siti online, per poi sparire dopo aver ricevuto una consistente caparra, e condannandolo per il delitto di truffa c.d. contrattuale ex art. 640 del codice penale.
Difatti, il Giudice chiamato a pronunciarsi sulla questione, in attenta valutazione delle circostanze del caso di specie, aveva statuito che: "La condotta tenuta dall’imputato, e in tali termini acclarata, lungi dall'esaurirsi in un mero inadempimento civilistico, finisce senz'altro con l'integrare il reato di truffa, ricorrente ogniqualvolta l'agente abbia posto in essere artifici e raggiri al momento della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo, indotto pertanto a prestare un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato".
A tal proposito, occorre osservare che, in aggiunta al danno economico sofferto dalla coppia, nell’irrogare l’adeguata sanzione penale, il Giudice di merito, in senso conforme alla più consolidata giurisprudenza di legittimità, operava un’attenta valutazione anche dell’entità danno non patrimoniale patito dalle parti offese, e relativo alla vacanza rovinata, intesa come pregiudizio al benessere psichico e materiale sofferto dai malcapitati per non aver potuto godere della vacanza quale occasione di piacere, svago e riposo.
Difatti, come pure sancito dalla Suprema Corte: "Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata, secondo quanto espressamente previsto in attuazione della Direttiva n. 90/314/CEE, costituisce uno dei "casi previsti dalla legge" nei quali, il pregiudizio non patrimoniale è risarcibile ai sensi dell'art. 2059 c.c., e si concreta in una tipologia di danno costituito da disagio e sofferenze per il presumibile stravolgimento delle aspettative con riguardo alla qualità e serenità della vacanza”(Cassazione civile; Sez. III, Sent. n. 17724 del 06/07/2018).
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice e in linea con la più autorevole giurisprudenza sia di merito, sia di legittimità, si può affermare che: "Il soggetto che pone in essere una condotta fraudolenta con artifici e raggiri consistiti nel proporre in affitto un appartamento per le vacanze e inducendo in errore le vittime sulla reale esistenza dello stesso, nonché procurandosi un ingiusto profitto, va condannato per il delitto di truffa ex art. 640 c.p., oltre al risarcimento di tutti i danni derivati dalla stessa condotta acclarata, la cui liquidazione non può prescindere dal danno emergente corrispondente all'importo inutilmente corrisposto in anticipo, oltreché al danno da vacanza rovinata subito dalle parti offese” (Tribunale sez. I , - Avellino, 04/06/2018, n. 1064 ). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie che possono insorgere tra cittadino ed Azienda Sanitaria Unica Regionale, in particolare quando la stessa viene meno ai propri doveri.
Di seguito la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un nostro lettore di Macerata, che chiede: "Nel caso in cui sono costretto a rivolgermi ad una struttura sanitaria privata non convenzionata, posso chiedere il rimborso delle relative spese all’Asur?".
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ai controversi rapporti tra cittadino ed Asur riguardo alla tempestività delle cure mediche non rimandabili.
A tal proposito è utile riportare una recente sentenza di merito secondo la quale, "il paziente che si rivolge ad una struttura sanitaria privata, non convenzionata con il sistema sanitario nazionale, ha diritto al rimborso delle spese mediche se il ricovero è stato effettuato in stato di urgenza e necessità", il tutto accertato sulla base dei presupposti richiesti dalla disciplina dettata in materia sanitaria dal D. Lgs. n. 502/1992.
Ed invero, il decreto legislativo n. 502/92, in particolare l'art. 1, stabilisce che il Servizio sanitario nazionale assicura, attraverso risorse pubbliche, i livelli essenziali di assistenza nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell'equità nell'accesso all'assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze.
Prevede, inoltre, che siano posti a carico del Servizio sanitario le prestazioni sanitarie che presentano, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, a fronte delle risorse impiegate.
Tenuto conto di ciò, l’elemento essenziale di discrimine nel riconoscere o meno l'insorgenza del diritto soggettivo al rimborso delle suddette spese da parte della Azienda Sanitaria territorialmente competente è l'effettiva ricorrenza di una comprovata situazione, non soltanto di pericolo di vita o di rischio di aggravamento della malattia per l'assistito, ma anche di impossibilità per la struttura pubblica convenzionata di offrire a costui l'intervento o la cura nei tempi e modi utili, alla luce delle conoscenze medico - scientifiche.
Pertanto, l’urgenza ed indifferibilità dell'intervento terapeutico da un lato, e l'impossibilità per la struttura pubblica di approntare in modo tempestivo tale intervento dall'altro, costituiscono vere e proprie condizioni legislativamente imposte per il riconoscimento del diritto soggettivo al rimborso da parte del Servizio Sanitario Nazionale delle spese sostenute in regime di assistenza non convenzionata.
Ebbene, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che, "sussistono i presupposti per il riconoscimento del diritto al rimborso delle spese mediche affrontate dal paziente da parte dell’Asur quando tale intervento è caratterizzato da un’effettiva situazione di urgenza e lo stesso risulta adeguato perché migliorativo delle condizioni fisiche della ricorrente e della sua aspettativa di vita, sempreché il Servizio sanitario nazionale non poteva offrire in tali tempi l'assistenza specializzata richiesta per l'esecuzione dei trattamenti terapeutici" (Tribunale di Brindisi, sentenza n. 1059/2020). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema riferibile alla clonazione delle carte di credito e nello specifico le responsabilità degli esercenti che accettano tale tipologia di pagamento.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "Sono responsabili gli esercenti che accettano il pagamento tramite una carta di credito ma clonata?".
Il caso di specie ci porta ad analizzare una vicenda purtroppo oramai sempre più ricorrente, recentemente risolta dalla Corte di Cassazione con protagonisti un gioielliere e la società America Express.
Il negoziante aveva accettato il pagamento d’acquisto di gioielli da parte di un apparente titolare di una carta di credito American Express successivamente risultata clonata, transazione commerciale poi annullata con la relativa somma stornata in capo al legittimo proprietario all’esito delle verificate contestazioni.
La circostanza portava così il gioielliere a chiedere il corrispettivo importo dei gioielli acquistati direttamente alla società American Express. La Suprema Corte a tal proposito ribadiva il proprio orientamento in tema di responsabilità contrattuale nel rapporto tra l'emittente una carta di credito e l'esercente, stabilendo che questi, nell'accettare i pagamenti da parte del titolare della carta, è tenuto all'adempimento del contratto secondo il criterio di cui all'art. 1176 c.c., usando la diligenza del buon padre di famiglia.
Restano invece inapplicabili le norme di cui all'art. 1189 c.c., relativa al pagamento al creditore apparente, e altresì 1992 c.c., che concerne l'adempimento in relazione alla presentazione di un titolo di credito, ai quale non è equiparabile la carta di credito (Cass., n. 16102/2006; Cass., n. 694/2010).
Alla luce di tali principi la Corte evidenziava che nell'accordo firmato dalla società del gioielliere con American Express era specificamente prevista la facoltà per quest'ultima di sospendere il pagamento di memorie di spesa non conformi ai termini e condizioni previsti nell'accordo stesso, nonché il diritto di riaddebitare l'intero ammontare di tali memorie di spesa, anche deducendoli dai successivi pagamenti dovuti all'esercente.
Erano definite specificamente come irregolari le memorie di spesa artificiosamente frazionate per non superare i limiti di spesa, nonché quelle per le quali non risulti effettivamente reso un servizio oggetto del pagamento ovvero quelle relative ad operazioni dubbie.
Il gioielliere difatti non ha mai prodotto copia di tale documento, prassi abitualmente posta in essere negli esercizi commerciali a fronte di acquisti di notevole importo e reiterati nell'arco di un lasso di tempo estremamente breve, nè risultano essere stati annotati gli estremi del documento di identificazione sullo scontrino (come espressamente previsto dall'accordo di adesione al sistema di pagamento anticipato tramite servizio P.O.S.) non potendosi seriamente dubitare che le operazioni commerciali di cui si discute fossero da considerarsi sospette in ragione del loro importo, delle modalità di esecuzione e delle loro vicinanza temporale con una reiterazione nell'arco di 15 ore di 5 operazioni di importo considerevole.
Circostanza che avrebbe dovuto indurre l'esercente ad adottare misure più adeguate ed incisive nel rispetto delle condizioni contrattuali tra le quali, infine, la verifica della conformità della firma apposta sulla carta con quella rilasciata sullo scontrino, cautele che gli avrebbe permesso di identificare la carta clonata.
Pertanto, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che, "E’ responsabile l’esercente che accetta i pagamenti da parte dell’apparente titolare della carta in violazione dell’adempimento del contratto di cui all’art 1176 c.c. ossia in abuso della diligenza del buon padre di famiglia”( Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 19400/2023). Rimango come sempre in attesa delle vostre richieste via mail dandovi appuntamento alla prossima settimana.
(Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay)
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema della tutela degli animali e nello specifico il caso in cui gli amici a quattro zampe vengano abbandonati dai propri padroni, orrenda circostanza spesso posta in essere proprio in questo periodo, in quanto a ridosso delle ferie estive.
Il caso in parola ci offre la possibilità di esaminare giuridicamente tale deplorevole condotta penalmente rilevante. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "Il proprietario di un cane abbandona l’animale ai bordi di una strada proprio prima di partire per le proprie ferie estive senza essere visto da alcuna persona che potrebbe denunciare immediatamente tale fatto alla Polizia Giudiziaria. L’animale viene poi salvato da un passante che denuncia tale ritrovamento all’Autorità Pubblica: quali le responsabilità in capo al proprietario dell’animale?".
Il caso di specie ci porta ad analizzare il reato di "Abbandono di Animali", previsto e disciplinato dall’art. 727 del codice penale, secondo il quale: "Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l'arresto fino ad un anno o con l'ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze".
A tal proposito, il concetto di abbandono va ricondotto alla trascuratezza o al disinteresse verso l’animale e non invece all’incrudelimento nei suoi confronti o all’inflizione di sofferenze gratuite, atteggiamenti questi rientranti, di fatto, nel reato di “Maltrattamento di animali” previsto e punito dall’art. 544- ter del codice penale.
L’abbandono, in ogni caso, non va individuato nella sola precisa volontà di abbandonare l’animale, ma nell’intento più generale di non prendersene più cura nella consapevolezza dell’incapacità dell’animale di provvedere autonomamente a se stesso.
Pertanto, nel caso che ci occupa, risulta evidente l’applicazione dell’art. 727 c.p. nei confronti del proprietario del cane abbandonato, il quale, pur non essendo stato visto da alcuna persona, non ha tenuto conto della presenza del microchip addosso all’animale; per tali ragioni, sarà poi agevole per il Servizio Veterinario, poter risalire al proprietario del cane abbandonato per poi denunciarlo all’Autorità Giudiziaria per il reato di abbandono di animali.
Difatti, la stessa Corte di Cassazione specifica che la nozione di abbandono di animali è da intendersi non solo come precisa volontà di abbandonare definitivamente l'animale ma anche come il non prendersene più cura, "ben consapevoli dell'incapacità dell'animale di non poter più provvedere a sé stesso come quando era affidato alle cure del proprio padrone".
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, "Il concetto di abbandono, come delineato dall'art. 727 c.p., implica semplicemente quella trascuratezza o disinteresse che rappresentano una delle variabili possibili in aggiunta a chi addirittura abbandona il proprio cane ai bordi di una strada circostanza questa che va a palesare ancor più la commissione del reato di abbandono di animali (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 18892/11).
Nel consigliare a tutti di denunciare prontamente tali spregevoli comportamenti penalmente rilevanti, come sempre rimango in attesa delle vostre richieste via mail dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente gli ultimi eventi temporaleschi accorsi nella provincia di Macerata e, nello specifico, la tematica relativa alla responsabilità degli enti locali per i danni causati dalla caduta di alberi o rami, ecc, in occasione di temporali.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "È possibile ottenere il risarcimento dei danni riportati dalla propria autovettura a seguito della caduta di un albero causata da un forte temporale?".
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente sensibile, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi il Tribunale di Cagliari, con una pronuncia che ha posto le basi all’unanime orientamento della Corte di Cassazione, secondo il quale: "È configurabile la responsabilità del Comune a norma dell’art. 2051 c.c. per il danno cagionato al privato da un bene demaniale, atteso che questo si trova nella custodia della amministrazione medesima e quindi rientra nel suo potere di amministrazione e custodia".
E ancora: "La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, può essere esclusa solo se si provi il caso fortuito, consistente in un evento imprevedibile ed eccezionale. Non può quindi ritenersi caso fortuito interruttivo del nesso di causalità, un temporale, seppur caratterizzato da forti raffiche di vento e caduta di grandine” (Trib. Cagliari; Sent. del 06.12.1995).
Difatti il richiamato art. 2051 del codice civile, prevedendo espressamente che "ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito", disciplina l’istituto della responsabilità della cosa in custodia, la quale assume carattere oggettivo, dal momento che prescinde dall’effettivo coinvolgimento del custode della cosa nell’evento lesivo provocato da quest’ultima.
Si introduce, così, la questione della diretta riconducibilità del danneggiamento riportato dal veicolo, agli enti amministrativi, quali Comune, Provincia, Regione, tenuti alla sicurezza e alla manutenzione delle strade, urbane nel primo caso, extraurbane negli altri due, nonché delle relative pertinenze, come marciapiedi e alberi.
Riconducibilità superabile solo con la prova dell’accadimento di un caso fortuito, inteso quale elemento estraneo alla sfera soggettiva del custode, del tutto autonomo, imprevedibile nonché di assoluta eccezionalità, tale da interrompere il nesso di causalità e risultare idoneo a rappresentare l’esclusiva causa del danno.
A tal proposito, con riferimento ai danni cagionati da precipitazioni atmosferiche, la Suprema Corte più volte chiamata a pronunciarsi su tale questione, è stata chiara nell’escludere l’ipotesi di caso fortuito o della forza maggiore in presenza di fenomeni metereologici anche di particolare forza e intensità, se questi rientrano comunque, per quanto rari e sporadici, nella normale prevedibilità.
Si è arrivati inoltre a stabilire con una recentissima sentenza che: "In tema di responsabilità ex art. 2051 c.c., la riconducibilità degli eventi atmosferici alla nozione di 'caso fortuito' è condizionata alla presenza dei requisiti dell'eccezionalità e dell'imprevedibilità, i quali non possono ritenersi provati neanche per il fatto che sia stato dichiarato lo stato di emergenza sulla base di valutazioni operate dalla protezione civile, poiché la 'calamità naturale', che determina lo stato d'emergenza, non costituisce di per sé un evento eccezionale e imprevedibile, pur potendo essere determinata anche da eventi di tal natura, le cui caratteristiche devono essere accertate sulla base di elementi di prova concreti e specifici". (Cass. Civ.; Sez. III; Sent. n. 14861; dep. 31.05.2019).
Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare la legittimità della richiesta di risarcimento avanzata nei confronti dell’Ente per i danni causati dai beni sui quali quest’ultimo svolge la propria attività custodiale, di gestione e manutenzione. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
(Foto di repertorio)
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato eventi che potrebbero accadere in occasione delle imminenti ferie estive e nello specifico la "responsabilità dovuta dalla perdita del bagaglio" in capo agli organizzatori della vacanza o comunque del vettore che ha effettuato il viaggio.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "In caso di viaggio con pacchetto turistico “tutto compreso” giunta a destinazione davanti al nastro trasportatore dell’aeroporto si concretizza il fatto della perdita del proprio bagaglio. Chi deve risarcire?".
Sapere come comportarsi in questi casi e conoscere la corretta procedura da seguire, aiuta a recuperare la calma dopo l'iniziale momento di sconcerto e rabbia e, magari, anche le valigie o comunque il risarcimento danni.
Innanzitutto, giova ricordare che in caso di smarrimento, distruzione, deterioramento o ritardo nella consegna dei bagagli, la tutela dei viaggiatori, per le compagnie aeree comunitarie e quelle registrate nei Paesi che vi aderiscono, è assicurata dalla Convenzione di Montreal del 1999, nonché dal Regolamento 889/2002/CE, che stabilisce all’art. 22 la responsabilità del vettore.
Previsto un risarcimento danni fino a 1.000 DSP (Diritti speciali di prelievo) per passeggero, pari a circa € 1.134,71; mentre, per le compagnie aeree che non aderiscono a tale convenzione, è previsto un risarcimento pari ad € 20,00 per Kg sino al raggiungimento del peso massimo ammesso al trasporto in stiva senza pagamenti aggiuntivi.
Sulla base della normativa, pertanto, i passaggi da seguire per ottenere un equo ristoro per il danno subito sono i seguenti: innanzitutto, recarsi all’ufficio oggetti smarriti (Lost and found) dell’aeroporto e compilare l’apposito modulo Pir (Property irregurarity report), descrivendo la valigia ed il suo contenuto.
Poi, se trascorse le prime 24 ore, il bagaglio non è stato ancora rintracciato, alcune compagnie provvedono il rimborso di una somma per l’acquisto degli articoli di prima necessità, per le quali è quindi necessario conservare scontrini e ricevute. Qualora il bagaglio non venga restituito, il proprietario è tenuto ad inoltrare reclamo alla compagnia aerea entro 21 giorni dallo smarrimento.
In caso, invece, di danneggiamento, la richiesta di rimborso deve essere inviata alla compagnia entro 7 giorni. Per i bagagli contenenti oggetti di valore (come gioielli, pc portatili, denaro contante), è sempre consigliabile dichiararne il contenuto al momento del check-in, chiedendo di poter usufruire della “Dichiarazione di valore” che permette di elevare il limite di responsabilità del bagaglio registrato.
In alternativa è possibile optare preventivamente per la stipula di una polizza assicurativa che, a fronte di un esiguo premio, consente di avere indennizzi superiori a quelli offerti dalle compagnie in caso di furto o perdita.
Ad ogni modo, anche in risposta alla nostra lettrice, nel caso in cui tale vicenda non venga risolta in via stragiudiziale, allora sarà possibile ottenere giudizialmente, previa dimostrazione del pregiudizio subito, il risarcimento di tutti i danni subiti, sia patrimoniali, sia non patrimoniali quali anche il danno morale considerato come "danno da vacanza rovinata".
Difatti, è oramai consolidato l’orientamento della Corte di Cassazione, secondo il quale, "Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata è un pregiudizio risarcibile, costituendo uno dei casi previsti dall’art. 2059 c.c., e spetta al giudice di merito valutare la domanda di risarcimento e prendere una decisione fondata sul bilanciamento del principio di tolleranza delle lesioni minime e della condizione concreta delle parti (Corte di Cassazione, Sez. III Civile, sentenza n. 17724/18, depositata il 06.07.2018)".
Inoltre, sempre nella medesima sentenza, la Suprema Corte, individua quali soggetti obbligati a risarcire il proprietario del bagaglio perduto, oltre al vettore, anche il venditore od organizzatore del pacchetto turistico, in virtù dell’assunzione legale del rischio per i danni del viaggiatore, salvo comunque la possibilità, da parte di quest’ultimi, di rivalersi nei confronti della compagnia aerea.
Precisamente, "il venditore o organizzatore di un pacchetto turistico, in virtù dell’assunzione legale del rischio per i danni che possa subire il viaggiatore, è responsabile del risarcimento patito per fatto illecito commesso da un terzo, salvo la possibilità di rivalersi nei confronti di quest’ultimo".
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate, hanno interessato principalmente la tematica relativa al mancato ottemperamento da parte di un genitore, dei provvedimenti del Giudice circa l’affidamento congiunto del figlio minore.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Treia che chiede: "A quali responsabilità va incontro la madre che impedisce l’esercizio del diritto di visita del padre, nei confronti del figlio minore?".
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata, su cui ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, in una recente ordinanza che ha portato alla condanna di una madre, al pagamento di 5mila a titolo di risarcimento del danno causato al figlio minore per il fatto di aver ostacolato gli incontri di quest’ultimo con il padre.
Difatti, la Suprema Corte adita, nel valutare la circostanza che al padre del minore era stato concesso di vedere il figlio meno di quanto previsto, ha statuito quanto segue: “I comportamenti ostativi contestati alla madre, hanno condotto alla condanna di risarcimento a favore del figlio con l’intenzione di censurare proprio la mancata frequentazione tra il padre ed il figlio, oltre al ruolo svolto dalla madre, ritenuto il comprovato atteggiamento ostruzionistico di quest’ultima ed il condizionamento al corretto svolgimento delle modalità di affidamento del minore, nonché il disagio, le sofferenze ed i conflitti derivati al minore dall’atteggiamento della madre, in quanto responsabile della lesione del diritto del minore alla bigenitorialità”(Cass. Civ.; Sez. I; ordinanza n.13400 del 17/05/2019).
Con il richiamo alla bigenitorialità quale diritto fondamentale, infatti, il legislatore ha inteso porre in primo piano l'interesse del minore a mantenere una pari frequentazione dei genitori, allo scopo di garantire la sua sana crescita psico-fisica, nonché la stabile e salda relazione emotivo-affettiva con entrambi, i quali hanno pertanto il dovere di collaborare per la sua cura, assistenza, educazione e istruzione.
Così come per l'individuazione delle concrete modalità di esercizio di tale diritto nella nuova situazione creatasi a seguito della disgregazione dell'unione coniugale, prevedendo, ex art. 709 ter c.p.c., la condanna al risarcimento del danno causato al figlio o all’altro genitore, nel caso in cui siano poste in essere gravi inadempienze o violazioni dei provvedimenti sull’affidamento dei figli minori, ovvero condotte pregiudizievoli per i minori stessi, arrivando fino alla revoca dell’affidamento condiviso, in favore, invece, di quello esclusivo.
A tal proposito, la stessa Corte di legittimità chiamata a pronunciarsi sulla condotta posta in essere da una madre in regime di separazione con affidamento congiunto del minore, la quale, anziché collaborare per mantenere un rapporto quanto più stabile possibile con il padre, nella direzione di un sano e doveroso recupero necessario per la crescita equilibrata del minore, aveva al contrario continuato a palesare la sua disapprovazione in termini screditanti nei confronti dell’ex marito.
La donna è stata condannata al pagamento di un cospicuo risarcimento indirizzato questa volta al padre della figlia, "per aver causato l’alienazione genitoriale da cui era affetta quest’ultima, la quale era ormai arrivata al punto di rifiutare ogni contatto con il padre" (Cass. Civ.; Sez. I; sentenza n. 7452del 14.05.2012).
Pertanto, alla luce di quanto emerso ed in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: “Il genitore che intralcia il fondamentale e imprescindibile principio della bigenitorialità, impedendo al figlio di poter crescere serenamente avendo accanto costantemente ed in maniera significativa entrambe le figure genitoriali, giustifica l’intervento del Giudice, il quale ha la facoltà, in presenza di tali gravi inadempienze, o comunque di atti che arrechino danno al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell'affidamento, non solo di modificare i provvedimenti in vigore e/o di ammonire il genitore inottemperante, ma anche di adottare congiuntamente provvedimenti sanzionatori a carico del genitore inadempiente, tra i quali il risarcimento dei danni nei confronti del minore e nei confronti dell'altro genitore” (Tribunale di Cosenza; sez. II; sentenza n.2044; del 18/10/2017).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le multe e in particolare la circolazione in Italia di veicoli con targa straniera.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata: "È legittima la multa per aver circolato in Italia con un veicolo con targa straniera verso il proprietario che risiede da più di 60 giorni in Italia?".
A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda giudiziaria che ha riguardato una persona, residente da più di sessanta giorni in Italia, trovata alla guida di un ciclomotore immatricolato all'estero, condannata al pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria di 1.424 euro.
Ciò in applicazione dei commi 1-bis e 7-bis dell'art. 93 del Codice della strada, introdotti dal d.l. n. 113/2018, come convertito. Sanzione verso la quale l'uomo ha sollevato la questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 77, co. 2, della Costituzione.
La disciplina censurata vieta, a chi ha stabilito la residenza in Italia da oltre sessanta giorni, di circolare con un veicolo immatricolato all'estero. Il divieto in parola è punito con una sanzione pecuniaria da 711 a 2.842 euro, unitamente al sequestro del veicolo e alla confisca del medesimo nel caso in cui, entro sei mesi, il proprietario non provveda a immatricolare il veicolo in Italia o a condurlo all'estero tramite il foglio di via.
L'unica eccezione a tale obbligo di immatricolazione è prevista con riguardo ai veicoli concessi in leasing o in locazione senza conducente da parte di imprese costituite in un altro Stato membro dell'Unione europea o dello Spazio economico europeo che non hanno stabilito in Italia una sede secondaria, nonché nell'ipotesi di veicoli concessi in comodato a soggetti residenti in Italia e legati da un rapporto di lavoro o di collaborazione con imprese costituite in un altro Stato membro dell'Unione europea o aderente allo Spazio economico europeo che non hanno stabilito in Italia una sede secondaria od altra sede effettiva.
Affinché tali presupposti rendano lecita la circolazione dei veicoli con targa estera, a bordo del veicolo deve essere custodito un documento, sottoscritto dall'intestatario e recante data certa, dal quale risultino il titolo e la durata della disponibilità del veicolo.
In mancanza di tale documento, la disponibilità del veicolo si considera in capo al conducente. Il giudice a quo si duole unicamente del fatto che la disciplina censurata sia stata introdotta, in sede di conversione, nel Capo II del Titolo II del d.l. n. 113/2018, contenente “Disposizioni in materia di prevenzione e contrasto alla criminalità mafiosa”, in aperto contrasto con il requisito della necessaria omogeneità tra il decreto-legge e la successiva legge di conversione, in violazione dell'art. 77, co. 2, Cost.
Le norme impugnate, infatti, sarebbero del tutto estranee al fenomeno mafioso o alla materia della sicurezza pubblica. L'obiettivo perseguito dall'inasprimento del trattamento sanzionatorio riservato a chi, residente in Italia da più di sessanta giorni, circoli in Italia con veicolo immatricolato all'estero sarebbe, in realtà, quello di contrastare il fenomeno della cosiddetta esterovestizione dei veicoli.
Ovvero la condotta di chi, residente in Italia, utilizzi veicoli immatricolati all'estero e intestati (spesso fittiziamente) a terzi, al fine di evitare il pagamento dell'imposta di bollo e degli oneri fiscali connessi all'assicurazione per la responsabilità civile, di rendere più difficile la riscossione delle sanzioni amministrative per gli illeciti commessi e, più in generale, di sfuggire ai controlli del fisco, occultando indici della propria capacità contributiva, evidentemente difforme da quella dichiarata.
Per il giudice a quo, l'estraneità di tale obiettivo a quelli perseguiti dal d.l. n. 113/2018 interromperebbe il “nesso di interrelazione funzionale” tra decreto-legge e legge di conversione, in violazione dell'evocato parametro costituzionale.
Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la legge di conversione rappresenta un atto normativo a competenza funzionalizzata e specializzata, perché rivolto unicamente a stabilizzare gli effetti del decreto-legge, con la conseguenza che esso è limitatamente emendabile, potendosi aprire solo a disposizioni coerenti con quelle originarie dal punto di vista materiale o finalistico (cfr. Corte Cost., n. 6/2023, n. 245/2022 e n. 210/2021).
Tale continuità viene meno quando le disposizioni aggiunte siano totalmente estranee o addirittura “intruse” rispetto a quei contenuti e a quegli obiettivi, giacché solo la palese “estraneità delle norme impugnate rispetto all'oggetto e alle finalità del decreto-legge” o la “evidente o manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell'originario decreto-legge” possono inficiare di per sé la legittimità costituzionale della norma introdotta con la legge di conversione (Corte Cost., n. 181/2019, n. 154 del 2015 e n. 22/2012).
Alla luce della palese estraneità delle disposizioni censurate agli ambiti e alle finalità del d.l. n. 113 del 2018, si deve ritenere che le prime presentino il carattere di norme “intruse”, con riguardo tanto all'oggetto della disciplina, quanto alla ratio complessiva del provvedimento di urgenza, quanto, infine, all'esigenza di «coordinamento rispetto alle materie “occupate” dall'atto di decretazione» (sentenza n. 247 del 2019).
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: "Deve, pertanto, essere dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 93, commi 1-bis e 7-bis, cod. strada, introdotti dall'art. 29-bis del d.l. n. 113 del 2018, come convertito in considerazione della riscontrata violazione dell'art. 77, secondo comma, Cost." (Corte Costituzionale, sentenza del 6 giugno 2023, n. 113), così da rendere illegittima la multa. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti tra i coniugi oltre all’istituto della donazione. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Porto Recanati che chiede: "È possibile revocare una donazione della moglie al marito che la tradisce?".
A tal proposito risulta utile portare una recente vicenda risolta poi in Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla revoca di più donazioni indirette mobiliari ed immobiliari effettuate dalla moglie nei confronti del marito.
L'uomo, infatti, nel frattempo la tradiva con la propria cognata (la moglie del fratello di lei) mettendo in crisi non solo la coppia ma le intere famiglie coinvolte ed infine anche l’azienda di famiglia della donna tradita nella quale lavoravano tutti i protagonisti della vicenda adulterina.
Nei primi due gradi di giudizio veniva confermata la revoca di tali donazioni fatte in quanto dall’istruttoria erano emersi comportamenti posti in essere dal donatario direttamente nei confronti della donante, che confermavano l’evidenza di un sentimento di disistima ed irrispettosità del marito nei confronti della moglie.
Tutto ciò tenuto conto del principio oramai consolidato giurisprudenziale secondo il quale, «l'ingiuria grave richiesta dall'art. 801 c.c. quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale la sua natura di offesa all'onore ed al decoro della persona, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, dovrebbero invece improntarne l'atteggiamento, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatario» (Cass. civ., n. 20722/2018).
I comportamenti erano qualificabili, ai fini previsti dall'art. 801 c.c., come una grave ingiuria, trattandosi, in effetti, di "una pluralità di comportamenti strettamente connessi e rivolti verso la persona della donante e tali da non poter essere tollerati secondo un sentire ed una valutazione di normalità".
In effetti, l'ingiuria grave richiesta dall'art. 801 c.c. quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatario (Cass. n. 22013 del 2016).
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: "La donazione va incontro alla revocabilità in presenza di una ingiuria grave del marito donatario consistente in un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e nell’irrispettosità della dignità della moglie donante se il marito tradisce la consorte addirittura con la cognata con relativa messa in crisi non solo della coppia ma anche delle famiglie coinvolte oltre all'azienda di famiglia” (Cass. Civ., Sez. III, Ordinanza del 20.06.2022, n. 19816).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente le problematiche relative ai rapporti di coppia e nello specifico gli atteggiamenti tenuti. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: "Il marito è giustificabile se tiene atteggiamenti maltrattanti nei confronti della moglie per gelosia?".
A tal proposito risulta utile portare una recente vicenda risolta poi in Cassazione riguardante un marito che ha più volte tenuto comportamenti aggressivi nei confronti della moglie a causa di un’assurda gelosia connessa, nell’ottica difensiva, anche ai comportamenti della donna.
A fronte della specifica obiezione proposta dal legale, i Giudici di Cassazione ribattono in modo netto: è incontestabile, spiegano, «la non riconoscibilità di alcun valore morale o sociale alla gelosia», con conseguente «incompatibilità della provocazione con il reato di maltrattamenti».
In particolare, i Giudici ribadiscono il principio secondo cui «il movente della gelosia non riveste quelle caratteristiche di altruismo e di nobiltà che costituiscono il presupposto per la configurabilità dell'attenuante» prevista in caso di azione criminosa commessa per «un motivo di particolare valore morale o sociale».
Al contrario, «la gelosia costituisce uno stato passionale sfavorevolmente apprezzato dalla comune coscienza etica, essendo espressione di un sentimento egoistico tutt'altro che nobile ed elevato», sottolineano i Giudici.
E in questa ottica viene anche ribadita «l'incompatibilità della circostanza attenuante della provocazione con un reato di natura abituale quale il delitto di maltrattamenti, essendo questo connotato dalla reiterazione nel tempo di comportamenti antigiuridici». Di fatti, l'essere preda della gelosia non potrà mai giustificare né rendere meno gravi i comportamenti aggressivi tenuti dal marito nei confronti della consorte.
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice si può affermare che: "In tema di maltrattamenti in famiglia, ai fini della configurabilità delle circostanze attenuanti di cui all'art. 62 n. 1 e 2 c.p., il movente della gelosia non riveste quelle caratteristiche di altruismo e di nobiltà che costituiscono il presupposto per la configurabilità dell'attenuante del motivo di particolare valore morale o sociale, prevista dall'art. 62 n. 1, c.p., ma, al contrario, costituisce uno stato passionale sfavorevolmente apprezzato dalla comune coscienza etica, essendo espressione di un sentimento egoistico tutt'altro che nobile ed elevato (Sez. 5, n. 10644 del 04/07/1991, Pasqui, Rv. 188306)".
"Va, infine, ribadita l'incompatibilità della circostanza attenuante della provocazione ex art. 62 n. 2, c.p., con un reato di natura abituale quale il delitto di maltrattamenti, essendo questo connotato dalla reiterazione nel tempo di comportamenti antigiuridici (Sez. 6, n. 13562 del 05/02/2020, Rv. 278757)". (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n.22374/2023). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente le problematiche relative alla responsabilità medica e nello specifico in ambito sportivo. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "Il medico sportivo può essere responsabile della morte di un atleta per infarto?"
A tal proposito risulta utile portare una recente vicenda risolta poi in Cassazione che ha riguardato proprio un atleta al quale era stato rilasciato il certificato di idoneità sportiva agonistica nonostante alcune anomalie riscontrate durante la visita specialistica cardiologica.
I giudici di merito hanno chiaramente evidenziato che già gli esiti degli Ecg avrebbero dovuto ingenerare nel medico il sospetto della sussistenza di una cardiopatia ischemica, per cui sarebbe stato necessario svolgere esami strumentali maggiormente specifici rispetto ad un semplice ecocardiogramma.
È stato correttamente sottolineato, pertanto, che, stante la presenza di elementi diagnostici indicativi con certezza di ischemia miocardica inducibile e di aritmie ventricolari complesse, il medico avrebbe dovuto astenersi dal rilasciare nel 2012 e nel 2013 il certificato di idoneità allo svolgimento di attività sportiva agonistica sulla base dei "Protocolli cardiologici per il giudizio di idoneità allo sport agonistico".
Quanto alla sussistenza del nesso causale tra la condotta omissiva colposa e il decesso si è chiarito che, a fronte di un tracciato ECG patologico, il medico non avrebbe dovuto rilasciare il certificato di idoneità alla pratica agonistica bensì indirizzare il paziente ad una completa valutazione cardiologica, in modo da prevenire future aritmie.
L'omesso riconoscimento dell'idoneità alla pratica sportiva agonistica lo avrebbe indotto a non proseguire gli allenamenti intensi, idonei a provocare "una discrepanza ossigenativa su una parte del muscolo scheletrico".
Si è conseguentemente attribuita la morte dell’atleta, avvenuta per arresto cardiaco improvviso nel corso di attività sportiva, alla scarsa ossigenazione di una parte del tessuto miocardico - circostanza ascrivibile all'ischemia del miocardio non diagnosticata - aggravata dal superamento di una certa soglia di sforzo fisico, che aveva innescato le aritmie ventricolari maligne.
L'impiego esigibile della media diligenza e perizia medica avrebbe dovuto comportare, non già la superficiale diagnosi che aveva dato luogo al rilascio del certificato di idoneità sportiva, bensì l'effettuazione di esami maggiormente approfonditi che avrebbero evitato, con ampio margine di probabilità, la morte del predetto, la quale invece, avveniva improvvisamente durante l’attività fisica espletata.
In altri termini, i giudici di merito hanno accertato che la morte improvvisa dell’atleta poteva e doveva essere scongiurata mediante un diligente e oculato comportamento professionale del medico, per cui, quello diverso da lui tenuto, nel caso concreto, si palesava, sotto il duplice profilo della negligenza e dell'imperizia, colposo ed eziologicamente incisivo sul determinismo dell'evento mortale, avendo consentito l'automatica ammissione del soggetto all'attività sportiva, incompatibile con la sua situazione clinica.
Di contro, è razionalmente credibile che la sua morte sarebbe stata evitata, se non avesse svolto l'allenamento (Sez. 4, n. 38154 del 05/06/2009, R.C., Rv. 245781-2, secondo cui risponde di omicidio colposo il cardiologo, che attesti l'idoneità alla pratica sportiva agonistica di un atleta, in seguito deceduto nel corso di un incontro ufficiale di calcio a causa di una patologia cardiologia - nella specie, "cardiomiopatia ipertrofica" - non diagnosticata dal sanitario per l'omessa effettuazione di esami strumentali di secondo livello che, ancorché non richiesti dai protocolli medici, dovevano ritenersi necessari in presenza di anomalie del tracciato elettrocardiografico desumibili dagli esami di primo livello; Sez. 4, n. 18981 del 09/03/2009, Giusti, Rv. 243993).
Pertanto, in risposta al nostro lettore si può affermare che: "E’ responsabile di omicidio colposo il medico sportivo che rilascia un certificato di idoneità sportiva agonistica nonostante le riscontrate anomalie cardiache nell’atleta deceduto a seguito di infarto durante un allenamento" (Cass. Pen., Sez. IV, sentenza n. 20943/2023). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, "Chiedilo all'avvocato". Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente le problematiche relative alle compravendite immobiliari e nello specifico il ruolo del mediatore.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "Il mediatore immobiliare reticente o mendace deve risarcire l’acquirente?".
A tal proposito risulta utile portare una recente vicenda risolta poi in Cassazione che ha riguardato proprio un mediatore immobiliare che era stato reticente circa la presenza di abusi edilizi sull’immobile nei confronti del promissario acquirente.
La Suprema Corte ricorda in primo luogo che «il mediatore - tanto nell'ipotesi tipica in cui abbia agito in modo autonomo, quanto nell'ipotesi in cui si sia attivato su incarico di una delle parti (c.d. mediazione atipica) - ha, ai sensi dell'art. 1759, comma 1, c.c., l'obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede, nel cui ambito è incluso l'obbligo specifico di riferire alle parti le circostanze dell'affare a sua conoscenza, ovvero che avrebbe dovuto conoscere con l'uso della diligenza qualificata propria della sua categoria, idonee ad incidere sul buon esito dell'affare».
Dalla lettura combinata dell'art. 1759, comma 1, c.c. con gli artt. 1175 e 1176 c.c., nonché con la legge n. 39/1989, si desume la natura professionale dell'attività del mediatore, il quale (pur non essendo tenuto, se non in forza di uno specifico impegno contrattuale, a svolgere apposite indagini di natura tecnico giuridica) riveste comunque un ruolo che gli permette di «svolgere ogni attività complementare o necessaria per la conclusione dell'affare».
Da tale affermazione discende la responsabilità del mediatore anche per informazioni obiettivamente non vere su fatti di indubbio rilievo, dei quali egli non abbia consapevolezza e che non abbia controllato.
Nella vicenda in esame, la mancata informazione del promissario acquirente sull'esistenza di una irregolarità urbanistica o edilizia non ancora sanata, della quale il mediatore stesso doveva e poteva essere edotto, lo rende responsabile verso il cliente (affiancandosi tale responsabilità alla eventuale responsabilità del venditore) e può essere fatta valere sia chiedendo al mediatore il risarcimento del danno, sia rifiutando il pagamento della provvigione.
Pertanto, in risposta al nostro lettore si può affermare che: “In tema di mediazione immobiliare è configurabile una responsabilità risarcitoria del mediatore in caso di mancata informazione del promissario acquirente circa l’esistenza di irregolarità urbanistiche o edilizie non ancora sanate relative all’immobile oggetto della promessa di vendita” (Cass. Civ., Sez. II, ordinanza del 02.05.2023 n. 11371). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata da Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema del risarcimento danni a seguito di un sinistro stradale. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: “In caso di sinistro di un automezzo con danni superiori al suo valore di mercato, è possibile chiedere il totale risarcimento della riparazione?
A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda risolta poi in Cassazione dopo che i giudici di merito hanno ritenuto liquidare la proprietaria di un’autovettura per equivalente e non in forma specifica in quanto i danni risultavano più onerosi del valore di mercato del mezzo incidentato, senza tenere conto però che, la liquidazione del danno in forma specifica e per equivalente si pongono in un rapporto di regola ed eccezione, «nel senso che la reintegrazione in forma specifica (che vale a ripristinare la situazione patrimoniale lesa mediante la riparazione del bene) costituisce la modalità ordinaria, che può tuttavia essere derogata dal giudice -con valutazione rimessa al suo prudente apprezzamento (“può disporre”)- in favore del risarcimento per equivalente, laddove la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per la parte obbligata».
Il concetto di eccessiva onerosità è stato interpretato dalla giurisprudenza nel senso che essa ricorre quanto il costo delle riparazioni superi notevolmente il valore di mercato del veicolo (Cass. civ. n. 10196/2022). Infatti «nel bilanciamento fra l'esigenza di reintegrare il danneggiato nella situazione antecedente al sinistro e quella di non gravare il danneggiante di un costo eccessivo, l'eventuale locupletazione per il danneggiato costituisca un elemento idoneo a orientare il giudice nella scelta della modalità liquidatoria».
Sulla base di tale premessa, il Collegio precisa che «deve dunque ritenersi che, ai fini dell'applicazione dell'art. 2058, comma 2, c.c., la verifica di eccessiva onerosità non possa basarsi soltanto sull'entità dei costi, ma debba anche valutare se la reintegrazione in forma specifica comporti o meno una locupletazione per il danneggiato, tale da superare la finalità risarcitoria che le è propria e da rendere ingiustificata la condanna del debitore a una prestazione che ecceda notevolmente il valore di mercato del bene danneggiato».
Inoltre viene precisato che «laddove il danneggiato decida -com'è suo diritto- di procedere alla riparazione anziché alla sostituzione del mezzo danneggiato, non risulta giustificato (perché si tradurrebbe in una indebita locupletazione per il responsabile) il mancato riconoscimento di tutte le voci di danno che competerebbero in caso di rottamazione e sostituzione del veicolo». In altre parole, laddove il giudice proceda alla liquidazione per equivalente, deve riconoscere necessariamente tutte le voci di danno che sarebbero spettate al danneggiato se non avesse scelto di riparare il mezzo, compresi i costi non effettivamente sostenuti ma che devono comunque essere considerati nella liquidazione per equivalente proprio per la natura intrinseca di tale tecnica liquidatoria.
Pertanto, in risposta al nostro lettore si può affermare che: “Laddove il danneggiato decida, ed è un suo diritto, di procedere alla riparazione anziché alla sostituzione del mezzo danneggiato, il giudice nella liquidazione del danno deve ricomprendere tutte le voci di danno che comporterebbero in caso di rottamazione e sostituzione del veicolo” (Cass. Civ., Sez. III, ordinanza del 20.04.2023 n. 10686).Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.