Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema condominiale e i relativi rapporti anche economici.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Porto Recanati che chiede: “L’acquirente di un appartamento deve rispondere del mancato pagamento delle spese condominiali precedenti del venditore?"
A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda risolta poi in Cassazione sull'azione di indebito soggettivo proposta dall'acquirente di un immobile sito in un condominio avverso il pagamento delle spese condominiali intimatole dalla venditrice.
In particolare, l'acquirente dell'appartamento sosteneva che i contributi condominiali fossero di spettanza della venditrice, in quanto relativi a voci di spesa antecedenti l'alienazione dell'immobile.
A riguardo, la Suprema Corte ha evidenziato che la responsabilità solidale dell'acquirente per il pagamento dei contribuiti dovuti al Condominio dal venditore è limitata al biennio precedente all'acquisto, trovando applicazione l'articolo 63, comma 2, disp. att. c.c.
Articolo secondo cui il principio dell'ambulatorietà, in base al quale l'acquirente di un'unità immobiliare condominiale può essere chiamato a rispondere dei debiti condominiali del suo dante causa, solidamente con lui, ma non al suo posto, opera solo nei confronti dei rapporti esterni con il condominio, non anche nei rapporti interni tra acquirente e venditore.
In quest'ultimo rapporto, infatti, salvo che non sia diversamente convenuto dalle parti, è operante il principio generale della personalità delle obbligazioni, con la conseguenza che l'acquirente dell'appartamento risponde soltanto delle obbligazioni condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui, acquistandolo, è divenuto condomino e qualora sia chiamato a rispondere delle obbligazioni condominiali sorte in epoca anteriore, in virtù del principio dell'ambulatorietà, ha comunque diritto a rivalersi nei confronti del suo dante causa (Cass. Civ. n. 1956/2000).
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: “La responsabilità solidale dell’acquirente dell’immobile per le spese condominiali pregresse è limitata al biennio precedente l’acquisto e qualora sia chiamato a rispondere delle obbligazioni condominiali di tale periodo, in virtù del principio dell'ambulatorietà, ha comunque diritto a rivalersi nei confronti del suo dante causa” (Cass. Civ., Sez. II, Ordinanza del 09.05.2022, n. 145331). Come sempre rimango in attesa delle vostre mail richieste dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti interpersonali oltre all’istituto della donazione.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: “Nel caso di una donazione immobiliare, il donante può revocare la stessa per ingratitudine del donatario?".
A tal proposito risulta utile portare la recente vicenda, risolta poi in Cassazione, la quale è stata chiamata a pronunciarsi sulla revoca della donazione indiretta di un immobile effettuata dalla madre a favore del figlio (ex art. 801 c.c.)
Dall'istruttoria condotta in appello, infatti, erano emersi comportamenti, posti in essere dal donatario direttamente nei confronti della donante, che confermavano «l'esistenza della manifestazione esterna, continua e durevole di un sentimento di forte opposizione del donatario nei confronti della donante».
A riguardo, la Corte di Cassazione ha evidenziato che l'ingiuria grave richiesta dall'art. 801 c.c. quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale la sua natura di offesa all'onore e al decoro della persona, si caratterizza per la «manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, dovrebbero invece improntarne l'atteggiamento, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatario» (Cass. civ., n. 20722/2018).
Difatti tali comportamenti erano qualificabili, ai fini previsti dall'art. 801 c.c., come una grave ingiuria, trattandosi, in effetti, di "una pluralità di comportamenti strettamente connessi e rivolti verso la persona della domante e tale non poter essere tollerati secondo un sentire ed una valutazione di normalità".
L'ingiuria grave richiesta dall'articolo 801 del codice civile quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatario (Cass. n. 22013 del 2016).
Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore si può affermare che: “La donazione va incontro alla revocabilità in presenza di una ingiuria grave del donatario consistente in un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e nell’irrispettosità della dignità del donante”(Cass. Civ. Sez. II, Ordinanza del 29.04.2022, n. 13544). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante il risarcimento del danno e nello specifico quello a seguito del Covid-19. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Porto Potenza Picena che chiede: “In caso di morte per Covid-19, la compagnia deve risarcire gli eredi legittimi del “de cuius” che aveva stipulato una polizza assicurativa per infortunio/malattia?
A tal proposito risulta utile portare la recente decisione del Tribunale di Torino con la quale veniva affrontata la richiesta risarcitoria proprio degli eredi di un uomo deceduto a causa del Covid-19 che aveva stipulato una polizza per infortunio, i quali avevano agito nei confronti dell’assicurazione, in quanto alla morte dell'assicurato, la Compagnia aveva negato ogni indennizzo, sostenendo che la morte per COVID-19 non fosse riconducile ad infortunio.
Gli eredi (e beneficiari) si sono quindi rivolti al Tribunale Ordinario onde ottenere il riconoscimento del diritto al risarcimento, sulla scorta dell'art. 21 della polizza, secondo cui: «se l'infortunio ha come conseguenza la morte, verificatasi entro due anni dal giorno dell'infortunio stesso (…) la Società corrisponde la somma assicurata ai beneficiari o, in difetto di designazione, agli eredi dell'assicurato in parti uguali».
Il Tribunale ha quindi proceduto a verificare la corretta esecuzione del rapporto sinallagmatico e l'aderenza della fattispecie concreta con la definizione di infortunio offerta dalla Condizioni Generali di Polizza. Quanto al sinallagma il Tribunale ha proceduto con l'analisi dell'art. 1882 c.c., in base al quale l'assicurato è tenuto al regolare pagamento dei premi assicurativi, mentre la compagnia è tenuta a riconoscere l'indennizzo, al ricorrere delle condizioni previste contrattualmente.
Nel caso di specie, risultava pacifico che l'assicurato avesse regolarmente versato i premi (ed i suoi eredi avessero tempestivamente attivato la garanzia), mentre restava da accertare la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento dell'indennizzo, da qui, l'esperimento di consulenza tecnica d'ufficio onde verificare che la morte dell'assicurato fosse – effettivamente – causata dall'infezione COVID-19. Successivamente all'accertamento della corretta esecuzione del contratto assicurativo, il Giudice ha proceduto alla qualificazione dell'infortunio, secondo la definizione contenuta nelle Condizioni Generali di polizza, ossia: «evento riconducibile ad una causa fortuita, violenta ed esterna».
Col supporto del Consulente Tecnico, il Tribunale ha sussunto l'infezione da COVID-19 entro la fattispecie dell'infortunio indennizzabile ai sensi delle condizioni di polizza, con conseguente diritto degli eredi al relativo indennizzo. Più precisamente, secondo il Tribunale, l'infezione rappresenta un fatto scaturito da causa “fortuita”, essendo assolutamente non volontario; peraltro, come ben sottolineato dal giudicante, nel marzo 2020, l'assicurato si è trovato “infetto” senza sapere in modo alcuno di cosa si trattasse e senza neppure avere idea di possibili comportamenti idonei a prevenire l'infezione. In secondo luogo, la causa può considerarsi “violenta” in quanto, come precisato dal Consulente tecnico, il contatto col virus non è dilatato nel tempo ed è quindi paragonabile al più paradigmatico tra gli infortuni, ossia la ferita causata da un mattone che cade in testa; in ogni caso, non v'è dubbio che sia violento stravolgimento della vita di colui che si ritrova, suo malgrado, infetto.
Infine, la causa è sicuramente “esterna”, proprio perché il virus è estraneo al corpo umano e nello stesso si inserisce quale elemento esterno e disturbante. A ciò si aggiunga che, nel corpo dell'assicurato non erano presenti altre infezioni (di nessun genere) e che, risulta provato che la morte sia stata effettivamente causato dall'insufficienza respiratoria tipica dell'infezione pandemica, con quindi evidenza del nesso eziologico tra infezione e decesso. Ma soprattutto, in ragione dell'inedita situazione pandemica, è bene considerare i criteri ermeneutici di cui all'art. 1370 c.c. che, letti alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità, indicano come, nel dubbio, le clausole di polizza che delimitano il rischio assicurato, ove inserite in condizioni generali su modulo predisposto dall'assicuratore, devono essere intese nel senso sfavorevole all'assicuratore medesimo.
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che: “In assenza di specifica esclusione contrattuale le infezioni acute virulente che provengono dall’esterno soddisfano la definizione di infortunio e, pertanto, risultano tecnicamente indennizzabili; così quindi l’infezione da Covid-19, riconducibile alla causa fortuita, violenta ed esterna necessaria alla qualificazione di infortunio secondo le condizioni della polizza di specie, con conseguente diritto al risarcimento dell’assicurato o dei suoi eredi e/o beneficiari”(Tribunale di Torino, Sez. IV, sentenza del 19.01.2022). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante il risarcimento del danno e nello specifico a seguito di un incidente stradale. Ecco la risposta del legale Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di San Severino Marche che chiede: “In caso di morte di un nonno a seguito di sinistro stradale a chi può essere riconosciuto tale risarcimento danni?
La morte di un parente cagionata da un atto illecito altrui può causare un danno non patrimoniale, di cui i congiunti possono chiedere il risarcimento iure proprio; a loro incombe la prova “dell’effettività e della consistenza della relazione parentale”, la cui lesione è fonte di danno.
La Suprema Corte, conformandosi ad altre sue pronunce, ribadisce che a tal fine non è necessario provare la convivenza con il defunto, e che tale requisito non è richiesto neppure quando ad agire è il nipote per la perdita del nonno. Gli Ermellini, infatti, superata oramai una lettura restrittiva dell’art. 29 Cost., affermano che la norma costituzionale non tutela solo la famiglia nucleare, quella cioè incentrata su coniuge, genitori e figli, ma protegge anche rapporti parentali meno stretti; conseguentemente, perché possa ritenersi leso il rapporto parentale di soggetti non appartenenti allo stretto nucleo familiare ed assicurato il risarcimento del danno non patrimoniale da loro patito per la lesione di un interesse costituzionalmente protetto, non è affatto necessario che questi convivessero con il defunto.
La convivenza può essere un elemento di prova a sostegno della consistenza del vincolo affettivo, della profondità del rapporto parentale, ma non una condizione indispensabile perché tale rapporto sia rilevante per il diritto.l riconoscimento del risarcimento per la lesione del rapporto parentale prevede infatti che venga fornita la prova di “rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto”, che costituiscono il presupposto di fatto del danno risarcibile; l’esistenza invece di un legame eccedente l’ordinario rapporto di affetto potrebbe solamene incidere non sull’an bensì sul quantum e quindi sulla liquidazione del danno, così come l’eventuale rapporto di convivenza (Cass. 29332/2017).
Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore si può affermare che: “Per ottenere il risarcimento iure proprio del danno non patrimoniale, il nipote deve fornire la prova di un rapporto di reciproco affetto e solidarietà con il defunto e non di un rapporto eccedente la fisiologica intensità delle relazioni con il nonno o un rapporto di convivenza con lo stesso, che potranno invece rilevare in sede di quantificazione del danno (Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza n. 5258/21; depositata il 25 febbraio 2021). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riferita all’utilizzo dei “social network” e nello specifico la pubblicazione di foto nel proprio profilo Facebook.
Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Corridonia che chiede: “E’ legittimo pubblicare foto altrui sul proprio profilo Facebook senza il consenso dell’interessato?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una pratica oramai quotidianamente utilizzata dai fruitori del social facebook, le cui modalità non sempre risultano del tutto legittime.
A tal proposito deve affermarsi in linea generale che la pubblicazione di una fotografia ritraente una persona umana è subordinata alla manifestazione, esplicita o implicita, del consenso da parte della persona ritratta.
Tale condizione è prevista sia dalle disposizioni normative a tutela del diritto all’immagine (art. 10 c.c. e art. 96 L. n. 633/1941) sia da quelle a tutela del diritto alla riservatezza (art. 6 Regolamento UE 2016/679) poiché l’altrui pubblicazione di una propria immagine fotografica costituisce in ogni caso (e a prescindere dall’applicabilità o meno della normativa di tutela di riferimento) una forma di trattamento di un dato personale.
Difatti, l’art. 96 L. n. 633/1941 esplicitamente vieta l’esposizione di un ritratto senza il consenso della stessa persona, così come l’art. 6 del Regolamento UE dispone la liceità del trattamento solo se l’interessato ha espresso il proprio consenso, ed infine l’art. 10 c.c. prevede che, “qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”.
Per tali ragioni in risposta alla nostra lettrice è corretto affermare che: “La pubblicazione di una foto ritraente una persona è subordinata alla manifestazione, sia essa esplicita o implicita, del consenso da parte della persona ritratta; questo sia per la tutela del diritto all’immagine, sia per la tutela del diritto alla riservatezza, visto che la pubblicazione di una foto altrui costituisce una forma di trattamento di un dato personale. Il trasgressore, pertanto, dovrà immediatamente rimuovere le fotografie illegittime dal proprio profilo facebook, oltreché risarcire la persona ritratta”(Tribunale di Bari, sez. I Civile, ordinanza depositata il 6 novembre 2019).
Nel consigliare di porre attenzione nell’utilizzo dei “social network”, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla responsabilità medica.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: "E’ responsabile il medico del Pronto Soccorso che non approfondisce le condizioni del paziente dimesso che successivamente muore?"
Ci è utile riguardo il caso di specie approfondire una recente vicenda nella quale un medico di pronto soccorso è stato accusato di omicidio colposo per avere, con condotte omissive e per colpa, cagionato la morte di un paziente, verificatasi a causa dell’insorgenza di un arresto cardio-circolo-respiratorio secondario ad una peritonite da perforazione del tratto digestivo.
In particolare all’imputato si addebitava di non aver correttamente valutato lo stato patologico in atto, omettendo una completa e analitica anamnesi del paziente, omettendo di effettuare un idoneo percorso diagnostico del disturbo lombare che aveva dettato l’accesso del paziente in ospedale, limitandosi a un esame superficiale.
Il medico aveva disposto le dimissioni del paziente senza procedere né ad analisi di laboratorio né ad indagini diagnostico-strumentali che avrebbero consentito di far luce sul fenomeno ulceroso in atto, così impedendo un pronto e corretto inquadramento diagnostico, aggravando la prognosi del paziente e ritardandone il necessario intervento chirurgico.
Perché esista un nesso causale con un fatto omissivo, come è noto, è necessario che vi siano due elementi: la condotta deve essere una condizione dell’evento e non devono essere intervenuti fattori eccezionali.
Nel caso di condotte omissive colpose, il primo elemento si rivela nella regola cautelare violata, se l’evento rappresenta la concretizzazione del rischio creato dall’omissione di chi rivesta la posizione di garanzia.
L’evento, dunque, è causalmente riconducibile all’omissione qualora sia la conseguenza certa o altamente probabile del mancato rispetto della regola cautelare violata. Sono soddisfatti i principi di tassatività e di certezza giuridica, tramite il ricorso alle cognizioni scientifiche che consentono di imputare all’uomo un evento che può essere scientificamente considerato conseguenza della sua azione od omissione.
Opera altresì la clausola di equivalenza secondo cui non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo. Per applicare questa clausola è necessario che sia accertato l’obbligo impeditivo e, a seguire, deve essere individuato il soggetto responsabile, il garante.
Nondimeno, i titolari della posizione di garanzia devono essere forniti dei necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi. È però stato precisato che è richiesto al garante di porre in essere non ogni potere impeditivo, ma solo quelli da lui esigibili.
Infatti, non sempre i garanti dispongono di tutti i poteri impeditivi, ma occorre guardare alle situazioni concrete che determinano l’ambito dei poteri impeditivi esigibili da parte del garante e questi poteri possono essere limitati a un mero obbligo di attivarsi.
In altri termini, all’obbligo di impedire un evento deve accompagnarsi l’esistenza di poteri fattuali che consentano all’agente di porre in essere, almeno in parte, meccanismi idonei ad evitare il verificarsi dell’evento.
Ne consegue che l’agente non può rispondere del verificarsi dell’evento se, pur titolare di una posizione di garanzia, non disponga della possibilità di influenzare il corso degli eventi. Al contrario, chi ha tale possibilità non risponde se non ha un obbligo giuridico di intervenire per operare la modifica del decorso degli avvenimenti.
L’obbligo di garanzia del medico di Pronto Soccorso è definito dalle specifiche competenze che sono proprie di quella branca della medicina d’emergenza (o d’urgenza).
Vi rientrano l’esecuzione di alcuni accertamenti clinici, la decisione circa le cure da prestare e l’individuazione delle prestazioni specialistiche eventualmente necessarie, nonché la decisione inerente al ricovero del paziente e alla scelta del reparto reputato più idoneo.
A fronte di una diagnosi differenziale non ancora risolta, il medico deve compiere gli accertamenti diagnostici necessari per accertare quale sia la patologia effettivamente patita e adeguare le cure a queste possibilità.
Pertanto, l’esclusione di ulteriori accertamenti può essere giustificata solo dalla raggiunta certezza che una di queste patologie possa essere esclusa. Fino a quando il dubbio diagnostico non sia stato risolto, invece, il medico non deve accontentarsi del raggiunto convincimento di aver individuato la patologia esistente quando non sia in grado di escludere patologie alternative.
Pertanto, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che, in tema di responsabilità medica, "risponde di omicidio colposo il medico di pronto soccorso che ha cagionato la morte di un paziente per non aver disposto indagini diagnostiche atte ad effettuare la diagnosi differenziale e limitandosi a un esame superficiale; sebbene i poteri impeditivi in capo al medico di medicina d’urgenza siano limitati, incombe su tale figura l’onere di far intervenire altri specialisti, quando non vi sia certezza sulla diagnosi e sulla opportunità delle dimissioni” (Cass. pen., sez. IV, ud. 18 novembre 2021, n. 45602)
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
(Foto di reportorio)
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla convivenza e la sua regolamentazione giuridica. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Porto Recanati che chiede: “I conviventi di fatto possono regolare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune?”
Il contratto di convivenza è un accordo grazie al quale una coppia di conviventi, che non sono uniti in matrimonio e che non formano un'unione civile disciplinano gli aspetti patrimoniali del loro rapporto. I contratti di convivenza, in risposta alla nostra lettrice, sono possibili da quando, il 5 giugno 2016, sono entrate ufficialmente in vigore le nuove regole sulle unioni civili e le convivenze di fatto, introdotte nel nostro ordinamento dalla legge Cirinnà, n. 76/2016.
Il comma 50 della legge menzionata dispone infatti che: "I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza". Un aspetto importante da segnalare riguarda la legge da applicare ai contratti di convivenza.
La legge Cirinnà prevede infatti che agli stessi si applichi la legge nazionale comune dei conviventi, se però i conviventi hanno una diversa nazionalità allora la legge da applicare è quella del luogo in cui la convivenza è localizzata in via prevalente. I contratti di convivenza consentono alle coppie conviventi di disciplinare, come abbiamo visto, gli aspetti patrimoniali del loro rapporto. I diritti che possono vantare i conviventi però non sono legati solo a quanto stabilito da detti contratti, ma dalla disciplina generale prevista per le coppie di fatto. Chi convive gode infatti dei seguenti diritti:
-diritto reciproco di visita del convivente, assistenza e accesso alle informazioni personali in presenza di malattia o ricovero ospedaliero; -permessi lavorativi retribuiti se assiste l'atro convivente; -designazione dell'altro convivente come suo rappresentante per le decisioni che riguardano la salute e la malattia quando compromettono la capacità di intendere e di volere; -diritto di subentro nel contratto di locazione della casa di comune residenza intestato al convivente defunto; -diritto agli alimenti nel caso in cui viene a cessare la convivenza.
Con i contratti di convivenza le parti disciplinano principalmente il regime patrimoniale della coppia, che come quando una coppia si sposa può essere un regime di comunione legale, di comunione convenzionale o di separazione dei beni, anche se i conviventi, come previsto dal comma 4 possono modificare il regime patrimoniale scelto inizialmente in qualunque momento.
L'importante è che anche la modifica, come già detto, rispetti la forma scritta e che a seguire, avvocato e notaio provvedano ad autenticare le firme, a controllare la liceità del contratto e a iscriverlo all'anagrafe. Ci sono però anche altri dati da indicare nell'accordo. Il comma 53 dispone infatti che lo stesso, oltre al regime patrimoniale scelto dalla coppia dei conviventi, debba contenere: -l'indicazione della residenza della coppia; -le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo.
Con i contratti di convivenza inoltre si possono disporre trasferimenti immobiliari. Lo prevede la disposizione contenuta nel comma 60 della legge, la quale sancisce che "Resta in ogni caso fermala competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza."
I contratti di convivenza, in base alla disposizione di cui al comma 51, devono essere redatti per iscritto, con la forma dell'atto pubblico o della scrittura privata, così come le eventuali modifiche successive e la risoluzione. Avvocati e notai hanno un ruolo molto importante in questi contratti.
Essi fanno da garanti dell'accordo di convivenza, perché sia nel momento in cui le parti sottoscrivono l'accordo che quando procedono alla sua modifica o risoluzione, occorre l'assistenza di uno dei due predetti professionisti affinché si proceda all'autentica delle firme. Redatto il contratto di convivenza avvocati e notai hanno l'onere, entro 10 giorni dalla stipula, di trasmettere copia dell'accordo al comune di residenza dei conviventi per procedere alla sua iscrizione nell'anagrafe di residenza degli stessi.
Questa formalità è necessaria per rendere il contratto di convivenza opponibile nei confronti dei terzi. Come detto, il contratto di convivenza va redatto in forma scritta con atto pubblico o scrittura privata: la violazione di tale requisito determina la nullità dell'accordo. Le ipotesi di nullità, tuttavia, non si esauriscono in questa.
Il contratto di convivenza è infatti nullo anche se è concluso da un minore, un interdetto o un soggetto condannato per omicidio (anche tentato) del coniuge dell'altro convivente. La nullità si ha, poi, anche se il contratto è concluso tra non conviventi o in presenza di un altro contratto di convivenza, di un'unione civile o di un vincolo matrimoniale.
I contratti di convivenza si possono per le seguenti ragioni: accordo delle parti, recesso unilaterale, matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona, morte di uno dei contraenti. Nel caso in cui le parti abbiano optato per il regime della comunione legale, la risoluzione ne determina lo scioglimento e se compatibili si applicano le regole che disciplinano l'istituto nell'ambito del rapporto matrimoniale di cui alla sezione III, capo VI, titolo VI del libro primo del codice civile. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”.Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa alla responsabilità medica per danno da ritardata diagnosi. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Porto Potenza Picena che chiede: “In quali circostanze è possibile richiede il risarcimento danni al medico che ha ritardato la valutazione diagnostica di una malattia?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente sensibile, su cui ha avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte con sentenza n. 8461/2019, in una causa che ha riguardato la morte di una paziente alla quale era stato diagnosticato tardivamente un male di natura maligna. In tale circostanza, nella valutazione circa l’eventuale responsabilità del medico che aveva eseguito la prima visita alla paziente, la Corte di Cassazione si è uniformata a quanto enunciato dalle Sezioni Unite nel 2008 con la sentenza n. 576, ovvero che:
“In tema di responsabilità civile, il nesso causale tra la condotta o l'omissione illecita ed il danno ingiusto, inteso quale fatto materiale (c.d. "nesso di causalità materiale"), va accertato secondo le regole dettate dagli artt. 40 e 41 c.p., per effetto dei quali, tale nesso di causalità va escluso solo quando, al momento in cui è stata tenuta l'azione o l'omissione, l'evento di danno appariva assolutamente imprevedibile ed inverosimile, alla luce delle migliori conoscenze scientifiche del momento” (Cass. Civ. Sez. Un. Sent. n. 576/2008).
Difatti, in base a tale orientamento, per un’idonea valutazione circa la responsabilità del soggetto autore dell’azione o dell’omissione, deve necessariamente sussistere un’indissolubile relazione tra tale condotta e l’evento dannoso verificatosi, nel senso che se fosse possibile eliminare astrattamente la prima, ovvero l’azione o l’omissione, il danno non si sarebbe realizzato.
Inoltre, nel caso che ci occupa, deve essere compiuta un’ulteriore valutazione, in relazione alla circostanza per la quale, anche nell’ipotesi in cui tale epilogo, ovvero l’evento dannoso, si sarebbe comunque verificato, se è dimostrato che la condotta attiva od omissiva del soggetto in questione ha in ogni caso aggravato o velocizzato il procedimento di accadimento di tale evento, è sempre ravvisabile una responsabilità in capo a quest’ultimo, risarcibile in ambito civile sia in termini di danno patrimoniale, sia in quelli di danno non patrimoniale.
Pertanto, in risposta alla domanda del nostro lettore e in adesione con il più autorevole orientamento della Suprema Corte, si può affermare che: “È configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente, qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi”; aggiungendo inoltre che, in tali circostanze,“Si dovrà applicare la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” al nesso di causalità, fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite" ( Cass. Civ.; Sez. III, Sent. n. 8461/2019; dep. 27.03.2019). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all’avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente tematiche riferibili alle conseguenze del cosiddetto phishing, fenomeno finalizzato all’acquisizione, da parte di hacker, di dati personali e sensibili; di seguito la risposta alla domanda posta da una lettrice di Corridonia, che chiede: è possibile ottenere un risarcimento dal proprio istituto bancario, qualora terzi si impossessino delle credenziali di accesso al servizio di home banking ed azzerino la giacenza sul conto corrente?
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza riguardo alla tematica, molto attuale, delle responsabilità derivanti dal phishing, fenomeno molto frequente online, che si verifica quando un soggetto si finge un ente affidabile, quale ad esempio un istituto di credito, ed attraverso varie modalità, come l’invio di e-mail o il rimando dell’utente su un sito web creato ad hoc, acquisisce i dati finanziari o, comunque, le credenziali di accesso al conto corrente del titolare, allo scopo di utilizzarli per disporre della liquidità presente.
A tal proposito, occorre considerare come il rischio che terzi estranei sottraggano i dati personali dei propri correntisti, il cui particolare trattamento da parte dell’istituto è soggetto alle disposizioni previste in materia dal Codice della Privacy e dal Regolamento Europeo n. 679/2016, sia considerato da giurisprudenza consolidata, un rischio tipico del prestatore dei servizi di pagamento, in quanto tale prevedibile ed evitabile.
Sussiste dunque, innanzitutto, in capo all’istituto di credito, l’obbligo di operare con la diligenza qualificata di cui all’art. 1176 co.2 c.c., da valutare assumendo come parametro la figura del cosiddetto accorto banchiere, e dunque l’obbligo di garantire elevati standard di sicurezza nell’utilizzo dei propri sistemi di pagamento online, determinato con riferimento alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, in modo tale da evitare tali illegittime sottrazioni, ad esempio, imponendo ai propri clienti l’uso delle O.T.P., One Time Password, o dei sistemi di autenticazione a due fattori.
Pertanto, in capo all’istituto di credito sussisterà l’obbligo di risarcire il danno, ex art. 2050 c.c., nel caso in cui avvengano episodi di accesso non autorizzato alle informazioni private dei propri clienti, sempre che questo non provi di avere adottato tutte le misure idonee a garantire la sicurezza del servizio e la riconducibilità dell'operazione al cliente.
Pe tali motivi in risposta alla nostra lettrice risulta corretto affermare che, “l’istituto che svolga una attività di tipo finanziario o in generale creditizio risponde, quale titolare del trattamento di dati personali, dei danni conseguenti al fatto di non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico del cliente mediante la captazione dei suoi codici di accesso e le conseguenti illegittime disposizioni di bonifico, se non prova che l’evento dannoso non gli è imputabile dal comportamento incauto del correntista (Tribunale di Pesaro, sentenza del 07.09.2021). Nel consigliare, dunque, di porre particolare attenzione a mail o siti sospetti, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie che possono insorgere tra committente e professionista in esecuzione della disciplina del “Superbonus” 110%.
Di seguito la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un ingegnere della provincia di Macerata, che chiede: “In esecuzione della procedura del “Superbonus 110%”, in quali responsabilità potrei essere coinvolto?"
La disciplina del “Superbonus 110%”, introdotta dal cosiddetto decreto rilancio sta dando grande slancio al settore delle costruzioni e pone i professionisti che operano nel settore tecnico-edile al centro e quale fulcro di una serie di verifiche e attestazioni sui presupposti per accedere alle agevolazioni.
Tali attività spaziano dalla verifica della conformità urbanistica alla idoneità dell'immobile e del committente fino ad orientare quest'ultimo sulle spese detraibili con la verifica dei massimali, per non dimenticare la duplice verifica, sia durante i lavori che alla fine degli stessi, in ordine al rispetto dei requisiti tecnici richiesti e della congruità della spesa sostenuta.
Ma che cosa succede in caso di danno dovuto a negligenza professionale, imperizia o errata applicazione delle norme?
In questi casi il professionista potrebbe essere chiamato a rispondere in sede civile, amministrativa e penale del danno causato da solo o in solido con l'impresa, dal momento che l'articolo 2055 codice civile stabilisce che, se un fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in via tra loro solidale a risarcire il danno nei confronti del cliente/committente.
Pertanto, in risposta al nostro ingegnere, ne deriva che gli ingegneri e le altre figure professionali quali, architetti, geometri, costruttori, fornitori, commercialisti che rilasciano il visto di conformità, potrebbero essere solidalmente responsabili se a loro è imputabile il danno.
Gli articoli 119 e 121 del Decreto Legge n. 34/2020 attribuiscono ai tecnici incaricati della progettazione di edifici, impianti e strutture, della direzione lavori e del collaudo statico un doppio ruolo: quello di attestatore ed asseveratore ("asseverare" in questo senso va inteso come sinonimo di "assicurare" e "garantire") della presenza dei requisiti tecnici che consentono di accedere al “Superbonus” e quella di prestatore di opera intellettuale, disciplinato dall'art. 2230 codice civile e seguenti.
In particolare, l'articolo 121 del decreto rilancio stabilisce che, nel caso in cui vengano meno anche in via parziale i requisiti che garantivano ai soggetti beneficiari (di norma, il committente) il diritto al “Superbonus”, l'Agenzia delle Entrate provveda al recupero nei loro confronti dell'importo corrispondente alla detrazione non spettante, maggiorato di interessi (4% all'anno) e sanzioni tributarie (30% dell'importo non versato, ridotta alla metà in caso di ravvedimento entro 90 giorni nell'ipotesi più favorevole).
In primo luogo, è quindi il committente o, meglio, il soggetto beneficiario a subire il recupero da parte dell'Agenzia delle Entrate, ma tale recupero si potrebbe estendere ai professionisti e alle imprese se venissero riconosciuti corresponsabili dell'evento dannoso; in altre parole, il comma VI dell'articolo 121 legittima l'Agenzia delle Entrate ad agire anche nei confronti di soggetti diversi dal contribuente, quali responsabili in via solidale, nell'ipotesi in cui i soggetti che intervengono nei lavori (denominati "fornitori") abbiano concorso nella violazione.
Venendo a questo rischio il professionista dovrà operare con prudenza e perizia per quanto riguarda la propria parte specialistica, ma dovrà anche cercare di mantenere un minimo di controllo su tutta la pratica; fondamentale è la sinergia tra i soggetti coinvolti, il progettista strutturale e quello architettonico, il collaudatore, l'impresa e il professionista fiscale (che attesta la regolarità dei crediti fiscali oggetto di cessione), perché un errore dell'uno di fatto potrebbe coinvolge anche l'altro.
In merito al “Sismabonus”, ad esempio, l'asseverazione rilasciata dal progettista strutturale si estende anche alla congruità degli importi relativi alle opere di manutenzione edilizia (pavimenti, massetti), ma tale valutazione può essere compiuta solo in sinergia con il progettista architettonico, la cui opera si intreccia con quella del progettista della struttura.
Nel caso di un contenzioso per un errore progettuale sono numerose le sentenze che condannano in solido tutti i professionisti coinvolti e l'impresa; è anche vero che qui non esiste alcun automatismo, ma nell'ambito della responsabilità civile viene in rilievo l'articolo 1176 comma secondo del codice civile, secondo cui la diligenza del professionista si deve valutare caso per caso con riguardo alla natura dell'attività esercitata.
Per fare un esempio, appare evidente che un termotecnico non potrà essere ritenuto responsabile in solido nel caso della revoca del contributo per problematiche connesse alle asseverazioni del “Sismabonus”; viceversa, il progettista strutturale non dovrebbe rispondere nei casi di problematiche agli impianti e al cappotto; questo per chiarire che ogni caso andrebbe valutato singolarmente e in concreto.
Sono molteplici i controlli a cui può essere sottoposta la pratica; eventuali problematiche potrebbero emergere sotto il profilo:
- mancanza dei requisiti soggettivi in capo al beneficiario;
- mancanza dei requisiti tecnici-prestazionali degli interventi;
- errata attestazione degli stessi da parte del tecnico;
- errata attestazione della congruità della spesa per irregolarità urbanistiche o edilizie preesistenti, eccetera.
Nel momento in cui il professionista rilascia la dichiarazione di asseverazione dichiara che i dati forniti sono veri e potrebbe astrattamente essere chiamato a rispondere del reato di cui all'articolo 481 del codice penale.
È il caso della falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, in cui il professionista risponde penalmente per eventuali falsi ideologici e materiali contenuti nella dichiarazione di asseverazione.
Sono, inoltre, previsti alcuni illeciti amministrativi in caso di "asseverazioni non veritiere" e di "APE infedele", che prevedono sanzioni pecuniarie di alcune migliaia di euro. Una importante annotazione è quella relativa alla polizza di assicurazione, che non copre le sanzioni amministrative né tantomeno quelle penali.
Con riferimento, infine, ai controlli di natura tecnica e fiscale è previsto che l'Enea li effettui a campione in una percentuale che non supera lo 0,5 delle richieste, dando priorità agli interventi che godono del bonus 110% e a quelli che prevedono una spesa maggiore.
Mentre, dal lato fiscale i poteri di accertamento dell'Agenzia delle Entrate si estendono al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui si è presentata la dichiarazione dei redditi con l'ultima rata di beneficio.
Esempio: lavori nel 2022 con recupero di somme in 5 rate annuali a partire dalla dichiarazione 2023 per i redditi 2022; ultima dichiarazione con agevolazioni 2027 per i redditi 2026; scadenza poteri di controllo dell'Agenzia delle Entrate: 31 dicembre 2032.
Invece, nell'ipotesi di cessione del credito o sconto in fattura la notifica dell'atto di recupero da parte dell'Agenzia delle Entrate potrà essere effettuata entro il 31 dicembre dell'ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie che possono insorgere tra cittadino ed Azienda Sanitaria Unica Regionale, in particolare quando la stessa viene meno ai propri doveri. Di seguito la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un nostro lettore di Macerata, che chiede: “Nel caso in cui sono costretto a rivolgermi ad una struttura sanitaria privata non convenzionata, posso chiedere il rimborso delle relative spese all’Asur?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ai controversi rapporti tra cittadino ed Asur riguardo alla tempestività delle cure mediche non rimandabili. A tal proposito è utile riportare una recente sentenza di merito secondo la quale, “Il paziente che si rivolge ad una struttura sanitaria privata, non convenzionata con il sistema sanitario nazionale, ha diritto al rimborso delle spese mediche se il ricovero è stato effettuato in stato di urgenza e necessità”, il tutto accertato sulla base dei presupposti richiesti dalla disciplina dettata in materia sanitaria dal D. Lgs. n. 502/1992.
Ed invero, il D. Lgs. n. 502/92, in particolare l'art. 1, stabilisce che il Servizio sanitario nazionale assicura, attraverso risorse pubbliche, i livelli essenziali di assistenza nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell'equità nell'accesso all'assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze e prevede che siano posti a carico del Servizio sanitario le prestazioni sanitarie che presentano, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, a fronte delle risorse impiegate.
Tenuto conto di ciò, l’elemento essenziale di discrimine nel riconoscere o meno l'insorgenza del diritto soggettivo al rimborso delle suddette spese da parte della Azienda Sanitaria territorialmente competente è l'effettiva ricorrenza di una comprovata situazione, non soltanto di pericolo di vita o di rischio di aggravamento della malattia per l'assistito, ma anche di impossibilità per la struttura pubblica convenzionata di offrire a costui l'intervento o la cura nei tempi e modi utili, alla luce delle conoscenze medico - scientifiche.
Pertanto, l’urgenza ed indifferibilità dell'intervento terapeutico da un lato, ed impossibilità per la struttura pubblica di approntare in modo tempestivo tale intervento dall'altro, costituiscono vere e proprie condizioni legislativamente imposte per il riconoscimento del diritto soggettivo al rimborso da parte del SSN delle spese sanitarie sostenute in regime di assistenza non convenzionata.
Ebbene, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che, “Sussistono i presupposti per il riconoscimento del diritto al rimborso delle spese mediche affrontate dal paziente da parte dell’Asur quando tale intervento è caratterizzato da un’effettiva situazione di urgenza e lo stesso risulta adeguato perché migliorativo delle condizioni fisiche della ricorrente e della sua aspettativa di vita, sempreché il Servizio sanitario nazionale non poteva offrire in tali tempi l'assistenza specializzata richiesta per l'esecuzione dei trattamenti terapeutici” (Tribunale di Brindisi, sentenza n. 1059/2020). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al diritto riconosciuto all’ex convivente della ripetizione di specifiche somme corrisposte al partner durante il periodo di convivenza.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “Terminata la convivenza si può ottenere la restituzione di quanto pagato per la costruzione di quella che sarebbe dovuta essere la casa familiare senza esserne il proprietario?”
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza 24721 del 2019, in accoglimento del ricorso posto in essere dall’ex convivente, affermando testualmente quanto segue: “L’accertamento in fatto che la dazione di denaro era rivolta al solo scopo di realizzare la casa familiare, destinata, nelle previsioni della ricorrente, a divenire comune, giustifica, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il rimborso delle somme versate a titolo di concorso nelle spese di costruzione del manufatto rimasto in proprietà esclusiva dell’altro ex convivente, risultando tale contribuzione a tutti gli effetti, indebita”(Cass. Civ.; Sez. II; Sent. n. 2973/2016).
Difatti, l’art. 2033 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto, ha diritto di ripetere ciò che ha pagato […]”, disciplina l’istituto della ripetizione dell’indebito avente come suo fondamento, l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una clausola risolutiva espressa.
A tal proposito, occorre rilevare che, sebbene la convivenza di fatto rappresenti ormai a tutti gli effetti una formazione sociale riconosciuta e tutelata dal nostro ordinamento giuridico, con la quale sorgono doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, per cui eventuali contribuzioni e prestazioni economiche eseguite durante il periodo di convivenza vengono sussunte, dalla coscienza sociale, fra i doveri connessi ad un consolidato rapporto affettivo, essendo generalmente ricondotte nell'alveo delle obbligazioni naturali ex art. 2034 c.c., è tuttavia necessario che tali prestazioni rese, trovino giustificazione nella solidarietà e nella reciproca assistenza fra i conviventi.
Tutto ciò sussistendo al contrario, un'inconciliabilità logico-giuridica fra convivenza more uxorio e arricchimento ingiustificato, il quale necessariamente investe le circostanze relative all’effettuazione di prestazioni di tipo economico, derivanti da un presunto vincolo obbligatorio, ma che risultino a posteriori non dovute, così giustificando la tutela giuridica e patrimoniale del soggetto leso, in presenza di atti dispositivi posti in essere a vantaggio di uno dei conviventi esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza.
Pertanto, in risposta alla domanda dalla nostra lettrice e in linea con la più autorevole e consolidata giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: “Le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente "more uxorio" effettuate nel corso del rapporto configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza; in caso di attribuzioni economico patrimoniali eseguite in corso di convivenza, a titolo di concorso alle spese di costruzione della casa familiare, si ha diritto al rimborso delle somme date se, terminata la convivenza, il conferimento non si concretizza nell’acquisto della proprietà del bene, esulando tale prestazione, dal mero adempimento di suddette obbligazioni” (Cassazione civile sez. VI, 15/02/2019, n.4659).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica, la rubrica curata dall'avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
Questa settimana le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti coniugali ed extraconiugali e le relative condotte poste in essere dagli stessi protagonisti con relative responsabilità. Ecco la risposta dell'avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: “Commette reato l’amante che rivela alla moglie il tradimento del marito?”
L'amante stanca di essere trattata come la seconda scelta, non ne può proprio più, decide così di rivelare il tradimento del fedifrago. In casi come questi commette un reato? Può cioè essere perseguibile penalmente per aver sbugiardato il coniuge traditore? Cerchiamo di capirlo insieme, premettendo che la tecnologia in questi casi, è uno strumento potentissimo. Non è infrequente infatti ai giorni nostri che i matrimoni finiscano per foto pubblicate sui social o messaggini inviati al coniuge tradito. In ogni caso è bene sapere che la giurisprudenza non ha mancato di punire in certi casi l'amante vendicativa. Vediamo in che modo e a che titolo.
La Corte di Cassazione, ad esempio, con la sentenza n. 28852/2009 ha inquadrato la condotta dell'amante che, inviando alcuni SMS alla moglie tradita, l'ha informata del tradimento del marito, come molestia e disturbo alle persone. Illecito che le è costato le spese processuali e una multa di 1000 euro. A nulla sono valse le difese dell'amante, che in sua difesa ha affermato che il tradimento era già noto alla moglie e che comunque si è limitata a inviare solo qualche SMS.
Per gli Ermellini anche pochi messaggi possono ledere la dignità, il decoro e l'onore della persona offesa, soprattutto se gli stessi riportano anche espressioni di disprezzo dell'uomo verso la sua compagna di vita. Con la sentenza n. 28493/2015 la Cassazione è giunta alle stesse conclusioni, in relazione alle rivelazioni che la ex amante, per vendetta, ha comunicato alla moglie del traditore, in tre lunghe telefonate.
Gli Ermellini non hanno tenuto conto del fatto che le conversazioni, a detta dell'amante, non sono state assillanti e che comunque era nell'interesse della moglie essere informata della condotta del coniuge. In un altro caso invece, sul quale la Cassazione si è pronunciata con la sentenza n. 29826/2015, ha commesso reato di atti persecutori (stalking) l'amante che ha rivelato al marito il tradimento della moglie, lo ha reso pubblico, ha inviando lettere al tradito sul luogo di lavoro e numerosi SMS dal contenuto volgare e infine ha scritto frasi ingiuriose proprio sui muri della scuola frequentata dai figli della donna.
Gli Ermellini hanno valorizzato ai fini del reato le svariate condotte persecutorie che hanno recato un indubbio danno alla riservatezza e all'intimità sessuale, provocando uno stato persistente di disagio e ansia a tutti i membri della famiglia, che hanno subito ripercussioni anche nell'ambiente lavorativo e scolastico.
Diverse sentenze hanno condannato anche per diffamazione l'amante che ha rivelato la propria relazione con una persona sposata, pubblicando foto e messaggi espliciti della relazione sulla propria pagina Facebook o su altro social. Il reato si configura in questi casi perché la vita di relazione tra due coniugi non è un fatto d'interesse pubblico, per cui nel momento si rende noto a un numero indeterminato di soggetti il tradimento si lede il diritto alla riservatezza delle persone offese. È anche possibile che l'amante ferita si limiti anche solo a minacciare il coniuge di rivelare all'altro il tradimento; in questo caso, il soggetto a cui la minaccia è rivolta può denunciare l'amante gelosa e la stessa può andare incontro alla condanna per il reato di minacce di cui all'art. 612 c.p.
Pertanto, in risposta al nostro lettore, la condotta dell’amante che rivela alla moglie il tradimento del marito può comportare a seconda della modalità utilizzata condotte penalmente rilevanti che vanno dalla molestia allo stalking. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica, la rubrica curata dall'Avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le condotte truffaldine molto di moda in questo periodo adottate addirittura con sfondo sentimentale.
Ecco la risposta dell'avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “A quali responsabilità può incorrere colei che, tramite l’inganno sentimentale, porta alla diminuzione fraudolenta del patrimonio della vittima innamorata?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una problematica oggi, purtroppo ricorrente, quella della truffa dei sentimenti dalle conseguenze doppiamente devastanti.
Il meccanismo spesso adottato è quello della creazione da parte del soggetto/i agente/i di un profilo “Facebook” falso, apparentemente riconducibile ad un'avvenente donna, la cui immagine fotografica (“rubata” dalla rete) svolge il ruolo di specchietto per le allodole.
Il malcapitato, scelto “ad hoc”, quale persona oberata dal proprio pesante fardello di solitudine e ammaliata dalle fattezze conturbanti della donna, abbocca: inizia così uno scambio epistolare i cui toni, progressivamente e sapientemente proiettati verso una possibile futura relazione sentimentale ottengono l'effetto seduttivo di calamitare la vittima.
A fare da sfondo panoramico a tutta la vicenda non può mancare una storia strappalacrime: la bella, e rigorosamente povera, è costretta a lavorare come badante all'estero, presso una famiglia che non le dà nemmeno da mangiare; nemmeno a dirlo la stessa è gravemente malata e necessita sia di conforto morale, sia soprattutto di quello materiale: viveri e medicine costano cari.
L'escalation del raggiro è in costante ascesa: all'inizio le somme di denaro canalizzate sono di modesta entità, poi diventano progressivamente più consistenti. L'emungimento del patrimonio della vittima, obnubilata da un amore unilateralmente nutrito senza riserve, ammonta a diverse centinaia di migliaia di euro.
Sarà soltanto in seguito al prosciugamento del conto corrente che la vittima – destinataria anche di pretese estorsive successive al rifiuto di continuare a versare denaro – aprirà gli occhi sulla realtà e troverà la forza e il coraggio di denunciare l'accaduto.
Ecco qua che l'autonomia concettuale della “romantic scam” è figlia dell'elaborazione giurisprudenziale della fattispecie-base di truffa, adattata alla peculiare modalità con cui la stessa viene perfezionata.
A dotarla di una propria precisa identità è principalmente l'utilizzo dell'inganno sentimentale, che assume rilievo determinante in quanto rappresenta l'innesco dal quale – in forza della falsa rappresentazione della realtà (cioè l'inesistente coinvolgimento emotivo) – discende l'induzione in errore nel soggetto passivo.
Quest'ultimo viene così determinato a compiere atti di disposizione patrimoniale che altrimenti non avrebbe effettuato; come si vede, la concatenazione causale è rigorosamente orientata secondo lo schema – contenuto nella norma incriminatrice della truffa – che pone l'atto di disposizione patrimoniale quale conseguente logico-causale dell'attività ingannatoria.
Per tali ragioni, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che,“ Fingere di amare una persona al fine di ottenere un vantaggio patrimoniale configura il reato di truffa, in quanto la c.d. “truffa romantica” - o romantic scam – si connota per il fatto che la manifestazione menzognera operata dal soggetto agente circa i propri sentimenti, apparentemente nutriti nei confronti della vittima, opera sulla psiche di quest'ultima inducendola a compiere, in conseguenza dell'inganno, atti di disposizione patrimoniale a favore del soggetto attivo del reato" (Tribunale di Catania, sez. I Penale, sentenza n. 3562/21).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica estremamente delicata, relativa alle condotte violente o da considerarle tali poste in essere da soggetti esercenti il ruolo di educatore o docente, nei confronti dei propri allievi.
Ecco la risposta dell’avvocato, Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “Quali comportamenti, se tenuti da insegnanti nello svolgimento della propria professione, possono condurre ad una condanna penale per maltrattamenti?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto delicata e attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la stessa Corte di Cassazione, con una sentenza di condanna, la n.5205/2019, nei confronti di una maestra d’asilo, per il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. il quale punisce espressamente:
“Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte”.
Tale delitto, si caratterizza infatti, per l’elemento soggettivo del dolo generico, inteso come volontarietà dell’azione, nonché come consapevolezza di porre in essere un comportamento oppressivo, ed è integrato da condotte di lesione o messa in pericolo dell'incolumità fisica o psicologica, nell'ambito di rapporti interpersonali che dovrebbero favorire la personalità degli specifici soggetti, e non danneggiarla.
Inoltre, elemento costitutivo di tale delitto, è l’abitualità dell’azione, ovvero la circostanza che tali condotte lesive siano reiterate e perpetrate ai danni delle vittime. Proprio questo ultimo requisito, distingue tale delitto di maltrattamenti, quale reato abituale, dal delitto meno afflittivo di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, previsto ai sensi dell’art. 571 c.p., il quale punisce espressamente: “Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte”.
Difatti, nella sentenza citata emessa nei confronti della maestra d’asilo, la quale, nel tentativo di giustificare i propri metodi, li qualificava come “di vecchio stampo in armonia con il così detto metodo Montessori”, la Suprema Corte ha ritenuto, “Integrato il delitto di maltrattamenti in considerazione della reiterazione delle condotte violente perpetrate ai danni degli alunni, tutti minorenni, del carattere sistematico del ricorso alla violenza fisica e morale, non suscettibile di essere inquadrata in alcun metodo educativo, scolastico, o di insegnamento, tenuto anche conto della tenera età dei bambini maltrattati.”(Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 5205 del 01.02.2019).
Pertanto, alla luce di quanto affermato ed in risposta alla domanda della nostra lettrice, “Sul piano della qualificazione giuridica dei fatti si deve ribadire che integra il reato di maltrattamenti e non quello di abuso di mezzi di correzione, la reiterazione di atti di violenza fisica e morale, l’uso sistematico di comportamenti violenti, obiettivamente non leciti, insuscettibili di essere qualificati come espressivi di metodi educativi: schiaffi ripetuti, tirate di orecchio e capelli, sottoposizione a vessazioni morali e fisiche consistenti nell’apostrofare i bambini in malo modo, nello strappare loro i disegni, nel sottrarre loro l’acqua, allontanarli dagli spazi di condivisione per lasciarli da soli in bagno ovvero in una stanza poco illuminata “per riflettere”, inadeguatezza delle espressioni verbali utilizzate, ancorché sostenute da animus corrigendi”(Cass. Pen., Sez. VI, n. 53425/ del 22.10.2014). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate, hanno interessato principalmente la tematica relativa alla violazione della segretezza delle conversazioni telematiche altrui, attraverso l’utilizzo di strumenti informatici.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Tolentino che chiede: “E’ penalmente sanzionabile chi installa un programma informatico per intercettare le comunicazioni telefoniche di un altro soggetto, anche se poi non sono stati utilizzati?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione estremamente attuale, su cui ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15071/2019, affermando la responsabilità penale di un marito, che aveva collegato il cellulare della moglie ad uno “Spy-Software” per monitorarle le chiamate, punendolo pertanto ex art. 617-bis c.p., il quale stabilisce espressamente: “Chiunque, fuori dei casi consentiti dalla legge installa apparati, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche tra altre persone è punito con la reclusione da uno a quattro anni”.
Difatti, nel caso in esame, la Suprema Corte ha valutato la punibilità dell’uomo, sulla base di un’autorevole interpretazione del diritto vivente, fornita proprio dalle Sezioni Unite, con sentenza n.26889/2016, la quale ha permesso di includere i programmi informatici denominati “Spy-Software”, nella categoria degli apparati indicati espressamente dalla norma del codice penale appena citata, chiarendo che “l’evoluzione tecnologica ha consentito di apportare strumenti informatici del tipo software, solitamente installati in modo occulto su un telefono cellulare, un tablet o un PC, che consentono di captare tutto il traffico dei dati in arrivo o in partenza dal dispositivo e, quindi, anche le conversazioni telefoniche”(Cass. Pen.; Sez. Un.; Sentenza n. 26889 del 28/04/2016).
A tal proposito si è evidenziata una categoria aperta e dinamica, suscettibile di essere implementata per effetto delle innovazioni tecnologiche che nel tempo, consentono di realizzare scopi vietati dalla legge.
Inoltre, secondo la ricostruzione operata dalla Corte di legittimità chiamata a pronunciarsi sull’obiezione sollevata dall’uomo, in relazione alla circostanza che la moglie fosse stata di fatto avvertita dal figlio, circa l’installazione di tale programma sul suo cellulare, senza però smettere mai di usarlo, si è rilevato che il riferimento alla norma penale di cui all’art. 617-bis c.p., ha lo scopo di anticipare la tutela alla riservatezza e libertà delle comunicazioni, attraverso la sanzione dei fatti prodromici all’effettiva lesione del bene, non essendo dunque necessaria alcuna condotta ulteriore.
Pertanto, in adesione a tale autorevole orientamento della Suprema Corte e in risposta alla domanda della nostra lettrice, è da intendersi che: “Ai fini della configurabilità del reato in esame deve aversi riguardo alla sola attività di installazione e non a quella successiva dell'intercettazione o impedimento delle altrui comunicazioni, che rileva solo come fine della condotta, con la conseguenza che il reato si consuma anche se gli apparecchi installati non abbiano funzionato o non siano stati attivati”(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza del 05.04.2019, n. 1507).
Nel consigliare di denunciare prontamente tali reati, rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai sinistri stradali e la loro risarcibilità. Ecco la risposta dell’avvcato Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: “A chi spetta il risarcimento danni in occasione di un tamponamento a catena?”
Il tamponamento è un tipo di sinistro stradale che si realizza quando un veicolo con la sua parte anteriore urta la parte posteriore di un altro veicolo che lo precede in strada. In questi casi, la responsabilità viene normalmente addebitata in capo al veicolo che ha dato luogo al tamponamento, poiché l'art. 141 del Codice della Strada afferma che "è obbligo del conducente regolare la velocità del veicolo in modo che avuto riguardo alle caratteristiche, allo stato ed al carico del veicolo stesso, alle caratteristiche e alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, sia evitato ogni pericolo per la sicurezza delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la circolazione".
Pertanto, si presume che la colpa sia di chi tampona, a causa dell'inosservanza delle prescritte distanze di sicurezza che avrebbero consentito un adeguato spazio di frenatura e manovra; ciò a meno che il tamponatore non dimostri che il sinistro si è verificato per causa a lui non imputabile (ad es. a causa di un comportamento abnorme della vettura tamponata). Ipotesi molto frequente e maggiormente problematica per quanto riguarda l'individuazione del "colpevole" è quella dei cc.dd. tamponamenti a catena, ovverosia quelli che coinvolgono diverse autovetture l'una dietro l'altra.
In simili ipotesi, per individuare il responsabile, è necessario effettuare una distinzione tra il sinistro avvenuto tra veicoli fermi in colonna e quello avvenuto tra veicoli in movimento. Nell'ipotesi di colonna di veicoli ferma (ad esempio perché in coda dinanzi a un semaforo rosso, bloccati nel traffico, ecc.) la giurisprudenza ha ritenuto che la responsabilità vada addebitata al conducente dell'ultimo veicolo, ossia a colui che, con la sua condotta, genera la prima collisione dalla quale promanano i successivi tamponamenti. Pertanto, in caso di scontri successivi fra veicoli facenti parte di una colonna in sosta, unico responsabile delle conseguenze delle collisioni è il conducente che le abbia determinate tamponando da tergo l'ultimo dei veicoli della colonna (cfr. Cass., n. 8646/2003; Cass., n. 18234/2008).
Le richieste risarcitorie andranno, pertanto, rivolte al veicolo che ha cagionato il primo tamponamento. Diverso è il caso in cui il tamponamento a catena coinvolga autoveicoli in movimento. In simile ipotesi, per giurisprudenza costante occorre fare riferimento all'art. 2054 c.c., comma 2 il quale sancisce che "nel caso di scontro tra veicoli si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli".
Di conseguenza, opera la presunzione iuris tantum di colpa in forza della quale devono ritenersi responsabili del sinistro, in eguale misura, entrambi i conducenti di ciascuna coppia di veicoli (tamponante e tamponato), a causa dell'inosservanza della distanza di sicurezza rispetto al veicolo antistante (Cass., n. 4021/2013). In pratica, la presunzione fa scattare in capo ad ogni conducente la responsabilità nei confronti del veicolo che gli sta davanti, per i danni che questa abbia subito nella sua parte posteriore. In caso di tamponamenti a catena di veicoli in movimento, il rinvio all'articolo 2054 c.c. lascia salva la possibilità di fornire adeguata prova liberatoria e di essere così tenuto indenne all'addebito di responsabilità; tale prova avrà come oggetto l'aver fatto tutto il possibile, una volta tamponati, per evitare di tamponare il veicolo davanti, rispetto al quale erano comunque rispettate le distanze di sicurezza.
Si pensi, ad esempio, al caso in cui si riesca a provare che l'urto con il veicolo anteriore non sia derivato dall'eccessiva vicinanza con lo stesso ma solo ed esclusivamente dall'eccessiva velocità del veicolo proveniente da tergo. Resta da dire che, come è evidente, il primo veicolo della colonna (il quale viene tamponato, ma non tampona nessun altro) non avrà mai alcuna responsabilità. L'ipotesi del tamponamento a catena, vedendo il coinvolgimento di più veicoli, rientra tra quelle che esulano dal campo di applicazione del sistema del cd. indennizzo diretto.
Di conseguenza, la domanda risarcitoria non andrà mai inoltrata alla propria compagnia di assicurazione. A seconda dei casi, occorrerà rivolgersi o al veicolo direttamente tamponante (in ipotesi di veicoli in movimento) o all'ultimo veicolo, che ha dato origine all'incidente complessivo (in ipotesi di veicoli incolonnati in sosta). Il trasportato su uno dei veicoli coinvolti, tuttavia, dovrà sempre richiedere i danni alla compagnia che assicura il mezzo sul quale si trovava al momento dello scontro.
Pertanto, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che, “Nell'ipotesi di tamponamento a catena tra veicoli in movimento, trova applicazione l'art. 2054, secondo comma, cod. civ., con conseguente presunzione "iuris tantum" di colpa in eguale misura di entrambi i conducenti di ciascuna coppia di veicoli (tamponante e tamponato), fondata sull'inosservanza della distanza di sicurezza rispetto al veicolo antistante, qualora non sia fornita la prova liberatoria di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, mentre nel caso di scontri successivi fra veicoli facenti parte di una colonna in sosta, unico responsabile degli effetti delle collisioni è il conducente che le abbia determinate, tamponando da tergo l'ultimo dei veicoli della colonna stessa (Cass. n. 4304/2021, Cass., 19/02/2013, n. 4021, Cass., 15/06/2018, n. 15788).Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna come ogni domenica la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana “Chiedilo all'Avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa ai rapporti in sede di separazione tra gli ex coniugi.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Corridonia che chiede: “A quali responsabilità va incontro l’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie?”
Tale circostanza ci porta subito ad applicare il principio giuridico oramai divenuto consolidato espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n.13407/2019, secondo il quale: “Sussiste il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni laddove il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice a fronte della contestazione o dell’ostacolo posto da terzi, come nel caso di un ex marito che, a seguito della mancata voltura delle utenze domestiche dell’abitazione familiare assegnata all’ex moglie, aveva provveduto personalmente a staccare i contatori”.
Difatti, proprio in riferimento ad un caso simile a quello prospettato dalla nostra lettrice, nel quale l’ex marito, dopo aver intimato più volte all’ex moglie di procedere alla voltura delle forniture di energia elettrica e gas dell’abitazione familiare a lei assegnata in sede di separazione, aveva provveduto personalmente al distacco in quanto le spese in questione erano state accollate all’ex moglie in sede di separazione, costringendo la donna e i figli a stare nell’appartamento senza poter usufruire di tali servizi-
La Corte di Cassazione ha confermato la configurabilità in capo all’imputato del reato di cui all’articolo 393 del codice penale, in quanto, il diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso al giudice di fronte alla contestazione o all’ostacolo posto da terzi; a tal proposito, la Suprema Corte aggiunge che, “non è consentito legittimare l’autosoddisfazione per il superamento degli ostacoli che si frappongono al concreto esercizio del diritto”.
Viene, infine, precisato che, “si ritiene legittima la violenza sulle cose solo quando sia esercitata al fine di difendere il diritto di possesso in presenza di un atto di turbativa nel godimento della res, sempre che l’azione reattiva avvenga nell’immediatezza di quella lesiva del diritto, non si tratti di compossesso e sia impossibile il ricorso immediato al giudice, sussistendo la necessità impellente di ripristinare il possesso perduto o il pacifico esercizio del diritto di godimento del bene”.
Pertanto, in applicazione del principio oramai consolidato della Suprema Corte, si ritiene corretto affermare che, nel caso dell’ex marito che stacca le utenze dell’abitazione assegnata all’ex moglie, lo stesso commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto e punito ai sensi dell’art. 393 c.p., in quanto tale diritto poteva essere esercitato dall’agente tramite ricorso all’Autorità Giudiziaria. (Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 13407/19; depositata il 27 marzo). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato maggiormente il tema della tutela degli animali e nello specifico il caso in cui gli amici a quattro zampe vengano maltrattati dai propri padroni.
Il caso in parola ci offre la possibilità di esaminare giuridicamente tale deplorevole condotta penalmente rilevante. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “Il proprietario di un cane che per addestrarlo utilizza un collare elettrico, a quali responsabilità va incontro?".
Il caso di specie ci porta a trattare il deplorevole delitto di maltrattamento di animali di cui all’art. 544-ter c.p., introdotto dall’art. 1 L. 20 luglio 2014 n. 189, con cui sono state incriminate condotte, talune delle quali già previste dalla contravvenzione di cui all’art. 727 c.p. “Abbandono di animali”, oggetto anch’essa di riformulazione.
Nello specifico l’art. 544-ter c.p. prevede quanto segue: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi. La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell'animale”.
Pertanto, nel primo comma vengono ricomprese le seguenti condotte:
a) Aver cagionato per crudeltà o senza necessità una “lesione”; a tal proposito, la Corte di Cassazione ha ritenuto come la nozione di “lesione”, sebbene non necessariamente coincidente con quella prevista dall'art. 582 c.p. delle “Lesioni personali”, implichi comunque la sussistenza di un'apprezzabile diminuzione della originaria integrità dell'animale che, pur non risolvendosi in un vero e proprio processo patologico e non determinando una menomazione funzionale, sia comunque diretta conseguenza di una condotta volontaria commissiva o omissiva (si v. Cass. III, n. 32837/2013);
b) Condotte di sevizie, comprensive di “tutte le forme di crudeltà verso animali, offensive del sentimento di pietà e compassione per gli stessi”;
c) Condotte consistenti nella sottoposizione dell'animale ad attività insopportabili per le sue caratteristiche etologiche; in sede di legittimità, si è precisato come la nozione di “comportamenti insopportabili per le caratteristiche etologiche” non assuma un significato “assoluto” (inteso come raggiungimento di un limite oltre il quale l’animale sarebbe annullato), ma un significato “relativo”, nel senso del contrasto con il comportamento proprio della specie di riferimento come ricostruita dalla scienza naturale (Cass. III, n. 39159/2014), che ne precisa il contenuto riferendolo alla collocazione degli animali in ambienti non adatti alla loro naturale esistenza, inadeguati dal punto di vista delle dimensioni, della salubrità, delle condizioni tecniche.
Nel secondo comma vengono invece incriminate le condotte di:
Somministrazione di “sostanza stupefacente o vietate”; da intendersi, in senso descrittivo come “ogni sostanza, naturale o sintetica, che, somministrata agli animali, risulti idonea a determinare in essi uno stato di alterazione fisica o psichica con effetto drogante”. Quanto, invece, alle sostanze vietate, per esse il richiamo vale alle norme che proibiscono la somministrazione di determinate sostanze agli animali (vi rientrano la norme che puniscono l'utilizzo di estrogeni nell'allevamento del bestiame, di cui alla d.l. 4 agosto 1999, n. 336, art. 32), o comunque, la “Sottoposizione a trattamenti che procurano un danno alla loro salute”.
Per la previsione di cui al terzo comma dell'art. 544-ter c.p., ovvero la morte dell’animale, dal punto di vista dell'ascrizione soggettiva, l'imputazione dell'evento “morte”, benché non coperta dal dolo, neanche “eventuale”, configurandosi altrimenti il delitto di cui all'art. 544-bis c.p. “Uccisione di animali”, deve comunque, secondo le regole fissate dall'art. 59, comma 2, c.p., essere ascrivibile almeno a colpa, dunque porsi come conseguenza prevedibile delle condotte di cui ai commi che precedono.
Detto ciò, ed in risposta alla nostra lettrice, configura il reato di maltrattamento di animali la condotta del padrone di un cane che per “addestrarlo” utilizza un collare elettrico quale invece effettivo strumento di tortura per l’animale. Così la Suprema Corte in una vicenda nella quale è risultato decisivo il ritrovamento di un cane che vagava incustodito sulla pubblica via, ma a richiamare l’attenzione è stato proprio il suo collare, che risultava essere un «collare elettronico».
Caratteristiche dell’apparecchio? Produrre scosse di varia intensità sul collo dell’animale, ovviamente su input del padrone con un apposito telecomando a distanza, per «reprimere», sempre secondo i ‘teorici’, «comportamenti molesti». Ma questa strumentazione – di vago richiamo medievale – è da considerare assolutamente vietata, almeno in Italia. Per questo motivo, il padrone dell’animale veniva condannato – su decisione del Giudice per le indagini preliminari – per aver detenuto il cane «in condizioni incompatibili con la sua natura, e produttive di gravi sofferenze».
Ad avviso dell’uomo, però, è stato trascurato un particolare importante: il collare elettrico, «se utilizzato correttamente», è «necessario per un utile addestramento dell’animale, provocandogli solo una lieve molestia». L’obiezione proposta dal padrone del cane, però, viene respinta in maniera netta dai giudici della Cassazione, i quali ribadiscono, a chiare lettere, che «il collare elettronico» è da considerare «certamente incompatibile con la natura del cane».
Perché l’«addestramento», che si presume di poter così realizzare, è «basato esclusivamente sul dolore» e «incide sull’integrità psico-fisica del cane, poiché la somministrazione di scariche elettriche per condizionarne i riflessi ed indurlo, tramite stimoli dolorosi, ai comportamenti desiderati produce effetti collaterali quali paura, ansia, depressione ed anche aggressività». Come si può parlare, allora, di «addestramento»? Piuttosto, è logico considerare gli «effetti» del ricorso al collare elettrico sul «comportamento dell’animale» come «maltrattamento» in piena regola (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 38034 del 27.04.2018).
Nel consigliare a tutti di denunciare prontamente tali spregevoli comportamenti penalmente rilevanti, come sempre rimango in attesa delle vostre richieste via mail dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica relativa al diritto riconosciuto all’ex convivente della ripetizione di specifiche somme corrisposte al partner durante il periodo di convivenza.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Camerino che chiede: “Terminata la convivenza si può ottenere la restituzione di quanto pagato per la costruzione di quella che sarebbe dovuta essere la casa familiare senza esserne il proprietario?”
Il caso di specie ci offre l’occasione di far chiarezza su una questione estremamente attuale, sulla quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.24721/2019, in accoglimento del ricorso posto in essere dall’ex convivente, affermando testualmente quanto segue: “L’accertamento in fatto che la dazione di denaro era rivolta al solo scopo di realizzare la casa familiare, destinata, nelle previsioni della ricorrente, a divenire comune, giustifica, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il rimborso delle somme versate a titolo di concorso nelle spese di costruzione del manufatto rimasto in proprietà esclusiva dell’altro ex convivente, risultando tale contribuzione a tutti gli effetti, indebita”(Cass. Civ.; Sez. II; Sent. n. 2973/2016).
Difatti, l’art. 2033 c.c. citato nella menzionata sentenza, prevendo espressamente che: “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto, ha diritto di ripetere ciò che ha pagato […]”, disciplina l’istituto della ripetizione dell’indebito avente come suo fondamento, l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una clausola risolutiva espressa.
A tal proposito, occorre rilevare che - sebbene la convivenza di fatto rappresenti ormai a tutti gli effetti una formazione sociale riconosciuta e tutelata dal nostro ordinamento giuridico, con la quale sorgono doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro - è tuttavia necessario che tali prestazioni rese, trovino giustificazione nella solidarietà e nella reciproca assistenza fra i conviventi.
Sussiste, infatti, al contrario, un'inconciliabilità logico-giuridica fra convivenza more uxorio e arricchimento ingiustificato, che necessariamente investe le circostanze relative all’effettuazione di prestazioni di tipo economico, derivanti da un presunto vincolo obbligatorio, ma che risultino a posteriori non dovute, così giustificando la tutela giuridica e patrimoniale del soggetto leso, in presenza di atti dispositivi posti in essere a vantaggio di uno dei conviventi esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza.
Pertanto, in risposta alla domanda dalla nostra lettrice e in linea con la più autorevole e consolidata giurisprudenza di legittimità, si può affermare che: “Le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente "more uxorio" effettuate nel corso del rapporto configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza; in caso di attribuzioni economico patrimoniali eseguite in corso di convivenza, a titolo di concorso alle spese di costruzione della casa familiare, si ha diritto al rimborso delle somme date se, terminata la convivenza, il conferimento non si concretizza nell’acquisto della proprietà del bene, esulando tale prestazione, dal mero adempimento di suddette obbligazioni” (Cassazione civile sez. VI, 15/02/2019, n.4659).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.