Chiedilo all'avvocato

L’ex marito stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie: vale la condanna penale?

L’ex marito stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie: vale la condanna penale?

Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti in sede di separazione tra gli ex coniugi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Corridonia che chiede: “A quali responsabilità va incontro l’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie?”  Tale circostanza ci porta subito ad applicare il principio giuridico oramai divenuto consolidato espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n.13407/2019, secondo il quale: “Sussiste il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni laddove il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice a fronte della contestazione o dell’ostacolo posto da terzi, come nel caso di un ex marito che, a seguito della mancata voltura delle utenze domestiche dell’abitazione familiare assegnata all’ex moglie, aveva provveduto personalmente a staccare i contatori”. Difatti, proprio in riferimento ad un caso simile a quello prospettato dalla nostra lettrice, nel quale l’ex marito, dopo aver intimato più volte all’ex moglie di procedere alla voltura delle forniture di energia elettrica e gas dell’abitazione familiare a lei assegnata in sede di separazione, aveva provveduto personalmente al distacco in quanto le spese in questione erano state accollate all’ex moglie in sede di separazione, costringendo la donna e i figli a stare nell’appartamento senza poter usufruire di tali servizi-  La Corte di Cassazione ha confermato la configurabilità in capo all’imputato del reato di cui all’articolo 393 del codice penale, in quanto, il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice di fronte alla contestazione o all’ostacolo posto da terzi; a tal proposito, la Suprema Corte aggiunge che, “non è consentito legittimare l’autosoddisfazione per il superamento degli ostacoli che si frappongono al concreto esercizio del diritto”. Viene, infine, precisato che, “si ritiene legittima la violenza sulle cose solo quando sia esercitata al fine di difendere il diritto di possesso in presenza di un atto di turbativa nel godimento della res, sempre che l’azione reattiva avvenga nell’immediatezza di quella lesiva del diritto, non si tratti di compossesso e sia impossibile il ricorso immediato al giudice, sussistendo la necessità impellente di ripristinare il possesso perduto o il pacifico esercizio del diritto di godimento del bene”. Pertanto, in applicazione del principio oramai consolidato della Suprema Corte, si ritiene corretto affermare che, nel caso dell’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie, lo stesso commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto e punito ai sensi dell’art. 393 c.p., in quanto tale diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso all’Autorità Giudiziaria. (Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 13407/19; depositata il 27 marzo). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                     

16/01/2022 10:03
Collare elettrico per addestrare il cane: è maltrattamento

Collare elettrico per addestrare il cane: è maltrattamento

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema della tutela degli animali e nello specifico il caso in cui gli amici a quattro zampe vengano maltrattati dai propri padroni. Il caso in parola ci offre la possibilità di esaminare giuridicamente tale deplorevole condotta penalmente rilevante. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “Il proprietario di un cane che per addestrarlo utilizza un collare elettrico, a quali responsabilità va incontro?".  Il caso di specie ci porta a trattare il deplorevole delitto di maltrattamento di animali di cui all’art. 544-ter c.p., introdotto dall’art. 1 L. 20 luglio 2014 n. 189, con cui sono state incriminate condotte, talune delle quali già previste dalla contravvenzione di cui all’art. 727 c.p. “Abbandono di animali”, oggetto anch’essa di riformulazione. Nello specifico l’art. 544-ter c.p. prevede quanto segue: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi. La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell'animale”. Pertanto, nel primo comma vengono ricomprese le seguenti condotte: a) Aver cagionato per crudeltà o senza necessità una “lesione”; a tal proposito, la Corte di Cassazione ha ritenuto come la nozione di “lesione”, sebbene non necessariamente coincidente con quella prevista dall'art. 582 c.p. delle “Lesioni personali”, implichi comunque la sussistenza di un'apprezzabile diminuzione della originaria integrità dell'animale che, pur non risolvendosi in un vero e proprio processo patologico e non determinando una menomazione funzionale, sia comunque diretta conseguenza di una condotta volontaria commissiva o omissiva (si v. Cass. III, n. 32837/2013); b) Condotte di sevizie, comprensive di “tutte le forme di crudeltà verso animali, offensive del sentimento di pietà e compassione per gli stessi”; c) Condotte consistenti nella sottoposizione dell'animale ad attività insopportabili per le sue caratteristiche etologiche; in sede di legittimità, si è precisato come la nozione di “comportamenti insopportabili per le caratteristiche etologiche” non assuma un significato “assoluto” (inteso come raggiungimento di un limite oltre il quale l’animale sarebbe annullato), ma un significato “relativo”, nel senso del contrasto con il comportamento proprio della specie di riferimento come ricostruita dalla scienza naturale (Cass. III, n. 39159/2014), che ne precisa il contenuto riferendolo alla collocazione degli animali in ambienti non adatti alla loro naturale esistenza, inadeguati dal punto di vista delle dimensioni, della salubrità, delle condizioni tecniche. Nel secondo comma vengono invece incriminate le condotte di: Somministrazione di “sostanza stupefacente o vietate”; da intendersi, in senso descrittivo come “ogni sostanza, naturale o sintetica, che, somministrata agli animali, risulti idonea a determinare in essi uno stato di alterazione fisica o psichica con effetto drogante”. Quanto, invece, alle sostanze vietate, per esse il richiamo vale alle norme che proibiscono la somministrazione di determinate sostanze agli animali (vi rientrano la norme che puniscono l'utilizzo di estrogeni nell'allevamento del bestiame, di cui alla d.l. 4 agosto 1999, n. 336, art. 32), o comunque, la “Sottoposizione a trattamenti che procurano un danno alla loro salute”. Per la previsione di cui al terzo comma dell'art. 544-ter c.p., ovvero la morte dell’animale, dal punto di vista dell'ascrizione soggettiva, l'imputazione dell'evento “morte”, benché non coperta dal dolo, neanche “eventuale”, configurandosi altrimenti il delitto di cui all'art. 544-bis c.p. “Uccisione di animali”, deve comunque, secondo le regole fissate dall'art. 59, comma 2, c.p., essere ascrivibile almeno a colpa, dunque porsi come conseguenza prevedibile delle condotte di cui ai commi che precedono. Detto ciò, ed in risposta alla nostra lettrice, configura il reato di maltrattamento di animali la condotta del padrone di un cane che per “addestrarlo” utilizza un collare elettrico quale invece effettivo strumento di tortura per l’animale. Così la Suprema Corte in una vicenda nella quale è risultato decisivo il ritrovamento di un cane che vagava incustodito sulla pubblica via, ma a richiamare l’attenzione è stato proprio il suo collare, che risultava essere un «collare elettronico». Caratteristiche dell’apparecchio? Produrre scosse di varia intensità sul collo dell’animale, ovviamente su input del padrone con un apposito telecomando a distanza, per «reprimere», sempre secondo i ‘teorici’, «comportamenti molesti». Ma questa strumentazione – di vago richiamo medievale – è da considerare assolutamente vietata, almeno in Italia. Per questo motivo, il padrone dell’animale veniva condannato – su decisione del Giudice per le indagini preliminari – per aver detenuto il cane «in condizioni incompatibili con la sua natura, e produttive di gravi sofferenze». Ad avviso dell’uomo, però, è stato trascurato un particolare importante: il collare elettrico, «se utilizzato correttamente», è «necessario per un utile addestramento dell’animale, provocandogli solo una lieve molestia». L’obiezione proposta dal padrone del cane, però, viene respinta in maniera netta dai giudici della Cassazione, i quali ribadiscono, a chiare lettere, che «il collare elettronico» è da considerare «certamente incompatibile con la natura del cane». Perché l’«addestramento», che si presume di poter così realizzare, è «basato esclusivamente sul dolore» e «incide sull’integrità psico-fisica del cane, poiché la somministrazione di scariche elettriche per condizionarne i riflessi ed indurlo, tramite stimoli dolorosi, ai comportamenti desiderati produce effetti collaterali quali paura, ansia, depressione ed anche aggressività». Come si può parlare, allora, di «addestramento»? Piuttosto, è logico considerare gli «effetti» del ricorso al collare elettrico sul «comportamento dell’animale» come «maltrattamento» in piena regola (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 38034 del 27.04.2018).  Nel consigliare a tutti di denunciare prontamente tali spregevoli comportamenti penalmente rilevanti, come sempre rimango in attesa delle vostre richieste via mail dandovi appuntamento alla prossima settimana.     

09/01/2022 10:00
Fine della convivenza: quali diritti per l’ex che ha contribuito all’acquisto dell’immobile?

Fine della convivenza: quali diritti per l’ex che ha contribuito all’acquisto dell’immobile?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al diritto riconosciuto all’ex convivente della ripetizione di specifiche somme corrisposte al partner durante il periodo di convivenza. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Camerino che chiede: “Terminata la convivenza si può ottenere la restituzione di quanto pagato per la costruzione di quella che sarebbe dovuta essere la casa familiare senza esserne il proprietario?” Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.24721/2019, in accoglimento del ricorso posto in essere dall’ex convivente, affermando testualmente quanto segue: “L’accertamento in fatto che la dazione di denaro era rivolta al solo scopo di realizzare la casa familiare, destinata, nelle previsioni della ricorrente, a divenire comune, giustifica, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il rimborso delle somme versate a titolo di concorso nelle spese di costruzione del manufatto rimasto in proprietà esclusiva dell’altro ex convivente, risultando tale contribuzione a tutti gli effetti, indebita”(Cass. Civ.; Sez. II; Sent. n. 2973/2016). Difatti, l’art. 2033 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto, ha diritto di ripetere ciò che ha pagato […]”, disciplina l’istituto della ripetizione dell’indebito avente come suo fondamento, l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una clausola risolutiva espressa. A tal proposito, occorre rilevare che - sebbene la convivenza di fatto rappresenti ormai a tutti gli effetti una formazione sociale riconosciuta e tutelata dal nostro ordinamento giuridico, con la quale sorgono doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro - è tuttavia necessario che tali prestazioni rese, trovino giustificazione nella solidarietà e nella reciproca assistenza fra i conviventi. Sussiste, infatti, al contrario, un'inconciliabilità logico-giuridica fra convivenza more uxorio e arricchimento ingiustificato, che necessariamente investe le circostanze relative all’effettuazione di prestazioni di tipo economico, derivanti da un presunto vincolo obbligatorio, ma che risultino a posteriori non dovute, così giustificando la tutela giuridica e patrimoniale del soggetto leso, in presenza di atti dispositivi posti in essere a vantaggio di uno dei conviventi esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza.  Pertanto, in risposta alla domanda dalla nostra lettrice e in linea con la più autorevole e consolidata giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: “Le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente "more uxorio" effettuate nel corso del rapporto configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza; in caso di attribuzioni economico patrimoniali eseguite in corso di convivenza, a titolo di concorso alle spese di costruzione della casa familiare, si ha diritto al rimborso delle somme date se, terminata la convivenza, il conferimento non si concretizza nell’acquisto della proprietà del bene, esulando tale prestazione, dal mero adempimento di suddette obbligazioni” (Cassazione civile sez. VI, 15/02/2019, n.4659).  Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

02/01/2022 10:28
Tappo di spumante in un occhio: brindisi di Natale finisce male. È reato?

Tappo di spumante in un occhio: brindisi di Natale finisce male. È reato?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato diversi argomenti a carattere natalizio e, data la diffusa atmosfera di festa, nonché la singolare curiosità espressa dai molteplici lettori per circostanze che riguardano direttamente e indirettamente la festività del Natale, abbiamo scelto di riportare le seguenti situazioni. - Di seguito la risposta alla domanda di un lettore di Civitanova che chiede: “Se durante il cenone della vigilia, nello stappare lo spumante colpisco con il tappo uno dei presenti, in quali responsabilità posso incorrere?” Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, il riferimento a quanto accaduto al titolare di un ristorante che, preso dall’euforia dei festeggiamenti, finiva per ferire all’occhio una cliente che sedeva poco distante, con il tappo dello spumante appena aperto. La Suprema Corte pronunciatasi sulla vicenda, ravvisava nella condotta dell’euforico ristoratore, il reato di lesioni colpose, a causa della mancata adozione delle idonee cautele del caso, condannandolo alla pena prevista dall’art. 590 c.p. che stabilisce testualmente: “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a 309 euro”. (Cass. Pen., Sez. IV, n.32548 del 12.07.2016). Ebbene sì, anche un gesto festoso può finire per “conciarci per le feste”. -In risposta alla domanda di un lettore di Porto Recanati che chiede: “Se a causa di un ritardo del volo prenotato, ci viene impedito di trascorrere le festività con i nostri cari, può essere richiesto il risarcimento del danno subito?” Riportiamo la sentenza del Giudice di Pace di Cagliari (n. 571/2012) che, pronunciatosi su un caso molto simile, aveva condannato la compagnia aerea a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali ad un passeggero che era stato costretto a trascorrere la vigilia di Natale in aeroporto, consumando il “cenone” in solitaria con del cibo acquistato presso un bar poco distante dal gate. L'uomo difatti, oltre al risarcimento per il danno esistenziale subito, era stato ristorato anche dei danni patrimoniali comprese le spese per comprare i due "tristi" panini del “cenone natalizio”!  -In risposta alla domanda posta da un lettore di Muccia che chiede: “Essere un giocatore di carte, soprattutto nel periodo natalizio, può comportare ripercussioni in sede di separazione?” Riportiamo la decisione assunta dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.5395/2014, che, chiamata a pronunciarsi in merito ad un caso di separazione giudiziale dei coniugi, aveva stabilito l’addebito della separazione in capo al marito, il quale era solito spendere molto denaro nel gioco e che, solo nel periodo natalizio, aveva sperperato oltre € 1.000 giocando a carte.  La Suprema Corte aveva infatti chiarito che “anche il gioco d'azzardo, ripetuto ed eccessivo, viola in modo grave gli obblighi matrimoniali sino a rendere la convivenza intollerabile e a far scaturire separazione e consequenziale addebito.” Difatti, il discutibile vizio che impegnava il marito della coppia per diverse ore al giorno, assentandosi quasi totalmente nel periodo natalizio oltre a rappresentare una cattiva abitudine, lo portava a stare spesso, e senza alcun giustificato motivo, fuori casa, non ottemperando ai propri doveri di marito e padre, per di più sottraendo grosse somme di denaro alla cura e al sostentamento della propria famiglia. Pertanto, senza negare il piacere che può derivare dal giocare a carte con amici o in famiglia, specie durante il periodo natalizio, si consiglia di non esagerare! - In risposta alla domanda di un lettore di Corridonia che chiede: “E’ penalmente sanzionabile un soggetto che invia infausti auguri di Natale?" Riportiamo la pronuncia del Tribunale di Bari, che con sentenza depositata il 25 febbraio 2015, ha condannato per estorsione un uomo che si era rivolto più volte alla sua vittima minacciandola ripetutamente del fatto che, se non gli avesse dato i soldi richiesti, la madre avrebbe passato “un brutto Natale”. Difatti l’art. 629 c.p. punendo “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno” intende scongiurare che la prospettazione di un evento dannoso per l'incolumità fisica della vittima o di una persona ad essa molto vicina, spingano la stessa a gesti disperati o comunque non voluti. Il Tribunale adito, specificava inoltre che “In tema di estorsione, la violenza o la minaccia può essere manifestata in modi e forme differenti, purché venga a crearsi la condizione di costrizione psichica della vittima volta, ad ottenere un profitto ingiusto per sé o per altri, con danno altrui.” Nel rimanere in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, colgo l’occasione per porgerVi i miei migliori auguri di Buone Feste, dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

26/12/2021 11:00
Assegno di mantenimento ai figli maggiorenni: quando finisce l'obbligo del genitore?

Assegno di mantenimento ai figli maggiorenni: quando finisce l'obbligo del genitore?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa all’obbligo del mantenimento del genitore, anche separato o divorziato, nei riguardi dei propri figli maggiorenni. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Fino a quando il genitore è tenuto al mantenimento dei propri figli maggiorenni?” Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente delicata e molto attuale, nella quale la Cassazione, pur mantenendo una posizione prudente sulla facoltà per i genitori, anche separati o divorziati, di cessare il mantenimento dei propri figli maggiorenni quali disoccupati cronici, studenti svogliati o attempati "teenager", la stessa è sempre più orientata a porre un freno, quasi in funzione di educatrice sociale, a responsabilizzare proprio quella prole che non vuole andare via da casa e rimanere sotto lo stesso tetto tra le cure amorevoli e la "paghetta"/mantenimento di mamma e papà.  È vero, infatti, che l'obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli, ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c., non cessa con il raggiungimento della maggiore età, ma permane fino al raggiungimento di una indipendenza economica tale da essere in grado di provvedere autonomamente alle proprie esigenze di vita, ma tale obbligo non è infinito: l'obbligo continua a vigere, afferma la Cassazione, solo se il figlio "incolpevolmente" non raggiunge l'indipendenza economica (Cass. n. 23590/2010). Se, dunque, la precarietà del mondo del lavoro accentuata dalla crisi, rende difficile la possibilità di trovare un impiego idoneo, “ per i figli che tengono un comportamento di inerzia e rifiuto ingiustificato di occasioni di lavoro e quindi di disinteresse nella ricerca di indipendenza economica”, la Suprema Corte ha ritenuto, senza ma e senza se, configurabile l'esonero dalla corresponsione dell'assegno richiesto da parte del genitore obbligato (Cass. n. 7970/2013; n. 4765/2002; n. 1830/2011). Così, ad esempio, la Cassazione ha detto di no al mantenimento “della figlia trentaseienne laureata in architettura che aveva rifiutato l'offerta di lavoro del padre, occupato nel settore dell'edilizia, poiché in grado di attendere ad occupazioni lucrative, ingiustamente, invece, da lei rifiutate"  (Cass. n. 610/2012); allo stesso modo, ha escluso il diritto al mantenimento “del figlio ventottenne che aveva iniziato ad espletare attività lavorativa saltuaria ed era iscritto all'università da più di otto anni” (Cass. n. 1585/2014); così come “al figlio ultratrentenne senza lavoro ma in possesso di un patrimonio tale da garantirgli l'autosufficienza economica (Cass. n. 27377/2013). Infine, “quando i figli raggiungono una certa età, non hanno speso il titolo professionale conseguito e non riescono a rendersi indipendenti economicamente, non possono continuare a contare sul mantenimento dei genitori; gli stessi devono attivarsi nella ricerca di un'occupazione stabile e, se non ci riescono, devono fare affidamento, piuttosto, su aiuti sociali specifici” (Cass. Civ., Ordinanza n. 38366/2021). Pertanto in risposta alla domanda del nostro lettore ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di legittimità, si può affermare che l’obbligo al mantenimento da parte del genitore dei figli maggiorenni, da un lato continua a vigere solo se il figlio "incolpevolmente" non raggiunge l'indipendenza economica (Cass. n. 23590/2010), dall’altro lo stesso viene meno per i figli che tengono un comportamento di inerzia e rifiuto ingiustificato di occasioni di lavoro e quindi di disinteresse nella ricerca di una propria autonomia finanziaria (Cass. n. 7970/2013; n. 4765/2002; n. 1830/2011), oltre al fatto che comunque devono fare affidamento su aiuti sociali specifici (Cass. Ordinanza n. 38366/2021). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

12/12/2021 10:00
Colpi "proibiti" nel calcio: normali falli di gioco o responsabilità penale?

Colpi "proibiti" nel calcio: normali falli di gioco o responsabilità penale?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le possibili responsabilità di un atleta nella pratica dello sport e nello specifico nel gioco del calcio. Ecco l’analisi dell’avvocato Oberdan Pantana: "Con grande piacere mi accingo ad affrontare il seguente argomento sollecitato dalle mail dei lettori e nel farlo utilizzerò dei casi pratici che spesso e volentieri avvengono durante una competizione calcistica. Ultimissimi minuti del match. Risultato – importantissimo – ancora in bilico. Contropiede fulmineo della squadra ospite. L’attaccante, palla al piede, si dirige verso l’area avversaria, quando irrompe il difensore che, pur volendo colpire la sfera, centra in pieno la gamba sinistra del ‘numero 9’; grave infortunio per l’attaccante: frattura della tibia. In primo ed in secondo grado, viene confermata la condanna per il difensore locale per il reato di lesioni colpose di cui all’art. 590 del codice penale; in Cassazione, invece, viene assolto con formula piena, per l’assenza di tale tipologia di responsabilità. Smentita la visione tracciata dai giudici del Tribunale prima e da quelli della Corte d’appello poi: decisiva l’applicazione del cosiddetto “rischio consentito”, con riferimento ad «eventi lesivi causati nel corso di incontri sportivi». Nessun dubbio sulla dinamica del rilevante scontro di gioco, verificatosi durante la partita; evidente, infatti, la condotta scorretta del difensore della squadra di casa, evento, però, frutto di un eccessivo «agonismo» e di un errore nel calcolo della «tempistica dell’intervento di gioco»: egli, infatti, ha mirato «il pallone», ma ha «finito per colpire la gamba dell’attaccante, che, in anticipo, già aveva allungato la sfera in avanti. Rilevante il contesto: «l’infortunio maturò in un frangente particolarmente intenso», cioè «gli ultimi minuti dell’incontro», e durante «una azione di gioco decisiva» per un match «rilevante per il campionato». Significativo anche il fatto che l’azione del difensore, pur in trance agonistica, «era manifestamente indirizzata a interrompere l’azione di contropiede, mediante il tentativo di impossessarsi regolarmente del pallone», sottraendolo all’attaccante. Tutto ciò, spiegano correttamente i magistrati della Cassazione, consente di ritenere meritevole di censura il gesto compiuto dal difensore, però solo nell’ambito dell’«ordinamento sportivo». Va esclusa, quindi, la «antigiuridicità» a livello penale del «fallo» compiuto sul campo da calcio. Evidente la colpa del difensore, sanzionabile, però, solo in ambito sportivo, non certo in quello penale (Cassazione, sentenza n. 9559/2016, Sezione Quarta Penale). Così come il caso “derby infuocato”: il difensore colpisce l’avversario con un pugno con l’azione di gioco distante. In tal caso la Suprema Corte ha giustamente confermato la sentenza di condanna dell’imputato/difensore locale, “trattandosi di un’aggressione fisica intenzionale, per ragioni avulse dalla dinamica sportiva”. Il Collegio di legittimità, ritenendo corretta la valutazione svolta dalla Corte territoriale, afferma che «in tema di competizioni sportive, non è applicabile la scriminante atipica del rischio consentito, qualora nel corso di un incontro di calcio, l’imputato colpisca l’avversario con un pugno al di fuori di un’azione ordinaria di gioco, trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva». Nella disciplina calcistica, infatti, «l’azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone ovvero di movimenti, anche senza palla, funzionali alle più efficaci strategie tattiche, circostanze non presenti in quanto accaduto». Tale circostanza, al fine di spiegare ancor meglio il limite della scriminante dell’attività sportiva del “rischio consentito” nell’ambito di una partita di calcio, si va a ricollegare ad un ulteriore fatto accaduto in campo, soffermandoci però prima all’indimenticabile finale mondiale di Berlino vinta dalla nostra nazionale. Il colpo di testa è un protagonista obbligatorio di ogni partita di calcio che si rispetti, giocata, questa, spesso vincente, è in grado di sorprendere, se ben eseguita, anche il più “felino” dei portieri. Diversa dal colpo di testa è, invece, la testata vera e propria, anche questa, purtroppo, presente in alcune partite di calcio; tutti noi ricorderemo Materazzi mentre stramazza al suolo come un birillo, colpito dalla craniata infertagli da Zidane: si era alla finale dei Mondiali del 2006 e tutta l'Italia – di lì a poco – sarebbe scesa in strada ad esultare per la quarta stelletta conquistata. Fatta questa premessa “storica” che non ha avuto alcuna evoluzione giudiziaria, pur possibile, la stessa però si va a ricollegare ad un caso simile, che si è svolto in un contesto molto più modesto dell’”Olympiastadion di Berlino”, che invece è terminata nelle aule dei Tribunali. Durante un incontro di calcio, poco prima del fischio finale, un giocatore si accascia al suolo, tramortito: ha appena ricevuto una testata sul naso da un avversario a gioco fermo. Il malcapitato calciatore, col setto nasale fratturato, vola in ambulanza verso l'ospedale più vicino: di lì a poco sporgerà querela. Il procedimento penale, deciso nelle forme del rito abbreviato condizionato, si conclude con una sentenza di condanna. Tutti gli eventi riportati, ci consentono di chiarire meglio l’antigiuridicità durante una partita di calcio, facendo riferimento alle scriminanti “atipiche”. Il catalogo piuttosto ristretto delle scriminanti “codificate” non fa espressa menzione dell'esimente sportiva, che appartiene – per dottrina e giurisprudenza ormai ben consolidate – al novero delle esimenti non espressamente contemplate nel codice, ma di fatto esistenti. Queste ultime sono figlie dell'evoluzione naturale del diritto penale, che, nel suo adeguarsi alla realtà sociale in cui si applica, deve necessariamente calibrare la risposta punitiva alle infinite, lecite, ma talvolta rischiose, forme in cui può esprimersi la condotta umana. Lo sport è una di esse: chi lo pratica – non importa se professionalmente o per diletto - mette in conto di poter subire anche conseguenze pregiudizievoli per la propria integrità fisica: il rischio che ogni sportivo accetta è, appunto, un rischio consentito. Qual è, a questo punto, il limite che non deve essere oltrepassato per sconfinare nell'illecito penale? Il consenso che – tacitamente – si esprime prendendo parte ad una competizione sportiva, implica, come già detto, l'accettazione di un rischio, più o meno calcolato. Questo calcolo si basa, evidentemente, anche sull'affidamento che tutti i partecipanti alla competizione conoscano e si conformino alle regole della disciplina sportiva praticata. Secondo la giurisprudenza, che dimostra di non ignorare la “realtà naturale” dell'agonismo, l'involontario travalicamento delle regole di gioco non è sufficiente per aprire le porte alla responsabilità penale nel caso in cui dovessero verificarsi conseguenze lesive per alcuno degli atleti. Il discorso cambia del tutto nell'ipotesi in cui l'incontro sportivo diventi un pretesto per dare sfogo a gesti gratuitamente violenti, o che comunque non sono giustificabili con il gesto atletico richiesto dal gioco del calcio; circostanza questa che ogni vero sportivo dovrebbe evitare oltreché condannare. Il gioco del calcio e lo sport in generale ha bisogno di veri sportivi! Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana                                                                                                                       

28/11/2021 10:40
Bullismo: come si manifesta e quando si profila come reato?

Bullismo: come si manifesta e quando si profila come reato?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente tematiche riferibili alla condotta di quei ragazzi che pongono in essere atteggiamenti aggressivi nei confronti dei propri compagni di scuola. Di seguito la risposta alla domanda posta da una lettrice di Morrovalle, che chiede: "a quali responsabilità può andare incontro un ragazzino che maltratta ed umilia un proprio compagno di classe, in modo sistematico, isolandolo dagli altri e procurandogli serie conseguenze psicologiche e fisiche?" Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica estremamente attuale, e purtroppo sempre più diffusa al giorno d’oggi, ossia il bullismo, che si configura quando vengono posti in essere, intenzionalmente e ripetutamente, comportamenti prevaricatori nei confronti di una persona con cui si condivide il medesimo contesto sociale, quale potrebbe essere quello scolastico, condotte a seguito delle quali la vittima, spesso percepita come “anello debole” della catena, diviene del tutto isolata ed incapace di difendersi. E’ importante rilevare, innanzitutto, come, nonostante nel nostro ordinamento non sia ancora stata tipizzata un’apposita fattispecie di reato per il bullismo, vengano certamente puniti i singoli atti attraverso i quali tale fenomeno si manifesta; infatti, le aggressioni fisiche ai danni di un compagno di classe possono sicuramente integrare i reati di molestie, percosse e lesioni personali, nelle aggressioni psichiche possono ravvisarsi i reati di minaccia e diffamazione, così come, nei casi di aggressioni al patrimonio, possono configurarsi il furto, l’estorsione ed il danneggiamento.  Qualora le aggressioni, reiterate nel tempo, generino poi nel soggetto un perdurante stato di ansia e di timore, tanto da costringerlo, ad esempio, a non frequentare più la stessa scuola, si può addirittura arrivare a configurare il delitto di atti persecutori, ex art.612 bis c.p., così come stabilito dalla Corte di Cassazione con una recente sentenza, la n. 26595/2018, con cui si è affermata la responsabilità penale di due studenti per stalking scolastico. Difatti, con specifico riferimento a due ragazzi che avevano posto in essere condotte vessatorie e moleste ai danni di un loro compagno di classe, nel corso dell’intero anno scolastico, tanto da comportare il suo trasferimento presso un differente istituto, la Suprema Corte ha stabilito quanto segue: “Del tutto condivisibile appare il percorso argomentativo seguito dal giudice di secondo grado, sottolineando, con particolare riguardo al delitto di cui all'art. 612 bis c.p., la pluralità delle condotte vessatorie poste in essere dai due imputati per tutto il periodo dell'anno scolastico in cui egli frequentò la scuola, costringendolo, prima, ad interrompere la frequenza scolastica e, alla fine, ad abbandonare la scuola, eventi che, avendo determinato un'evidente alterazione delle condizione di vita del minore, integrano, come correttamente ritenuto dal giudice di appello, la fattispecie incriminatrice, di cui all'art. 612 bis c.p., unitamente all'accertato stato di ansia e di paura per la propria incolumità fisica, insorto nel minore”(Cassazione penale, sez. V, 28/02/2018, n. 26595). Pertanto, in risposta della nostra lettrice, alla luce di tali considerazioni, e in adesione all’unanime orientamento della Suprema Corte, risulta dunque corretto affermare che, chiunque maltratti ed umili un proprio compagno di classe, in modo ripetuto e sistematico, isolandolo dagli altri e procurandogli serie conseguenze psicologiche e fisiche tali da comportare addirittura una modifica delle proprie abitudini di vita, potrà essere punito, ai sensi dell’ art. 612 bis c.p., per il grave delitto di “stalking”, fatta salva comunque l’integrazione di altri reati che frequentemente si accompagnano alla condotta del bullo. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

21/11/2021 09:55
Alunno cade per uno spintone durante l’orario scolastico: la scuola può essere condannata?

Alunno cade per uno spintone durante l’orario scolastico: la scuola può essere condannata?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al comportamento tra studenti all’interno del contesto scolastico. Di seguito la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: “La scuola può essere condannata al risarcimento danni in caso di caduta di uno studente all’interno dell’istituto?”.  Il caso di specie ci rimanda ad una vicenda recentemente definita giudizialmente in ambito civilistico, nella quale uno studente conveniva in giudizio il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, per ottenerne la condanna, previo accertamento della responsabilità dell'amministrazione scolastica, al risarcimento dei danni subiti durante lo svolgimento dell'orario scolastico, in conseguenza di uno spintonamento da parte di un altro alunno che lo faceva cadere a terra ed urtare con la schiena il piedistallo in legno di supporto alla lavagna. Nello specifico, il ricorrente lamentava che il danno si fosse verificato a causa della scarsa vigilanza prestata dall'Istituto didattico, ai sensi dell'art. 2048 c.c. e dell'art. 1218 c.c., in virtù del vincolo negoziale sussistente tra l'alunno e l'Amministrazione scolastica. A tal proposito la Suprema Corte ha già avuto modo di ribadire la natura contrattuale della responsabilità tanto dell'istituto scolastico quanto dell'insegnante «atteso che, quanto all'istituto, l'instaurazione del vincolo negoziale consegue all'accoglimento della domanda di iscrizione, e, quanto al precettore, il rapporto giuridico con l'allievo sorge in forza di contatto sociale» (Cass. civ., n. 10516/2021). L'ammissione dell'allievo a scuola, pertanto, determina l'instaurazione di un vincolo negoziale dal quale sorge, a carico dell'istituto, l'obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l'incolumità dell'alunno nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica e, quindi, di predisporre gli accorgimenti necessari affinché non venga arrecato danno agli alunni in relazione alle circostanze del caso concreto: da quelle ordinarie, tra le quali l'età degli alunni, che impone una vigilanza crescente con la diminuzione dell'età anagrafica, a quelle eccezionali, che implicano la prevedibilità di pericoli derivanti dalle cose e da persone, anche estranee alla scuola e non conosciute dalla direzione didattica, ma autorizzate a circolare liberamente per il compimento della loro attività (Cass. civ., n. 22752/2013). Alla luce di tali considerazioni, e in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che, “L’ammissione dell’allievo a scuola determina l’instaurazione di un vincolo negoziale dal quale sorge, a carico dell’istituto e dell’insegnante l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’alunno nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica”(Cass. Civ., Sez. VI, Ordinanza del 08.11.2021 n. 32377). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana. 

14/11/2021 10:45
Mamma social può essere condannata a rimuovere i Tik Tok con la figlia?

Mamma social può essere condannata a rimuovere i Tik Tok con la figlia?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa all’uso dei social nei rapporti familiari. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Porto Recanati che chiede: “Posso chiedere la rimozione dai social della mia ex moglie di foto e video di mia figlia minorenne?” Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente sensibile, su cui ha avuto modo recentemente di pronunciarsi il Tribunale di Trani, con ordinanza del 30.8.2021, affrontando un argomento di sicuro dibattimento negli anni a venire: la tutela dei minori nella pubblicazione, da parte dei genitori, di foto o video sui social network. La mamma in questione, a partire da maggio 2020, postava su Tik Tok video di lei con la figlia minorenne. A quel punto il padre, nel dirsi non d'accordo, invocava la tutela giurisdizionale. A detta del Tribunale di Trani il comportamento della mamma integra la violazione di più norme, nazionali, comunitarie ed internazionali. Nello specifico il Tribunale ravvede, nella condotta della mamma, la violazione dell'art. 10 nel nostro codice civile (concernente la tutela dell'immagine) e degli artt. 1 e 16 I co. della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo. In particolare, ricordano i giudici pugliesi, l'art. 16 della Convenzione di New York stabilisce che nessun fanciullo può essere oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione e che spetta alla legge la tutela dello stesso contro eventuali violazioni dei suoi diritti. Non solo, stando al Codice della Privacy art. 4, le foto o video devono essere considerati come dati personali, di conseguenza, in caso di minori di sedici anni, perchè le stesse vengano divulgate, v'è bisogno del consenso di entrambi i genitori. Nel caso in questione il padre ha manifestato il suo dissenso a nulla rilevando la circostanza invocata dalla madre secondo la quale lo stesso avesse accesso al suo profilo su Tik Tok. Per il Tribunale di Trani infatti "la possibilità di visionare un profilo social non equivale ad accettazione della pubblicazione di video e foto ritraenti la figlia minore. La proposizione del ricorso cautelare, seppur a distanza di qualche mese dalla pubblicazione, è espressione del dissenso e del mancato consenso, del genitore".  Conclude il Tribunale di Trani sul solco della sentenza del Tribunale di Mantova del 2017 che "l'inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l'ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati." Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: “Siccome il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network e tenuto conto del mancato assenso del genitore si accoglie il ricorso ordinando di conseguenza la rimozione immediata dei video della figlia da Tik Tok” (Tribunale di Trani, Ordinanza del 30.08.2021) Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

07/11/2021 10:00
Fidanzamento rotto a pochi giorni dal matrimonio: ritorna all’uomo l’immobile donato all’ex futura sposa?

Fidanzamento rotto a pochi giorni dal matrimonio: ritorna all’uomo l’immobile donato all’ex futura sposa?

Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti di coppia anche in occasione della loro fine. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Monte San Giusto che chiede: “In caso di rottura del fidanzamento è possibile riprendersi l’immobile donato alla propria futura sposa? “ Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente sensibile, su cui ha avuto modo recentemente di pronunciarsi la Suprema Corte, in una causa in cui il pomo della discordia è un appartamento, oggetto di prima di un contratto preliminare, come donazione fatta da un uomo alla fidanzata in vista del loro matrimonio, e poi di una compravendita definitiva portata a termine dalla donna, i quali Giudici, richiamando alcuni precedenti pronunciamenti, ribadiscono che «i doni tra fidanzati non sono equiparabili né alle liberalità in occasione di servizi, né alle donazioni fatte in segno tangibile di speciale riconoscenza per i servizi resi in precedenza dal donatario, né alle liberalità d'uso, ma costituiscono vere e proprie donazioni, come tali soggette ai requisiti di sostanza e di forma previsti dal Codice». A tal proposito risulta utile ricordare quanto previsto dall’art. 80 c.c. secondo il quale, “Il promittente può domandare la restituzione dei doni fatti a causa della promessa di matrimonio, se questo non è stato contratto. La domanda non è proponibile dopo un anno dal giorno in cui si è avuto il rifiuto di celebrare il matrimonio o dal giorno della morte di uno dei promittenti". Dunque, ciò che conta, ai fini dell'azione restitutoria, è, in casi simili, «sempre e soltanto che i doni siano stati fatti a causa della promessa di matrimonio, e che si giustifichino per il sol fatto che tra le parti è intercorsa una promessa in tal senso, al punto da non trovare altra plausibile giustificazione». In questa prospettiva, poi, «la sorte della donazione indiretta – seppur collegabile a un accordo trilaterale –», come in questo caso giuridico, «non coinvolge altri che le parti direttamente interessate dalla donazione». Per quanto concerne, in particolare, il tema del preliminare di vendita immobiliare in previsione di un futuro matrimonio poi non celebrato, «è stato affermato che qualora in esso la qualità di promissario acquirente e di possessore in via anticipata del bene da trasferire venga assunta da persona diversa» – la donna, in questo caso –, «da quella» – l'uomo, in questo caso – «che provvede al versamento del corrispettivo, e qualora il patto sia ricollegabile a un accordo trilaterale rivolto a conseguire, con la partecipazione del promittente venditore, una donazione indiretta in favore di detto promissario da parte di chi esegue il pagamento, il sopravvenuto venir meno della causa donandi (tipica della donazione fatta in previsione di un futuro matrimonio poi non celebrato) determina la caducazione della suddetta attribuzione patrimoniale, e quindi anche del diritto di godere il bene in vista della stipulanda compravendita definitiva, ma non incide sull'efficacia del rapporto fra il promittente venditore ed il donante, il quale viene a porsi nella qualità di effettivo promissario». Traslato nell'ambito della compravendita definitiva, l'insegnamento sta a indicare che «il venir meno della causa donandi comporta l'inefficacia solo nel rapporto interno che lega il donante al donatario, non anche invece in quello tra il venditore e l'acquirente sostanziale del bene». Di conseguenza, «la restituzione di cui parla l'art. 80 c.c. dovrà essere attuata, in questa prospettiva, mediante retrocessione dell'immobile in capo al donante, da identificare quale parte acquirente in senso sostanziale». Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore e in adesione con il più autorevole orientamento della Suprema Corte, si può affermare che: “Se salta la celebrazione delle nozze – nonostante la data già fissata – e, soprattutto, salta il fidanzamento tra i due – ex – futuri sposi, allora va messa in discussione anche la donazione immobiliare fatta, in questo caso, dall'uomo alla donna in connessione alla promessa di matrimonio. Di conseguenza, se viene meno la causa donandi, ossia il futuro matrimonio, allora, la persona che ha fatto la donazione ha tutto il diritto di rientrare in possesso del bene immobile (Cass. civ., sez. I, ord., 25 ottobre 2021, n. 29980). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

31/10/2021 10:10
Ritardata diagnosi: in quali casi è possibile richiedere il risarcimento danni al medico?

Ritardata diagnosi: in quali casi è possibile richiedere il risarcimento danni al medico?

Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla responsabilità medica per danno da ritardata diagnosi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Castelraimondo che chiede: “In quali circostanze è possibile richiedere il risarcimento danni al medico che ha ritardato la valutazione diagnostica di una malattia?”  Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente sensibile, su cui ha avuto modo recentemente di pronunciarsi la Suprema Corte con sentenza n. 8461/2019, in una causa che ha riguardato la morte di una paziente alla quale era stata diagnosticata tardivamente una patologia di natura maligna. In tale circostanza, nella valutazione circa l’eventuale responsabilità del medico che aveva eseguito la prima visita alla paziente, la Corte di Cassazione si è uniformata a quanto enunciato dalle Sezioni Unite nel 2008 con la sentenza n. 576, ovvero che: “ In tema di responsabilità civile, il nesso causale tra la condotta o l'omissione illecita ed il danno ingiusto, inteso quale fatto materiale (c.d. "nesso di causalità materiale"), va accertato secondo le regole dettate dagli artt. 40 e 41 c.p., per effetto dei quali, tale nesso di causalità va escluso solo quando, al momento in cui è stata tenuta l'azione o l'omissione, l'evento di danno appariva assolutamente imprevedibile ed inverosimile, alla luce delle migliori conoscenze scientifiche del momento” (Cass. Civ. Sez. Un. Sent. n. 576/2008). Difatti, in base a tale orientamento, per un’idonea valutazione circa la responsabilità del soggetto autore dell’azione o dell’omissione, deve necessariamente sussistere un’indissolubile relazione tra tale condotta e l’evento dannoso verificatosi, nel senso che se fosse possibile eliminare astrattamente la prima, ovvero l’azione o l’omissione, il danno non si sarebbe realizzato. Inoltre, nel caso che ci occupa, deve essere compiuta un’ulteriore valutazione, in relazione alla circostanza per la quale, anche nell’ipotesi in cui tale epilogo, ovvero l’evento dannoso, si sarebbe comunque verificato, se è dimostrato che la condotta attiva od omissiva del soggetto in questione ha in ogni caso aggravato o velocizzato il procedimento di accadimento di tale evento, è sempre ravvisabile una responsabilità in capo a quest’ultimo, risarcibile in ambito civile sia in termini di danno patrimoniale, sia in quelli di danno non patrimoniale. Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore e in adesione con il più autorevole orientamento della Suprema Corte, si può affermare che: “E’ configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente, qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi”; aggiungendo inoltre che, in tali circostanze, “Si dovrà applicare la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” al nesso di causalità, fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite" ( Cass. Civ.; Sez. III, Sent. n. 8461/2019; dep. 27.03.2019). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

24/10/2021 09:35
Ritardato rilascio dell’immobile locato: che risarcimento si può chiedere?

Ritardato rilascio dell’immobile locato: che risarcimento si può chiedere?

Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al risarcimento dei danni subiti dal locatore, a causa del mancato rilascio dell’immobile locato da parte del conduttore. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Civitanova Marche che chiede: “Che risarcimento si può richiedere al conduttore che ritarda la restituzione dell’immobile?”. Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18946/19, la quale ha stabilito testualmente quanto segue: “Il ritardo del conduttore nella riconsegna della cosa locata, legittima soltanto la condanna generica al risarcimento del danno da occupazione oltre il limite di durata indicato in contratto, ogni differente danno, sia esso derivante da danneggiamento dell’immobile o da perdita di opportunità di vendita-locazione, deve essere adeguatamente provato” (Cass. Civ.; Sez. III; Sent. n. 18946/19, dep. 16.07.2019).  A tal proposito occorre rilevare che l’art. 1591 c.c., cui è fatto riferimento nel proseguo della menzionata sentenza, prevedendo espressamente che, “Il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l'obbligo di risarcire il maggior danno”, fa coincidere la somma dovuta a titolo di canone mensile, con il risarcimento del danno cagionato per il solo ritardo nella riconsegna del bene locato, attraverso una presunzione assoluta, per la quale non è ammissibile alcuna prova contraria e assicurando al locatore danneggiato dalla ritardata restituzione, una liquidazione automatica del danno.  Al contrario, ogni altro pregiudizio sofferto dal locatore a causa del comportamento del conduttore, definito per l’appunto “maggior danno”, ovvero danno ulteriore, pur derivando comunque dal mancato rilascio dell’immobile entro il termine pattuito, necessita di un’autonoma allegazione probatoria.  Difatti, la stessa Suprema Corte, in un’altra autorevole pronuncia, ha avuto modo di affermare il principio di diritto secondo il quale: “Perché sia configurabile il maggior danno da ritardo nella restituzione del bene locato, ex art. 1591 c.c., deve essere provata l’esistenza di un nesso di causalità tra la situazioni di mora del conduttore e un ulteriore danno subito dal locatore, come la perdita di più vantaggiose proposte di locazione o concrete possibilità di vendita dell’immobile occupato; tale prova deve essere fornita sulla base di un plausibile giudizio prognostico, con valutazione ex ante, ovvero occorre chiedersi, ponendosi nella situazione del locatore,se, qualora il fatto dannoso, nel caso di specie, il ritardo nell'adempimento della obbligazione di rilascio, non si fosse verificato, il proprietario dell’immobile avrebbe potuto evitare il danno, consistente nella perdita di una più favorevole occasione di vendita. In caso di risposta affermativa, il danno da ritardo nell'inadempimento sussiste ed è imputabile al comportamento del conduttore” (Cass. Civ.; Sez.III; Sent. n. 22352 del 22.10.2014).  Pertanto, alla luce dell’unanime orientamento della Corte di Cassazione e in risposta alla domanda della nostra lettrice, si può affermare che: “In tema di locazione, in caso di ritardato rilascio di immobile, è automatica la condanna del conduttore ad un generico risarcimento del danno da occupazione oltre il limite di durata, consistente, ex art. 1591 c.c., nella corresponsione del canone convenuto sino alla restituzione, salvo che il locatore non provi di aver patito un ulteriore danno, nel qual caso, sulla base di una valutazione prognostica “ex ante”, sarà legittimato ad agire per ottenere l’ulteriore ed autonomo risarcimento.”(Cass. Civ.; Sez. III; Sent. n. 18946/19, dep. 16.07.2019).  Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

17/10/2021 10:00
Coppia di fatto: quali diritti? La coabitazione non è più elemento imprescindibile

Coppia di fatto: quali diritti? La coabitazione non è più elemento imprescindibile

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti affettivi interpersonali e nello specifico i diritti e doveri tra i conviventi di fatto. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di San Severino Marche che chiede: “Quali sono i diritti e doveri tra i due partner nascenti dalla convivenza di fatto?" La famiglia legittima, che trae origine da un atto formale (il matrimonio) con cui marito e moglie si obbligano ad una reciproca assistenza materiale e morale, si distingue dalla cosiddetta famiglia di fatto, in cui tali doveri sorgono spontaneamente per effetto della condotta di vita dei due partner; si tratta di una situazione di fatto che trova copertura costituzionale grazie all’art. 2 Cost., che tutela le cosiddette formazioni sociali, ove ciascun individuo esplica la propria personalità. La nozione di convivenza di fatto, che nel corso degli anni è stata oggetto sia di elaborazione giurisprudenziale che di interventi normativi discontinui, consiste nella relazione stabile tra due persone caratterizzata da un elemento soggettivo, l’affetto, e da un elemento oggettivo, la reciproca e spontanea assunzione di diritti ed obblighi. A questa definizione, nel 2016, ha fatto seguito la nozione legale di convivenza di fatto con la legge n. 76/2016 (c.d. legge Cirinnà), con la quale è stata introdotta una disciplina organica della convivenza more uxorio: all’art.1, comma 36, ha definito i conviventi di fatto come due persone maggiorenni che, sebbene non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile, siano unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale; la circostanza che nessuno dei conviventi di fatto possa essere sposato comporta che non è possibile considerare convivenza di fatto quella in cui uno dei soggetti coinvolti sia solo separato e non divorziato dal precedente partner. Nonostante la legge Cirinnà, al comma 37 dell’unico articolo di cui è composta, richieda la dichiarazione anagrafica per l’accertamento della stabile convivenza, la giurisprudenza ritiene che ciò che conta sia il fatto materiale della convivenza, che può essere accertato in altro modo, anche in assenza di tale dichiarazione; pertanto, la legge n. 76/2016 si applica anche alle coppie che abbiano volontariamente omesso di procedere alla registrazione anagrafica. Gli indicatori che rilevano ai fini dell’accertamento di un rapporto di convivenza sono plurimi; si pensi, per esempio, alla ricorrenza di un progetto di vita comune, alla prestazione di reciproca assistenza, alla compartecipazione di ciascuno dei conviventi alle spese comuni, all’esistenza di un conto corrente comune e, infine, alla coabitazione. In merito a quest’ultimo indicatore, la Corte di Cassazione si è espressa con l’ordinanza n. 9178/2018 chiarendo che la coabitazione, indice che finora era stato considerato rilevante per l’esistenza di una famiglia di fatto, non è più un elemento imprescindibile, essendo diventato un indice meramente recessivo a fronte del mutato assetto della nostra società; la Suprema Corte, nella citata ordinanza, tra i fattori complici del suddetto mutamento annovera la crisi economica, la sempre maggiore facilità dei contatti telefonici e l’economicità dei trasporti. La scelta del luogo di abitazione, infatti, spiega la Corte, non può essere sempre conforme alle scelte affettive delle persone, ma può essere necessitata dalle circostanze economiche; così come la ricerca di un lavoro può portare l’individuo a spostarsi in un luogo diverso da quello in cui risiede il proprio centro affettivo e a trascorrervi gran parte della settimana o del mese: non per questo si può dire che venga meno la famiglia. Nonostante debba escludersi un’applicazione per analogia delle norme dettate specificamente per la famiglia legittima, al convivente more uxorio, in alcuni casi, sono riconosciuti i medesimi diritti che spettano a chi possiede lo status di coniuge. Innanzitutto, al comma 38 della legge Cirinnà è prevista l’equiparazione del convivente al coniuge nei casi stabiliti dall’ordinamento penitenziario, tra i quali assume un certo rilievo il diritto di visita; i detenuti, infatti, hanno il diritto di avere dei colloqui con i familiari, per tali intendendosi non solo il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado, ma anche il convivente, indipendentemente dal sesso. Oltre a ciò, in caso di malattia o ricovero di uno dei conviventi, il comma 39 della legge citata prevede che il partner abbia il diritto di visita e possa accedere alle informazioni personali riguardanti il convivente, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere previste per i coniugi e gli altri familiari. Il convivente, inoltre, ai sensi del comma 48 della legge Cirinnà, può essere nominato amministratore di sostegno del partner infermo oppure suo curatore o tutore qualora quest’ultimo venga dichiarato inabilitato o interdetto. II comma 65 della legge n. 76/2016, infine, prevede che in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisca il diritto del convivente di ricevere gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento; gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e in rapporto alle possibilità dell’alimentante. Si tratta di un diritto ad una prestazione di tipo strettamente alimentare, che si differenzia sia dall’assegno di mantenimento a favore del coniuge separato sia dall’assegno divorzile. Da ultimo, ai sensi dell’art. 199, comma 3, lett. a), c.p.p., il convivente dell’imputato in un processo penale ha il diritto di astenersi dal testimoniare. Per quanto riguarda, invece, ai diritti del convivente superstite, il comma 42 della legge n. 76/2016, prevede che in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente superstite abbia il diritto di abitarvi ancora per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore ai due anni, e comunque non oltre i cinque anni; tale diritto viene meno qualora il convivente superstite contragga matrimonio o si unisca civilmente ad altra persona ovvero in caso di nuova convivenza di fatto. Il comma 44, inoltre, prevede il diritto del convivente a subentrare nel contratto di locazione della casa di comune residenza intestato all’altro convivente, in caso di morte di quest’ultimo. È altresì prevista la risarcibilità del danno da perdita del convivente derivante dal fatto illecito di un terzo; invero, il comma 49 della legge Cirinnà prevede che nell’individuazione del danno risarcibile vengano applicati i medesimi criteri individuati per il risarcimento del coniuge superstite. Al convivente spetta, dunque, in concorso con i familiari della vittima, il risarcimento del danno patrimoniale, commisurato ai contributi per il mantenimento dovuti o fondatamente attesi per il futuro e venuti a mancare in seguito all’uccisione, oltre che il risarcimento del danno non patrimoniale, consistente nel dolore derivante dalla perdita del partner. Infine, in materia di successione per causa di morte, il convivente more uxorio del defunto non è contemplato tra gli eredi legittimi, ossia tra coloro che possono succedere ex lege qualora il de cuius non abbia redatto il testamento; la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 310/1989 ha negato l’illegittimità di tale esclusione e con la legge 76/2016 la situazione non è mutata, infatti tuttora non sono previsti diritti successori ex lege a favore del convivente. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                                             

10/10/2021 10:00
Controllare il cellulare del coniuge è reato?

Controllare il cellulare del coniuge è reato?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti tra la coppia e nello specifico la liceità o meno di condotte a tutela della privacy. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “Controllare il cellulare del proprio coniuge comporta un reato?".  La Costituzione tutela le libertà individuali quali diritti fondamentali e inviolabili di ogni essere umano. In particolare l'art. 15 tutela la libertà e segretezza della corrispondenza prevedendo che «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili». Per corrispondenza deve intendersi non solo la posta epistolare ma tutte le attuali forme di comunicazione come ad esempio sms, email, Whatsapp, Facebook. Nessun rapporto tra persone, nemmeno il rapporto matrimoniale tra i coniugi, quindi, può limitare tale diritto. Già nel 1974 la Suprema Corte aveva stabilito che gli artt. 143, 144 e 145 c.c., seppure in un contesto ordinamentale in cui la donna non aveva parità di diritti nel rapporto coniugale, non riconoscevano al marito, nè espressamente né implicitamente, un jus corrigendi sulla moglie, né il diritto di controllarne fraudolentemente le telefonate o la corrispondenza, neppure se l'attività fraudolenta fosse stata ispirata dal desiderio di accertare la sospetta infedeltà della moglie, di tentare di ricondurre la donna sulla via dell'onestà e di non far affidare nel giudizio di separazione l'educazione del figlio a madre non degna (Cass. pen., 24 maggio 1974 n. 8198). Tale principio è stato poi confermato dalla stessa Corte con la sentenza n. 6727/1994 che ha stabilito che i doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio non sono incompatibili con il diritto alla riservatezza di ciascuno dei coniugi ma ne presuppongono anzi l'esistenza, dal momento che la solidarietà si realizza solo tra persone che si riconoscono di piena e pari dignità. Ciò vale anche nel caso di infedeltà del coniuge, poiché la violazione dei doveri di solidarietà coniugale non è sanzionata dalla perdita del diritto alla riservatezza. Pertanto, quando ci si impadronisce del cellulare del coniuge con l'intento di spiarne il contenuto, bisogna essere consapevoli che tale semplice gesto può avere delle conseguenze più o meno gravi. A tal proposito, bisogna scindere ciò che è illecito in sede penale e ciò che è lecito, a seconda del fine, in sede civile. Analizzando il profilo penalistico della questione, ed in risposta, pertanto, alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che per la giurisprudenza di legittimità e di merito leggere le email, i messaggi su Facebook e su Whatsapp, gli sms e tutto ciò che può essere contenuto in programmi tecnologici di messaggistica, senza avere ottenuto il preventivo consenso del coniuge, costituisce reato. Per meglio specificare le varie condotte, se ne riportano alcuni esempi. Per ciò che concerne l'email, la Suprema Corte si è più volte pronunciata sul punto affermando che integra il reato di cui all'art. 615-ter c.p., 'Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico', la condotta di colui che accede abusivamente all'altrui casella di posta elettronica trattandosi di una spazio di memoria, protetto da una password personalizzata, di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi, o di informazioni di altra natura, nell'esclusiva disponibilità del suo titolare, identificato da un account registrato presso il provider del servizio (Cass. pen., Sez. V, 28 ottobre 2015, n. 13057). Alla luce di tale principio, è agevole rilevare che anche leggere la chat altrui violando la password o prenderne visione quando il titolare dell'account sia momentaneamente assente, configura il suddetto reato. La Corte di appello di Taranto con la Sentenza n. 24/2016 ha ritenuto configurabile il reato previsto dall'art. 616, comma 1 c.p., 'Violazione della corrispondenza altrui', quando uno dei coniugi apre la posta elettronica dell'altro attraverso una password di accesso, il cui possesso non è stato frutto di una rivelazione di tale password, ma il risultato di una operazione di memorizzazione eseguita dal computer all'atto dell'utilizzo da parte di chi ne ha diritto ed avvenuta all'insaputa dello stesso. E ancora, la Suprema Corte ha ritenuto configurabile il reato di rapina ex art. 628 c.p. nel caso di un soggetto, che aveva sottratto mediante violenza alla ex fidanzata il telefono cellulare, al fine di rivelare al padre della donna, la relazione sentimentale che questa aveva instaurato con un altro uomo. La Corte ha ritenuto sussistente il dolo specifico richiesto quale elemento soggettivo del reato, in quanto il profitto può concretarsi in ogni utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene. Alla luce di ciò, ha statuito il seguente principio di diritto «nel diritto di rapina sussiste l'ingiustizia del profitto quando l'agente, impossessandosi della cosa altrui (nella specie un telefono cellulare), persegua esclusivamente un'utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da un altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell'autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane» (Cass. pen., Sez. II, 10 marzo 2015, n. 11467; Cass. pen., Sez. II, 10 giugno 2016, n. 24297). Infine, qualora, invece, si proceda a installare apparecchiature atte ad intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni telefoniche, si configurerà il reato previsto dall'art. 617-bis c.p., con una pena prevista da 1 a 4 anni di reclusione. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                                                                                                   

03/10/2021 09:56
Infortunio sul lavoro del dipendente: quando l'azienda è responsabile?

Infortunio sul lavoro del dipendente: quando l'azienda è responsabile?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante l’infortunio sul lavoro del dipendente e la responsabilità di tale evento. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Mogliano che chiede: “In caso di infortunio sul lavoro del dipendente quando l’azienda risulta responsabile? Bisogna innanzitutto far chiarezza sul fatto che, la vittima di un infortunio sul lavoro risulta esclusivamente responsabile solamente in una circostanza, ovvero, quando abbia tenuto un “contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute” (così, tra le altre, Cass. Civ. Sentenza n. 19494 del 10/09/2009), secondo il principio che il datore di lavoro risponde dei rischi professionali propri (vale a dire insiti nello svolgimento dell’attività lavorativa) e di quelli impropri (cioè derivanti da attività connesse a quella lavorativa), ma non di quelli totalmente scollegati dalla prestazione che il lavoratore rende in quanto tale (cd. rischio elettivo). Perché sussista il rischio elettivo, dunque, occorrono tre elementi concorrenti: 1) un atto del lavoratore volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; 2) la direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; 3) la mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa. Difatti, la norma di riferimento è evidentemente l’art. 1227, comma 1, del codice civile, secondo la quale, “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate”, che peraltro va bilanciata, in ambito giuslavoristico, con il potere di direzione e controllo del datore di lavoro, unitamente al dovere di salvaguardare l’incolumità dei lavoratori. Conseguentemente, anche in ipotesi di condotta imprudente del lavoratore va escluso il concorso di colpa a carico dello stesso in tre ipotesi: a) se l’infortunio sia stato causato dalla puntuale esecuzione degli ordini ricevuti dal datore di lavoro (in questo caso l’imprudenza del lavoratore degrada a mera “occasione” dell’infortunio); b) se l’infortunio sia avvenuto a causa della organizzazione stessa del ciclo lavorativo, impostata con modalità contrarie alle norme finalizzate alla prevenzione degli infortuni, o comunque contraria ad elementari regole di prudenza; c) se l’infortunio sia avvenuto a causa di una carenza di formazione od informazione del lavoratore, ascrivibile al datore di lavoro. Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore si può affermare che, “Nel caso di infortunio sul lavoro, è responsabile l’azienda, tanto da escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell’art 1227, comma 1, c.c., quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza; oppure abbia egli stesso impartito l’ordine, nell’esecuzione puntuale del quale si sia verificato l’infortunio; o ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi, ricorrendo, in tali ipotesi, l’eventuale condotta imprudente della vittima degradata a mera occasione dell’infortunio, ed è perciò giuridicamente irrilevante (Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 8988/20).   Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                 

26/09/2021 09:56
Consumi anomali in bolletta non segnalati al cliente: azienda condannata al risarcimento danni

Consumi anomali in bolletta non segnalati al cliente: azienda condannata al risarcimento danni

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le contestazioni sull’eccessiva entità dei consumi fatturati dai relativi fornitori ai singoli utenti. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Bolognola che chiede: “E’ possibile chiedere un risarcimento danni su una bolletta dai consumi eccessivi per omessa segnalazione di consumi anomali?” Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tipologia di contestazione sempre più frequente da parte degli utenti. A tal proposito ci è utile analizzare una vicenda giudiziaria che all’origine ha avuto una fattura eccessiva recapitata ad un utente che si è trovato a dover pagare una cifra enorme per un anomalo consumo di acqua potabile. Pronta la reazione dell’utente che cita in giudizio la società esercente il locale servizio idrico e chiede “il risarcimento dei danni subiti”, ponendo in evidenza l’inadempimento dell’azienda, ossia la mancata segnalazione di “consumi anomali”, frutto, peraltro, di “una perdita occulta nell’impianto”. La posizione assunta dall’utente è legittima, secondo i Giudici di merito; così, prima il Giudice di Pace e poi il Tribunale condannano la società a pagare al cliente ben 3mila e 312 euro. Nel contesto della Cassazione la società contesta la visione tracciata in appello; a suo parere, difatti, non è ravvisabile alcun obbligo a carico dell’azienda, alla luce del contratto di somministrazione di acqua potabile, con riguardo all’ipotesi di “una perdita occulta nell’impianto idrico del cliente” con conseguenti “rilevanti consumi anomali”. Questa obiezione non convince i magistrati di terzo grado, i quali mostrano di condividere in pieno, invece, la chiave di lettura fornita dal Tribunale. Più precisamente, preso atto degli “obblighi di correttezza e buonafede gravanti sulle parti del contratto di somministrazione idrica”, “il semplice invio di una fattura commerciale relativa ai consumi anomali registrati, a distanza di oltre due mesi dalla loro rilevazione e senza alcuna espressa segnalazione del loro carattere anomalo”, come avvenuto in questa vicenda, “non consente di ritenere correttamente adempiuto l’obbligo comunicativo previsto per l’azienda fornitrice” in materia di “ricostruzione dei consumi a seguito di perde occulte”, poiché la società deve fare ricorso a “modalità idonee a consentire al cliente di avere pronta contezza dell’anomalia nel consumo, in modo da potersi tempestivamente attivare per evitare l’aggravarsi del danno provocato dalla eventuale perdita occulta”. A fronte di questo quadro, poi, “l’adempimento o meno del cliente al suo onere di verificare il regolare funzionamento dell’impianto e del contatore, nonché di effettuare la cosiddetta autolettura” non basta ad escludere “l’inadempimento dell’azienda al proprio (distinto) obbligo di segnalazione dei consumi anomali. Di conseguenza, è sacrosanto il diritto dell’utente ad ottenere dall’azienda il risarcimento del danno subito”. Per tali ragioni, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “Non discutibile la responsabilità della società che gestisce il servizio idrico e ha fatto recapitare al cliente una fattura eccessiva senza però segnalare gli anomali consumi registrati frutto di una perdita occulta nell’impianto tanto da condannarla al relativo risarcimento”(Cass. Civ., Sez. III, Ordinanza n. 24904/21). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                              

19/09/2021 15:41
Esdebitazione: quando è possibile cancellare tutto i propri debiti? Ecco la casistica

Esdebitazione: quando è possibile cancellare tutto i propri debiti? Ecco la casistica

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente vicende riferite alle procedure debitorie in particolar modo all’esdebitazione del debitore incapiente. Di seguito l’analisi dell’avv. Oberdan Pantana: "In seguito alle modiche apportate alla legge 3/2012 dal D.L. 137/2020, arrivano, da diversi Tribunali, ex multis quelli di Cuneo e di Macerata, i primi decreti di esdebitazione dell'incapiente, ovvero la cancellazione dei debiti per quei debitori che hanno rilevanti debiti residui, perchè derivanti da pregresse attività svolte o anche solo per un residuo debito relativo al contratto di mutuo, e/o finanziamenti vari, debiti e finanziamenti che poi non sono più riusciti a pagare, ma che oggi non hanno più alcuna utilità da mettere a disposizione dei creditori rimasti impagati. L'art. 14-quaterdecies ha introdotto infatti la figura del "debitore incapiente", ovvero quella figura del debitore, persona fisica, meritevole, che non è in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno in prospettiva futura. La legge sul sovraindebitamento ha dato quindi l'opportunità, anche al debitore del tutto impossidente, di accedere alla procedura e ottenere l'esdebitazione dal residuo dei debiti, ma ha limitato questa opportunità solo per una volta nella vita, con conseguente impossibilità futura di accedere nuovamente alla procedura per debiti assunti. A tal proposito, vi è la decisione del Tribunale di Cuneo nei confronti di una debitrice che a seguito della chiusura del fallimento di una società, risultava ancora essere debitrice, per garanzie concesse, dell'importo complessivo di euro 321.839,52, cifre tutte derivanti dai debiti fallimentari non onorati; la stessa dipendente oggi di una s.r.l., con una retribuzione pari ad € 1.200,00, non disponeva certamente di alcuna somma da porre a disposizione dei creditori e non era in grado di offrire, ai creditori rimasti impagati a seguito del fallimento, alcuna utilità diretta o indiretta, e nemmeno in prospettiva futura. Accedeva dunque alla procedura prevista per i soggetti sovraindebitati, e chiedeva di essere ammessa al beneficio dell'esdebitazione ex art. 14 quaterdecies l. 3/2012. Il giudice del Tribunale di Cuneo, così disponeva: "Ritenuto che, in base alle risultanze in atti, ed in particolare alla menzionata relazione particolareggiata, sussista il requisito della meritevolezza della debitrice, l'assenza di atti in frode ai creditori da parte della medesima e la mancanza di dolo o colpa grave nella formazione dell'indebitamento". Concedeva quindi, alla debitrice l'esdebitazione a "zero" del residuo debito impagato, onerandola tuttavia, per i successivi quattro anni, a pena di revoca del beneficio, di depositare la dichiarazione annuale relativa alle sopravvenienze rilevanti ai sensi dei commi 1 e 2 dell'art. 14 quaterdecies. L'altro decreto di esdebitazione a "zero", che arriva invece proprio dal Tribunale di Macerata, riguarda una donna separata, con figlia a carico, una retribuzione molto bassa, che aveva però dei debiti contratti con delle finanziarie. Il Giudice del Tribunale di Macerata, concedeva alla signora l'esdebitazione prevista dall'art. 14 quaterdecies, anche in questo caso ordinando alla debitrice, a pena di revoca del beneficio, per le quattro annualità successive, di redigere e depositare la dichiarazione annuale dei redditi sia positiva che negativa. Per tali motivi, risulta corretto affermare che, “Il debitore persona fisica meritevole, che non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno in prospettiva futura, può accedere all'esdebitazione solo per una volta, fatto salvo l'obbligo di pagamento del debito entro quattro anni dal decreto del giudice nel caso in cui sopravvengano utilità rilevanti che consentano il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore al 10 per cento. Non sono considerati utilità, ai sensi del periodo precedente, i finanziamenti, in qualsiasi forma erogati” (art. 14 quaterdecies, Legge n. 3 del 27.01.2012). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana".

12/09/2021 10:24
Divorzio congiunto: è possibile il trasferimento di proprietà immobiliari tra gli ex coniugi?

Divorzio congiunto: è possibile il trasferimento di proprietà immobiliari tra gli ex coniugi?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente vicende riferite alle separazioni o divorzi e nello specifico alla valenza di patti che traferiscono la proprietà degli immobili in capo ad uno dei due ex coniugi o figli. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata, che chiede: “In caso di divorzio congiunto sono valide le pattuizioni in merito al trasferimento della proprietà dell’immobile in capo ad uno dei due ex coniugi?  Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto controversa e dibattuta nelle aule dei Tribunali, risolta finalmente dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, accogliendo il ricorso di una coppia che aveva richiesto procedersi a divorzio congiunto prevedendo, tra le altre condizioni dell'accordo, il trasferimento definitivo a favore dei figli della coppia, maggiorenni economicamente non autosufficienti, della quota del 50% della nuda proprietà spettante al padre sull'immobile adibito a casa coniugale, nonché il trasferimento, da parte del marito alla moglie, dell'usufrutto sulla propria quota dell'immobile, in quanto, il Tribunale prima e la Corte d'Appello poi ritenevano, tuttavia, che i trasferimenti dei diritti reali previsti nelle condizioni di divorzio fossero invece da intendersi come impegni preliminari di vendita e acquisto e non come trasferimenti immobiliari definitivi con effetto traslativo immediato; da qui il ricorso in Cassazione a cui segue la rimessione alle Sezioni Unite, trattandosi di questione di massima di particolare importanza anche in virtù del rilevato constato tra le pronunce giurisprudenziali. A tal proposito, la Corte spiega che la natura negoziale degli accordi dei coniugi, equiparabili a pattuizioni atipiche ex art. 1322, secondo comma, c.c., come affermata dalla giurisprudenza di legittimità, comporta dunque che nessun sindacato potrà esercitare il giudice del divorzio sulle pattuizioni stipulate delle parti. Al giudice, infatti, sul piano generale non è consentito sindacare qualsiasi accordo di natura contrattualmente privato che corrisponda ad una fattispecie tipica libere essendo le parti di determinarne il contenuto (ex art. 1322, primo comma, c.c.), fermo esclusivamente il rispetto dei limiti imposti dalla legge a presidio della liceità delle contrattazioni private; nel caso di specie, l'impostazione seguita dalla Corte d'Appello si è dunque "tradotta in concreto in un limite ingiustificato all'esplicazione dell'autonomia privata" e si è concretata "in una sorta di peculiare, quanto inammissibile, conversione dell'atto di autonomia che da trasferimento definitivo e stato trasformato d'ufficio dal giudice in un mero obbligo di trasferimento immobiliare". La sentenza rammenta anche come l'art. 29 della Legge n. 52/1985 preveda la nullità degli atti di trasferimento di diritti reali su fabbricati esistenti in caso di mancanza dell'identificazione catastale, nonché del riferimento alle planimetrie depositato in catasto e della dichiarazione, resa in atto dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie. Tuttavia, tale nullità "testuale" non appare ancorabile al soggetto che compie tale accertamento, potendo notificarsi anche qualora l'atto sia rogato da un notaio o le parti private nella scrittura privata autenticata. Ne discende che l'accordo traslativo adottato in sede di divorzio (principio, mutatis mutandis, ritenuto applicabile anche alla separazione consensuale) dovrà contenere a pena di nullità le indicazioni richieste dall'art. 29, comma 1-bis, della Legge menzionata. Infine, sempre per le Sezioni Unite, il verbale dell'udienza di comparizione dei coniugi redatto dal cancelliere ai sensi dell'art. 126 c.p.c. realizza, da un lato, l'esigenza della forma scritta dei trasferimenti immobiliari, richiesta dall'art. 1350 c.c., e dall'altro riveste natura di atto pubblico avente fede privilegiata, fino a querela di falso, sia della provenienza dal cancelliere che lo redige e degli atti da questi compiuti, sia dei fatti che egli attesta essere avvenuti in sua presenza. Per tali motivi, in risposta alla domanda della nostra lettrice, risulta corretto affermare che, “Nel divorzio a domanda congiunta e nella separazione consensuale è consentito ai coniugi inserire clausole che riconoscono, a uno o a entrambi, la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, o altri diritti reali, o anche che ne operino il trasferimento a favore di uno di essi, o dei figli, al fine di assicurarne il mantenimento. L'accordo omologato ha la forma di atto pubblico. Tale accordo di divorzio o di separazione, poiché inserito nel verbale d'udienza, redatto da un ausiliario del giudice , assume forma di atto pubblico” (Cassazione Sezioni Unite Civili sentenza n. 21761/2021). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

05/09/2021 11:01
Danni provocati da veicolo con tagliando assicurativo palesemente falso: chi paga?

Danni provocati da veicolo con tagliando assicurativo palesemente falso: chi paga?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la controversa tematica, relativa alla responsabilità delle compagnie assicurative in caso di sinistro stradale, e in alternativa, la possibilità di attivazione del Fondo di Garanzia vittime della strada. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Corridonia, che chiede: “In caso di sinistro stradale provocato da un veicolo sprovvisto di assicurazione o munito di tagliando assicurativo falso, è comunque responsabile la compagnia assicurativa del soggetto che ha provocato l’incidente, oppure si può essere indennizzati direttamente dal Fondo di Garanzia vittime della strada?” Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto dibattuta, relativa alla responsabilità colposa delle compagnie assicurative, nonché circa le condizioni e modalità di attivazione del c.d. Fondo di Garanzia, facendo particolare riferimento all’art. 283 C.d.A., che disciplina in modo chiaro, le circostanze in cui il Fondo interviene ad indennizzare il soggetto danneggiato nella misura stabilita in sede di formulazione della relativa offerta, statuendo testualmente: “Il Fondo di garanzia per le vittime della strada, costituito presso la CONSAP, risarcisce i danni causati dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, per i quali vi è l’obbligo di assicurazione, nei casi in cui: a) il sinistro sia cagionato da veicolo o natante non identificato;b) il veicolo o natante non risulti coperto da assicurazione;c)il veicolo o natante risulti assicurato presso una impresa in stato di liquidazione coatta o vi venga posta successivamente;d)il veicolo sia posto in circolazione contro la volontà del proprietario, dell’usufruttuario, dell’acquirente con patto di riservato dominio o del locatario in caso di locazione finanziaria". Inoltre, per il caso specifico di sinistro con veicolo provvisto di tagliando assicurativo falso e dunque, privo di idonea copertura assicurativa, rientrante nella categoria di cui alla lett. b), è opportuno operare una precisazione, poiché in tal caso, infatti, così come stabilito dall’art. 127 C.d.A, la compagnia di assicurazione del soggetto danneggiante risulterebbe responsabile per il solo fatto del rilascio di contrassegno assicurativo ed indipendentemente dall’inefficacia o dall’invalidità del rapporto di assicurazione, pure in ipotesi di contrassegno contraffatto o falsificato, salvo che l’assicurazione stessa dia prova dell’insussistenza di una propria condotta colposa, tale da ingenerare in capo al danneggiato, l’incolpevole affidamento in merito alla sussistenza del rapporto assicurativo; in tale ultimo caso, dunque, ad operare sarà il Fondo di Garanzia. Tale questione è stata infatti affrontata dalla Corte di Cassazione, con l’Ordinanza, n. 6300/2019, la quale ha fatto luce su tale controversa fattispecie, pronunciandosi in merito ad una questione analoga e consolidando un prezioso principio di diritto. Difatti, nel caso di specie, sia il Giudice di Pace che il Tribunale adito in funzione di Giudice di Appello, avevano rimproverato al danneggiato che aveva subito dei danni a causa di un sinistro avuto proprio con un veicolo munito di un tagliando falso, di aver attivato direttamente il Fondo di Garanzia per le vittime della strada, anziché promuovere preventivamente una causa di risarcimento avverso la compagnia di assicurazione falsamente indicata nel tagliando, sulla base di un autonomo convincimento circa la palese falsità del contrassegno in oggetto. Al contrario, la Suprema Corte adita, ha cassato tale pronuncia, stabilendo il principio di diritto secondo il quale: “Non sussiste per il danneggiato la necessità di citare autonomamente l’assicurazione apparentemente titolare del contrassegno assicurativo, allorché la prova della falsità o comunque della non attribuibilità del tagliando assicurativo all’assicurazione citata, emerga dagli atti del giudizio promosso nei confronti del Fondo Vittime della Strada, per essere stata dal danneggiato spontaneamente e preventivamente accertata, rendendo superflua l’instaurazione di un autonomo giudizio nei confronti dell’apparente compagnia, la quale si limiterebbe ad invocare il fatto notorio della falsità del contrassegno”(Corte di Cass.; Sez. III Civ.; Ord. n. 6300; dep. 05.03.2019). Per tali motivi, in risposta alla domanda del nostro lettore, in caso di sinistro con veicolo sprovvisto di idonea copertura assicurativa o munito di tagliando palesemente falso, il soggetto danneggiato potrà attivare direttamente la procedura di indennizzo nei confronti del Fondo di Garanzia con le modalità previste dal codice delle assicurazioni, il quale fornirà una copertura dei danni in base all’offerta di indennizzo di volta in volta formulata, senza dover preventivamente citare per il risarcimento dei danni, la compagnia assicurativa falsamente indicata, dal momento che, dato l’immediato accertamento circa la palese falsità del contrassegno assicurativo, non appare in nessun caso ipotizzabile una responsabilità colposa in capo alla stessa. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

29/08/2021 09:54
Green Pass falsi: a quali reati si va incontro e cosa si rischia?

Green Pass falsi: a quali reati si va incontro e cosa si rischia?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al “Green Pass” e specificamente al suo utilizzo in caso di sua falsificazione per assenza dei requisiti richiesti. Ecco l’analisi dell’avvocato Oberdan Pantana. Il Green pass o certificazione verde Covid è un documento che è stato pensato dalle autorità per semplificare la circolazione delle persone all'interno del territorio europeo durante la pandemia da Covid-19. Esso attesta l'avvenuta guarigione dalla malattia, l'avvenuta vaccinazione contro il virus o il risultato negativo del test. Il Green Pass può essere richiesto sia in formato digitale che cartaceo, però non serve solo a circolare liberamente tra i vari Stati dell'Unone Europea; di recente infatti in Italia è stato emanato il decreto n. 105/2021, che all'articolo 3 elenca i casi in cui è richiesto il possesso della certificazione verde. In base a questo articolo, in zona bianca, chi è in possesso della certificazione verde può accedere ai seguenti servizi e attività; - servizi di ristorazione svolti da qualsiasi esercizio per il consumo al tavolo, al chiuso; - spettacoli aperti al pubblico, eventi e competizioni sportive; - musei, altri istituti e luoghi della cultura e mostre; - piscine, centri natatori, palestre, sport di squadra, centri benessere, anche all'interno di strutture ricettive; - sagre e fiere, convegni e congressi; - centri termali, parchi tematici e di divertimento; - centri culturali, centri sociali e ricreativi, limitatamente alle attività al chiuso e con esclusione dei centri educativi per l'infanzia, compresi i centri estivi, e le relative attività di ristorazione; - attività di sale gioco, sale scommesse, sale bingo e casino'; - concorsi pubblici. Non hanno l'obbligo della certificazione verde solo "i soggetti esclusi per età dalla campagna vaccinale e i soggetti esenti sulla base di idonea certificazione medica rilasciata secondo i criteri definiti con circolare del Ministero della salute." Da quanto appena accennato è chiaro che il Green pass, a parte i casi di esonero appena visti, viene rilasciato in presenza di determinate condizioni, che attestano l'adozione da parte del titolare delle accortezze sanitarie necessarie e richieste per scongiurare il contagio. Un dovere civico che molti italiani hanno accettato e adempiuto, ma che per alcuni evidentemente è un onere troppo pesante da sostenere; lo dimostra quanto accaduto nei giorni scorsi. Su Telegram si è infatti realizzato un illecito che ha a che fare proprio con il Green pass. Agli utenti di Telegram è stato recapitato un messaggio in cui si prometteva il rilascio del Green pass da parte di una dottoressa, in cambio dei dati necessari alla compilazione della certificazione verde. Operazione in cambio della quale venivano richieste criptovalute o buoni acquisto per piattaforme online d'importo compreso tra i 150 e i 500 euro. Una vera e propria truffa, punita ai sensi dell'articolo 640 del codice penale, che al comma 1 infatti così dispone: "Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032". La truffa messa in atto per mezzo di Telegram presuppone, come anticipato, la falsificazione della certificazione verde; il tutto in barba alla sicurezza del Green pass garantita dal Governo, che alla Faq: "E' possibile falsificare o manomettere una certificazione verde Covid?" risponde: "No, la Certificazione non è falsificabile e non può essere contraffatta o manomessa. Ogni Certificazione viene prodotta digitalmente con una chiave privata dall'ente che rilascia la Certificazione (in Italia il Ministero della Salute). Le chiavi private assicurano l'autenticità delle Certificazioni, e vengono custodite in sistemi di massima sicurezza. Le corrispondenti chiavi pubbliche vengono poi utilizzate per verificare le Certificazioni attraverso le app di verifica (in Italia VerificaC19)".  Una risposta di cui è lecito dubitare, visto che c'è chi ha già trovato il modo di fare soldi falsificando il Green pass. Il reato di falso del resto non è certo una novità per il nostro ordinamento, che ne contempla di vario tipo. Nel caso di Telegram però la falsificazione messa in atto rientra nello schema dell'art. 482, che punisce colui che con la sua condotta compromette la fiducia dei privati e precisamente, “Se alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 476 (Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), 477 (Falsità material commessa dal pubblico ufficiale in certificate o autorizzazioni amministrative) e 478 (Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in copie autentiche di atti pubblici o privati e in attestati del contenuto di atti) è commesso da un privato, ovvero da un pubblico ufficiale (c.p.357) fuori dell`esercizio delle sue funzioni si applicano rispettivamente le pene stabilite nei detti articoli ridotte di un terzo, circostanze che comportano, pertanto, importanti sanzioni di reclusione". Mentre, riguardo al reato di sostituzione di persona, previsto e sanzionato penalmente dal nostro codice penale all'art. 494, dispone come "chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all'altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno", appare piuttosto evidente che tale reato "potenzialmente" configurabile, dopo la previsione del doppio controllo del Green pass e del documento identificativo, è molto più difficile da realizzare. Vero infatti che il Green pass non contiene la foto, ma la verifica della rispondenza dei dati anagrafici del certificato e della carta d'identità, rappresenta una forma di controllo in grado di scongiurare questo tipo di reato. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

22/08/2021 10:00
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