di Oberdan Pantana

Vaccino Covid-19: si può imporre?

Vaccino Covid-19: si può imporre?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato l’argomento del momento e precisamente se il vaccino contro il coronavirus può essere reso obbligatorio dallo Stato. Di seguito l’analisi dell’avv. Oberdan Pantana. Per comprendere se il vaccino Covid può essere reso obbligatorio è fondamentale partire dalla Costituzione, in particolare dall’art. 32, il quale afferma, al primo comma, che, “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Tale disposizione, quindi, valorizza il bene della salute sotto un duplice punto di vista, e, precisamente il diritto all’individuo e l’interesse della collettività. Proprio per tale secondo aspetto potrebbe venire in rilievo la scelta di rendere obbligatoria la somministrazione di un vaccino, cosa che del resto già accade con riferimento a numerose malattie; si pensi ai vaccini obbligatori nella prima infanzia, la cui somministrazione è requisito imprescindibile per l’ammissione a scuola. Lo stesso art. 32 della Costituzione, oltretutto, al secondo comma, sancisce che, “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Il che vuol dire che, rispettando la persona che vi soggiace, la legge può imporre un trattamento sanitario, e quindi anche un vaccino, purché, chiaramente, sussistano valide ragioni di tutela del bene salute. A tale ultimo proposito, particolarmente chiarificatrice è la sentenza n. 5/2018 della Corte Costituzionale, che, proprio con riferimento all’obbligo vaccinale, ha precisato che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost., purché, tuttavia, ricorrano le seguenti condizioni: - il trattamento deve sia migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, sia preservare lo stato di salute degli altri; - deve prevedersi che il trattamento non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è sottoposto, ad eccezione delle conseguenze che appaiono normali e, quindi, tollerabili; - nell’ipotesi di danno ulteriore, deve essere prevista la corresponsione di un’equa indennità in favore del danneggiato, a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria. Tutto ciò considerato e data la portata straordinaria ed eccezionalmente grave della pandemia da coronavirus, possiamo affermare che lo Stato è astrattamente legittimato ad imporre il vaccino contro il Covid-19, ma in che modo? Nell’escludere ragionevolmente il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) che di certo si caratterizza per essere una misura eccessiva e nel complesso non in grado di assicurare un adeguato bilanciamento di tutti i molteplici interessi costituzionalmente protetti che vengono in rilievo nel caso di specie, a questo punto rimangono le alternative individuate dalla Corte Costituzionale nella medesima pronuncia n. 5/2018. In particolare la Consulta, ribadendo la discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità con le quali assicurare una prevenzione efficace delle malattie infettive, ha rilevato che la legge può “selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo”. Pertanto, la scelta più verosimile è quella di realizzare un piano differenziato che preveda delle imposizioni solo per talune categorie di soggetti, che sono vicine a persone particolarmente a rischio, che operano in contesti delicati o che vengano quotidianamente in contatto con un numero elevato di persone (si pensi a medici, infermieri, personale che presta servizio nelle RSA, personale docente, e così via). Per tutti gli altri, potrebbero essere imposti oneri se non ci si vaccina ed incentivi se lo si fa: ad esempio si potrebbe decidere di limitare l’accesso agli uffici pubblici se non si è vaccinati o consentire di andare al cinema o negli stadi solo a chi si è sottoposto a vaccinazione; il tutto sotto l’ombrello del principio di solidarietà sociale che ispira tutto il testo costituzionale. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                               

03/01/2021 10:00
Danni provocati da veicolo con tagliando assicurativo palesemente falso: chi paga?

Danni provocati da veicolo con tagliando assicurativo palesemente falso: chi paga?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la controversa tematica, relativa alla responsabilità delle compagnie assicurative in caso di sinistro stradale, e in alternativa, la possibilità di attivazione del Fondo di Garanzia vittime della strada. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Matelica, che chiede: “In caso di sinistro stradale provocato da un veicolo sprovvisto di assicurazione o munito di tagliando assicurativo falso, è comunque responsabile la compagnia assicurativa del soggetto che ha provocato l’incidente, oppure si può essere indennizzati direttamente dal Fondo di Garanzia vittime della strada?” Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto dibattuta, relativa alla responsabilità colposa delle compagnie assicurative, nonché circa le condizioni e modalità di attivazione del c.d. Fondo di Garanzia, facendo particolare riferimento all’art. 283 C.d.A., che disciplina in modo chiaro, le circostanze in cui il Fondo interviene ad indennizzare il soggetto danneggiato nella misura stabilita in sede di formulazione della relativa offerta, statuendo testualmente: “Il Fondo di garanzia per le vittime della strada, costituito presso la CONSAP, risarcisce i danni causati dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, per i quali vi è l’obbligo di assicurazione, nei casi in cui: a)il sinistro sia cagionato da veicolo o natante non identificato;b)il veicolo o natante non risulti coperto da assicurazione;c)il veicolo o natante risulti assicurato presso una impresa in stato di liquidazione coatta o vi venga posta successivamente;d)il veicolo sia posto in circolazione contro la volontà del proprietario, dell’usufruttuario, dell’acquirente con patto di riservato dominio o del locatario in caso di locazione finanziaria.” Inoltre, per il caso specifico di sinistro con veicolo provvisto di tagliando assicurativo falso e dunque, privo di idonea copertura assicurativa, rientrante nella categoria di cui alla lett. b), è opportuno operare una precisazione, poiché in tal caso, infatti, così come stabilito dall’art. 127 C.d.A, la compagnia di assicurazione del soggetto danneggiante risulterebbe responsabile per il solo fatto del rilascio di contrassegno assicurativo ed indipendentemente dall’inefficacia o dall’invalidità del rapporto di assicurazione, pure in ipotesi di contrassegno contraffatto o falsificato, salvo che l’assicurazione stessa dia prova dell’insussistenza di una propria condotta colposa, tale da ingenerare in capo al danneggiato, l’incolpevole affidamento in merito alla sussistenza del rapporto assicurativo; in tale ultimo caso, dunque, ad operare sarà il Fondo di Garanzia. Tale questione è stata infatti affrontata dalla Corte di Cassazione con l’Ordinanza, n. 6300/2019, la quale ha fatto luce su tale controversa fattispecie, pronunciandosi  in merito ad una questione analoga e consolidando un prezioso principio di diritto. Difatti, nel caso di specie, sia il Giudice di Pace che il Tribunale adito in funzione di giudice di appello, avevano rimproverato al danneggiato che aveva subito dei danni a causa di un sinistro avuto proprio con un veicolo munito di un tagliando falso, di aver attivato direttamente il Fondo di Garanzia per le vittime della strada, anziché promuovere preventivamente una causa di risarcimento avverso la compagnia di assicurazione falsamente indicata nel tagliando, sulla base di un autonomo convincimento circa la palese falsità del contrassegno in oggetto. Al contrario, la Suprema Corte adita, ha cassato tale pronuncia, stabilendo il principio di diritto secondo il quale: “Non sussiste per il danneggiato la necessità di citare autonomamente l’assicurazione apparentemente titolare del contrassegno assicurativo, allorchè la prova della falsità o comunque della non attribuibilità del tagliando assicurativo all’assicurazione citata, emerga dagli atti del giudizio promosso nei confronti del Fondo Vittime della Strada, per essere stata dal danneggiato spontaneamente e preventivamente accertata, rendendo superflua l’instaurazione di un autonomo giudizio nei confronti dell’apparente compagnia, la quale si limiterebbe ad invocare il fatto notorio della falsità del contrassegno”(Corte di Cass.; Sez. III Civ.; Ord. n. 6300; dep. 05.03.2019). Per tali motivi, in risposta alla domanda del nostro lettore, in caso di sinistro con veicolo sprovvisto di idonea copertura assicurativa o munito di tagliando palesemente falso, il soggetto danneggiato potrà attivare direttamente la procedura di indennizzo nei confronti del Fondo di Garanzia con le modalità previste dal codice delle assicurazioni, il quale fornirà una copertura dei danni in base all’offerta di indennizzo di volta in volta formulata, senza dover preventivamente citare per il risarcimento dei danni, la compagnia assicurativa falsamente indicata, dal momento che, dato l’immediato accertamento circa la palese falsità del contrassegno assicurativo, non appare in nessun caso ipotizzabile una responsabilità colposa in capo alla stessa. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.  

20/12/2020 11:00
Cambia la serratura dell’immobile impedendo l’ingresso a chi ne ha diritto: condannato

Cambia la serratura dell’immobile impedendo l’ingresso a chi ne ha diritto: condannato

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana,  “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra comproprietari di beni immobili e relative problematiche. Il caso di specie scelto è di un lettore di Civitanova Marche che chiede: “A quali responsabilità può andare incontro chi da proprietario al 50% di un immobile cambia la serratura della porta d’ingresso negando così l’entrata all’altro comproprietario?” Il caso di specie ci porta ad analizzare il reato di cui all’art. 610 c.p. secondo il quale, “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”; difatti, come da orientamento giurisprudenziale consolidato di legittimità, “Si ravvisa il delitto di violenza privata anche nella condotta di chi impedisce l’esercizio dell’altrui diritto di accedere ad un locale o ad una delle stanze di un’abitazione, chiudendone a chiave la serratura o cambiandola senza il consenso e la relativa consegna delle nuove chiavi” (Cass., Pen., Sez. V, n. 4284 del 29.9.2015). A tal proposito, si evidenzia che, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il delitto di cui all’art 610 c.p. si qualifica come reato d’evento e a forma vincolata: il fatto tipico consiste, infatti, nel costringere altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, mediante l’impiego di violenza o di minaccia. Quanto al concetto di violenza rilevante – che è quello che in questa sede interessa - esso è costituito dall’esplicarsi di una qualsiasi energia fisica da cui derivi una coazione personale; non rileva, né la qualità dei mezzi adoperati, né che essi siano diretti o indiretti, di carattere materiale o psicologico, occorrendo solo l’idoneità di essi al raggiungimento dello scopo che è quello di costringere altri a fare, tollerare od omettere qualcosa. Si parla di violenza in due diverse accezioni: violenza propria e violenza impropria; la prima deve intendersi quella fisica che si esplica direttamente sulla vittima, mentre quella “impropria“, si esplica attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, configurabili anche laddove essa non si indirizzi contro l’altrui persona, ma sulle cose, alla sola condizione che dispieghi un’effettiva incidenza costrittiva sulla volontà della vittima. Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “Integra il reato di violenza privata ex art. 610 c.p. impedire l'esercizio dell'altrui diritto di accedere ad una stanza di un'abitazione o di un locale chiudendola a chiave o cambiandone la serratura”(Cass. Pen.; sentenza n. 38910/2018). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                       

13/12/2020 09:50
Mette all’incasso un assegno a garanzia: condanna per appropriazione indebita?

Mette all’incasso un assegno a garanzia: condanna per appropriazione indebita?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana,  “Chiedilo all'avvocato”.  In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti debitori tra soggetti con l’utilizzo o  meno di strumenti posti a garanzia degli stessi. Il caso di specie scelto è di un lettore di Porto Potenza Picena che chiede: “A quali responsabilità può andare incontro il creditore che pone all’incasso un assegno postdatato o senza data a garanzia di un rapporto obbligatorio tra le parti in violazione del relativo accordo?”.  Circa la legittimità del rilascio di un assegno postdatato a garanzia si può affermare che non integra una fattispecie di reato, ma sussistono certamente profili civilistici da non sottovalutare. La giurisprudenza sia di legittimità che di merito è uniforme sul punto nell’affermare che l’emissione di un assegno in bianco o postdatato, è contrario alle norme imperative di cui agli artt. 1 e 2 R.D. n. 1736/1933 (T.U. Assegno). Ciò nonostante l’assegno postdatato mantiene la propria piena efficacia cartolare, posto che è sì titolo irregolare, ma non nullo, con dovere di pagamento a vista. L’assegno, anche se postdatato, mantiene infatti la sua obiettiva idoneità strumentale a costituire mezzo di pagamento equivalente al denaro e non perde le sue caratteristiche di titoli di credito. Con la conseguenza che gli atti estintivi di debiti, effettuati con assegni postdatati non costituiscono mezzi anormali di pagamento e non sono, pertanto, assoggettati alla azione revocatoria fallimentare prevista dall’articolo 67, comma 1, n. 2, della legge fallimentare; pertanto, un assegno postdatato a garanzia dell’adempimento di un piano di rientro con rate concordate a fronte di un debito certo e già scaduto può essere legittimamente rilasciato e trattenuto dal prenditore, e ciò non comporta alcun illecito. Contrariamente, se il prenditore mette all’incasso un assegno postdatato prima della data indicata sul titolo stesso, in contrasto con quanto pattuito con il debitore, si configura il reato di appropriazione indebita di cui all’art. 646 del codice penale.  Infatti, la condotta del prenditore che indebitamente incassa l’assegno, con coscienza e volontà, sapendo di non averne diritto, allo scopo di trarre per se’ o per altri un’utilità s’appalesa giuridicamente coerente con l’elemento soggettivo del reato di appropriazione indebita. La Corte di Cassazione ha più volte ricordato che le parti di un rapporto giuridico, nella loro autonomia negoziale, possono usare l’assegno bancario, anziché nella sua funzione tipica di titolo di credito destinato a circolare secondo le modalità cogenti di questa disciplina, come mero strumento di garanzia per l’adempimento delle obbligazioni pattuite, prevedendo, in caso di inadempienze, un apposito patto di riempimento a favore del creditore che potrà, quindi, da quel momento, considerarsi legittimo possessore e porre in circolazione il titolo, ovvero conferendo a questo valore sostanziale promessa di pagamento utilizzabile, in detta evenienza, nel modi consentiti dalla legge come prova del credito. Conseguentemente, così come da consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, la condotta del prenditore che ponga all’incasso un assegno bancario ricevuto a garanzia e, in violazione dell’accordo concluso con l’emittente, si appropri della somma riscossa integra il delitto di appropriazione indebita ex art. 646 del codice penale, in quanto, in tale ipotesi si assiste ad un’arbitraria deroga al patto di garanzia con il quale le parti hanno pacificamente negoziato un utilizzo diverso dell’assegno bancario rispetto alla sua tipica funzione di titolo di credito, attribuendogli il valore di mero strumento di garanzia di adempimento delle obbligazione pattuite con esigibilità futura condizionata. Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “Integra il reato di appropriazione indebita la condotta del prenditore che ponga all’incasso un assegno bancario ricevuto a garanzia e, in violazione dell’accordo concluso con l’emittente, si appropri della somma riscossa”(Corte di Cassazione, Sez. II Penale, sentenza n. 12577/18). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                          

06/12/2020 09:46
"Suo marito l'ha tradita!": condanna per diffamazione a carico dell'investigatore privato?

"Suo marito l'ha tradita!": condanna per diffamazione a carico dell'investigatore privato?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana,  “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra ex coniugi con esplicito riferimento all’attribuzione per colpa della separazione. Il caso di specie scelto è di un lettore di Morrovalle che chiede: “A quali responsabilità può andare incontro l’investigatore privato assunto dalla moglie per provare il tradimento del proprio marito nel successivo giudizio di separazione con addebito di colpa?”  A tal proposito risulta utile riportare il caso giuridico nel quale a finire sotto processo per diffamazione è il titolare dell’agenzia investigativa per aver consegnato alla cliente una nota investigativa redatta su carta intestata con cui veniva attribuita al marito una relazione sentimentale con una collega, relazione risalente a due anni e mezzo prima quando il matrimonio era ancora solido e i coniugi erano lontanissimi dall’idea della separazione; quel documento è stato poi utilizzato dalla donna, che ha commissionato l’attività investigativa nel procedimento di separazione personale con addebito proprio per tale “presunto” tradimento nel quale però veniva riscontrata l’assenza di effettivi elementi di riscontro in merito all’affermazione di tradimento contenuta nella stessa nota dell’investigatore. La vicenda arrivata in Appello il cui Giudicante dichiarava che, la mail dell’investigatore privato inviata alla propria cliente con cui si comunicava che “da indagini espletate emerge che il proprio marito ha una relazione sentimentale da due anni e mezzo circa con una sua collega”, tanto da attribuire esplicitamente una relazione clandestina, iniziata quando era ancora pienamente operante il dovere di fedeltà nascente dal matrimonio, ha un’oggettiva idoneità lesiva della reputazione del coniuge traditore, a fronte della clamorosa assenza di elementi di riscontro in merito all’affermazione contenuta in tale nota. Tirando le somme, “è munita di oggettiva idoneità lesiva della reputazione ed è obiettivamente pregiudizievole della reputazione della persona offesa l’attribuzione non veritiera di una relazione clandestina, in costanza di matrimonio, ad uno dei coniugi, atteso che integra lesione della reputazione altrui non solo l’attribuzione di un fatto illecito, perché posto in essere contro il divieto imposto da norme giuridiche, assistite o meno da sanzione o da patti riconosciuti vincolanti dal diritto civile, ma anche la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio. Di conseguenza, descrivere la persona, oggetto di comunicazione con altri, capace di tradire la fiducia del coniuge, allacciando una relazione sentimentale con un’altra donna, si ritiene costituisca condotta idonea ad esporla al pubblico biasimo e, conseguentemente, a ledere la sua reputazione”, chiosa il Giudicante. Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “È diffamazione l’attribuzione non confermata da dati certi di una relazione clandestina in costanza di matrimonio da parte dell’investigatore privato il quale non poteva ignorare che la cliente avrebbe fatto di quella notizia uso a proprio vantaggio, mettendone a parte terze persone, in quanto consapevole dello stato di coniuge separando della stessa e che quindi le avesse fornito la notizia della relazione extraconiugale del marito, con l’intento di farle conseguire un vantaggio nel giudizio di separazione”(Tribunale di Roma, 31 ottobre 2018). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                         

29/11/2020 09:45
La nuova relazione dell’ex moglie fa venire meno il mantenimento o l’assegno divorzile?

La nuova relazione dell’ex moglie fa venire meno il mantenimento o l’assegno divorzile?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana,  “Chiedilo all'avvocato”.  In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra ex coniugi con esplicito riferimento alla debenza o meno dell’assegno di mantenimento o divorzile alla ex in caso di una sua nuova relazione. Il caso di specie scelto è di un lettore di Tolentino che chiede: “ Se la ex moglie ha una nuova relazione tale circostanza fa venire meno la debenza dell’assegno divorzile? A tal proposito risulta utile portare il consolidato principio giuridico applicato dal Tribunale di Como con l’Ordinanza del 12.04.2018, con la quale è stato stabilito che, “Il marito non deve più corrispondere l’assegno di mantenimento alla moglie che ha intrapreso una nuova relazione sentimentale, anche se non convive con il nuovo partner ed è priva di attività lavorativa”. Così ha deciso il Presidente delegato del Tribunale di Como, in via provvisoria e urgente, a conclusione della primissima fase di un divorzio giudiziale – quando generalmente vengono confermate le condizioni della separazione – che ha sin da subito esonerato il marito dal dover corrispondere alla ex moglie, l’assegno stabilito in separazione. La donna in questione, già madre di due figli maggiorenni con lei conviventi, aveva avuto il terzo figlio dal nuovo partner con il quale non aveva instaurato alcuna convivenza. Fino a poco tempo fa, al fine di essere esonerati dal pagamento dell’assegno, era necessario che il coniuge obbligato dimostrasse in giudizio la creazione da parte dell’ex coniuge di una nuova famiglia di fatto, stabile e duratura, e che questa convivenza incidesse “realmente e concretamente sulla situazione economica dell’ex coniuge risolvendosi in una fonte effettiva di reddito”. Il Presidente del Tribunale di Como ha però ritenuto che le conseguenze economiche derivanti dalle scelte di vita della donna, nello specifico quella di intraprendere una nuova relazione sentimentale (seppur priva del requisito della convivenza) e quella di avere un figlio (scelta che aveva certamente inciso in termini di difficoltà di reperimento di una occupazione lavorativa), non potessero ricadere sul futuro ex coniuge. Infatti, non è la mera coabitazione a provare la solidità del rapporto ma, al contrario, è l’esistenza effettiva di un nuovo legame, stabile e duraturo, a determinare la cessazione della corresponsione dell’assegno di mantenimento. Nello stesso senso, con decreto pubblicato il 21.05.2018,  si è pronunciato anche il Tribunale di Ancona, il quale – in una causa di modifica delle condizioni di divorzio e sulla base delle stesse motivazioni del Tribunale di Como –, ha ritenuto di dover revocare l’assegno stabilito in favore della ex moglie. In questo caso, a fondare la decisione del Tribunale sono state le numerose foto depositate dal marito (tratte dai social network), che dimostravano l’inequivocabile intensità del rapporto tra la ex moglie e il nuovo partner, i periodi di vacanza trascorsi insieme “a nulla rilevando le modalità di ripartizione tra essi delle spese di vacanza”, e la relazione investigativa dalla quale emergeva l’assiduità della frequentazione (seppur priva del requisito della convivenza). Dunque, costruire  una nuova famiglia – nell’accezione moderna del termine – non è un obbligo, ma una decisione libera e consapevole che ha risvolti pratici e conseguenze giuridiche ben precise. Ecco quindi che, anche in queste pronunce, i  Tribunali – nel solco tracciato dalla Corte di Cassazione nella discussa sentenza Grilli del maggio 2017 sull’assegno divorzile – continuano a valorizzare il principio della autoresponsabilità economica dei coniugi: “la formazione di una famiglia di fatto costituisce espressione di una scelta di vita esistenziale e consapevole, con assunzione del rischio della cessazione del rapporto, rescindendo ogni collegamento con il tenore e il modello di vita legati al coniugio”. Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “La nuova relazione affettiva instaurata dall’ex coniuge fa venire meno l’obbligo di versare l’assegno divorzile mensile da parte dell’altro coniuge obbligato, purché la detta relazione sia connotata dai requisiti di stabilità e continuità”(Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 22604/20; depositata il 16 ottobre 2020). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                                                                                                     

22/11/2020 10:00
Acqua, carta e cicche lanciate sul balcone del vicino: vale una condanna

Acqua, carta e cicche lanciate sul balcone del vicino: vale una condanna

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana,  “Chiedilo all'avvocato”.  In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra condomini che spesso e volentieri vanno a deteriorarsi per comportatemi incivili di alcuni nei confronti di altri. Il caso di specie scelto è di un lettore di Macerata che chiede: “A quale responsabilità può andare incontro il condomino che per dispetto ed inciviltà butta le cicche delle sigarette ed altra spazzatura sul terrazzo sottostante?" A tal proposito risulta utile portare un caso giuridico terminato in Cassazione, nel quale un condomino era stato vittima di dispetti del proprio vicino con il balcone sopra al proprio tanto da far diventare il piano inferiore come “immondezzaio” con lanci di cicche di sigarette, carta ed altri oggetti. I Giudici della Suprema Corte, con sentenza n.16459/2013, hanno ritenuto inammissibile il ricorso proposto dal condomino incivile, il quale si era visto condannare in secondo grado per i reati di cui agli artt. 81 cpv e 674 cod. pen., avendo arrecato molestia al condomino del piano inferiore. Difatti, la condotta del ricorrente è stata qualificata non soltanto "incivile", ma considerata una fattispecie integrante il reato di "getto pericoloso di cose", ex art. 674 c.p., secondo cui è punito "chiunque getta o versa in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte ad offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissione di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti". Si ricorda che quello in analisi è un tipico reato contravvenzionale, punibile indifferentemente a titolo di dolo o colpa; pertanto, ne risponde chiunque abbia agito volontariamente ovvero per semplice negligenza o leggerezza. I Giudici della Cassazione precisano che sì «la contravvenzione di “getto pericoloso di cose” non è configurabile quando l’offesa, l’imbrattamento o la molestia abbiano ad oggetto esclusivamente cose e non persone» ma «ai fini della configurabilità del reato di “getto pericoloso di cose” non si richiede che la condotta contestata abbia cagionato un effettivo nocumento, essendo sufficiente che essa sia idonea ad offendere, imbrattare o molestare le persone», ed in questa vicenda è certo che «il getto ha interessato il balcone», cioè «un luogo abitualmente frequentato dalle persone che abitavano l’appartamento».  Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: "Integra il reato di getto pericoloso di cosa chiunque getta o versa nel balcone sottostante cicche di sigarette, carta o altro oggetto atto ad offendere o imbrattare o molestare persone”(Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 9474/18). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                                                     

15/11/2020 10:25
Minacciare i congiunti del creditore per evitare il pagamento del proprio debito: è estorsione

Minacciare i congiunti del creditore per evitare il pagamento del proprio debito: è estorsione

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana,  “Chiedilo all'avvocato”.  In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili alla possibile degenerazione dei rapporti tra il creditore ed il debitore. Il caso di specie scelto è di un lettore di Civitanova Marche che chiede: “A quale responsabilità può andare in contro il debitore che per evitare il pagamento di un debito minaccia i congiunti del creditore? A tal proposito risulta utile portare un caso giuridico terminato in Cassazione, nel quale un professionista aveva azionato la procedura di recupero del proprio credito professionale nei riguardi del debitore, il quale, dopo aver contestato direttamente al professionista la non debenza di tale credito, aveva minacciato anche violentemente i congiunti del professionista al fine di evitare tale pagamento. Tale condotta sicuramente comporta la commissione di un reato ma quale tra l’estorsione e quello meno grave dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni? Il fondamentale elemento atto a distinguere i due reati, che assume rilievo decisivo nel caso in esame, è dato dall'astratta azionabilità della pretesa vantata dall'agente nei confronti della parte offesa, poiché il solo reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (non anche l'estorsione) è commesso da chi, "al fine di esercitare un preteso diritto", e "potendo ricorrere al giudice", "si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone". In più occasioni la Suprema Corte (Cass. Pen., Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Rv. 268361) ha già chiarito che, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria. Occorre, in particolare, che l'autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale, anche se detto diritto non sia realmente esistente, e tale pretesa deve, inoltre, corrispondere perfettamente all'oggetto della tutela apprestata in concreto dall'ordinamento giuridico, e non mirare ad ottenere un qualsiasi quid pluris, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall'agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato; nel delitto di estorsione, al contrario, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia. Nel caso di specie, è incontrovertibile il fatto che la pretesa azionata con minacce anche violente da parte del debitore riguarda l'entità dei compensi per prestazioni professionali reclamati dal professionista, e rispetto a tale rapporto obbligatorio i propri congiunti destinatari delle condotte illecite erano del tutto estranei; la richiesta di ottenere, per la predetta causale, vantaggio patrimoniali diretti a discapito di tali terzi estranei, non sarebbe stata, pertanto, in alcun modo coltivabile in giudizio, tanto da integrare per tale ragione il reato più grave di estorsione. Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: "Integra il reato di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario con violenza o minaccia alle persone, la condotta di chi reclami la soddisfazione di un presunto diritto ponendo in essere condotte violente o minacciose in danno di soggetti terzi, estranei al rapporto obbligatorio dal quale scaturisce, nella prospettiva dell'agente, il diritto vantato"(Cass. Pen., Sez. II, sentenza n. 30792/20; depositata il 4 ottobre).                     

08/11/2020 10:10
Mamma non autorizzata entra a scuola per prendere il figlio: attenzione alla condanna per interruzione di pubblico servizio

Mamma non autorizzata entra a scuola per prendere il figlio: attenzione alla condanna per interruzione di pubblico servizio

In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al rapporto tra genitori ed istituto scolastico nello specifico con professori e dirigenti scolastici. Il caso di specie scelto è di una lettrice di Macerata che chiede: “Una mamma che entra a scuola e preleva il proprio figlio senza una precedente richiesta al dirigente scolastico può andare incontro a delle responsabilità? A tal proposito risulta utile riportare un caso giuridico terminato in Cassazione, i cui Giudici hanno ritenuto evidente, come accertato in Appello, «la realizzazione di un danno al regolare svolgimento dell’attività scolastica, essendo incontestato che l’introduzione nella scuola della donna in orario non a ciò previsto, utilizzando una porta secondaria retrostante dell’istituto, prelevando il proprio figlio senza alcuna comunicazione ed autorizzazione, con quel che ne è seguito in termini di aggressione verbale nei confronti della collaboratrice scolastica, ha fatto sì che si determinasse tra gli alunni e gli insegnanti in generale un’agitazione tale da indurli ad interrompere le attività didattiche ed affacciarsi dalle aule per capire cosa stesse succedendo e ad intervenire opportunamente, assieme alla dirigente scolastica». Corretta, quindi, la lettura data al comportamento tenuto dalla madre, poiché il reato di “interruzione di un pubblico servizio” previsto dal Codice Penale si concretizza anche quando «la condotta, pur non determinando l’interruzione o il turbamento del pubblico servizio inteso nella sua totalità, comporta comunque la compromissione del regolare svolgimento di una parte di esso», posto che va tutelato «non solo l’effettivo funzionamento di un ufficio o servizio pubblico, ma anche il suo ordinato e regolare svolgimento». Evidente poi, secondo i Giudici, la consapevolezza della madre, che ha tenuto «una volontaria condotta trasgressiva», accettando le possibili conseguenze, «anche in punto di regolare svolgimento delle lezioni e dell’attività in genere del plesso scolastico». Corretta anche su questo fronte la valutazione compiuta in Appello, laddove si è applicato il principio secondo cui «ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico è sufficiente che il soggetto sia consapevole che il proprio comportamento possa determinare l’interruzione o il turbamento del pubblico ufficio o servizio, accettando ed assumendone il relativo rischio». A rendere ancora più grave il comportamento della madre, è la constatazione che «non era la prima volta che ella travalicava le regole di comportamento in quel contesto scolastico, essendo più volte accaduto che la ricorrente attaccasse ed offendesse insegnanti ed operatori per un malinteso senso di difesa del figlio, che ripetutamente assumeva comportamenti intemperanti, aggressivi e violenti sia nei confronti dei propri compagni che degli insegnanti».   Pertanto, in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che: “Va punita la mamma che si reca a scuola senza preavviso per portare via il figlio – in anticipo sull’orario di uscita – e crea così tanto scompiglio da spingere docenti e allievi a uscire dalle classi, per diversi minuti (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 28213/20; depositata il 9 ottobre).   Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                       

01/11/2020 10:00
Il conduttore arreca molestia ai vicini: è motivo di inadempimento contrattuale

Il conduttore arreca molestia ai vicini: è motivo di inadempimento contrattuale

 Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al rapporto tra locatore e conduttore oltre a quello riferibile anche ai vicini di abitazione. Il caso di specie scelto è di una lettrice di San Severino Marche che chiede: “E’ motivo di inadempimento contrattuale il comportamento del conduttore che reca molestia ai vicini?” A tal proposito risulta utile riportare il trattato caso giuridico con il quale un locatore intentava azione di risoluzione per inadempimento, nel corso di un rapporto locatizio ad uso abitativo, nei confronti di una conduttrice, per essere quest’ultima inadempiente per comportamenti molesti, e, pertanto, a rilasciare l’immobile in ottemperanza a quanto previsto dell’art. 2 del contratto di locazione sottoscritto dalle parti, che vietava al conduttore di compiere atti e tenere comportamenti che potessero recare molestie agli altri abitanti dello stabile. Tale vicenda, approdata in Cassazione a seguito del ricorso della conduttrice dopo essere stata condannata sia in I° che in II° al rilascio dell’immobile, la stessa motivava la propria decisione di rigetto richiamando anche il mutato orientamento giurisprudenziale che aveva interessato l’art. 1587 c.c.. A riguardo sosteneva infatti che la giurisprudenza avrebbe dapprima individuato la ratio dell’art. 1587 c.c. nell’abuso del godimento del bene locato solo nel momento in cui venivano modificati lo stato di fatto e la destinazione d’uso dell’immobile e nella misura in cui dette modifiche comportassero un danno economico al locatore o alterassero la conservazione del bene locato che deve essere restituito nelle identiche condizioni in cui è stato ricevuto. Successivamente si assiste ad una interpretazione estensiva del dettato normativo, individuando l’abuso anche in assenza di modificazione di fatto dell’immobile o cambio della destinazione d’uso, qualora l’uso vada comunque a pregiudicare il valore dell’immobile stesso. Viene, introdotto, quindi un altro criterio ovvero il comportamento del conduttore che molesta i vicini a seguito del quale si configura l’inadempimento contrattuale per abuso della cosa locata nei confronti del locatore, il quale dovrebbe rispondere verso gli altri inquilini come di fatto proprio, se tollerasse tali molestie. Quindi il contratto può essere risolto non solo se vi è diminuzione del bene locato, ma anche quanto ipoteticamente il locatore potrebbe diventare responsabile nei confronti dei vicini per le molestie del conduttore. Pertanto, in risposta alla nostra lettrice di San Severino Marche risulta corretto affermare che: “La condotta del conduttore è motivo di abuso di bene locato, se rinviene da atti molesti volti a recare danno agli altri abitanti dello stabile. E’ oltremodo ravvisabile l’inadempimento contrattuale qualora, anche in assenza di modificazione di fatto dell’immobile o cambio della destinazione d’uso, l’utilizzo possa comunque pregiudicare il valore dell’immobile stesso, ciò in applicazione dell’art. 1587 c.c..” (Cass. Civ., Sez. III, ordinanza n. 22860/20, depositata il 20 ottobre). Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                          

25/10/2020 09:56
Covid-19, nuove misure anti-contagio e proroga dello stato di emergenza

Covid-19, nuove misure anti-contagio e proroga dello stato di emergenza

 Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le nuove misure attuate dal Governo in tema di repressione delle condotte a tutela dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. Di seguito l’analisi dell’avvocato Oberdan Pantana:  "È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 248 del 7 ottobre 2020 il decreto legge n. 125/2020 recante misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19 e per la continuità operativa del sistema di allerta COVID, nonchè per l'attuazione della direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020. Sulla medesima Gazzetta Ufficiale è stata pubblicata la delibera del Consiglio dei Ministri che proroga lo stato di emergenza. A tal proposito, sono già obbligatorie le mascherine anche all’aperto, o meglio, per riprendere le parole del decreto, è previsto l’«obbligo di avere sempre con sè dispositivi di protezione delle vie respiratorie, con possibilità di prevederne l'obbligatorietà dell'utilizzo nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto ad eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande».  Restano esclusi i soggetti che svolgono attività sportiva, i bambini di età inferiore ai 6 anni, i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina.  Le Regioni possono prevedere misure più restrittive. In riferimento alle sanzioni, vanno da 400 euro a 1.000 euro, ad oggi, le multe per chi non rispetti le limitazioni imposte dalle regole anti-contagio, come quella di indossare la mascherina; mentre chi ha contratto il Covid-19 ma non rispetta la quarantena può incorrere in una sanzione penale con l'arresto da 3 a 18 mesi, oltre che in un'ammenda da 500 a 5.000 euro. Inoltre, in caso di violazione dell'isolamento fiduciario, ossia quella misura che viene applicata ai contatti stretti di casi confermati Covid-19 e prevede l’obbligo di isolamento per 14 giorni, così come ai casi confermati Covid dimessi dall’ospedale e dura fino all’accertamento della guarigione mediante due tamponi con esito negativo a distanza almeno di 24 ore l’uno dall’altro, si prevede una sanzione amministrativa in denaro da 400 a 3.000 euro. Sono in aggiunta stati differiti al 31 ottobre 2020 i termini di cui all'art. 1, commi 9 e 10, d.l. 14 agosto 2020, n. 104, recante «Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell'economia»; riguarda i nuovi trattamenti di cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario e cassa integrazione in deroga. Infine, la delibera del Consiglio dei Ministri datata 7 ottobre e approdata nella medesima GU, proroga lo stato di emergenza fino al 31 gennaio 2021.  Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                

11/10/2020 09:45
Ammortizzatori sociali COVID-19: come poterne beneficiare?

Ammortizzatori sociali COVID-19: come poterne beneficiare?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le istruzioni operative necessarie per poter beneficiare degli ammortizzatori sociali COVID-19. Ecco di seguito l’analisi dell’avv. Oberdan Pantana:  "Il d.l. agosto (d.l. n. 104/2020) ha introdotto significative modifiche alla disciplina degli ammortizzatori sociali COVID-19. L'INPS, pertanto, fornisce le prime indicazioni operative a riguardo, e precisamente: - le aziende che nel 2020 sospendono o riducono l'attività lavorativa per eventi riconducibili all'emergenza da COVID-19, possono richiedere la concessione dei trattamenti di integrazione salariale (ordinari o in deroga) o dell'assegno ordinario per una durata massima di 9 settimane, per periodi decorrenti dal 13 luglio al 31 dicembre 2020. Tale durata massima può essere incrementata di ulteriori 9 settimane, nel medesimo arco temporale, per i soli datori di lavoro ai quali sia stato già interamente autorizzato il precedente periodo di 9 settimane e purché sia integralmente decorso detto periodo; - la domanda per le prime 9 settimane deve essere presentata con la causale “Covid-19 nazionale” già esistente, mentre le seconde 9 devono essere richieste tramite la nuova causale “COVID-19 con fatturato” entro il 31 dicembre 2020; - i datori di lavoro che accedono alle prime 9 settimane non sono tenuti a versare il contributo addizionale, mentre quelli che beneficiano delle seconde 9 devono versare un contributo addizionale riparametrato sulla base dell'andamento del fatturato; - anche le imprese che alla data del 13 luglio 2020 hanno in corso un trattamento di Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS) e che devono sospendere il programma di CIGS a causa dell'interruzione dell'attività produttiva possono accedere al trattamento di CIG ordinaria, per una durata massima di 18 settimane (9 + 9), per periodi decorrenti dal 13 luglio 2020 al 31 dicembre 2020; i datori di lavoro che, al termine delle prime 9 settimane, volessero beneficiare anche delle seconde 9, devono effettuare una comunicazione al ministero del Lavoro; - possono presentare domanda di assegno ordinario anche i datori di lavoro iscritti al Fondo di integrazione salariale (FIS) che, alla data del 13 luglio 2020, avevano in corso un assegno di solidarietà: anche per questa specifica prestazione, la durata complessiva del trattamento non può essere superiore a 18 settimane (9 + 9); - è confermata la disciplina per l'inoltro della domanda di Cassa Integrazione Guadagni in Deroga (CIGD) all'INPS, che dovrà essere preceduta dalla definizione di un accordo sindacale che l'azienda e le organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale possono concludere anche in via telematica; - per il settore agricolo, le domande di Cassa Integrazione Salariale Operai Agricoli (CISOA) per periodi decorrenti dal 13 luglio e sino 31 dicembre 2020 devono essere presentate utilizzando sempre la causale “CISOA DL RILANCIO”. Le predette domande possono riguardare anche lavoratori per i quali risulti superato il limite di fruizione ordinario pari a 90 giornate; - il termine del 30 settembre (stabilito in fase di prima applicazione del D.l. agosto quale data ultima per la presentazione delle istanze di accesso agli ammortizzatori sociali) viene sospeso e le domande e la documentazione per i pagamenti diretti presentate entro il 31 ottobre saranno definite successivamente alla conversione in Legge del D.l. agosto.  Nel rimanere in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, Vi do appuntamento alla prossima settimana.                                                                  

04/10/2020 09:19
Passa il taglio dei parlamentari: e adesso cosa succede?

Passa il taglio dei parlamentari: e adesso cosa succede?

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante la recente riforma costituzionale votata dai cittadini in tema di taglio dei parlamentari, con i possibili riflessi che la stessa potrà avere. Ecco di seguito l’analisi dell’avv. Oberdan Pantana:  "Il referendum costituzionale che si è appena tenuto si inserisce nell’ambito del procedimento di revisione costituzionale disciplinato dall’art. 138 Cost.. Il testo della legge recante “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, infatti, è stato approvato, in seconda lettura, nelle sedute dell’11 luglio 2019 (Senato) e dell’8 ottobre 2019 (Camera) a maggioranza assoluta; non essendo stata raggiunta la maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti di ciascuna camera, un quinto dei senatori ha potuto richiedere il referendum confermativo. Si è trattato del quarto referendum costituzionale nella storia della Repubblica Italiana. Agli elettori è stato chiesto di approvare, o meno, la proposta di revisione costituzionale comportante: - la riduzione del numero dei deputati della Camera da 630 a 400, con contestuale riduzione degli eletti nella circoscrizione Estero da 12 a 8 (art. 56 Cost.); - la riduzione del numero dei senatori da 315 a 200, con contestuale riduzione degli eletti nella circoscrizione Estero da 6 a 3 e riduzione del numero minimo di senatori per ogni Regione da 7 a 3, lasciando fermi i 2 senatori per il Molise e 1 senatore per la Valle d’Aosta (art. 57 Cost.) - la riduzione a 5 del numero complessivo dei senatori a vita in carica nominati dal Presidente della Repubblica (art. 59). Con la netta vittoria del sì, la riforma costituzionale è, oramai, diventata legge. Tuttavia, al fine di salvaguardare la legislatura in corso, la riduzione del numero dei parlamentari scatterà a partire dal primo scioglimento o dalla prima cessazione delle Camere successiva all'entrata in vigore della legge di revisione costituzionale. Nel frattempo, l’attuale Parlamento sarà chiamato ad adottare una serie di misure volte a rendere la nuova composizione degli organi elettivi coerente con le norme costituzionali, la legislazione elettorale ed i regolamenti parlamentari, evitando le incongruenze e le distorsioni già segnalate anche dai sostenitori del no. A tal proposito, il sistema elettorale è destinato a diventare lo snodo principale delle riforme istituzionali e, verosimilmente, terreno di scontro politico. A detta delle principali forze parlamentari e della maggioranza dei commentatori, il taglio dei parlamentari mal si concilia con una disciplina elettorale, quale quella del "Rosatellum", che prevede l’attribuzione di circa il 37% dei seggi tramite un meccanismo maggioritario in collegi uninominali e dei restanti seggi mediante un sistema proporzionale con liste bloccate e sbarramento al 3%. In particolare, è stato segnalato che il considerevole aumento della dimensione dei collegi uninomiali derivante dalla riduzione del numero dei parlamentari avrebbe pesanti effetti negativi per la rappresentanza, attenuando considerevolmente la relazione dell’eletto con il territorio. A fronte di tale situazione, il dibattito politico, al momento, si è orientato verso un ritorno al sistema proporzionale, puro o con soglie di sbarramento più o meno alte. Ad oggi, è stato adottato in commissione Affari costituzionali un testo base, volto ad introdurre un sistema interamente proporzionale con soglia di sbarramento al 5%, anche se non è escluso che tale soglia possa essere abbassata nei prossimi mesi al 3 o 4%, come richiesto dalle forze minori dell'attuale compagine governativa. In ogni caso, si tratta di una materia sulla quale le valutazioni politiche saranno destinate ad incidere in misura preponderante rispetto a quelle prettamente tecniche. Indipendentemente dal dibattito sui collegi uninominali e sulle soglie di sbarramento, è stata segnalata la necessità di ovviare, per il Senato, alla riduzione della rappresentanza nelle Regioni medie e piccole, che, in alcuni casi, rischiano, sulla base dell’attuale disciplina elettorale, di essere rappresentate solo dalle prime due forze politiche. Inoltre, a fronte dei segnalati effetti distorsivi sulla composizione e sulla rappresentanza del Senato, è stato proposto, innanzitutto, di uniformare i requisiti dell’elettorato attivo (art. 56 Cost.), abbassando da 25 a 18 anni l’età minima per il voto, così da ridurre – almeno in linea teorica – il rischio che dalle urne possano uscire due maggioranze diverse per i due rami del Parlamento. Questo correttivo, peraltro, è stato già approvato, in prima lettura, da Camera e Senato, ma soprattutto è stato proposto (cfr. disegno di legge c.d. Fornaro) di eliminare l’elezione del Senato “su base regionale” (art. 57 Cost.), così da permettere la costituzione di circoscrizioni pluriregionali ed evitare (o, quantomeno, ridurre) i segnalati effetti distorsivi sulla rappresentanza. Da ultimo, non si può escludere che il Parlamento decida di rivedere il bicameralismo perfetto, differenziando compiti e prerogative delle due Camere, con l’obiettivo di salvaguardare e, auspicabilmente, migliorare la funzionalità del Parlamento “a ranghi ridotti”. Infine, il taglio dei parlamentari dovrà sicuramente essere accompagnato da una riforma dei regolamenti parlamentari, attualmente tarati sulla precedente composizione delle Camere; in particolare, al fine di evitare situazioni di stallo e garantire la regolarità dei lavori, occorrerà intervenire sulla composizione delle commissioni, delle giunte, delle presidenze, dei gruppi parlamentari e sui quorum delle votazioni. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                  

27/09/2020 09:03
“Decreto semplificazioni”: tutte le novità riguardo al Codice della Strada

“Decreto semplificazioni”: tutte le novità riguardo al Codice della Strada

Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”. Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le novità al Codice della Strada adottate tramite la Legge del 11 settembre 2020 n. 120, di conversione del d.l. 16/7/2020 n. 76, il decreto “semplificazioni”. Di seguito l’analisi dell’avvocato Oberdan Pantana:  Nel decreto “semplificazioni”, è stata nascosta una miniriforma al codice della strada disseminata, in maniera disorganica, tra le “semplificazioni procedimentali” di cui al Capo I del Titolo II, le disposizioni in materia di “cittadinanza digitale e accesso ai servizi digitali della pubblica amministrazione” di cui al Capo I del Titolo III, le “semplificazioni in materia di attività di impresa e investimenti pubblici” e le “semplificazioni in materia di green economy” di cui ai Capi I e III del Titolo IV. Con specifico riferimento alle modifiche al Codice della Strada, il primo impatto riguarda l’esenzione dal divieto di guida con targa estera; come noto, il decreto sicurezza, con l’obiettivo di combattere il fenomeno della “esterovestizione” dei veicoli, aveva inserito all’art. 93, comma 1-bis, il divieto di circolare sul territorio italiano con un veicolo immatricolato in uno Stato estero nei confronti di chi risieda in Italia da oltre 60 giorni. Unica deroga è concessa, dal comma 1-ter, al soggetto residente in Italia da oltre 60 giorni, conducente di un veicolo concesso in leasing, in locazione senza conducente o in comodato a un soggetto legato da un rapporto di lavoro o di collaborazione con un'impresa costituita in un altro Stato membro dell'Unione Europea o aderente allo Spazio Economico Europeo, che non abbia stabilito una sede secondaria o effettiva in Italia. Per mitigare la portata di tale rigore viene oggi introdotto il nuovo comma 1-quinquies che, nel tentativo di risolvere i numerosi problemi recati dalla precedente normativa, esclude dal divieto cinque categorie di soggetti: i residenti nel comune di Campione d'Italia; il personale civile e militare dipendente da pubbliche amministrazioni in servizio all'estero, non iscritti nelle anagrafi dei cittadini italiani residenti all'estero (AIRE) ai sensi dell’art. 1 c. 9 lett. a) e b) L. 470/1988; i lavoratori frontalieri, o quei soggetti residenti in Italia che prestano un'attività di lavoro in favore di una impresa avente sede in uno Stato confinante o limitrofo (si tratta di Austria, Francia, San Marino, Slovenia, Svizzera, Vaticano), i quali, con il veicolo ivi immatricolato a proprio nome, transitano in Italia per raggiungere il luogo di residenza o per far rientro nella sede di lavoro all'estero; il personale delle Forze armate e di Polizia in servizio all'estero presso organismi internazionali o basi militari; il personale dipendente di associazioni territoriali di soccorso, per il rimpatrio dei veicoli immatricolati all'estero. Altra novità riguarda al nuova classificazione di “strada urbana ciclabile” (lett. e-bis) del comma 3 dell’art. 2, definita come strada interna a un centro abitato, a unica carreggiata, con banchine pavimentate e marciapiedi, con limite di velocità fino a 30 km/h, con priorità per i velocipedi che godono anche di precedenza nei confronti degli altri veicoli (nuovo comma 4-bis dell’art. 145). Ai sensi del nuovo comma 9-bis dell’art. 148, lungo tali strade, per effettuare il sorpasso di un velocipede si devono osservare particolari cautele per assicurare la distanza laterale di sicurezza; a tal fine, prima di effettuare il sorpasso, il conducente deve valutare l'esistenza delle condizioni per compiere la manovra in sicurezza, regolando la velocità che deve essere ridottissima qualora lo richiedano le circostanze, la cui violazione comporta la sanzione pecuniaria da 167 a 666 euro. Inoltre, il nuovo comma 1-bis dell’art. 182, prevede che in caso di circolazione sulle strade urbane ciclabili, ai ciclisti non si applica l’obbligo di procedere su un’unica fila; infine, su tali strade i Comuni possono stabilire la modalità di circolazione dei velocipedi anche a “doppio senso ciclabile”, cioè in senso opposto al senso unico di marcia (art. 7 c. 1 lett. i-bis). Numerose poi le modifiche alle definizioni stradali recate dall’art. 3. Viene sostituito integralmente il n. 12-bis) che novella la definizione di “corsia ciclabile”, posta di norma a destra della carreggiata, appositamente delimitata e contraddistinta, destinata alla circolazione sulle strade dei velocipedi. Tale corsia può essere impegnata, per brevi tratti, da altri veicoli laddove le dimensioni della carreggiata lo consentano, anche quando siano presenti fermate del trasporto pubblico. Infine, la corsia si intende valicabile, per lo spazio necessario a consentire agli altri veicoli di effettuare la sosta o la fermata, nei casi in cui vi sia fascia di sosta laterale. Viene, inoltre, aggiunto il nuovo n. 12-ter), recante la definizione di “corsia ciclabile per doppio senso ciclabile”, quale parte longitudinale posta a sinistra di una carreggiata urbana a senso unico, appositamente delimitata e contraddistinta, valicabile e a uso promiscuo, idonea a consentire la circolazione sulle strade urbane dei velocipedi in senso contrario a quello di marcia. Viene, infine, inserito il nuovo n. 58-bis), che introduce la nuova definizione di “zona scolastica” come zona urbana in prossimità della quale si trovano edifici adibiti a uso scolastico, in cui è garantita una particolare protezione dei pedoni e dell'ambiente, delimitata lungo le vie di accesso da appositi segnali. Ai sensi del nuovo comma 11-bis dell’art. 7, in tali zone può essere limitata o esclusa la circolazione, la sosta o la fermata di tutte o di alcune categorie di veicoli, a eccezione degli scuolabus, degli autobus destinati al trasporto degli scolari, nonché dei veicoli a servizio delle persone invalide, in orari e con modalità definite con ordinanza del Sindaco. La violazione delle prescrizioni comporta il pagamento di una somma da 168 a 679 euro e, nel caso di reiterazione nel biennio, anche la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da 15 a 30 giorni. Ulteriore novità viene introdotta dal nuovo art. 12-bis, secondo il quale il Sindaco può conferire funzioni di polizia stradale in materia di prevenzione e accertamento delle violazioni: - in materia di sosta nelle aree oggetto di affidamento, a dipendenti comunali o delle società esercenti la gestione della sosta o dei parcheggi; - in materia di sosta e circolazione, fermata e sosta sulle corsie riservate, al personale ispettivo delle aziende esercenti il trasporto pubblico; - in materia di sosta o di  fermata, a dipendenti comunali o delle imprese addette alla  raccolta dei  rifiuti urbani e alla  pulizia delle  strade. A tale personale, che durante l’espletamento delle mansioni riveste la qualifica di pubblico ufficiale, è conferito il potere di contestazione, redazione e sottoscrizione dei verbali, nonché di rimozione dei veicoli; la prosecuzione dell’attività sanzionatoria resta di competenza della Polizia Municipale. Infine, con la modifica recata al comma 1 dell’art. 4 d.l. n. 121/02, convertito con modifiche nella l. n. 121/2002, i dispositivi o mezzi tecnici di controllo del traffico finalizzati al rilevamento a distanza delle violazioni in materia di velocità - con esenzione dalla contestazione immediata ai sensi dell’art. 201, comma 1-bisi, lett. f) - potranno essere utilizzati o installati non soltanto sulle strade extraurbane secondarie e sulle strade urbane di scorrimento, ma su tutte le strade individuate con decreto del Prefetto tenendo conto del tasso di incidentalità, delle condizioni strutturali, plano-altimetriche e di traffico per le quali non è possibile il fermo di un veicolo senza recare pregiudizio alla sicurezza della circolazione, alla fluidità del traffico o all’incolumità degli agenti operanti e dei soggetti controllati. Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.                                                                     

20/09/2020 10:00
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