“Alla fine rimane lei, la madre, senza risposte e senza nemmeno una pacca sulla spalla da parte di chi avrebbe potuto evitare la disgrazia e da parte di chi si professa (a corrente alternata) contro femminicidi e violenze” – Il commento è di Nicola Porro e nelle parole del noto giornalista c’è, forse, tutta l’amarezza che rimane dopo le lacrime di quell’ultimo saluto. Il 5 maggio, infatti, si sono celebrati i funerali di Pamela Mastropietro. Ed è rimasto il silenzio. Quel silenzio che, adesso, dovrà essere interrotto solo dalla verità.
C’è chi ha scritto che “Pamela era una prostituta tossica che viene compianta solo perché uccisa da un nero”. Non commentiamo, perché è palese, a questo punto, che il silenzio è una necessità assoluta. Pamela era una ragazzina, prima di tutto una ragazzina, con tutta la vita davanti, compreso il tempo di rimediare a qualche eventuale errore. Per fortuna, in molti sembrano averlo capito. Come dimostra la tomba della ragazza, nel freddo monumentale del Verano di Roma, tra i colori di uno spazio che ormai fatica, dopo appena 48 ore, a contenere fiori, palloncini, messaggi. Il blocco 115 del Verano non è facile da trovare, eppure l’hanno trovato, e davanti a quella tomba ognuno c’ha lasciato del suo.
Omaggi ad una vita spezzata e a un tempo che poteva essere e non è stato. Banale? Semplicistico? Forse! Ma semplicità e banalità sono da preferirsi, sempre, all’architettura ideologica di dibattiti sulla “quantità di trucco e il taglio di capelli della madre di quella ragazza” nel giorno del funerale.
Di silenzio, ora, c’è bisogno. Perché questa storiaccia è sfuggita di mano, sia a chi non ha voluto afferrarla, sia a chi ha stretto troppo la presa. Con un solo risultato: la strumentalizzazione. Che non serve a nessuno e che, probabilmente, non serve nemmeno alla verità.
La verità: colei a cui spetta, adesso, l’unico diritto di interrompere il silenzio.
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