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Cronaca di una tragedia nascosta: la storia di Peppino Impastato

Cronaca di una tragedia nascosta: la storia di Peppino Impastato

La morte di Peppino Impastato ha rischiato di restare intrappolata tra la nebbia che avvolge i misteri italiani. Pareri ufficiali discordanti e menzogne hanno accompagnato la fine di un giornalista libero in terra di Mafia. A ripercorrere i giorni che seguirono l'inchiesta del presunto suicidio il generale dell'Arma, Paolo Piccinelli che proprio in sicilia presterà servizio a pochi anni dalla Strage di Capaci e da quella di Via D'Amelio.

A «Mafiopoli» la vita scorre, giorno dopo giorno, tranquillamente e, come sempre, senza grandi scossoni, tranne le eccezioni che ci sono dappertutto. Solitamente c'è calma, tranquillità; invece, quel giorno c'è movimento, c'è tensione. Tutti sono in attesa dell'importante decisione riguardante il progetto chiamato Z-10 e la costruzione di un palazzo a cinque piani; perciò, il grande capo, Tano Seduto, si aggira come uno sparviero sulla piazza”. 

Il 7 aprile 1978 durante la trasmissione radiofonica «Onda pazza» di Radio Aut, Peppino Impastato parla in questi termini del suo paese d'origine, Cinisi, centro costiero a due passi da Palermo e di un suo illustre concittadino. Il Tano Seduto che cita è Gaetano Badalamenti, meglio noto come Don Tano, potente, riverito, temuto, prestigioso esponente della mafia palermitana e siciliana, collocato ai suoi vertici assieme a personaggi destinati ad entrare nella leggenda di Cosa nostra come Stefano Bontate e come Luciano Leggio. 

Parlare di mafia, a quei tempi, è un atto di coraggio, ma fare i nomi dei mafiosi e ridicolizzarne i capi pubblicamente è sicuramente un atto temerario. E la cosa non poteva passare sottogamba agli uomini di cosa nostra. Nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978 Peppino Impastato viene fatto saltare in aria sui binari della linea ferroviaria che collega Palermo a Trapani, nel tratto ricadente nel Comune di Cinisi.  La scena che si presenta ai carabinieri, poliziotti e magistrati accorsi sul posto è davvero tragica: un pezzo della linea ferroviaria divelta, brandelli del corpo di Peppino sparpagliati per decine di metri.

Una delle prime cose che viene curiosamente effettuata nell’immediatezza è una perquisizione alla sede di Radio Aut e poi alle abitazioni della mamma e della zia di Peppino. Qui, tra il materiale che viene portato via in sacchi neri (oggetto di un improbabile, quanto illecito “sequestro informale”), viene trovata una lettera, risalente ad alcuni anni prima, nella quale Peppino manifestava, alla luce del proprio malcontento politico, l’intenzione di finirla con la propria attività politica e con la vita:  trovato il movente! Peppino impastato si è suicidato. O, al limite, è morto mentre stava preparando un attentato lungo la linea ferroviaria.

E tali convinzioni trovano spazio nel rapporto giudiziario del 10 maggio successivo a firma dell’allora Maggiore Subranni, Comandante del reparto Operativo di Palermo, nel quale viene affermato che Peppino Impastato si era suicidato mentre compiva scientemente un attentato terroristico. Tali conclusioni investigative sono state ribadite anche in un secondo rapporto giudiziario, del 30 maggio, in risposta ad una richiesta di delucidazioni chieste del PM Signorino, nella quale peraltro si invitava la polizia giudiziaria a considerare tra le ipotesi investigativa anche quella dell’omicidio. 

Tesi queste che resistono anche agli esiti negativi di un grande numero di perquisizioni nei domicili di giovani compagni di Impastato alla ricerca di armi e esplosivi e che resiste anche agli esiti negativi dei rilievi effettuati a bordo della Fiat 850, ove non viene trovata alcuna traccia di esplosivo. Tesi che resiste agli esiti del tutto divergenti, degli esami testimoniali degli stessi amici di Giuseppe Impastato, proseguiti incessantemente fino alla stesura del rapporto del 10 maggio. 

Esami che indicavano la matrice mafiosa dell'evento e fornivano evidenti spunti investigativi, evocando con chiarezza i contenuti salienti dell'impegno politico dell'Impastato nella denuncia dell'esistenza di un traffico internazionale di stupefacenti, nella denuncia degli interessi economici e delle attività criminali facenti capo ai mafiosi operanti nella zona. 

I due rapporti giudiziari sono stati oggetto di successivi approfondimenti, anche e soprattutto da parte di una Commissione parlamentare appositamente istituita, che ha evidenziato le tante ingiustificate lacune dall’attività investigativa. Basti pensare che il fascicolo fotografico allegato al primo rapporto giudiziario era costituito da sole 9 foto (peraltro di macabri dettagli dei ritrovamenti dei brandelli del corpo di Peppino) senza una didascalia o un ordine.

Basti ancora considerare che non fa quasi cenno al casolare abbandonato, all’interno del quale gli amici di Peppino, accorsi sul posto, trovano una pietra insanguinata. Basti ancora pensare alla mancanza di accertamenti sulla provenienza dell’esplosivo utilizzato (indicato da un perito come esplosivo da cava. E in zona esistevano cave da controllare).

In pratica nessun atto di polizia giudiziaria è mai stato indirizzato nei confronti di soggetti a qualsiasi titolo riconducibili agli ambienti mafiosi oggetto delle denunce di Giuseppe Impastato e dei giovani facenti capo a Radio Aut. E ciò anche se, già all'indomani dell'evento mortale, era emerso un quadro netto e distinto dell'importanza dell'opera di «controinformazione» svolta dall'Impastato e del livello delle sue denunzie. 

Dovranno purtroppo passare da allora ancora molti anni per conoscere l'entità degli interessi criminali denunziati da Giuseppe Impastato, a partire dal fenomeno del trasporto dello stupefacente a mezzo di corrieri e dall'insediamento territoriale delle raffinerie dell'eroina che a far data dal 1977/78 consentirono a cosa nostra di lucrare centinaia di miliardi l'anno. Nessuna perquisizione nei confronti di mafiosi. Nessuna richiesta di intercettazioni telefoniche.

Né il pubblico ministero, durante i sei mesi in cui tratta direttamente l'inchiesta, effettua o delega approfondimento o un'indagine sulle persone, sui fatti e sulle specifiche circostanze che prima Peppino Impastato e poi i suoi amici avevano avuto il coraggio civile di denunciare. Un ultimo, ma non meno significativo, profilo della ricostruzione delle vicende delle indagini sulla morte di Giuseppe Impastato è dato dai rapporti tra il reparto operativo, e i comandi superiori dell'arma dei carabinieri. E questo aspetto a me, che dall’Arma provengo, fa particolarmente male.

Di fatti il superiore Comando della Legione più volte richiese e sollecitò al reparto operativo informazioni sull'andamento delle indagini. E tali richieste si fecero insistenti e frequenti dopo la formalizzazione del processo contro ignoti per omicidio volontario. Spicca, per il contenuto, la nota a firma del comandante pro-tempore del nucleo operativo, il maggiore Tito Baldo Honorati, indirizzata al comando del gruppo di Palermo dove, tra l’altro si dice: «Le indagini molto articolate e complesse svolte all'epoca da questo Nucleo operativo hanno condotto al convincimento che l'Impastato Giuseppe abbia trovato la morte nell'atto di predisporre un attentato di natura terroristica.

L'ipotesi di omicidio attribuito all'organizzazione mafiosa facente capo a Gaetano Badalamenti operante nella zona di Cinisi è stata avanzata e strumentalizzata da movimenti politici di estrema sinistra ma non ha trovato alcun riscontro investigativo ancorché sposata dal Consigliere Istruttore del tribunale di Palermo. Rocco Chinnici a sua volta, è opinione di chi scrive, solo per attirarsi le simpatie di una certa parte dell'opinione pubblica conseguentemente a certe sue aspirazioni elettorali, come peraltro è noto, anche se non ufficialmente ai nostri atti, alla scala gerarchica.......”.  La nota è del giugno del 1984. Il dott. Chinnici era stato ucciso dalla mafia il 23 luglio 1983.

In tutta la vicenda hanno avuto un ruolo determinante i familiari e gli amici di Giuseppe Impastato che intervennero con tempestività ed efficacia sulla scena processuale presentando nel novembre 1978 il «Promemoria all'attenzione del giudice Chinnici» e il Documento della redazione di Radio Aut. Il «promemoria» offriva una serie di suggerimenti investigativi che furono in gran parte espletati dal giudice istruttore, mentre altri, pure molto importanti, risultavano purtroppo superati o impossibili da eseguirsi per il lungo tempo trascorso. 

Il primo capitolo processuale termina con la richiesta del Pubblico Ministero di non doversi procedere, quanto all'omicidio premeditato in danno di Giuseppe Impastato, per essere rimasti ignoti gli autori del reato. L'atto conclusivo della prima fase si ha con la sentenza istruttoria del dott. Antonino Caponnetto in data 19 maggio 1984. Nella quale viene tuttavia stigmatizzata la valutazione compiuta dal Pubblico Ministero nella sua requisitoria finale, laddove afferma che le originarie indagini furono «dubbiose» in ordine alla qualificazione della morte di Impastato. 

La successiva parentesi della tormentata storia processuale, cioè la riapertura delle indagini disposta dalla Procura di Palermo è avviata, su sollecitazione degli amici e dei familiari di Impastato. Nel giugno del 1986, infatti, il fratello, Giovanni Impastato, e alcuni amici di Peppino chiedono formalmente la riapertura del procedimento. La sentenza di questo secondo filone non portò a risultati concreti per la mancanza di prove consistenti nei confronti Di Tano Badalamenti e degli altri appartenenti alla sua consorteria mafiosa. Ma viene evidenziato il sospetto che ad uccidere Impastato fosse stata la frangia mafiosa dei «corleonesi». 

Una formale richiesta di riapertura delle indagini venne avanzata a firma del legale dei familiari e del Centro Impastato in data 9 maggio 1994, atteso il diverso ruolo che, nell'ambito della struttura di cosa nostra sembrava dovesse attribuirsi a Badalamenti sulla base delle risultanze delle indagini scaturite dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio ma, soprattutto, con riferimento alle ulteriori dichiarazioni di Buscetta e di altri collaboratori di giustizia, tra cui Salvatore Palazzolo affiliato proprio alla mafia di Cinisi, collaborazione che poteva offrire spunti decisivi per l'accertamento della verità sulla morte di Giuseppe Impastato. 

Il 27 maggio del 1997 viene chiesta la custodia cautelare in carcere per Gaetano Badalamenti e gli arresti domiciliari per Vito Palazzolo, indicati come responsabili del delitto Impastato. Il travagliato processo che ne è seguito si è concluso con la condanna, il 5 marzo del 2001, a 30 anni di carcere per Vito Palazzolo, ritenuto esecutore dell’omicidio, e con la condanna, l’11 aprile del 2002, all’ergastolo per Gaetano Badalamenti ritenuto il mandante. 

24 anni sono passati dopo quel 9 maggio del 1978 per arrivare ad una sentenza che inchiodasse alle loro responsabilità gli autori di quel terribile delitto. Troppi. Storia costellata di errori, superficialità, e anche depistaggi, che non hanno portato a condanne solo perché sopravvenuto, come troppo spesso accade, il potente scudo della prescrizione. Che cancella l’eventuale pena. Ma non fa dimenticare quello che si è commesso. 

 

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