Montecosaro, l'indie dei Moin protagonista del terzo appuntamento con Mount Echo'
A Montecosaro domenica 16 aprile, alle 21:30 al teatro delle Logge data unica di una delle band più apprezzate nel 2022: i Moin, una formazione che gode di un grande credito da parte della critica musicale internazionale.
C'è qualcosa di misterioso nel loro ultimo album: la batteria si trova in primo piano nel mix, e il collage tra suoni, il parlato e l’uso dettagliato e chirurgico dei campionamenti, creano un tipo di minimalismo di grande impatto. L'approccio di Moin in 'Paste' è scarno, ma perspicace: propone una linea interpretativa nuova alla musica indie degli anni '80 e '90, che sa guardare al futuro, plasmata per modellare la loro versione più corposa di sempre.
L’attitudine sperimentale di Joe Andrews e Tom Halstead, noti nel circuito indipendente per essere titolari del progetto Raime, ha scovato nuovi sentieri lastricabili a seguito del colpo di fulmine consumatosi nei confronti del drumming della “nostra” Valentina Magaletti.
Se l’album dello scorso anno, “Moot!”, aveva colto di sorpresa e meravigliato un po’ tutti (ma il trio è operativo nel sottobosco londinese da una decina d’anni), “Paste”, opera seconda dei Moin, porta in dotazione non soltanto piacevoli conferme dal punto di vista stilistico e qualitativo, ma altresì un approccio più fruibile, scelta che potrebbe contribuire ad allargare la schiera di sostenitori, sempre più folta.
L’electro industrial dei Raime resta mitigato dalla presenza delle chitarre, che se da un lato guardano al post-hardcore obliquo e rallentato dei Fugazi (le saturazioni dell’esemplare “Melon”, gli accenti dissonanti di “Forgetting Is Like Syrup”), dall’altro si nutre del post-rock a suo tempo modellato da Slint (i ridondanti armonici di “Hung Up”) e June Of 44 (le inquiete atmosfere di ”Foot Wrong”).
Nel mix sonoro dei Moin non è poi difficile rintracciare ulteriori influenze provenienti sia dal vecchio (Uzeda) che dal nuovo continente (Sonic Youth), scaglie post-grunge (se ne scorgono fra le pieghe di “Knuckle”), math-rock semplificato (il loop sul quale si srotola la conclusiva “Sink”), inquietante astrattismo (“In A Trizzy”) e accenti tribali (un po’ ovunque).
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