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Un pomeriggio con Raffaele Curi, dai Finzi-Contini a Man Ray, fino alla Fondazione Fendi: "Le Marche? Torno sempre là" (FOTO e VIDEO)

Un pomeriggio con Raffaele Curi, dai Finzi-Contini a Man Ray, fino alla Fondazione Fendi: "Le Marche? Torno sempre là" (FOTO e VIDEO)

Sulle tracce di quelle linee carsiche che legano luoghi e anime, dalle Marche, in particolar modo da Potenza Picena, siamo arrivati a Roma, nella metropoli fragorosa e profana, in uno slalom fra torme di visitatori, vicoli silenziosi e abbagli onirici di marmo e di luce riflessa del bianco monumentale.  

Nel primo pomeriggio, ad accoglierci nella sua casa in via Giulia, con garbo e piglio d’altri tempi, senza dubbio d’una raffinatezza oggi spersa e sparuta, se non estinta, c’è Raffaele Curi.

Riassumere la carriera di Raffaele Curi nella stenografia spaziale di poche pagine è impresa destinata all’incompletezza: la sua biografia, come le sue opere, sfugge ai contorni netti per farsi tessuto in cui arte, vita e pensiero si intrecciano in un fluire continuo.

Nato ad Ancona e cresciuto a Potenza Picena, esordisce come attore con il film da Premio Oscar “Il giardino dei Finzi-Contini” di De Sica e il “Casanova” di Fellini, allievo dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, si laurea in Lettere e filosofia con una singolare tesi sul pittore del XV secolo, Sassetta.

Assistente di Man Ray, per vent’anni ha lavorato al fianco del compositore Gian Carlo Menotti al Festival dei Due Mondi di Spoleto e collaborato con le principali personalità internazionali che hanno segnato lo scenario culturale e artistico di quegli anni. Curi, col suo operare, è in costante transito fra teatro, arti visive, cinema, filosofia, musica, poesia.

Dal 2001 è il direttore artistico della Fondazione Alda Fendi – Esperimenti, per la quale, in questa lunga parabola temporale, ha ideato un corpus di performance che, come sottolineano Samuele Briatore e Dalila D’Amico nel saggio “Circolarità”, sono vere e proprie liturgie laiche, sincretismi emozionali e intellettuali dove sacro e profano, alto e basso, memoria e presente si toccano senza confondersi.

Una casa, quella in cui abbiamo avuto la fortuna di entrare, che non di rado la si ritrova nelle pagine delle maggiori riviste di design, dove l’estetica dell’arredamento, oltre che legata al fine gusto personale, è anche l’effetto collaterale di un’intera esistenza.

Il salone, irradiato da una luce sospesa, è costellato da opere d’arte uniche; Man Ray, De Chirico proseguendo per Carol Rama, Rauschenberg…libri ovunque, colonne di volumi rari che si ergono dal parquet, cui fanno da controcanto -sospesi dall’alto del soffitto- dei cordofoni di pregiato legno.

Appoggiate sul dorso dei libri disposti sugli scaffali della parete-libreria fotografie che hanno segnato la storia del cinema e dell’arte degli anni Settanta/Ottanta. Ogni opera appesa alle pareti narra una storia precisa, legata a doppio filo alle vicende della vita di Curi, e dialoga con le altre, talvolta in opposizione dialettica, per fortuite e incredibili vicende. Un palinsesto di esistenze incrociate. 

Seduti sul divano, guardando l’attestato appeso alla parete del Premio Oscar a ‘Il Giardino dei Finzi Contini’, Curi inizia a raccontare il suo promettente esordio nel mondo del cinema...

"Credevo di voler fare l'attore e ci sono riuscito anche con importanti risultati; il mio esordio è avvenuto in un film che, come ben si sa, ha meritato l'Oscar: ‘Il Giardino dei Finzi Contini’ di Vittorio De Sica. Avevo appena vent'anni.

Dopo tre o quattro anni, ho capito che preferivo comandare: un attore, più è cera malleabile, più è docile pongo nelle mani del regista, e più riesce, più eccelle. Io, invece, nutrivo una ben più marcata propensione al comando.

Ho cominciato a spostarmi, a congegnare l'idea della direzione, della regia. Intanto, ho maturato una lunga esperienza di quindici anni al Festival di Spoleto, come assistente di Gian Carlo Menotti. E, nel mentre, ho avuto l'opportunità di essere nuovamente assistente di Man Ray.

Nonostante abbia frequentato con profitto l'Accademia d'Arte Drammatica Silvio d'Amico e l'Università La Sapienza, queste figure, giganti del loro tempo, mi hanno insegnato più di tutti: Man Ray, De Chirico, Modugno – un artista di statura grandissima – De Sica... sono stati loro la mia vera università. È stata un’avventura magnifica. Per un giovane proveniente dalla provincia, l'opportunità di constatare e toccare con mano l'opera e la personalità di tali artisti si è rivelata un'esperienza di incalcolabile valore”.

Spesso la vita col suo fortuito concorso di circostanze e trame insondabili ordisce incontri inaspettati: può raccontarci come ha conosciuto il maestro del Surrealismo, Man Ray?

"L'ho conosciuto mentre giravo un film a Torino, Un uomo, una città, e l’appartamento in cui si svolgevano le riprese apparteneva a Luciano Anselmino. Era un personaggio fuori dal comune: amico di Warhol, grande mercante d’arte, forse il più importante del periodo per quanto riguarda la pop art. Eravamo diventati amici, ed era il mercante di Man Ray. Era anche vicino a Carol Rama, che conobbi proprio grazie a lui. Purtroppo, è morto giovanissimo, pochi anni dopo, per un’overdose di eroina.

Un giorno, Luciano mi chiamò: ‘Raffaele, siamo qui per una mostra di Man Ray, si intitolerà L’occhio e il suo doppio. C’è da girare un mini-film per il Metropolitan, ti andrebbe di fare il modello?’ Accettai senza esitazioni. Il set era il Grand Hotel, e quando arrivai trovai lì Man Ray, sua moglie Juliet, e persino Luis Buñuel

All’epoca i giovani attori erano pressoché squattrinati; quando Anselmino chiese quanto avrei voluto per la parte, ho detto soltanto che non volevo nulla e che avrei invece molto gradito un catalogo con una fotografia di Man Ray.  

La sera stessa, Man Ray mi invitò a cena donandomi una delle sue ultime opere. Se avessi accettato il danaro, lo avrei già speso, come è d'uso; l'opera d'arte, invece, non si esaurisce mai. I marchigiani, si sa, sono avveduti!”

Si è ritrovato a essere testimone di un’epoca straordinaria, un’agorà di menti fervide che con la loro “grammatica” hanno riscritto dei codici culturali; Andy Warhol, Pasolini, Rauschenberg, Moravia…oggi è possibile rivivere un periodo storico del genere?

“Oggi non è possibile viverlo; non esistono più personaggi così. La vostra generazione è una generazione sventurata. È il modo di pensare che è radicalmente mutato. L'idea che esista l'intelligenza artificiale è soltanto un inganno: siete molto sfortunati. C’è chi oggi viene da me, e io non sono certo Man Ray; nell'assoluto nulla io divento un personaggio, pur non essendolo. Prima, c’era la possibilità di tutto. Tutte queste grandi personalità ti preparavano: era un'incessante voglia essenzialmente di vivere”.

Nel suo salotto vediamo due opere di artisti non propriamente sodali: De Chirico e Man Ray.  A un primo sguardo si potrebbe pensare quasi a una regia beffarda, può raccontarci di più?

"La storia di De Chirico è essenzialmente legata a Man Ray, al quale l'allora sindaco di Roma, Clelio Darida, donò le chiavi della città e un’opera appositamente realizzata dal pittore metafisico, ignaro dell’antipatia che i surrealisti, Man Ray incluso, nutrivano verso la pittura metafisica.

Appena ricevuta l’acquaforte, Man Ray me la diede con disprezzo, chiedendomi di strapparla e gettarla nel water del Grand Hotel. Non lo feci, la incartai, la consegnai alla reception e la ritirai il giorno dopo. Oggi, nel mio salotto, convivono appese l’opera di Man Ray e quella di De Chirico”.    

In un’epoca segnata da omologazione, dato, algoritmo e combinatoria dell’IA, che cosa significa “fare arte” e distinguersi?

"Se qualcuno possiede una grande personalità, oggi è percepito come un folle. Io so bene ciò che desidero. Si deve essere uguali agli altri, altrimenti non si riesce a emergere, e questo è drammatico. Solo con uno sforzo immane, che alla fine può persino logorarti, forse si riesce. Io, a costo di rimanere solo, di essere abbandonato da tutti, non ho mai rinunciato alla mia personalità. Voglio questo, e questo deve essere, ma probabilmente sono fuori tempo.

Non so se oggi si è in un momento in cui si debba ridefinire la trama dell'arte; l'arte contemporanea è terrificante, priva di pensiero. Si parla di arte concettuale ma se non si parte dal concetto, l'arte non è concettuale".

Qual è il suo rapporto con le Marche, con la terra della sua infanzia?

“Penso sempre alle Marche, torno sempre là; è la base della mia vita. Faccio sempre le stesse passeggiate, non ho dimenticato nulla. Quando si attraversa un momento buio, si torna sempre in quei luoghi e si cerca di rivedere l'infanzia, ma soprattutto le Marche. La nostra zona è una regione fatata; c’è il Monte della Sibilla, le leggende di fate, streghe, i mazzamurelli... È una regione che sa aiutarti, sa accarezzarti”.

Conclusa la conversazione, lasciamo la casa di Raffaele Curi per dirigerci al Palazzo Rhinoceros, vicino all’Arco di Giano, progettato e arredato dall’architetto premio Pritzker Jean Nouvel per accogliere la Fondazione Alda Fendi - Esperimenti.

Nelle sale di questo spazio, Curi ci ha guidati lungo il percorso che si snoda all’interno dell’ultima mostra ancora in corso; ogni passo è un addentrarsi nella profonda inquietudine scaturita dalla crisi dello spettacolo tradizionale, dall'avanzata dell'Intelligenza Artificiale e dai mutamenti geopolitici.

Un viaggio che inizia con la proiezione dei frammenti de "La caduta dell'impero romano" di Anthony Mann, passa per la poco conosciuta performance "The Sun is Down" di Yoko Ono e Lady Gaga, e le sagome visionarie di David Lynch.

Al centro, le iconiche opere di design come il divano "Tramonto a New York" e la poltrona "Up" di Gaetano Pesce, insieme a citazioni che spaziano da Giovenale a Stephen King, dipingendo un'umanità sospesa tra l'apogeo e l'incertezza. È un richiamo a discernere se il crepuscolo che avvolge la nostra epoca sia l'ombra di una fine irreversibile o un’inedita alba.  Intanto, mentre rimane la vertigine dell'interrogativo "Is it sundown?", una sfera gialla riempie un’intera parete fino a estinguersi, lasciando un’effige proiettata al muro, ideata dallo stesso Curi:

“La mente intuitiva è un dono sacro. La mente razionale è un fedele servo. La nostra società adora il servo e ha dimenticato il dono".

 

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