Fateci caso, ogni volta che qualcuno muore a causa di gravissime negligenze da parte di chi dovrebbe garantire in ogni occasione la massima sicurezza, c’è sempre un politico il quale opina che ora non è il momento di fare polemiche. Viceversa, adesso sarebbe il momento di piangere le vittime. Poi, con calma, si andrà alla ricerca delle responsabilità di ciascuno. Fateci caso, ogni volta che in episodi – indegni e rari pure nei Paesi del terzo mondo - perdono la vita delle persone, si ricorre sempre agli stessi termini: imprevedibile ed eccezionale. Le due circostanze assieme producono una miscela tragica, ma al tempo stesso comica. È come se, in altre parole, ci dicessero di prenderla con filosofia. Noi, a distanza di pochi mesi, stiamo ancora qui a scavare tra le macerie. A spalare per tirare fuori i nostri morti.
Che siano sepolti dalle rovine del terremoto di Arquata o dalla neve della slavina di Rigopiano, oppure dal cemento armato di un cavalcavia sull'autostrada vicino Osimo, sempre scavare ci tocca. In divisa da pompiere, con quella del soccorso alpino oppure con la pettorina fluorescente dell’ANAS, noi stiamo sempre con una pala in mano. E, poco più indietro, i carri funebri accesi che aspettano, silenziosi anche loro, un carico di morte. Ce ne stiamo zitti e non facciamo polemiche. Al massimo, tra una palata e l'altra, ci guardiamo l’un l’altro negli occhi, ma solo per pochi istanti. Ci scambiamo occhiate fugaci, cariche di interrogativi. Poi prevale il pudore e, lesti, riabbassiamo lo sguardo a terra attenti a dove scaviamo. Infine, dopo le cerimonie funebri, restituiamo alla terra, definitivamente seppellendoli, i corpi dei nostri cari che, solo poche ore prima, abbiamo faticosamente estratti dalle macerie.
Qualche volta nei funerali, in prima fila presenziano le massime autorità rappresentative dello Stato. Poi, silenziosamente e senza fare troppe storie, ognuno se ne ritorna nella propria casa. Rassegnato dopo aver seppellito un figlio, un genitore o un fratello. Se distrattamente accendiamo la Tv o sfogliamo un giornale, apprendiamo che non è questo il momento di fare polemiche. In verità non ne abbiamo più la forza. Siamo svuotati e arrendevoli. Non c’è più rabbia, ma solo disincanto difronte alle scuse accampate da chi non ha saputo gestire nemmeno banali emergenze. L’assuefazione ai drammatici eventi che ripetutamente si susseguono ci ha vinti. Non c’è più meraviglia e nemmeno indignazione nell’apprendere che una ditta stava sollevando un ponte sopra un’autostrada lasciando che le automobili circolassero sotto come se niente fosse. Non ci si stupisce e non ci si arrabbia nemmeno sapendo che un lavoro tanto delicato potesse essere eseguito da una manodopera dozzinale, però economicissima. E non ci manda nemmeno in collera l’ingegnere che, intervistato, dice che si trattava di normale amministrazione e che se è venuto giù una quarantina di metri di ponte uccidendo due persone, forse qualcosa deve essere andato storto. Non ci fanno più schifo nemmeno le scatole cinesi delle partecipazioni societarie e i ribassi d’asta. Figuriamoci lo sfruttamento sempre più feroce di una mano d’opera a buon mercato, proveniente da tutti i continenti. Oppure il risparmio sull’utilizzo di materiali che il più delle volte si rivelano scadenti.
Non c’è sdegno, né riprovazione davanti alla corsa alle dichiarazioni, per declinare ogni addebito e allontanare ogni responsabilità. Noi, ciclicamente traditi da una classe dirigente inetta e inefficace, pian piano, ci siamo assuefatti alle loro gigantesche incapacità. Ammorbati di inedia non riusciamo più, salvo rarissimi casi, a darci una scossa e reagire come dovremmo. Accettiamo da chiunque qualsiasi spiegazione. Ingoiamo come una medicina amara ogni scusa. Quasi piegati all’ineluttabilità di eventi che preferiamo catalogare come fatali. Non volendo riconoscere che dietro ogni accadimento, per quanto fatale possa sembrare, vi sono precise e distinte responsabilità. Personali o collettive. Una grandissima, comune responsabilità infatti è proprio questa: non essere più capaci di indignarsi, di polemizzare. Di essere contro. Di aver perso il senso critico che ogni diversa circostanza richiede. Quella di credere in un’autistica capacità dell’individuo, piuttosto che in quella della forza del collettivo. Di confidare singolarmente nell’infinita potenza dei social network invece di quella di un confronto in una assemblea serale, mettiamo il venerdì sera. Di assumere consapevolezza, una volta per tutte, che il potere sta tutto nelle nostre mani e che se solo volessimo, potremmo sbarazzarci di questa classe dirigente in un giorno solo con una semplice croce sulla scheda elettorale. Perché in democrazia responsabili lo siamo tutti. Anche chi abbassa deliberatamente la testa perché non ha più nessuna voglia di lottare.
Ma se non vogliamo passare il resto della nostra vita ad estrarre cadaveri dalle macerie oggi, per seppellirmi al camposanto domani, dobbiamo darci una scossa e ribellarci tutti. Prima di tutto a quelli che ci chiedono di non fare polemiche. Se non facciamo polemiche loro, in tutta la loro beata mediocrità, continueranno a restare ai posti di comando. A noi, sempre più avviliti, ci toccherà spalare rottami per tutta la vita.
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