di Oberdan Pantana

"Superbonus 110%”: quali possibili responsabilità per i professionisti? Ecco chi paga in caso di errori

"Superbonus 110%”: quali possibili responsabilità per i professionisti? Ecco chi paga in caso di errori

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie che possono insorgere tra committente e professionista in esecuzione della disciplina del “Superbonus” 110%. Di seguito la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un ingegnere della provincia di Macerata, che chiede: “In esecuzione della procedura del “Superbonus 110%”, in quali responsabilità potrei essere coinvolto?" La disciplina del “Superbonus 110%”, introdotta dal cosiddetto decreto rilancio sta dando grande slancio al settore delle costruzioni e pone i professionisti che operano nel settore tecnico-edile al centro e quale fulcro di una serie di verifiche e attestazioni sui presupposti per accedere alle agevolazioni. Tali attività spaziano dalla verifica della conformità urbanistica alla idoneità dell'immobile e del committente fino ad orientare quest'ultimo sulle spese detraibili con la verifica dei massimali, per non dimenticare la duplice verifica, sia durante i lavori che alla fine degli stessi, in ordine al rispetto dei requisiti tecnici richiesti e della congruità della spesa sostenuta. Ma che cosa succede in caso di danno dovuto a negligenza professionale, imperizia o errata applicazione delle norme? In questi casi il professionista potrebbe essere chiamato a rispondere in sede civile, amministrativa e penale del danno causato da solo o in solido con l'impresa, dal momento che l'articolo 2055 codice civile stabilisce che, se un fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in via tra loro solidale a risarcire il danno nei confronti del cliente/committente. Pertanto, in risposta al nostro ingegnere, ne deriva che gli ingegneri e le altre figure professionali quali, architetti, geometri, costruttori, fornitori, commercialisti che rilasciano il visto di conformità, potrebbero essere solidalmente responsabili se a loro è imputabile il danno. Gli articoli 119 e 121 del Decreto Legge n. 34/2020 attribuiscono ai tecnici incaricati della progettazione di edifici, impianti e strutture, della direzione lavori e del collaudo statico un doppio ruolo: quello di attestatore ed asseveratore ("asseverare" in questo senso va inteso come sinonimo di "assicurare" e "garantire") della presenza dei requisiti tecnici che consentono di accedere al “Superbonus” e quella di prestatore di opera intellettuale, disciplinato dall'art. 2230 codice civile e seguenti. In particolare, l'articolo 121 del decreto rilancio stabilisce che, nel caso in cui vengano meno anche in via parziale i requisiti che garantivano ai soggetti beneficiari (di norma, il committente) il diritto al “Superbonus”, l'Agenzia delle Entrate provveda al recupero nei loro confronti dell'importo corrispondente alla detrazione non spettante, maggiorato di interessi (4% all'anno) e sanzioni tributarie (30% dell'importo non versato, ridotta alla metà in caso di ravvedimento entro 90 giorni nell'ipotesi più favorevole). In primo luogo, è quindi il committente o, meglio, il soggetto beneficiario a subire il recupero da parte dell'Agenzia delle Entrate, ma tale recupero si potrebbe estendere ai professionisti e alle imprese se venissero riconosciuti corresponsabili dell'evento dannoso; in altre parole, il comma VI dell'articolo 121 legittima l'Agenzia delle Entrate ad agire anche nei confronti di soggetti diversi dal contribuente, quali responsabili in via solidale, nell'ipotesi in cui i soggetti che intervengono nei lavori (denominati "fornitori") abbiano concorso nella violazione. Venendo a questo rischio il professionista dovrà operare con prudenza e perizia per quanto riguarda la propria parte specialistica, ma dovrà anche cercare di mantenere un minimo di controllo su tutta la pratica; fondamentale è la sinergia tra i soggetti coinvolti, il progettista strutturale e quello architettonico, il collaudatore, l'impresa e il professionista fiscale (che attesta la regolarità dei crediti fiscali oggetto di cessione), perché un errore dell'uno di fatto potrebbe coinvolge anche l'altro. In merito al “Sismabonus”, ad esempio, l'asseverazione rilasciata dal progettista strutturale si estende anche alla congruità degli importi relativi alle opere di manutenzione edilizia (pavimenti, massetti), ma tale valutazione può essere compiuta solo in sinergia con il progettista architettonico, la cui opera si intreccia con quella del progettista della struttura. Nel caso di un contenzioso per un errore progettuale sono numerose le sentenze che condannano in solido tutti i professionisti coinvolti e l'impresa; è anche vero che qui non esiste alcun automatismo, ma nell'ambito della responsabilità civile viene in rilievo l'articolo 1176 comma secondo del codice civile, secondo cui la diligenza del professionista si deve valutare caso per caso con riguardo alla natura dell'attività esercitata. Per fare un esempio, appare evidente che un termotecnico non potrà essere ritenuto responsabile in solido nel caso della revoca del contributo per problematiche connesse alle asseverazioni del “Sismabonus”; viceversa, il progettista strutturale non dovrebbe rispondere nei casi di problematiche agli impianti e al cappotto; questo per chiarire che ogni caso andrebbe valutato singolarmente e in concreto.  Sono molteplici i controlli a cui può essere sottoposta la pratica; eventuali problematiche potrebbero emergere sotto il profilo: - mancanza dei requisiti soggettivi in capo al beneficiario; - mancanza dei requisiti tecnici-prestazionali degli interventi; - errata attestazione degli stessi da parte del tecnico; - errata attestazione della congruità della spesa per irregolarità urbanistiche o edilizie preesistenti, eccetera. Nel momento in cui il professionista rilascia la dichiarazione di asseverazione dichiara che i dati forniti sono veri e potrebbe astrattamente essere chiamato a rispondere del reato di cui all'articolo 481 del codice penale.  È il caso della falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, in cui il professionista risponde penalmente per eventuali falsi ideologici e materiali contenuti nella dichiarazione di asseverazione. Sono, inoltre, previsti alcuni illeciti amministrativi in caso di "asseverazioni non veritiere" e di "APE infedele", che prevedono sanzioni pecuniarie di alcune migliaia di euro. Una importante annotazione è quella relativa alla polizza di assicurazione, che non copre le sanzioni amministrative né tantomeno quelle penali. Con riferimento, infine, ai controlli di natura tecnica e fiscale è previsto che l'Enea li effettui a campione in una percentuale che non supera lo 0,5 delle richieste, dando priorità agli interventi che godono del bonus 110% e a quelli che prevedono una spesa maggiore. Mentre, dal lato fiscale i poteri di accertamento dell'Agenzia delle Entrate si estendono al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui si è presentata la dichiarazione dei redditi con l'ultima rata di beneficio. Esempio: lavori nel 2022 con recupero di somme in 5 rate annuali a partire dalla dichiarazione 2023 per i redditi 2022; ultima dichiarazione con agevolazioni 2027 per i redditi 2026; scadenza poteri di controllo dell'Agenzia delle Entrate: 31 dicembre 2032. Invece, nell'ipotesi di cessione del credito o sconto in fattura la notifica dell'atto di recupero da parte dell'Agenzia delle Entrate potrà essere effettuata entro il 31 dicembre dell'ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana. 

13/03/2022 09:40
Cure fuori dai centri convenzionati: Asur condannata al rimborso delle spese

Cure fuori dai centri convenzionati: Asur condannata al rimborso delle spese

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie che possono insorgere tra cittadino ed Azienda Sanitaria Unica Regionale, in particolare quando la stessa viene meno ai propri doveri. Di seguito la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un nostro lettore di Macerata, che chiede: “Nel caso in cui sono costretto a rivolgermi ad una struttura sanitaria privata non convenzionata, posso chiedere il rimborso delle relative spese all’Asur? Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ai controversi rapporti tra cittadino ed Asur riguardo alla tempestività delle cure mediche non rimandabili. A tal proposito è utile riportare una recente sentenza di merito secondo la quale, “Il paziente che si rivolge ad una struttura sanitaria privata, non convenzionata con il sistema sanitario nazionale, ha diritto al rimborso delle spese mediche se il ricovero è stato effettuato in stato di urgenza e necessità”, il tutto accertato sulla base dei presupposti richiesti dalla disciplina dettata in materia sanitaria dal D. Lgs. n. 502/1992. Ed invero, il D. Lgs. n. 502/92, in particolare l'art. 1, stabilisce che il Servizio sanitario nazionale assicura, attraverso risorse pubbliche, i livelli essenziali di assistenza nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell'equità nell'accesso all'assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze e prevede che siano posti a carico del Servizio sanitario le prestazioni sanitarie che presentano, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, a fronte delle risorse impiegate. Tenuto conto di ciò, l’elemento essenziale di discrimine  nel riconoscere o meno l'insorgenza del diritto soggettivo al rimborso delle suddette spese da parte della Azienda Sanitaria territorialmente competente è l'effettiva ricorrenza di una comprovata situazione, non soltanto di pericolo di vita o di rischio di aggravamento della malattia per l'assistito, ma anche di impossibilità per la struttura pubblica convenzionata di offrire a costui l'intervento o la cura nei tempi e modi utili, alla luce delle conoscenze medico - scientifiche. Pertanto, l’urgenza ed indifferibilità dell'intervento terapeutico da un lato, ed impossibilità per la struttura pubblica di approntare in modo tempestivo tale intervento dall'altro, costituiscono vere e proprie condizioni legislativamente imposte per il riconoscimento del diritto soggettivo al rimborso da parte del SSN delle spese sanitarie sostenute in regime di assistenza non convenzionata. Ebbene, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che, “Sussistono i presupposti per il riconoscimento del diritto al rimborso delle spese mediche affrontate dal paziente da parte dell’Asur quando tale intervento è caratterizzato da un’effettiva situazione di urgenza e lo stesso risulta adeguato perché migliorativo delle condizioni fisiche della ricorrente e della sua aspettativa di vita, sempreché il Servizio sanitario nazionale non poteva offrire in tali tempi l'assistenza specializzata richiesta per l'esecuzione dei trattamenti terapeutici” (Tribunale di Brindisi, sentenza n. 1059/2020). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

06/03/2022 10:25
Fine della convivenza: quali diritti per l’ex convivente che ha contribuito all’acquisto della casa?

Fine della convivenza: quali diritti per l’ex convivente che ha contribuito all’acquisto della casa?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al diritto riconosciuto all’ex convivente della ripetizione di specifiche somme corrisposte al partner durante il periodo di convivenza. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “Terminata la convivenza si può ottenere la restituzione di quanto pagato per la costruzione di quella che sarebbe dovuta essere la casa familiare senza esserne il proprietario?” Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza 24721 del 2019, in accoglimento del ricorso posto in essere dall’ex convivente, affermando testualmente quanto segue: “L’accertamento in fatto che la dazione di denaro era rivolta al solo scopo di realizzare la casa familiare, destinata, nelle previsioni della ricorrente, a divenire comune, giustifica, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il rimborso delle somme versate a titolo di concorso nelle spese di costruzione del manufatto rimasto in proprietà esclusiva dell’altro ex convivente, risultando tale contribuzione a tutti gli effetti, indebita”(Cass. Civ.; Sez. II; Sent. n. 2973/2016). Difatti, l’art. 2033 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto, ha diritto di ripetere ciò che ha pagato […]”, disciplina l’istituto della ripetizione dell’indebito avente come suo fondamento, l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una clausola risolutiva espressa. A tal proposito, occorre rilevare che, sebbene la convivenza di fatto rappresenti ormai a tutti gli effetti una formazione sociale riconosciuta e tutelata dal nostro ordinamento giuridico, con la quale sorgono doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, per cui eventuali contribuzioni e prestazioni economiche eseguite durante il periodo di convivenza vengono sussunte, dalla coscienza sociale, fra i doveri connessi ad un consolidato rapporto affettivo, essendo generalmente ricondotte nell'alveo delle obbligazioni naturali ex art. 2034 c.c., è tuttavia necessario che tali prestazioni rese, trovino giustificazione nella solidarietà e nella reciproca assistenza fra i conviventi. Tutto ciò sussistendo al contrario, un'inconciliabilità logico-giuridica fra convivenza more uxorio e arricchimento ingiustificato, il quale necessariamente investe le circostanze relative all’effettuazione di prestazioni di tipo economico, derivanti da un presunto vincolo obbligatorio, ma che risultino a posteriori non dovute, così giustificando la tutela giuridica e patrimoniale del soggetto leso, in presenza di atti dispositivi posti in essere a vantaggio di uno dei conviventi esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza.  Pertanto, in risposta alla domanda dalla nostra lettrice e in linea con la più autorevole e consolidata giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: “Le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente "more uxorio" effettuate nel corso del rapporto configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza; in caso di attribuzioni economico patrimoniali eseguite in corso di convivenza, a titolo di concorso alle spese di costruzione della casa familiare, si ha diritto al rimborso delle somme date se, terminata la convivenza, il conferimento non si concretizza nell’acquisto della proprietà del bene, esulando tale prestazione, dal mero adempimento di suddette obbligazioni” (Cassazione civile sez. VI, 15/02/2019, n.4659). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

27/02/2022 10:07
Commette reato l’amante che rivela alla moglie il tradimento del marito?

Commette reato l’amante che rivela alla moglie il tradimento del marito?

Torna come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti coniugali ed extraconiugali e le relative condotte poste in essere dagli stessi protagonisti con relative responsabilità. Ecco la risposta dell'avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: “Commette reato l’amante che rivela alla moglie il tradimento del marito?” L'amante stanca di essere trattata come la seconda scelta, non ne può proprio più, decide così di rivelare il tradimento del fedifrago. In casi come questi commette un reato? Può cioè essere perseguibile penalmente per aver sbugiardato il coniuge traditore? Cerchiamo di capirlo insieme, premettendo che la tecnologia in questi casi, è uno strumento potentissimo. Non è infrequente infatti ai giorni nostri che i matrimoni finiscano per foto pubblicate sui social o messaggini inviati al coniuge tradito. In ogni caso è bene sapere che la giurisprudenza non ha mancato di punire in certi casi l'amante vendicativa. Vediamo in che modo e a che titolo. La Corte di Cassazione, ad esempio, con la sentenza n. 28852/2009 ha inquadrato la condotta dell'amante che, inviando alcuni SMS alla moglie tradita, l'ha informata del tradimento del marito, come molestia e disturbo alle persone. Illecito che le è costato le spese processuali e una multa di 1000 euro. A nulla sono valse le difese dell'amante, che in sua difesa ha affermato che il tradimento era già noto alla moglie e che comunque si è limitata a inviare solo qualche SMS. Per gli Ermellini anche pochi messaggi possono ledere la dignità, il decoro e l'onore della persona offesa, soprattutto se gli stessi riportano anche espressioni di disprezzo dell'uomo verso la sua compagna di vita. Con la sentenza n. 28493/2015 la Cassazione è giunta alle stesse conclusioni, in relazione alle rivelazioni che la ex amante, per vendetta, ha comunicato alla moglie del traditore, in tre lunghe telefonate. Gli Ermellini non hanno tenuto conto del fatto che le conversazioni, a detta dell'amante, non sono state assillanti e che comunque era nell'interesse della moglie essere informata della condotta del coniuge. In un altro caso invece, sul quale la Cassazione si è pronunciata con la sentenza n. 29826/2015, ha commesso reato di atti persecutori (stalking) l'amante che ha rivelato al marito il tradimento della moglie, lo ha reso pubblico, ha inviando lettere al tradito sul luogo di lavoro e numerosi SMS dal contenuto volgare e infine ha scritto frasi ingiuriose proprio sui muri della scuola frequentata dai figli della donna. Gli Ermellini hanno valorizzato ai fini del reato le svariate condotte persecutorie che hanno recato un indubbio danno alla riservatezza e all'intimità sessuale, provocando uno stato persistente di disagio e ansia a tutti i membri della famiglia, che hanno subito ripercussioni anche nell'ambiente lavorativo e scolastico. Diverse sentenze hanno condannato anche per diffamazione l'amante che ha rivelato la propria relazione con una persona sposata, pubblicando foto e messaggi espliciti della relazione sulla propria pagina Facebook o su altro social. Il reato si configura in questi casi perché la vita di relazione tra due coniugi non è un fatto d'interesse pubblico, per cui nel momento si rende noto a un numero indeterminato di soggetti il tradimento si lede il diritto alla riservatezza delle persone offese. È anche possibile che l'amante ferita si limiti anche solo a minacciare il coniuge di rivelare all'altro il tradimento; in questo caso, il soggetto a cui la minaccia è rivolta può denunciare l'amante gelosa e la stessa può andare incontro alla condanna per il reato di minacce di cui all'art. 612 c.p. Pertanto, in risposta al nostro lettore, la condotta dell’amante che rivela alla moglie il tradimento del marito può comportare a seconda della modalità utilizzata condotte penalmente rilevanti che vanno dalla molestia allo stalking. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

20/02/2022 09:04
“Romantic scam” e truffe amorose: l’altra faccia di San Valentino

“Romantic scam” e truffe amorose: l’altra faccia di San Valentino

Torna come ogni domenica, la rubrica curata dall'Avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le condotte truffaldine molto di moda in questo periodo adottate addirittura con sfondo sentimentale. Ecco la risposta dell'avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “A quali responsabilità può incorrere colei che, tramite l’inganno sentimentale, porta alla diminuzione fraudolenta del patrimonio della vittima innamorata?” Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una problematica oggi, purtroppo ricorrente, quella della truffa dei sentimenti dalle conseguenze doppiamente devastanti.  Il meccanismo spesso adottato è quello della creazione da parte del soggetto/i agente/i di un profilo “Facebook” falso, apparentemente riconducibile ad un'avvenente donna, la cui immagine fotografica (“rubata” dalla rete) svolge il ruolo di specchietto per le allodole.  Il malcapitato, scelto “ad hoc”, quale persona oberata dal proprio pesante fardello di solitudine e ammaliata dalle fattezze conturbanti della donna, abbocca: inizia così uno scambio epistolare i cui toni, progressivamente e sapientemente proiettati verso una possibile futura relazione sentimentale ottengono l'effetto seduttivo di calamitare la vittima.  A fare da sfondo panoramico a tutta la vicenda non può mancare una storia strappalacrime: la bella, e rigorosamente povera, è costretta a lavorare come badante all'estero, presso una famiglia che non le dà nemmeno da mangiare; nemmeno a dirlo la stessa è gravemente malata e necessita sia di conforto morale, sia soprattutto di quello materiale: viveri e medicine costano cari.  L'escalation del raggiro è in costante ascesa: all'inizio le somme di denaro canalizzate sono di modesta entità, poi diventano progressivamente più consistenti. L'emungimento del patrimonio della vittima, obnubilata da un amore unilateralmente nutrito senza riserve, ammonta a diverse centinaia di migliaia di euro. Sarà soltanto in seguito al prosciugamento del conto corrente che la vittima – destinataria anche di pretese estorsive successive al rifiuto di continuare a versare denaro – aprirà gli occhi sulla realtà e troverà la forza e il coraggio di denunciare l'accaduto. Ecco qua che l'autonomia concettuale della “romantic scam” è figlia dell'elaborazione giurisprudenziale della fattispecie-base di truffa, adattata alla peculiare modalità con cui la stessa viene perfezionata.  A dotarla di una propria precisa identità è principalmente l'utilizzo dell'inganno sentimentale, che assume rilievo determinante in quanto rappresenta l'innesco dal quale – in forza della falsa rappresentazione della realtà (cioè l'inesistente coinvolgimento emotivo) – discende l'induzione in errore nel soggetto passivo. Quest'ultimo viene così determinato a compiere atti di disposizione patrimoniale che altrimenti non avrebbe effettuato; come si vede, la concatenazione causale è rigorosamente orientata secondo lo schema – contenuto nella norma incriminatrice della truffa – che pone l'atto di disposizione patrimoniale quale conseguente logico-causale dell'attività ingannatoria. Per tali ragioni, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che,“ Fingere di amare una persona al fine di ottenere un vantaggio patrimoniale configura il reato di truffa, in quanto la c.d. “truffa romantica” - o romantic scam – si connota per il fatto che la manifestazione menzognera operata dal soggetto agente circa i propri sentimenti, apparentemente nutriti nei confronti della vittima, opera sulla psiche di quest'ultima inducendola a compiere, in conseguenza dell'inganno, atti di disposizione patrimoniale a favore del soggetto attivo del reato" (Tribunale di Catania, sez. I Penale, sentenza n. 3562/21).  Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

13/02/2022 09:42
Attenzione a non esagerare con il “Metodo Montessori”: ne vale una condanna penale alla maestra

Attenzione a non esagerare con il “Metodo Montessori”: ne vale una condanna penale alla maestra

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica estremamente delicata, relativa alle condotte violente o da considerarle tali poste in essere da soggetti esercenti il ruolo di educatore o docente, nei confronti dei propri allievi. Ecco la risposta dell’avvocato, Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “Quali comportamenti, se tenuti da insegnanti nello svolgimento della propria professione, possono condurre ad una condanna penale per maltrattamenti?” Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata e attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la stessa Corte di Cassazione, con una sentenza di condanna, la n.5205/2019, nei confronti di una maestra d’asilo, per il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. il quale punisce espressamente: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte”. Tale delitto, si caratterizza infatti, per l’elemento soggettivo del dolo generico, inteso come volontarietà dell’azione, nonché come consapevolezza di porre in essere un comportamento oppressivo, ed è integrato da condotte di lesione o messa in pericolo dell'incolumità fisica o psicologica, nell'ambito di rapporti interpersonali che dovrebbero favorire la personalità degli specifici soggetti, e non danneggiarla. Inoltre, elemento costitutivo di tale delitto, è l’abitualità dell’azione, ovvero la circostanza che tali condotte lesive siano reiterate e perpetrate ai danni delle vittime. Proprio questo ultimo requisito, distingue tale delitto di maltrattamenti, quale reato abituale, dal delitto meno afflittivo di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, previsto ai sensi dell’art. 571 c.p., il quale punisce espressamente: “Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte”. Difatti, nella sentenza citata emessa nei confronti della maestra d’asilo, la quale, nel tentativo di giustificare i propri metodi, li qualificava come “di vecchio stampo in armonia con il così detto metodo Montessori”, la Suprema Corte ha ritenuto, “Integrato il delitto di maltrattamenti in considerazione della reiterazione delle condotte violente perpetrate ai danni degli alunni, tutti minorenni, del carattere sistematico del ricorso alla violenza fisica e morale, non suscettibile di essere inquadrata in alcun metodo educativo, scolastico, o di insegnamento, tenuto anche conto della tenera età dei bambini maltrattati.”(Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 5205 del 01.02.2019). Pertanto, alla luce di quanto affermato ed in risposta alla domanda della nostra lettrice, “Sul piano della qualificazione giuridica dei fatti si deve ribadire che integra il reato di maltrattamenti e non quello di abuso di mezzi di correzione, la reiterazione di atti di violenza fisica e morale, l’uso sistematico di comportamenti violenti, obiettivamente non leciti, insuscettibili di essere qualificati come espressivi di metodi educativi: schiaffi ripetuti, tirate di orecchio e capelli, sottoposizione a vessazioni morali e fisiche consistenti nell’apostrofare i bambini in malo modo, nello strappare loro i disegni, nel sottrarre loro l’acqua, allontanarli dagli spazi di condivisione per lasciarli da soli in bagno ovvero in una stanza poco illuminata “per riflettere”, inadeguatezza delle espressioni verbali utilizzate, ancorché sostenute da animus corrigendi”(Cass. Pen., Sez. VI, n. 53425/ del 22.10.2014). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

06/02/2022 12:15
Attenzione a chi ci spia con gli "spy-software": vale una condanna

Attenzione a chi ci spia con gli "spy-software": vale una condanna

Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate, hanno interessato principalmente la tematica relativa alla violazione della segretezza delle conversazioni telematiche altrui, attraverso l’utilizzo di strumenti informatici. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Tolentino che chiede: “E’ penalmente sanzionabile chi installa un programma informatico per intercettare le comunicazioni telefoniche di un altro soggetto, anche se poi non sono stati utilizzati?” Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente attuale, su cui ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15071/2019, affermando la responsabilità penale di un marito, che aveva collegato il cellulare della moglie ad uno “Spy-Software” per monitorarle le chiamate, punendolo pertanto ex art. 617-bis c.p., il quale stabilisce espressamente: “Chiunque, fuori dei casi consentiti dalla legge installa apparati, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche tra altre persone è punito con la reclusione da uno a quattro anni”. Difatti, nel caso in esame, la Suprema Corte ha valutato la punibilità dell’uomo, sulla base di un’autorevole interpretazione del diritto vivente, fornita proprio dalle Sezioni Unite, con sentenza n.26889/2016, la quale ha permesso di includere i programmi informatici denominati “Spy-Software”, nella categoria degli apparati indicati espressamente dalla norma del codice penale appena citata, chiarendo che “l’evoluzione tecnologica ha consentito di apportare strumenti informatici del tipo software, solitamente installati in modo occulto su un telefono cellulare, un tablet o un PC, che consentono di captare tutto il traffico dei dati in arrivo o in partenza dal dispositivo e, quindi, anche le conversazioni telefoniche”(Cass. Pen.; Sez. Un.; Sentenza n. 26889 del 28/04/2016).  A tal proposito si è evidenziata una categoria aperta e dinamica, suscettibile di essere implementata per effetto delle innovazioni tecnologiche che nel tempo, consentono di realizzare scopi vietati dalla legge.  Inoltre, secondo la ricostruzione operata dalla Corte di legittimità chiamata a pronunciarsi sull’obiezione sollevata dall’uomo, in relazione alla circostanza che la moglie fosse stata di fatto avvertita dal figlio, circa l’installazione di tale programma sul suo cellulare, senza però smettere mai di usarlo, si è rilevato che il riferimento alla norma penale di cui all’art. 617-bis c.p., ha lo scopo di anticipare la tutela alla riservatezza e libertà delle comunicazioni, attraverso la sanzione dei fatti prodromici all’effettiva lesione del bene, non essendo dunque necessaria alcuna condotta ulteriore. Pertanto, in adesione a tale autorevole orientamento della Suprema Corte e in risposta alla domanda della nostra lettrice, è da intendersi che: “Ai fini della configurabilità del reato in esame deve aversi riguardo alla sola attività di installazione e non a quella successiva dell'intercettazione o impedimento delle altrui comunicazioni, che rileva solo come fine della condotta, con la conseguenza che il reato si consuma anche se gli apparecchi installati non abbiano funzionato o non siano stati attivati”(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza del 05.04.2019, n. 1507). Nel consigliare di denunciare prontamente tali reati, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.      

30/01/2022 09:37
Tamponamento a catena: a chi va addebitata la responsabilità del sinistro?

Tamponamento a catena: a chi va addebitata la responsabilità del sinistro?

Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai sinistri stradali e la loro risarcibilità. Ecco la risposta dell’avvcato Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: “A chi spetta il risarcimento danni in occasione di un tamponamento a catena?” Il tamponamento è un tipo di sinistro stradale che si realizza quando un veicolo con la sua parte anteriore urta la parte posteriore di un altro veicolo che lo precede in strada. In questi casi, la responsabilità viene normalmente addebitata in capo al veicolo che ha dato luogo al tamponamento, poiché l'art. 141 del Codice della Strada afferma che "è obbligo del conducente regolare la velocità del veicolo in modo che avuto riguardo alle caratteristiche, allo stato ed al carico del veicolo stesso, alle caratteristiche e alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, sia evitato ogni pericolo per la sicurezza delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la circolazione". Pertanto, si presume che la colpa sia di chi tampona, a causa dell'inosservanza delle prescritte distanze di sicurezza che avrebbero consentito un adeguato spazio di frenatura e manovra; ciò a meno che il tamponatore non dimostri che il sinistro si è verificato per causa a lui non imputabile (ad es. a causa di un comportamento abnorme della vettura tamponata). Ipotesi molto frequente e maggiormente problematica per quanto riguarda l'individuazione del "colpevole" è quella dei cc.dd. tamponamenti a catena, ovverosia quelli che coinvolgono diverse autovetture l'una dietro l'altra. In simili ipotesi, per individuare il responsabile, è necessario effettuare una distinzione tra il sinistro avvenuto tra veicoli fermi in colonna e quello avvenuto tra veicoli in movimento. Nell'ipotesi di colonna di veicoli ferma (ad esempio perché in coda dinanzi a un semaforo rosso, bloccati nel traffico, ecc.) la giurisprudenza ha ritenuto che la responsabilità vada addebitata al conducente dell'ultimo veicolo, ossia a colui che, con la sua condotta, genera la prima collisione dalla quale promanano i successivi tamponamenti. Pertanto, in caso di scontri successivi fra veicoli facenti parte di una colonna in sosta, unico responsabile delle conseguenze delle collisioni è il conducente che le abbia determinate tamponando da tergo l'ultimo dei veicoli della colonna (cfr. Cass., n. 8646/2003; Cass., n. 18234/2008). Le richieste risarcitorie andranno, pertanto, rivolte al veicolo che ha cagionato il primo tamponamento. Diverso è il caso in cui il tamponamento a catena coinvolga autoveicoli in movimento. In simile ipotesi, per giurisprudenza costante occorre fare riferimento all'art. 2054 c.c., comma 2 il quale sancisce che "nel caso di scontro tra veicoli si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli". Di conseguenza, opera la presunzione iuris tantum di colpa in forza della quale devono ritenersi responsabili del sinistro, in eguale misura, entrambi i conducenti di ciascuna coppia di veicoli (tamponante e tamponato), a causa dell'inosservanza della distanza di sicurezza rispetto al veicolo antistante (Cass., n. 4021/2013). In pratica, la presunzione fa scattare in capo ad ogni conducente la responsabilità nei confronti del veicolo che gli sta davanti, per i danni che questa abbia subito nella sua parte posteriore. In caso di tamponamenti a catena di veicoli in movimento, il rinvio all'articolo 2054 c.c. lascia salva la possibilità di fornire adeguata prova liberatoria e di essere così tenuto indenne all'addebito di responsabilità; tale prova avrà come oggetto l'aver fatto tutto il possibile, una volta tamponati, per evitare di tamponare il veicolo davanti, rispetto al quale erano comunque rispettate le distanze di sicurezza. Si pensi, ad esempio, al caso in cui si riesca a provare che l'urto con il veicolo anteriore non sia derivato dall'eccessiva vicinanza con lo stesso ma solo ed esclusivamente dall'eccessiva velocità del veicolo proveniente da tergo. Resta da dire che, come è evidente, il primo veicolo della colonna (il quale viene tamponato, ma non tampona nessun altro) non avrà mai alcuna responsabilità. L'ipotesi del tamponamento a catena, vedendo il coinvolgimento di più veicoli, rientra tra quelle che esulano dal campo di applicazione del sistema del cd. indennizzo diretto. Di conseguenza, la domanda risarcitoria non andrà mai inoltrata alla propria compagnia di assicurazione. A seconda dei casi, occorrerà rivolgersi o al veicolo direttamente tamponante (in ipotesi di veicoli in movimento) o all'ultimo veicolo, che ha dato origine all'incidente complessivo (in ipotesi di veicoli incolonnati in sosta). Il trasportato su uno dei veicoli coinvolti, tuttavia, dovrà sempre richiedere i danni alla compagnia che assicura il mezzo sul quale si trovava al momento dello scontro. Pertanto, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che, “Nell'ipotesi di tamponamento a catena tra veicoli in movimento, trova applicazione l'art. 2054, secondo comma, cod. civ., con conseguente presunzione "iuris tantum" di colpa in eguale misura di entrambi i conducenti di ciascuna coppia di veicoli (tamponante e tamponato), fondata sull'inosservanza della distanza di sicurezza rispetto al veicolo antistante, qualora non sia fornita la prova liberatoria di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, mentre nel caso di scontri successivi fra veicoli facenti parte di una colonna in sosta, unico responsabile degli effetti delle collisioni è il conducente che le abbia determinate, tamponando da tergo l'ultimo dei veicoli della colonna stessa (Cass. n. 4304/2021, Cass., 19/02/2013, n. 4021, Cass., 15/06/2018, n. 15788).Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                        

23/01/2022 11:03
L’ex marito stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie: vale la condanna penale?

L’ex marito stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie: vale la condanna penale?

Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti in sede di separazione tra gli ex coniugi. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Corridonia che chiede: “A quali responsabilità va incontro l’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie?”  Tale circostanza ci porta subito ad applicare il principio giuridico oramai divenuto consolidato espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n.13407/2019, secondo il quale: “Sussiste il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni laddove il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice a fronte della contestazione o dell’ostacolo posto da terzi, come nel caso di un ex marito che, a seguito della mancata voltura delle utenze domestiche dell’abitazione familiare assegnata all’ex moglie, aveva provveduto personalmente a staccare i contatori”. Difatti, proprio in riferimento ad un caso simile a quello prospettato dalla nostra lettrice, nel quale l’ex marito, dopo aver intimato più volte all’ex moglie di procedere alla voltura delle forniture di energia elettrica e gas dell’abitazione familiare a lei assegnata in sede di separazione, aveva provveduto personalmente al distacco in quanto le spese in questione erano state accollate all’ex moglie in sede di separazione, costringendo la donna e i figli a stare nell’appartamento senza poter usufruire di tali servizi-  La Corte di Cassazione ha confermato la configurabilità in capo all’imputato del reato di cui all’articolo 393 del codice penale, in quanto, il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice di fronte alla contestazione o all’ostacolo posto da terzi; a tal proposito, la Suprema Corte aggiunge che, “non è consentito legittimare l’autosoddisfazione per il superamento degli ostacoli che si frappongono al concreto esercizio del diritto”. Viene, infine, precisato che, “si ritiene legittima la violenza sulle cose solo quando sia esercitata al fine di difendere il diritto di possesso in presenza di un atto di turbativa nel godimento della res, sempre che l’azione reattiva avvenga nell’immediatezza di quella lesiva del diritto, non si tratti di compossesso e sia impossibile il ricorso immediato al giudice, sussistendo la necessità impellente di ripristinare il possesso perduto o il pacifico esercizio del diritto di godimento del bene”. Pertanto, in applicazione del principio oramai consolidato della Suprema Corte, si ritiene corretto affermare che, nel caso dell’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie, lo stesso commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto e punito ai sensi dell’art. 393 c.p., in quanto tale diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso all’Autorità Giudiziaria. (Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 13407/19; depositata il 27 marzo). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                     

16/01/2022 10:03
Collare elettrico per addestrare il cane: è maltrattamento

Collare elettrico per addestrare il cane: è maltrattamento

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema della tutela degli animali e nello specifico il caso in cui gli amici a quattro zampe vengano maltrattati dai propri padroni. Il caso in parola ci offre la possibilità di esaminare giuridicamente tale deplorevole condotta penalmente rilevante. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “Il proprietario di un cane che per addestrarlo utilizza un collare elettrico, a quali responsabilità va incontro?".  Il caso di specie ci porta a trattare il deplorevole delitto di maltrattamento di animali di cui all’art. 544-ter c.p., introdotto dall’art. 1 L. 20 luglio 2014 n. 189, con cui sono state incriminate condotte, talune delle quali già previste dalla contravvenzione di cui all’art. 727 c.p. “Abbandono di animali”, oggetto anch’essa di riformulazione. Nello specifico l’art. 544-ter c.p. prevede quanto segue: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi. La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell'animale”. Pertanto, nel primo comma vengono ricomprese le seguenti condotte: a) Aver cagionato per crudeltà o senza necessità una “lesione”; a tal proposito, la Corte di Cassazione ha ritenuto come la nozione di “lesione”, sebbene non necessariamente coincidente con quella prevista dall'art. 582 c.p. delle “Lesioni personali”, implichi comunque la sussistenza di un'apprezzabile diminuzione della originaria integrità dell'animale che, pur non risolvendosi in un vero e proprio processo patologico e non determinando una menomazione funzionale, sia comunque diretta conseguenza di una condotta volontaria commissiva o omissiva (si v. Cass. III, n. 32837/2013); b) Condotte di sevizie, comprensive di “tutte le forme di crudeltà verso animali, offensive del sentimento di pietà e compassione per gli stessi”; c) Condotte consistenti nella sottoposizione dell'animale ad attività insopportabili per le sue caratteristiche etologiche; in sede di legittimità, si è precisato come la nozione di “comportamenti insopportabili per le caratteristiche etologiche” non assuma un significato “assoluto” (inteso come raggiungimento di un limite oltre il quale l’animale sarebbe annullato), ma un significato “relativo”, nel senso del contrasto con il comportamento proprio della specie di riferimento come ricostruita dalla scienza naturale (Cass. III, n. 39159/2014), che ne precisa il contenuto riferendolo alla collocazione degli animali in ambienti non adatti alla loro naturale esistenza, inadeguati dal punto di vista delle dimensioni, della salubrità, delle condizioni tecniche. Nel secondo comma vengono invece incriminate le condotte di: Somministrazione di “sostanza stupefacente o vietate”; da intendersi, in senso descrittivo come “ogni sostanza, naturale o sintetica, che, somministrata agli animali, risulti idonea a determinare in essi uno stato di alterazione fisica o psichica con effetto drogante”. Quanto, invece, alle sostanze vietate, per esse il richiamo vale alle norme che proibiscono la somministrazione di determinate sostanze agli animali (vi rientrano la norme che puniscono l'utilizzo di estrogeni nell'allevamento del bestiame, di cui alla d.l. 4 agosto 1999, n. 336, art. 32), o comunque, la “Sottoposizione a trattamenti che procurano un danno alla loro salute”. Per la previsione di cui al terzo comma dell'art. 544-ter c.p., ovvero la morte dell’animale, dal punto di vista dell'ascrizione soggettiva, l'imputazione dell'evento “morte”, benché non coperta dal dolo, neanche “eventuale”, configurandosi altrimenti il delitto di cui all'art. 544-bis c.p. “Uccisione di animali”, deve comunque, secondo le regole fissate dall'art. 59, comma 2, c.p., essere ascrivibile almeno a colpa, dunque porsi come conseguenza prevedibile delle condotte di cui ai commi che precedono. Detto ciò, ed in risposta alla nostra lettrice, configura il reato di maltrattamento di animali la condotta del padrone di un cane che per “addestrarlo” utilizza un collare elettrico quale invece effettivo strumento di tortura per l’animale. Così la Suprema Corte in una vicenda nella quale è risultato decisivo il ritrovamento di un cane che vagava incustodito sulla pubblica via, ma a richiamare l’attenzione è stato proprio il suo collare, che risultava essere un «collare elettronico». Caratteristiche dell’apparecchio? Produrre scosse di varia intensità sul collo dell’animale, ovviamente su input del padrone con un apposito telecomando a distanza, per «reprimere», sempre secondo i ‘teorici’, «comportamenti molesti». Ma questa strumentazione – di vago richiamo medievale – è da considerare assolutamente vietata, almeno in Italia. Per questo motivo, il padrone dell’animale veniva condannato – su decisione del Giudice per le indagini preliminari – per aver detenuto il cane «in condizioni incompatibili con la sua natura, e produttive di gravi sofferenze». Ad avviso dell’uomo, però, è stato trascurato un particolare importante: il collare elettrico, «se utilizzato correttamente», è «necessario per un utile addestramento dell’animale, provocandogli solo una lieve molestia». L’obiezione proposta dal padrone del cane, però, viene respinta in maniera netta dai giudici della Cassazione, i quali ribadiscono, a chiare lettere, che «il collare elettronico» è da considerare «certamente incompatibile con la natura del cane». Perché l’«addestramento», che si presume di poter così realizzare, è «basato esclusivamente sul dolore» e «incide sull’integrità psico-fisica del cane, poiché la somministrazione di scariche elettriche per condizionarne i riflessi ed indurlo, tramite stimoli dolorosi, ai comportamenti desiderati produce effetti collaterali quali paura, ansia, depressione ed anche aggressività». Come si può parlare, allora, di «addestramento»? Piuttosto, è logico considerare gli «effetti» del ricorso al collare elettrico sul «comportamento dell’animale» come «maltrattamento» in piena regola (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 38034 del 27.04.2018).  Nel consigliare a tutti di denunciare prontamente tali spregevoli comportamenti penalmente rilevanti, come sempre rimango in attesa delle vostre richieste via mail dandovi appuntamento alla prossima settimana.     

09/01/2022 10:00
Fine della convivenza: quali diritti per l’ex che ha contribuito all’acquisto dell’immobile?

Fine della convivenza: quali diritti per l’ex che ha contribuito all’acquisto dell’immobile?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al diritto riconosciuto all’ex convivente della ripetizione di specifiche somme corrisposte al partner durante il periodo di convivenza. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Camerino che chiede: “Terminata la convivenza si può ottenere la restituzione di quanto pagato per la costruzione di quella che sarebbe dovuta essere la casa familiare senza esserne il proprietario?” Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.24721/2019, in accoglimento del ricorso posto in essere dall’ex convivente, affermando testualmente quanto segue: “L’accertamento in fatto che la dazione di denaro era rivolta al solo scopo di realizzare la casa familiare, destinata, nelle previsioni della ricorrente, a divenire comune, giustifica, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il rimborso delle somme versate a titolo di concorso nelle spese di costruzione del manufatto rimasto in proprietà esclusiva dell’altro ex convivente, risultando tale contribuzione a tutti gli effetti, indebita”(Cass. Civ.; Sez. II; Sent. n. 2973/2016). Difatti, l’art. 2033 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto, ha diritto di ripetere ciò che ha pagato […]”, disciplina l’istituto della ripetizione dell’indebito avente come suo fondamento, l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una clausola risolutiva espressa. A tal proposito, occorre rilevare che - sebbene la convivenza di fatto rappresenti ormai a tutti gli effetti una formazione sociale riconosciuta e tutelata dal nostro ordinamento giuridico, con la quale sorgono doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro - è tuttavia necessario che tali prestazioni rese, trovino giustificazione nella solidarietà e nella reciproca assistenza fra i conviventi. Sussiste, infatti, al contrario, un'inconciliabilità logico-giuridica fra convivenza more uxorio e arricchimento ingiustificato, che necessariamente investe le circostanze relative all’effettuazione di prestazioni di tipo economico, derivanti da un presunto vincolo obbligatorio, ma che risultino a posteriori non dovute, così giustificando la tutela giuridica e patrimoniale del soggetto leso, in presenza di atti dispositivi posti in essere a vantaggio di uno dei conviventi esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza.  Pertanto, in risposta alla domanda dalla nostra lettrice e in linea con la più autorevole e consolidata giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: “Le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente "more uxorio" effettuate nel corso del rapporto configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza; in caso di attribuzioni economico patrimoniali eseguite in corso di convivenza, a titolo di concorso alle spese di costruzione della casa familiare, si ha diritto al rimborso delle somme date se, terminata la convivenza, il conferimento non si concretizza nell’acquisto della proprietà del bene, esulando tale prestazione, dal mero adempimento di suddette obbligazioni” (Cassazione civile sez. VI, 15/02/2019, n.4659).  Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

02/01/2022 10:28
Tappo di spumante in un occhio: brindisi di Natale finisce male. È reato?

Tappo di spumante in un occhio: brindisi di Natale finisce male. È reato?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato diversi argomenti a carattere natalizio e, data la diffusa atmosfera di festa, nonché la singolare curiosità espressa dai molteplici lettori per circostanze che riguardano direttamente e indirettamente la festività del Natale, abbiamo scelto di riportare le seguenti situazioni. - Di seguito la risposta alla domanda di un lettore di Civitanova che chiede: “Se durante il cenone della vigilia, nello stappare lo spumante colpisco con il tappo uno dei presenti, in quali responsabilità posso incorrere?” Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tematica sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, il riferimento a quanto accaduto al titolare di un ristorante che, preso dall’euforia dei festeggiamenti, finiva per ferire all’occhio una cliente che sedeva poco distante, con il tappo dello spumante appena aperto. La Suprema Corte pronunciatasi sulla vicenda, ravvisava nella condotta dell’euforico ristoratore, il reato di lesioni colpose, a causa della mancata adozione delle idonee cautele del caso, condannandolo alla pena prevista dall’art. 590 c.p. che stabilisce testualmente: “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a 309 euro”. (Cass. Pen., Sez. IV, n.32548 del 12.07.2016). Ebbene sì, anche un gesto festoso può finire per “conciarci per le feste”. -In risposta alla domanda di un lettore di Porto Recanati che chiede: “Se a causa di un ritardo del volo prenotato, ci viene impedito di trascorrere le festività con i nostri cari, può essere richiesto il risarcimento del danno subito?” Riportiamo la sentenza del Giudice di Pace di Cagliari (n. 571/2012) che, pronunciatosi su un caso molto simile, aveva condannato la compagnia aerea a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali ad un passeggero che era stato costretto a trascorrere la vigilia di Natale in aeroporto, consumando il “cenone” in solitaria con del cibo acquistato presso un bar poco distante dal gate. L'uomo difatti, oltre al risarcimento per il danno esistenziale subito, era stato ristorato anche dei danni patrimoniali comprese le spese per comprare i due "tristi" panini del “cenone natalizio”!  -In risposta alla domanda posta da un lettore di Muccia che chiede: “Essere un giocatore di carte, soprattutto nel periodo natalizio, può comportare ripercussioni in sede di separazione?” Riportiamo la decisione assunta dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.5395/2014, che, chiamata a pronunciarsi in merito ad un caso di separazione giudiziale dei coniugi, aveva stabilito l’addebito della separazione in capo al marito, il quale era solito spendere molto denaro nel gioco e che, solo nel periodo natalizio, aveva sperperato oltre € 1.000 giocando a carte.  La Suprema Corte aveva infatti chiarito che “anche il gioco d'azzardo, ripetuto ed eccessivo, viola in modo grave gli obblighi matrimoniali sino a rendere la convivenza intollerabile e a far scaturire separazione e consequenziale addebito.” Difatti, il discutibile vizio che impegnava il marito della coppia per diverse ore al giorno, assentandosi quasi totalmente nel periodo natalizio oltre a rappresentare una cattiva abitudine, lo portava a stare spesso, e senza alcun giustificato motivo, fuori casa, non ottemperando ai propri doveri di marito e padre, per di più sottraendo grosse somme di denaro alla cura e al sostentamento della propria famiglia. Pertanto, senza negare il piacere che può derivare dal giocare a carte con amici o in famiglia, specie durante il periodo natalizio, si consiglia di non esagerare! - In risposta alla domanda di un lettore di Corridonia che chiede: “E’ penalmente sanzionabile un soggetto che invia infausti auguri di Natale?" Riportiamo la pronuncia del Tribunale di Bari, che con sentenza depositata il 25 febbraio 2015, ha condannato per estorsione un uomo che si era rivolto più volte alla sua vittima minacciandola ripetutamente del fatto che, se non gli avesse dato i soldi richiesti, la madre avrebbe passato “un brutto Natale”. Difatti l’art. 629 c.p. punendo “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno” intende scongiurare che la prospettazione di un evento dannoso per l'incolumità fisica della vittima o di una persona ad essa molto vicina, spingano la stessa a gesti disperati o comunque non voluti. Il Tribunale adito, specificava inoltre che “In tema di estorsione, la violenza o la minaccia può essere manifestata in modi e forme differenti, purché venga a crearsi la condizione di costrizione psichica della vittima volta, ad ottenere un profitto ingiusto per sé o per altri, con danno altrui.” Nel rimanere in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, colgo l’occasione per porgerVi i miei migliori auguri di Buone Feste, dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

26/12/2021 11:00
Assegno di mantenimento ai figli maggiorenni: quando finisce l'obbligo del genitore?

Assegno di mantenimento ai figli maggiorenni: quando finisce l'obbligo del genitore?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa all’obbligo del mantenimento del genitore, anche separato o divorziato, nei riguardi dei propri figli maggiorenni. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Fino a quando il genitore è tenuto al mantenimento dei propri figli maggiorenni?” Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente delicata e molto attuale, nella quale la Cassazione, pur mantenendo una posizione prudente sulla facoltà per i genitori, anche separati o divorziati, di cessare il mantenimento dei propri figli maggiorenni quali disoccupati cronici, studenti svogliati o attempati "teenager", la stessa è sempre più orientata a porre un freno, quasi in funzione di educatrice sociale, a responsabilizzare proprio quella prole che non vuole andare via da casa e rimanere sotto lo stesso tetto tra le cure amorevoli e la "paghetta"/mantenimento di mamma e papà.  È vero, infatti, che l'obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli, ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c., non cessa con il raggiungimento della maggiore età, ma permane fino al raggiungimento di una indipendenza economica tale da essere in grado di provvedere autonomamente alle proprie esigenze di vita, ma tale obbligo non è infinito: l'obbligo continua a vigere, afferma la Cassazione, solo se il figlio "incolpevolmente" non raggiunge l'indipendenza economica (Cass. n. 23590/2010). Se, dunque, la precarietà del mondo del lavoro accentuata dalla crisi, rende difficile la possibilità di trovare un impiego idoneo, “ per i figli che tengono un comportamento di inerzia e rifiuto ingiustificato di occasioni di lavoro e quindi di disinteresse nella ricerca di indipendenza economica”, la Suprema Corte ha ritenuto, senza ma e senza se, configurabile l'esonero dalla corresponsione dell'assegno richiesto da parte del genitore obbligato (Cass. n. 7970/2013; n. 4765/2002; n. 1830/2011). Così, ad esempio, la Cassazione ha detto di no al mantenimento “della figlia trentaseienne laureata in architettura che aveva rifiutato l'offerta di lavoro del padre, occupato nel settore dell'edilizia, poiché in grado di attendere ad occupazioni lucrative, ingiustamente, invece, da lei rifiutate"  (Cass. n. 610/2012); allo stesso modo, ha escluso il diritto al mantenimento “del figlio ventottenne che aveva iniziato ad espletare attività lavorativa saltuaria ed era iscritto all'università da più di otto anni” (Cass. n. 1585/2014); così come “al figlio ultratrentenne senza lavoro ma in possesso di un patrimonio tale da garantirgli l'autosufficienza economica (Cass. n. 27377/2013). Infine, “quando i figli raggiungono una certa età, non hanno speso il titolo professionale conseguito e non riescono a rendersi indipendenti economicamente, non possono continuare a contare sul mantenimento dei genitori; gli stessi devono attivarsi nella ricerca di un'occupazione stabile e, se non ci riescono, devono fare affidamento, piuttosto, su aiuti sociali specifici” (Cass. Civ., Ordinanza n. 38366/2021). Pertanto in risposta alla domanda del nostro lettore ed in linea con la più autorevole giurisprudenza di legittimità, si può affermare che l’obbligo al mantenimento da parte del genitore dei figli maggiorenni, da un lato continua a vigere solo se il figlio "incolpevolmente" non raggiunge l'indipendenza economica (Cass. n. 23590/2010), dall’altro lo stesso viene meno per i figli che tengono un comportamento di inerzia e rifiuto ingiustificato di occasioni di lavoro e quindi di disinteresse nella ricerca di una propria autonomia finanziaria (Cass. n. 7970/2013; n. 4765/2002; n. 1830/2011), oltre al fatto che comunque devono fare affidamento su aiuti sociali specifici (Cass. Ordinanza n. 38366/2021). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

12/12/2021 10:00
Colpi "proibiti" nel calcio: normali falli di gioco o responsabilità penale?

Colpi "proibiti" nel calcio: normali falli di gioco o responsabilità penale?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le possibili responsabilità di un atleta nella pratica dello sport e nello specifico nel gioco del calcio. Ecco l’analisi dell’avvocato Oberdan Pantana: "Con grande piacere mi accingo ad affrontare il seguente argomento sollecitato dalle mail dei lettori e nel farlo utilizzerò dei casi pratici che spesso e volentieri avvengono durante una competizione calcistica. Ultimissimi minuti del match. Risultato – importantissimo – ancora in bilico. Contropiede fulmineo della squadra ospite. L’attaccante, palla al piede, si dirige verso l’area avversaria, quando irrompe il difensore che, pur volendo colpire la sfera, centra in pieno la gamba sinistra del ‘numero 9’; grave infortunio per l’attaccante: frattura della tibia. In primo ed in secondo grado, viene confermata la condanna per il difensore locale per il reato di lesioni colpose di cui all’art. 590 del codice penale; in Cassazione, invece, viene assolto con formula piena, per l’assenza di tale tipologia di responsabilità. Smentita la visione tracciata dai giudici del Tribunale prima e da quelli della Corte d’appello poi: decisiva l’applicazione del cosiddetto “rischio consentito”, con riferimento ad «eventi lesivi causati nel corso di incontri sportivi». Nessun dubbio sulla dinamica del rilevante scontro di gioco, verificatosi durante la partita; evidente, infatti, la condotta scorretta del difensore della squadra di casa, evento, però, frutto di un eccessivo «agonismo» e di un errore nel calcolo della «tempistica dell’intervento di gioco»: egli, infatti, ha mirato «il pallone», ma ha «finito per colpire la gamba dell’attaccante, che, in anticipo, già aveva allungato la sfera in avanti. Rilevante il contesto: «l’infortunio maturò in un frangente particolarmente intenso», cioè «gli ultimi minuti dell’incontro», e durante «una azione di gioco decisiva» per un match «rilevante per il campionato». Significativo anche il fatto che l’azione del difensore, pur in trance agonistica, «era manifestamente indirizzata a interrompere l’azione di contropiede, mediante il tentativo di impossessarsi regolarmente del pallone», sottraendolo all’attaccante. Tutto ciò, spiegano correttamente i magistrati della Cassazione, consente di ritenere meritevole di censura il gesto compiuto dal difensore, però solo nell’ambito dell’«ordinamento sportivo». Va esclusa, quindi, la «antigiuridicità» a livello penale del «fallo» compiuto sul campo da calcio. Evidente la colpa del difensore, sanzionabile, però, solo in ambito sportivo, non certo in quello penale (Cassazione, sentenza n. 9559/2016, Sezione Quarta Penale). Così come il caso “derby infuocato”: il difensore colpisce l’avversario con un pugno con l’azione di gioco distante. In tal caso la Suprema Corte ha giustamente confermato la sentenza di condanna dell’imputato/difensore locale, “trattandosi di un’aggressione fisica intenzionale, per ragioni avulse dalla dinamica sportiva”. Il Collegio di legittimità, ritenendo corretta la valutazione svolta dalla Corte territoriale, afferma che «in tema di competizioni sportive, non è applicabile la scriminante atipica del rischio consentito, qualora nel corso di un incontro di calcio, l’imputato colpisca l’avversario con un pugno al di fuori di un’azione ordinaria di gioco, trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva». Nella disciplina calcistica, infatti, «l’azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone ovvero di movimenti, anche senza palla, funzionali alle più efficaci strategie tattiche, circostanze non presenti in quanto accaduto». Tale circostanza, al fine di spiegare ancor meglio il limite della scriminante dell’attività sportiva del “rischio consentito” nell’ambito di una partita di calcio, si va a ricollegare ad un ulteriore fatto accaduto in campo, soffermandoci però prima all’indimenticabile finale mondiale di Berlino vinta dalla nostra nazionale. Il colpo di testa è un protagonista obbligatorio di ogni partita di calcio che si rispetti, giocata, questa, spesso vincente, è in grado di sorprendere, se ben eseguita, anche il più “felino” dei portieri. Diversa dal colpo di testa è, invece, la testata vera e propria, anche questa, purtroppo, presente in alcune partite di calcio; tutti noi ricorderemo Materazzi mentre stramazza al suolo come un birillo, colpito dalla craniata infertagli da Zidane: si era alla finale dei Mondiali del 2006 e tutta l'Italia – di lì a poco – sarebbe scesa in strada ad esultare per la quarta stelletta conquistata. Fatta questa premessa “storica” che non ha avuto alcuna evoluzione giudiziaria, pur possibile, la stessa però si va a ricollegare ad un caso simile, che si è svolto in un contesto molto più modesto dell’”Olympiastadion di Berlino”, che invece è terminata nelle aule dei Tribunali. Durante un incontro di calcio, poco prima del fischio finale, un giocatore si accascia al suolo, tramortito: ha appena ricevuto una testata sul naso da un avversario a gioco fermo. Il malcapitato calciatore, col setto nasale fratturato, vola in ambulanza verso l'ospedale più vicino: di lì a poco sporgerà querela. Il procedimento penale, deciso nelle forme del rito abbreviato condizionato, si conclude con una sentenza di condanna. Tutti gli eventi riportati, ci consentono di chiarire meglio l’antigiuridicità durante una partita di calcio, facendo riferimento alle scriminanti “atipiche”. Il catalogo piuttosto ristretto delle scriminanti “codificate” non fa espressa menzione dell'esimente sportiva, che appartiene – per dottrina e giurisprudenza ormai ben consolidate – al novero delle esimenti non espressamente contemplate nel codice, ma di fatto esistenti. Queste ultime sono figlie dell'evoluzione naturale del diritto penale, che, nel suo adeguarsi alla realtà sociale in cui si applica, deve necessariamente calibrare la risposta punitiva alle infinite, lecite, ma talvolta rischiose, forme in cui può esprimersi la condotta umana. Lo sport è una di esse: chi lo pratica – non importa se professionalmente o per diletto - mette in conto di poter subire anche conseguenze pregiudizievoli per la propria integrità fisica: il rischio che ogni sportivo accetta è, appunto, un rischio consentito. Qual è, a questo punto, il limite che non deve essere oltrepassato per sconfinare nell'illecito penale? Il consenso che – tacitamente – si esprime prendendo parte ad una competizione sportiva, implica, come già detto, l'accettazione di un rischio, più o meno calcolato. Questo calcolo si basa, evidentemente, anche sull'affidamento che tutti i partecipanti alla competizione conoscano e si conformino alle regole della disciplina sportiva praticata. Secondo la giurisprudenza, che dimostra di non ignorare la “realtà naturale” dell'agonismo, l'involontario travalicamento delle regole di gioco non è sufficiente per aprire le porte alla responsabilità penale nel caso in cui dovessero verificarsi conseguenze lesive per alcuno degli atleti. Il discorso cambia del tutto nell'ipotesi in cui l'incontro sportivo diventi un pretesto per dare sfogo a gesti gratuitamente violenti, o che comunque non sono giustificabili con il gesto atletico richiesto dal gioco del calcio; circostanza questa che ogni vero sportivo dovrebbe evitare oltreché condannare. Il gioco del calcio e lo sport in generale ha bisogno di veri sportivi! Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana                                                                                                                       

28/11/2021 10:40
Mamma social può essere condannata a rimuovere i Tik Tok con la figlia?

Mamma social può essere condannata a rimuovere i Tik Tok con la figlia?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa all’uso dei social nei rapporti familiari. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Porto Recanati che chiede: “Posso chiedere la rimozione dai social della mia ex moglie di foto e video di mia figlia minorenne?” Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente sensibile, su cui ha avuto modo recentemente di pronunciarsi il Tribunale di Trani, con ordinanza del 30.8.2021, affrontando un argomento di sicuro dibattimento negli anni a venire: la tutela dei minori nella pubblicazione, da parte dei genitori, di foto o video sui social network. La mamma in questione, a partire da maggio 2020, postava su Tik Tok video di lei con la figlia minorenne. A quel punto il padre, nel dirsi non d'accordo, invocava la tutela giurisdizionale. A detta del Tribunale di Trani il comportamento della mamma integra la violazione di più norme, nazionali, comunitarie ed internazionali. Nello specifico il Tribunale ravvede, nella condotta della mamma, la violazione dell'art. 10 nel nostro codice civile (concernente la tutela dell'immagine) e degli artt. 1 e 16 I co. della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo. In particolare, ricordano i giudici pugliesi, l'art. 16 della Convenzione di New York stabilisce che nessun fanciullo può essere oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione e che spetta alla legge la tutela dello stesso contro eventuali violazioni dei suoi diritti. Non solo, stando al Codice della Privacy art. 4, le foto o video devono essere considerati come dati personali, di conseguenza, in caso di minori di sedici anni, perchè le stesse vengano divulgate, v'è bisogno del consenso di entrambi i genitori. Nel caso in questione il padre ha manifestato il suo dissenso a nulla rilevando la circostanza invocata dalla madre secondo la quale lo stesso avesse accesso al suo profilo su Tik Tok. Per il Tribunale di Trani infatti "la possibilità di visionare un profilo social non equivale ad accettazione della pubblicazione di video e foto ritraenti la figlia minore. La proposizione del ricorso cautelare, seppur a distanza di qualche mese dalla pubblicazione, è espressione del dissenso e del mancato consenso, del genitore".  Conclude il Tribunale di Trani sul solco della sentenza del Tribunale di Mantova del 2017 che "l'inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l'ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati." Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore, si può affermare che: “Siccome il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network e tenuto conto del mancato assenso del genitore si accoglie il ricorso ordinando di conseguenza la rimozione immediata dei video della figlia da Tik Tok” (Tribunale di Trani, Ordinanza del 30.08.2021) Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

07/11/2021 10:00
Coppia di fatto: quali diritti? La coabitazione non è più elemento imprescindibile

Coppia di fatto: quali diritti? La coabitazione non è più elemento imprescindibile

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti affettivi interpersonali e nello specifico i diritti e doveri tra i conviventi di fatto. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di San Severino Marche che chiede: “Quali sono i diritti e doveri tra i due partner nascenti dalla convivenza di fatto?" La famiglia legittima, che trae origine da un atto formale (il matrimonio) con cui marito e moglie si obbligano ad una reciproca assistenza materiale e morale, si distingue dalla cosiddetta famiglia di fatto, in cui tali doveri sorgono spontaneamente per effetto della condotta di vita dei due partner; si tratta di una situazione di fatto che trova copertura costituzionale grazie all’art. 2 Cost., che tutela le cosiddette formazioni sociali, ove ciascun individuo esplica la propria personalità. La nozione di convivenza di fatto, che nel corso degli anni è stata oggetto sia di elaborazione giurisprudenziale che di interventi normativi discontinui, consiste nella relazione stabile tra due persone caratterizzata da un elemento soggettivo, l’affetto, e da un elemento oggettivo, la reciproca e spontanea assunzione di diritti ed obblighi. A questa definizione, nel 2016, ha fatto seguito la nozione legale di convivenza di fatto con la legge n. 76/2016 (c.d. legge Cirinnà), con la quale è stata introdotta una disciplina organica della convivenza more uxorio: all’art.1, comma 36, ha definito i conviventi di fatto come due persone maggiorenni che, sebbene non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile, siano unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale; la circostanza che nessuno dei conviventi di fatto possa essere sposato comporta che non è possibile considerare convivenza di fatto quella in cui uno dei soggetti coinvolti sia solo separato e non divorziato dal precedente partner. Nonostante la legge Cirinnà, al comma 37 dell’unico articolo di cui è composta, richieda la dichiarazione anagrafica per l’accertamento della stabile convivenza, la giurisprudenza ritiene che ciò che conta sia il fatto materiale della convivenza, che può essere accertato in altro modo, anche in assenza di tale dichiarazione; pertanto, la legge n. 76/2016 si applica anche alle coppie che abbiano volontariamente omesso di procedere alla registrazione anagrafica. Gli indicatori che rilevano ai fini dell’accertamento di un rapporto di convivenza sono plurimi; si pensi, per esempio, alla ricorrenza di un progetto di vita comune, alla prestazione di reciproca assistenza, alla compartecipazione di ciascuno dei conviventi alle spese comuni, all’esistenza di un conto corrente comune e, infine, alla coabitazione. In merito a quest’ultimo indicatore, la Corte di Cassazione si è espressa con l’ordinanza n. 9178/2018 chiarendo che la coabitazione, indice che finora era stato considerato rilevante per l’esistenza di una famiglia di fatto, non è più un elemento imprescindibile, essendo diventato un indice meramente recessivo a fronte del mutato assetto della nostra società; la Suprema Corte, nella citata ordinanza, tra i fattori complici del suddetto mutamento annovera la crisi economica, la sempre maggiore facilità dei contatti telefonici e l’economicità dei trasporti. La scelta del luogo di abitazione, infatti, spiega la Corte, non può essere sempre conforme alle scelte affettive delle persone, ma può essere necessitata dalle circostanze economiche; così come la ricerca di un lavoro può portare l’individuo a spostarsi in un luogo diverso da quello in cui risiede il proprio centro affettivo e a trascorrervi gran parte della settimana o del mese: non per questo si può dire che venga meno la famiglia. Nonostante debba escludersi un’applicazione per analogia delle norme dettate specificamente per la famiglia legittima, al convivente more uxorio, in alcuni casi, sono riconosciuti i medesimi diritti che spettano a chi possiede lo status di coniuge. Innanzitutto, al comma 38 della legge Cirinnà è prevista l’equiparazione del convivente al coniuge nei casi stabiliti dall’ordinamento penitenziario, tra i quali assume un certo rilievo il diritto di visita; i detenuti, infatti, hanno il diritto di avere dei colloqui con i familiari, per tali intendendosi non solo il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado, ma anche il convivente, indipendentemente dal sesso. Oltre a ciò, in caso di malattia o ricovero di uno dei conviventi, il comma 39 della legge citata prevede che il partner abbia il diritto di visita e possa accedere alle informazioni personali riguardanti il convivente, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere previste per i coniugi e gli altri familiari. Il convivente, inoltre, ai sensi del comma 48 della legge Cirinnà, può essere nominato amministratore di sostegno del partner infermo oppure suo curatore o tutore qualora quest’ultimo venga dichiarato inabilitato o interdetto. II comma 65 della legge n. 76/2016, infine, prevede che in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisca il diritto del convivente di ricevere gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento; gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e in rapporto alle possibilità dell’alimentante. Si tratta di un diritto ad una prestazione di tipo strettamente alimentare, che si differenzia sia dall’assegno di mantenimento a favore del coniuge separato sia dall’assegno divorzile. Da ultimo, ai sensi dell’art. 199, comma 3, lett. a), c.p.p., il convivente dell’imputato in un processo penale ha il diritto di astenersi dal testimoniare. Per quanto riguarda, invece, ai diritti del convivente superstite, il comma 42 della legge n. 76/2016, prevede che in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente superstite abbia il diritto di abitarvi ancora per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore ai due anni, e comunque non oltre i cinque anni; tale diritto viene meno qualora il convivente superstite contragga matrimonio o si unisca civilmente ad altra persona ovvero in caso di nuova convivenza di fatto. Il comma 44, inoltre, prevede il diritto del convivente a subentrare nel contratto di locazione della casa di comune residenza intestato all’altro convivente, in caso di morte di quest’ultimo. È altresì prevista la risarcibilità del danno da perdita del convivente derivante dal fatto illecito di un terzo; invero, il comma 49 della legge Cirinnà prevede che nell’individuazione del danno risarcibile vengano applicati i medesimi criteri individuati per il risarcimento del coniuge superstite. Al convivente spetta, dunque, in concorso con i familiari della vittima, il risarcimento del danno patrimoniale, commisurato ai contributi per il mantenimento dovuti o fondatamente attesi per il futuro e venuti a mancare in seguito all’uccisione, oltre che il risarcimento del danno non patrimoniale, consistente nel dolore derivante dalla perdita del partner. Infine, in materia di successione per causa di morte, il convivente more uxorio del defunto non è contemplato tra gli eredi legittimi, ossia tra coloro che possono succedere ex lege qualora il de cuius non abbia redatto il testamento; la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 310/1989 ha negato l’illegittimità di tale esclusione e con la legge 76/2016 la situazione non è mutata, infatti tuttora non sono previsti diritti successori ex lege a favore del convivente. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                                             

10/10/2021 10:00
Infortunio sul lavoro del dipendente: quando l'azienda è responsabile?

Infortunio sul lavoro del dipendente: quando l'azienda è responsabile?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dal legale Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante l’infortunio sul lavoro del dipendente e la responsabilità di tale evento. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Mogliano che chiede: “In caso di infortunio sul lavoro del dipendente quando l’azienda risulta responsabile? Bisogna innanzitutto far chiarezza sul fatto che, la vittima di un infortunio sul lavoro risulta esclusivamente responsabile solamente in una circostanza, ovvero, quando abbia tenuto un “contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute” (così, tra le altre, Cass. Civ. Sentenza n. 19494 del 10/09/2009), secondo il principio che il datore di lavoro risponde dei rischi professionali propri (vale a dire insiti nello svolgimento dell’attività lavorativa) e di quelli impropri (cioè derivanti da attività connesse a quella lavorativa), ma non di quelli totalmente scollegati dalla prestazione che il lavoratore rende in quanto tale (cd. rischio elettivo). Perché sussista il rischio elettivo, dunque, occorrono tre elementi concorrenti: 1) un atto del lavoratore volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; 2) la direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; 3) la mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa. Difatti, la norma di riferimento è evidentemente l’art. 1227, comma 1, del codice civile, secondo la quale, “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate”, che peraltro va bilanciata, in ambito giuslavoristico, con il potere di direzione e controllo del datore di lavoro, unitamente al dovere di salvaguardare l’incolumità dei lavoratori. Conseguentemente, anche in ipotesi di condotta imprudente del lavoratore va escluso il concorso di colpa a carico dello stesso in tre ipotesi: a) se l’infortunio sia stato causato dalla puntuale esecuzione degli ordini ricevuti dal datore di lavoro (in questo caso l’imprudenza del lavoratore degrada a mera “occasione” dell’infortunio); b) se l’infortunio sia avvenuto a causa della organizzazione stessa del ciclo lavorativo, impostata con modalità contrarie alle norme finalizzate alla prevenzione degli infortuni, o comunque contraria ad elementari regole di prudenza; c) se l’infortunio sia avvenuto a causa di una carenza di formazione od informazione del lavoratore, ascrivibile al datore di lavoro. Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore si può affermare che, “Nel caso di infortunio sul lavoro, è responsabile l’azienda, tanto da escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell’art 1227, comma 1, c.c., quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza; oppure abbia egli stesso impartito l’ordine, nell’esecuzione puntuale del quale si sia verificato l’infortunio; o ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi, ricorrendo, in tali ipotesi, l’eventuale condotta imprudente della vittima degradata a mera occasione dell’infortunio, ed è perciò giuridicamente irrilevante (Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 8988/20).   Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                 

26/09/2021 09:56
Consumi anomali in bolletta non segnalati al cliente: azienda condannata al risarcimento danni

Consumi anomali in bolletta non segnalati al cliente: azienda condannata al risarcimento danni

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le contestazioni sull’eccessiva entità dei consumi fatturati dai relativi fornitori ai singoli utenti. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Bolognola che chiede: “E’ possibile chiedere un risarcimento danni su una bolletta dai consumi eccessivi per omessa segnalazione di consumi anomali?” Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tipologia di contestazione sempre più frequente da parte degli utenti. A tal proposito ci è utile analizzare una vicenda giudiziaria che all’origine ha avuto una fattura eccessiva recapitata ad un utente che si è trovato a dover pagare una cifra enorme per un anomalo consumo di acqua potabile. Pronta la reazione dell’utente che cita in giudizio la società esercente il locale servizio idrico e chiede “il risarcimento dei danni subiti”, ponendo in evidenza l’inadempimento dell’azienda, ossia la mancata segnalazione di “consumi anomali”, frutto, peraltro, di “una perdita occulta nell’impianto”. La posizione assunta dall’utente è legittima, secondo i Giudici di merito; così, prima il Giudice di Pace e poi il Tribunale condannano la società a pagare al cliente ben 3mila e 312 euro. Nel contesto della Cassazione la società contesta la visione tracciata in appello; a suo parere, difatti, non è ravvisabile alcun obbligo a carico dell’azienda, alla luce del contratto di somministrazione di acqua potabile, con riguardo all’ipotesi di “una perdita occulta nell’impianto idrico del cliente” con conseguenti “rilevanti consumi anomali”. Questa obiezione non convince i magistrati di terzo grado, i quali mostrano di condividere in pieno, invece, la chiave di lettura fornita dal Tribunale. Più precisamente, preso atto degli “obblighi di correttezza e buonafede gravanti sulle parti del contratto di somministrazione idrica”, “il semplice invio di una fattura commerciale relativa ai consumi anomali registrati, a distanza di oltre due mesi dalla loro rilevazione e senza alcuna espressa segnalazione del loro carattere anomalo”, come avvenuto in questa vicenda, “non consente di ritenere correttamente adempiuto l’obbligo comunicativo previsto per l’azienda fornitrice” in materia di “ricostruzione dei consumi a seguito di perde occulte”, poiché la società deve fare ricorso a “modalità idonee a consentire al cliente di avere pronta contezza dell’anomalia nel consumo, in modo da potersi tempestivamente attivare per evitare l’aggravarsi del danno provocato dalla eventuale perdita occulta”. A fronte di questo quadro, poi, “l’adempimento o meno del cliente al suo onere di verificare il regolare funzionamento dell’impianto e del contatore, nonché di effettuare la cosiddetta autolettura” non basta ad escludere “l’inadempimento dell’azienda al proprio (distinto) obbligo di segnalazione dei consumi anomali. Di conseguenza, è sacrosanto il diritto dell’utente ad ottenere dall’azienda il risarcimento del danno subito”. Per tali ragioni, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “Non discutibile la responsabilità della società che gestisce il servizio idrico e ha fatto recapitare al cliente una fattura eccessiva senza però segnalare gli anomali consumi registrati frutto di una perdita occulta nell’impianto tanto da condannarla al relativo risarcimento”(Cass. Civ., Sez. III, Ordinanza n. 24904/21). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                              

19/09/2021 15:41
Divorzio congiunto: è possibile il trasferimento di proprietà immobiliari tra gli ex coniugi?

Divorzio congiunto: è possibile il trasferimento di proprietà immobiliari tra gli ex coniugi?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente vicende riferite alle separazioni o divorzi e nello specifico alla valenza di patti che traferiscono la proprietà degli immobili in capo ad uno dei due ex coniugi o figli. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata, che chiede: “In caso di divorzio congiunto sono valide le pattuizioni in merito al trasferimento della proprietà dell’immobile in capo ad uno dei due ex coniugi?  Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto controversa e dibattuta nelle aule dei Tribunali, risolta finalmente dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, accogliendo il ricorso di una coppia che aveva richiesto procedersi a divorzio congiunto prevedendo, tra le altre condizioni dell'accordo, il trasferimento definitivo a favore dei figli della coppia, maggiorenni economicamente non autosufficienti, della quota del 50% della nuda proprietà spettante al padre sull'immobile adibito a casa coniugale, nonché il trasferimento, da parte del marito alla moglie, dell'usufrutto sulla propria quota dell'immobile, in quanto, il Tribunale prima e la Corte d'Appello poi ritenevano, tuttavia, che i trasferimenti dei diritti reali previsti nelle condizioni di divorzio fossero invece da intendersi come impegni preliminari di vendita e acquisto e non come trasferimenti immobiliari definitivi con effetto traslativo immediato; da qui il ricorso in Cassazione a cui segue la rimessione alle Sezioni Unite, trattandosi di questione di massima di particolare importanza anche in virtù del rilevato constato tra le pronunce giurisprudenziali. A tal proposito, la Corte spiega che la natura negoziale degli accordi dei coniugi, equiparabili a pattuizioni atipiche ex art. 1322, secondo comma, c.c., come affermata dalla giurisprudenza di legittimità, comporta dunque che nessun sindacato potrà esercitare il giudice del divorzio sulle pattuizioni stipulate delle parti. Al giudice, infatti, sul piano generale non è consentito sindacare qualsiasi accordo di natura contrattualmente privato che corrisponda ad una fattispecie tipica libere essendo le parti di determinarne il contenuto (ex art. 1322, primo comma, c.c.), fermo esclusivamente il rispetto dei limiti imposti dalla legge a presidio della liceità delle contrattazioni private; nel caso di specie, l'impostazione seguita dalla Corte d'Appello si è dunque "tradotta in concreto in un limite ingiustificato all'esplicazione dell'autonomia privata" e si è concretata "in una sorta di peculiare, quanto inammissibile, conversione dell'atto di autonomia che da trasferimento definitivo e stato trasformato d'ufficio dal giudice in un mero obbligo di trasferimento immobiliare". La sentenza rammenta anche come l'art. 29 della Legge n. 52/1985 preveda la nullità degli atti di trasferimento di diritti reali su fabbricati esistenti in caso di mancanza dell'identificazione catastale, nonché del riferimento alle planimetrie depositato in catasto e della dichiarazione, resa in atto dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie. Tuttavia, tale nullità "testuale" non appare ancorabile al soggetto che compie tale accertamento, potendo notificarsi anche qualora l'atto sia rogato da un notaio o le parti private nella scrittura privata autenticata. Ne discende che l'accordo traslativo adottato in sede di divorzio (principio, mutatis mutandis, ritenuto applicabile anche alla separazione consensuale) dovrà contenere a pena di nullità le indicazioni richieste dall'art. 29, comma 1-bis, della Legge menzionata. Infine, sempre per le Sezioni Unite, il verbale dell'udienza di comparizione dei coniugi redatto dal cancelliere ai sensi dell'art. 126 c.p.c. realizza, da un lato, l'esigenza della forma scritta dei trasferimenti immobiliari, richiesta dall'art. 1350 c.c., e dall'altro riveste natura di atto pubblico avente fede privilegiata, fino a querela di falso, sia della provenienza dal cancelliere che lo redige e degli atti da questi compiuti, sia dei fatti che egli attesta essere avvenuti in sua presenza. Per tali motivi, in risposta alla domanda della nostra lettrice, risulta corretto affermare che, “Nel divorzio a domanda congiunta e nella separazione consensuale è consentito ai coniugi inserire clausole che riconoscono, a uno o a entrambi, la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, o altri diritti reali, o anche che ne operino il trasferimento a favore di uno di essi, o dei figli, al fine di assicurarne il mantenimento. L'accordo omologato ha la forma di atto pubblico. Tale accordo di divorzio o di separazione, poiché inserito nel verbale d'udienza, redatto da un ausiliario del giudice , assume forma di atto pubblico” (Cassazione Sezioni Unite Civili sentenza n. 21761/2021). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

05/09/2021 11:01
Green Pass falsi: a quali reati si va incontro e cosa si rischia?

Green Pass falsi: a quali reati si va incontro e cosa si rischia?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al “Green Pass” e specificamente al suo utilizzo in caso di sua falsificazione per assenza dei requisiti richiesti. Ecco l’analisi dell’avvocato Oberdan Pantana. Il Green pass o certificazione verde Covid è un documento che è stato pensato dalle autorità per semplificare la circolazione delle persone all'interno del territorio europeo durante la pandemia da Covid-19. Esso attesta l'avvenuta guarigione dalla malattia, l'avvenuta vaccinazione contro il virus o il risultato negativo del test. Il Green Pass può essere richiesto sia in formato digitale che cartaceo, però non serve solo a circolare liberamente tra i vari Stati dell'Unone Europea; di recente infatti in Italia è stato emanato il decreto n. 105/2021, che all'articolo 3 elenca i casi in cui è richiesto il possesso della certificazione verde. In base a questo articolo, in zona bianca, chi è in possesso della certificazione verde può accedere ai seguenti servizi e attività; - servizi di ristorazione svolti da qualsiasi esercizio per il consumo al tavolo, al chiuso; - spettacoli aperti al pubblico, eventi e competizioni sportive; - musei, altri istituti e luoghi della cultura e mostre; - piscine, centri natatori, palestre, sport di squadra, centri benessere, anche all'interno di strutture ricettive; - sagre e fiere, convegni e congressi; - centri termali, parchi tematici e di divertimento; - centri culturali, centri sociali e ricreativi, limitatamente alle attività al chiuso e con esclusione dei centri educativi per l'infanzia, compresi i centri estivi, e le relative attività di ristorazione; - attività di sale gioco, sale scommesse, sale bingo e casino'; - concorsi pubblici. Non hanno l'obbligo della certificazione verde solo "i soggetti esclusi per età dalla campagna vaccinale e i soggetti esenti sulla base di idonea certificazione medica rilasciata secondo i criteri definiti con circolare del Ministero della salute." Da quanto appena accennato è chiaro che il Green pass, a parte i casi di esonero appena visti, viene rilasciato in presenza di determinate condizioni, che attestano l'adozione da parte del titolare delle accortezze sanitarie necessarie e richieste per scongiurare il contagio. Un dovere civico che molti italiani hanno accettato e adempiuto, ma che per alcuni evidentemente è un onere troppo pesante da sostenere; lo dimostra quanto accaduto nei giorni scorsi. Su Telegram si è infatti realizzato un illecito che ha a che fare proprio con il Green pass. Agli utenti di Telegram è stato recapitato un messaggio in cui si prometteva il rilascio del Green pass da parte di una dottoressa, in cambio dei dati necessari alla compilazione della certificazione verde. Operazione in cambio della quale venivano richieste criptovalute o buoni acquisto per piattaforme online d'importo compreso tra i 150 e i 500 euro. Una vera e propria truffa, punita ai sensi dell'articolo 640 del codice penale, che al comma 1 infatti così dispone: "Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032". La truffa messa in atto per mezzo di Telegram presuppone, come anticipato, la falsificazione della certificazione verde; il tutto in barba alla sicurezza del Green pass garantita dal Governo, che alla Faq: "E' possibile falsificare o manomettere una certificazione verde Covid?" risponde: "No, la Certificazione non è falsificabile e non può essere contraffatta o manomessa. Ogni Certificazione viene prodotta digitalmente con una chiave privata dall'ente che rilascia la Certificazione (in Italia il Ministero della Salute). Le chiavi private assicurano l'autenticità delle Certificazioni, e vengono custodite in sistemi di massima sicurezza. Le corrispondenti chiavi pubbliche vengono poi utilizzate per verificare le Certificazioni attraverso le app di verifica (in Italia VerificaC19)".  Una risposta di cui è lecito dubitare, visto che c'è chi ha già trovato il modo di fare soldi falsificando il Green pass. Il reato di falso del resto non è certo una novità per il nostro ordinamento, che ne contempla di vario tipo. Nel caso di Telegram però la falsificazione messa in atto rientra nello schema dell'art. 482, che punisce colui che con la sua condotta compromette la fiducia dei privati e precisamente, “Se alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 476 (Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), 477 (Falsità material commessa dal pubblico ufficiale in certificate o autorizzazioni amministrative) e 478 (Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in copie autentiche di atti pubblici o privati e in attestati del contenuto di atti) è commesso da un privato, ovvero da un pubblico ufficiale (c.p.357) fuori dell`esercizio delle sue funzioni si applicano rispettivamente le pene stabilite nei detti articoli ridotte di un terzo, circostanze che comportano, pertanto, importanti sanzioni di reclusione". Mentre, riguardo al reato di sostituzione di persona, previsto e sanzionato penalmente dal nostro codice penale all'art. 494, dispone come "chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all'altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno", appare piuttosto evidente che tale reato "potenzialmente" configurabile, dopo la previsione del doppio controllo del Green pass e del documento identificativo, è molto più difficile da realizzare. Vero infatti che il Green pass non contiene la foto, ma la verifica della rispondenza dei dati anagrafici del certificato e della carta d'identità, rappresenta una forma di controllo in grado di scongiurare questo tipo di reato. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.

22/08/2021 10:00
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