EDITORIALE - "Mattarella bis": i partiti vincono, gli italiani perdono. E fin qui, tutto normale
Sergio Mattarella manterrà la carica di Presidente della Repubblica per altri sette anni. Ce ne sono voluti otto di scrutini per decretarlo. Nemmeno così tanti, a pensarci bene, visto che i primati assoluti appartengono ancora a Giovanni Leone (eletto nel 1971 al 23° spoglio) e Sandro Pertini (eletto nel 1978 al 16° spoglio). Ma una volta segnato il precedente con Napolitano (2013), il vizio è stato confermato nel 2022. Con buona pace della Costituzione.
Quello espresso dal presidente ieri 3 febbraio 2022 in Parlamento durante il nuovo insediamento è già stato definito dai più “Il discorso della dignità”.
Perché “dignità è azzerare i morti; dignità è opporsi al razzismo e all’antisemititsmo; dignità è impedire la violenza sulle donne; dignità è diritto allo studio; dignità è rispetto per gli anziani; dignità è non dover essere costrette a scegliere tra lavoro e maternità; dignità è contrastare le povertà; dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate; dignità è un Paese non distratto di fronte ai problemi quotidiani che le persone con disabilità devono affrontare; dignità è un Paese libero dalle mafie; dignità è garantire e assicurare il diritto dei cittadini a un’informazione libera e indipendente”.
Parole che sarebbero valse più un profondo silenzio di riflessione, che non l’ennesima standing ovation.
Sergio Mattarella ha accettato l’invito a un secondo mandato, per la felicità di tutte le forze politiche, che ora possono tornare al loro bel da farsi. La Lega a sfruttare al meglio i cambi di vento, il Movimento 5 Stelle a fare i conti con i propri contrasti interni, Fratelli d’Italia alla sua mesta – seppure pericolosa - opposizione, il Partito Democratico a capire cosa significa essere oggi di sinistra.
La debolezza, in questo senso, nel non aver saputo individuare dei candidati di rilievo per la poltrona del Quirinale è l’ultima, esauriente fotografia del panorama politico in cui l’Italia riversa da almeno dieci anni a questa parte.
Gli italiani nel frattempo hanno continuato a fare i conti con le evoluzioni incerte di una pandemia; con la crisi energetica - con conseguente innalzamento del caro bolletta; con quella economica che grava ulteriormente sulle tasche e sul mercato del lavoro; con quella della sanità pubblica in perenne sofferenza; con le mancate riforme della Giustizia e della scuola; con la burocrazia ancora lenta e inefficiente.
La politica, invece, rimane lì dove è sempre stata: lontana e immobile.
Insomma, si torna alla politica di sempre: quella delle facili strumentalizzazioni, degli accordi sottobanco, degli slogan d’effetto, del circo mediatico, del qualunquismo, del populismo, dei discorsi da talk televisivo, dei dissing sui social, degli schieramenti di convenienza. Una politica che non sa pensare davvero al popolo che dovrebbe rappresentare, e che soppesa le proprie scelte come ha imparato a fare dal 1992 (anno di Tangentopoli).
Solo che nel frattempo il mondo è andato avanti. L’Italia no.
Una politica che rimane anche sessista, visto il patologico ritardo sulle quote rosa in ogni ambito. Esemplare in queste ultime elezioni è stata la proposta di un presidente donna arrivata in piena corsa al Quirinale, senza una reale intenzione alle spalle e lanciata semplicemente in pasto ai giornali solo per mettere una pezza sopra la fallita unitarietà dei partiti.
Tante crepe, quindi. Anzi, vere e proprie faglie che aspettano la prossima scossa prima di farsi baratro. Dove comunque a cadere non saranno i politici, ma gli italiani. Sempre più prede del peggiore individualismo, e vittime delle progressive disparità sociali.
Prendendo in prestito da un vecchio film di John Carpenter: “Più le cose cambiano, più restano le stesse”.
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