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"Se ci stai, ti faccio il contratto". Il ricatto di un imprenditore in cambio del posto fisso

"Se ci stai, ti faccio il contratto". Il ricatto di un imprenditore in cambio del posto fisso

La Cassazione ha confermato la condanna a sei anni e mezzo di reclusione nei confronti di un imprenditore della provincia di Bergamo, titolare di un agriturismo, che aveva violentato una sua dipendente. La donna, dopo la violenza subita durante l’orario di lavoro, era stata ricoverata in ospedale con due mesi di prognosi.

L’uomo, 47 anni, condannato già in primo grado, per il tramite dei suoi legali ha impugnato la sentenza sino a giungere all’ultimo grado di giudizio, presentando Ricorso in Cassazone.

La linea difensiva è stata quella della richiesta delle attenuanti generiche che avrebbero portato ad uno sconto di pena, perchè l’uomo si è definito: "un onesto lavoratore e un padre di famiglia sempre rispettoso delle regole", dichiarando essersi trattato di “un gesto occasionale”

La Suprema Corte ha rigettato il Ricorso dell’imprenditore per il disvalore della vicenda: l’imputato aveva commesso il reato approfittando della propria posizione sovraordinata rispetto alla dipendente. 

Non sono rari casi di questo genere, in cui un datore di lavoro, approfittando del proprio status, molesta le proprie dipendenti, confidando magari nel loro silenzio, pena la perdita del posto di lavoro. 

Non solo le donne, ma anche gli uomini possono cadere vittime di quello che la Cassazione ha, con recente sentenza, definito "stalking aggravato”, intendendo come tale “la condotta del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti ostili verso il lavoratore dipendente, volti alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro – che possono essere rappresentati dall’abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi – tali da limitare la libera autodeterminazione dello stesso (Cassazione, Sentenza 05 aprile 2022, n. 12827). 

Nella fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte, il datore di lavoro si era reso colpevole del reato “tramite reiterate minacce, anche di licenziamento, e denigratorie, nonché attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare, ingenerando nei dipendenti un duraturo stato di ansia e di paura così da costringerle ad alterare le loro abitudini di vita”

In questi casi denunciare è l’unica strada affinchè la vittima non incorra in gravi danni fisici e psichici che con il trascorrere del tempo si cronicizzerebbero in vere e proprie patologie. 

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