Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall'avv. Oberdan Pantana,“Chiedilo all'avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili alla condotta di chi utilizza l’identità digitale di un altro soggetto, sostituendosi a questo nel porre in essere le più disparate attività ;di seguito la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana alla domanda posta da una lettrice di Porto Recanati che chiede: "a quali responsabilità va incontro chi utilizza per il proprio profilo su di un sito internet, una foto reperita tramite Google o Facebook appartenente ad un’altra persona?"
Assolutamente lecito iscriversi a un sito web destinato a favorire amicizie, relazioni e incontri, ma molto meno lecito, invece, utilizzare per il proprio profilo la foto di un’altra persona: questa azione, difatti, può costare una condanna penale per i reati di sostituzione di persona e violazione della privacy.
A tal proposito è la stessa Corte di Cassazione a ribadire che, “Integra il delitto di sostituzione di persona la condotta di colui che crea ed utilizza un profilo su un social network servendosi abusivamente dell’immagine di un diverso soggetto (e inconsapevole), in quanto idonea alla rappresentazione di un’identità digitale non corrispondente al soggetto che ne fa uso”.
Difatti, la descrizione di un profilo sul social network evidenzia sia il fine di vantaggio, consistente nell’agevolazione delle comunicazioni e degli scambi di contenuti in rete, sia il fine di danno per il terzo di cui è abusivamente usata l’immagine e comporta che gli utilizzatori del servizio vengano tratti in inganno sulla disponibilità della persona associata all’immagine a ricevere comunicazioni in alcuni casi anche a sfondo sentimentale o addirittura sessuale.
Allo stesso tempo, i Giudici della Cassazione precisano che, “Il reato di illecito trattamento dei dati personali è integrato dall’ostensione di dati personali del loro titolare ai frequentatori di un social network attraverso il loro inserimento, previa creazione di un falso profilo, sul relativo sito”, e “Il nocumento che ne deriva al titolare medesimo si identifica in un qualsiasi pregiudizio giuridicamente rilevante di natura patrimoniale o non patrimoniale subito dal soggetto cui si riferiscono i dati protetti oppure da terzi quale conseguenza dell’illecito trattamento”.
Alla luce di tali considerazioni, ed in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che,“E’ ritenuto colpevole di sostituzione di persona ed illecito trattamento di dati personali chi utilizza abusivamente per il proprio profilo su un sito una foto reperita tramite Google o Facebook appartenente ad un’altra persona” (Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 12062/21, depositata il 30 marzo 2021).
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante il COVID-19 e nello specifico l’autocertificazione che deve essere redata per motivare l’uscita di casa in zona rossa. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Se nell’autocertificazione in quanto in zona rossa dichiaro il falso per uscire di casa commetto il reato di falso ideologico?
Il caso di specie ci porta subito a ricordare l'art. 13 della Costituzione, il quale prevede che, "Le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate solo su atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”; perciò, alla luce del suddetto articolo della Costituzione un DPCM non può limitare la libertà personale perché norma regolamentare di grado secondario e non atto normativo con forza di legge.
L'art. 13 della Costituzione prevede inoltre una doppia riserva, una legislativa e una giurisdizionale: solo un provvedimento del giudice infatti può incidere sulla libertà personale di un soggetto, nei soli casi stabiliti dalla legge; così che, il DPCM trattandosi di fonti secondarie, regolamentari, non vi è nemmeno la necessità da parte di un giudice di sollevare la questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 13 Costituzione da parte dei DPCM; il magistrato, quindi, deve solo procedere alla loro disapplicazione perché illegittimi per violazione di legge.
Come ha chiarito la Corte Costituzionale, "la libertà di circolazione riguarda i limiti di accesso a determinati luoghi, come ad esempio, l'affermato divieto di accedere ad alcune zone circoscritte che sarebbero infette ma giammai può comportare un obbligo di permanenza domiciliare; si tratta evidentemente di due libertà distinte, che non possono essere confuse, perché quando la libertà non riguarda i luoghi ma le persone si rientra nel campo della libertà tutelata dall'art. 13 della Costituzione.
Per quanto riguarda quindi il caso di specie, il DPCM del 08.03.2020 che prevede l'obbligo di compilare e sottoscrivere un'autocertificazione per motivare il proprio spostamento, risulta in totale contrasto con i principi sanciti da uno Stato di diritto.
Pertanto, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che “Siccome la norma giuridica contenuta nel DPCM del 08.03.2020 che impone la compilazione e sottoscrizione della autocertificazione per motivare il proprio spostamento dalla propria abitazione è costituzionalmente illegittima e va disapplicata, non è configurabile il delitto di cui all’art. 483 c.p., e cioè il falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico, nei confronti chi abbia dichiarato falsamente di trovarsi in una delle condizioni che consentivano gli spostamenti anche all’interno del Comune di residenza in base al medesimo DPCM dell'8 marzo 2020” (Tribunale Reggio Emilia, Sez. GIP-GUP, sentenza n. 54/21; depositata il 27.01.2021).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante i rapporti affettivi interpersonali e, nello specifico, i diritti e doveri tra i conviventi di fatto. Ecco la risposta dell’avvocato Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Macerata che chiede: “Quali sono i diritti e doveri tra i due partner nascenti dalla convivenza di fatto?"
La famiglia legittima, che trae origine da un atto formale (il matrimonio) con cui marito e moglie si obbligano ad una reciproca assistenza materiale e morale, si distingue dalla cosiddetta famiglia di fatto, in cui tali doveri sorgono spontaneamente per effetto della condotta di vita dei due partner; si tratta di una situazione di fatto che trova copertura costituzionale grazie all’art. 2 Cost., che tutela le formazioni sociali, ove ciascun individuo esplica la propria personalità.
La nozione di convivenza di fatto, che nel corso degli anni è stata oggetto sia di elaborazione giurisprudenziale che di interventi normativi discontinui, consiste nella relazione stabile tra due persone caratterizzata da un elemento soggettivo, l’affetto, e da un elemento oggettivo, la reciproca e spontanea assunzione di diritti ed obblighi.
A questa definizione, nel 2016, ha fatto seguito la nozione legale di convivenza di fatto con la legge n. 76/2016 (c.d. legge Cirinnà), con la quale è stata introdotta una disciplina organica della convivenza more uxorio: all’art.1, comma 36, ha definito i conviventi di fatto come due persone maggiorenni che, sebbene non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile, siano unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale.
Nonostante la legge Cirinnà, al comma 37 dell’unico articolo di cui è composta, richieda la dichiarazione anagrafica per l’accertamento della stabile convivenza, la giurisprudenza ritiene che ciò che conta sia il fatto materiale della convivenza, che può essere accertato in altro modo, anche in assenza di tale dichiarazione; pertanto, la legge n. 76/2016 si applica anche alle coppie che abbiano volontariamente omesso di procedere alla registrazione anagrafica.
Gli indicatori che rilevano ai fini dell’accertamento di un rapporto di convivenza sono plurimi; si pensi, per esempio, alla ricorrenza di un progetto di vita comune, alla prestazione di reciproca assistenza, alla compartecipazione di ciascuno dei conviventi alle spese comuni, all’esistenza di un conto corrente comune e, infine, alla coabitazione.
In merito a quest’ultimo indicatore, la Corte di Cassazione si è espressa con l’ordinanza n. 9178/2018 chiarendo che la coabitazione, indice che finora era stato considerato rilevante per l’esistenza di una famiglia di fatto, non è più un elemento imprescindibile, essendo diventato un indice meramente recessivo a fronte del mutato assetto della nostra società; la Suprema Corte, nella citata ordinanza, tra i fattori complici del suddetto mutamento annovera la crisi economica, la sempre maggiore facilità dei contatti telefonici e l’economicità dei trasporti.
La scelta del luogo di abitazione, infatti, spiega la Corte, non può essere sempre conforme alle scelte affettive delle persone, ma può essere necessitata dalle circostanze economiche; così come la ricerca di un lavoro può portare l’individuo a spostarsi in un luogo diverso da quello in cui risiede il proprio centro affettivo e a trascorrervi gran parte della settimana o del mese: non per questo si può dire che venga meno la famiglia.
Nonostante debba escludersi un’applicazione per analogia delle norme dettate specificamente per la famiglia legittima, al convivente more uxorio, in alcuni casi, sono riconosciuti i medesimi diritti che spettano a chi possiede lo status di coniuge.
Innanzitutto, al comma 38 della legge Cirinnà è prevista l’equiparazione del convivente al coniuge nei casi stabiliti dall’ordinamento penitenziario, tra i quali assume un certo rilievo il diritto di visita; i detenuti, infatti, hanno il diritto di avere dei colloqui con i familiari, per tali intendendosi non solo il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado, ma anche il convivente, indipendentemente dal sesso.
Oltre a ciò, in caso di malattia o ricovero di uno dei conviventi, il comma 39 della legge citata prevede che il partner abbia il diritto di visita e possa accedere alle informazioni personali riguardanti il convivente, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere previste per i coniugi e gli altri familiari.
Il convivente, inoltre, ai sensi del comma 48 della legge Cirinnà, può essere nominato amministratore di sostegno del partner infermo oppure suo curatore o tutore qualora quest’ultimo venga dichiarato inabilitato o interdetto. II comma 65 della legge n. 76/2016, infine, prevede che in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisca il diritto del convivente di ricevere gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento; gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e in rapporto alle possibilità dell’alimentante.
Si tratta di un diritto ad una prestazione di tipo strettamente alimentare, che si differenzia sia dall’assegno di mantenimento a favore del coniuge separato sia dall’assegno divorzile.
Da ultimo, ai sensi dell’art. 199, comma 3, lett. a), c.p.p., il convivente dell’imputato in un processo penale ha il diritto di astenersi dal testimoniare.
Per quanto riguarda, invece, i diritti del convivente superstite, il comma 42 della legge n. 76/2016, prevede che in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente superstite abbia il diritto di abitarvi ancora per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore ai due anni, e comunque non oltre i cinque anni; tale diritto viene meno qualora il convivente superstite contragga matrimonio o si unisca civilmente ad altra persona ovvero in caso di nuova convivenza di fatto.
Il comma 44, inoltre, prevede il diritto del convivente a subentrare nel contratto di locazione della casa di comune residenza intestato all’altro convivente, in caso di morte di quest’ultimo.
È altresì prevista la risarcibilità del danno da perdita del convivente derivante dal fatto illecito di un terzo; invero, il comma 49 della legge Cirinnà prevede che nell’individuazione del danno risarcibile vengano applicati i medesimi criteri individuati per il risarcimento del coniuge superstite.
Al convivente spetta, dunque, in concorso con i familiari della vittima, il risarcimento del danno patrimoniale, commisurato ai contributi per il mantenimento dovuti o fondatamente attesi per il futuro e venuti a mancare in seguito all’uccisione, oltre che il risarcimento del danno non patrimoniale, consistente nel dolore derivante dalla perdita del partner.
Infine, in materia di successione per causa di morte, il convivente more uxorio del defunto non è contemplato tra gli eredi legittimi, ossia tra coloro che possono succedere ex lege qualora il de cuius non abbia redatto il testamento; la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 310/1989 ha negato l’illegittimità di tale esclusione e con la legge 76/2016 la situazione non è mutata, infatti tuttora non sono previsti diritti successori ex lege a favore del convivente.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante l’infortunio sul lavoro del dipendente e la responsabilità di tale evento. Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da una lettrice di Morrovalle che chiede: “In caso di infortunio sul lavoro del dipendente quando l’azienda risulta responsabile?"
Bisogna innanzitutto far chiarezza sul fatto che, la vittima di un infortunio sul lavoro risulta esclusivamente responsabile solamente in una circostanza, ovvero, quando abbia tenuto un “contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute” (così, tra le altre, Cass. Civ. Sentenza n. 19494 del 10/09/2009), secondo il principio che il datore di lavoro risponde dei rischi professionali propri (vale a dire insiti nello svolgimento dell’attività lavorativa) e di quelli impropri (cioè derivanti da attività connesse a quella lavorativa), ma non di quelli totalmente scollegati dalla prestazione che il lavoratore rende in quanto tale (cd. rischio elettivo). Perché sussista il rischio elettivo, dunque, occorrono tre elementi concorrenti: 1) un atto del lavoratore volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; 2) la direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; 3) la mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa. Difatti, la norma di riferimento è evidentemente l’art. 1227, comma 1, del codice civile, secondo la quale, “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate”, che peraltro va bilanciata, in ambito giuslavoristico, con il potere di direzione e controllo del datore di lavoro, unitamente al dovere di salvaguardare l’incolumità dei lavoratori. Conseguentemente, anche in ipotesi di condotta imprudente del lavoratore va escluso il concorso di colpa a carico dello stesso in tre ipotesi: a) se l’infortunio sia stato causato dalla puntuale esecuzione degli ordini ricevuti dal datore di lavoro (in questo caso l’imprudenza del lavoratore degrada a mera “occasione” dell’infortunio); b) se l’infortunio sia avvenuto a causa della organizzazione stessa del ciclo lavorativo, impostata con modalità contrarie alle norme finalizzate alla prevenzione degli infortuni, o comunque contraria ad elementari regole di prudenza; c) se l’infortunio sia avvenuto a causa di una carenza di formazione od informazione del lavoratore, ascrivibile al datore di lavoro.
Pertanto, in risposta alla domanda della nostra lettrice si può affermare che, “Nel caso di infortunio sul lavoro, è responsabile l’azienda, tanto da escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell’art 1227, comma 1, c.c., quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza; oppure abbia egli stesso impartito l’ordine, nell’esecuzione puntuale del quale si sia verificato l’infortunio; o ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi, ricorrendo, in tali ipotesi, l’eventuale condotta imprudente della vittima degradata a mera occasione dell’infortunio, ed è perciò giuridicamente irrilevante (Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 8988/20; depositata il 15 maggio).
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Questa settimana le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le condotte truffaldine molto di moda in questo periodo adottate addirittura con sfondo sentimentale. Ecco la risposta dell'avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Civitanova Marche che chiede: “A quali responsabilità può incorrere colei che tramite l’inganno sentimentale porta alla diminuzione fraudolenta del patrimonio della vittima innamorata?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una problematica oggi purtroppo ricorrente quella della truffa dei sentimenti dalle conseguenze doppiamente devastanti.
Il meccanismo spesso adottato è quello della creazione da parte del soggetto/i agente/i di un profilo “Facebook” falso, apparentemente riconducibile ad un'avvenente donna, la cui immagine fotografica (“rubata” dalla rete) svolge il ruolo di specchietto per le allodole; il malcapitato, scelto “ad hoc”, quale persona oberata dal proprio pesante fardello di solitudine ed ammaliata dalle fattezze conturbanti della donna, abbocca: inizia così uno scambio epistolare i cui toni, progressivamente e sapientemente proiettati verso una possibile futura relazione sentimentale ottengono l'effetto seduttivo di calamitare la vittima.
A fare da sfondo panoramico a tutta la vicenda non può mancare una storia strappalacrime: la bella, e rigorosamente povera, è costretta a lavorare come badante all'estero, presso una famiglia che non le dà nemmeno da mangiare; nemmeno a dirlo la stessa è gravemente malata e necessita sia di conforto morale, sia soprattutto di quello materiale: viveri e medicine costano cari.
L'escalation del raggiro è in costante ascesa: all'inizio le somme di denaro canalizzate sono di modesta entità, poi diventano progressivamente più consistenti. L'emungimento del patrimonio della vittima, obnubilata da un amore unilateralmente nutrito senza riserve, ammonta a diverse centinaia di migliaia di euro; sarà soltanto in seguito al prosciugamento del conto corrente che la vittima – destinataria anche di pretese estorsive successive al rifiuto di continuare a versare denaro – aprirà gli occhi sulla realtà e troverà la forza e il coraggio di denunciare l'accaduto.
Ecco qua che l'autonomia concettuale della “romantic scam” è figlia dell'elaborazione giurisprudenziale della fattispecie-base di truffa, adattata alla peculiare modalità con cui la stessa viene perfezionata; a dotarla di una propria precisa identità è principalmente l'utilizzo dell'inganno sentimentale, che assume rilievo determinante in quanto rappresenta l'innesco dal quale – in forza della falsa rappresentazione della realtà (cioè l'inesistente coinvolgimento emotivo) – discende l'induzione in errore nel soggetto passivo.
Quest'ultimo viene così determinato a compiere atti di disposizione patrimoniale che altrimenti non avrebbe effettuato; come si vede, la concatenazione causale è rigorosamente orientata secondo lo schema – contenuto nella norma incriminatrice della truffa – che pone l'atto di disposizione patrimoniale quale conseguente logico-causale dell'attività ingannatoria.
Per tali ragioni, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che,“ Fingere di amare una persona al fine di ottenere un vantaggio patrimoniale configura il reato di truffa, in quanto la c.d. “truffa romantica” - o romantic scam – si connota per il fatto che la manifestazione menzognera operata dal soggetto agente circa i propri sentimenti, apparentemente nutriti nei confronti della vittima, opera sulla psiche di quest'ultima inducendola a compiere, in conseguenza dell'inganno, atti di disposizione patrimoniale a favore del soggetto attivo del reato (Tribunale di Catania, sez. I Penale, sentenza n. 3562/21).
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Questa settimana le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante gli indebiti pensionistici. Ecco la risposta dell'avvocato Pantana alla domanda posta da una lettrice di Macerata che chiede: “Può l’INPS richiedere le somme erogate in eccesso?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una problematica che tocca tutte le persone o meglio i pensionati che non si aspettano di ricevere una comunicazione dell'INPS che li informa di aver contratto un debito con l'Istituto di Previdenza Sociale.
La comunicazione inviata dall'Inps ha per oggetto “Accertamento somme indebitamente percepite su pensione” e informa il pensionato che sarebbero state corrisposte quote non spettanti in quanto l’ammontare dei redditi era superiore ai limiti previsti dalla legge; difatti, spesso accade che l'Ente richieda, anche a distanza di anni, la restituzione di pensioni arretrate erroneamente corrisposte.
In caso di titolo definitivo, è doveroso distinguere tra errore da parte dell'INPS e errore da parte del pensionato.
In particolare, se l'errore dipende dall'INPS, l'indebito diventa irripetibile, vale a dire l'Inps non potrà più chiedere indietro la restituzione degli importi erogati per errore in eccesso.
Va rilevato come secondo l'art. 52, co. 2, L. n. 88/1986, qualora siano state riscosse rate di pensione risultanti non dovute, l'Ente non può richiedere il recupero delle somme corrisposte, salvo che l'indebita percezione sia dovuta a dolo del pensionato. Tale principio è stato ribadito dall'art. 13 L. n. 412/1991, norma di interpretazione autentica dell'articolo appena menzionato.
Il pensionato, per liberarsi dal debito, dovrà provare di aver prontamente comunicato le variazioni reddituali. A questo punto se l'INPS non si attiva, mediante le verifiche annuali, entro il 31 dicembre dell'anno successivo o a partire dalla data di effettiva conoscibilità dei redditi comunicati dal pensionato, l'INPS incorrerà nella decadenza prevista dalla legge, impedendogli così di poter azionare la richiesta di ripetizione nei confronti del pensionato.
Mentre, se l’errore è del pensionato, ovvero un’omissione, una sorta di colpa che viene attribuita al pensionato per non aver comunicato nei tempi o modi le variazioni reddituali, in questo caso, l'Ente, se dimostra che il pensionato non ha comunicato alcuna informazione e vi sono state delle variazioni reddituali, ha la possibilità di richiedere queste somme entro 10 anni dalla comunicazione in cui chiede la restituzione delle somme (Circolare INPS n. 47 del 16.03.2018, in particolare, par. 8.1). Ad esempio: comunicazione dell'INPS del 2020, la stessa potrebbe chiedere la restituzione degli importi fino al 2010.
Per tali ragioni, in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che,“Le pensioni possono essere in ogni momento rettificate dagli enti erogatori in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione o di erogazione della pensione, ma non si fa luogo al recupero delle somme corrisposte, salvo che l'indebita prestazione sia dovuta a dolo dell'interessato” (Corte di Cassazione, Sez. Lav., Sent. n. 482/2017).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le contestazioni sull’eccessiva entità dei consumi fatturati dai relativi fornitori ai singoli utenti. Ecco la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un lettore di Loro Piceno che chiede: “E’ possibile contestare una bolletta dai consumi eccessivi per malfunzionamento del contatore?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ad una tipologia di contestazione sempre più frequente da parte degli utenti.
La Suprema Corte, recentemente investita della questione inerente proprio la contestazione dei consumi fatturati per malfunzionamento del contatore, ha innanzitutto precisato che, il fornitore, per dar prova della correttezza degli importi richiesti, non può limitarsi esclusivamente a produrre il contratto di fornitura e le fatture; allo stesso tempo, però, va tenuto conto del fatto che il contatore è stato accettato da entrambi i contraenti come strumento di contabilizzazione dei consumi, per cui, se la pretesa creditoria contestata si fonda proprio su misurazioni ritenute anomale dall’utente, ricadrà su quest’ultimo l’onere di dedurre la circostanza che tale anomalia sia dovuta a cause a lui non imputabili quali, ad esempio, il malfunzionamento del contatore.
Tuttavia, secondo la Suprema Corte, va considerato anche che tali disfunzioni dipendono per lo più da guasti occulti o che comportano verifiche tecniche che l’utente non è in grado di eseguire, poiché sprovvisto delle necessarie competenze tecniche (sentenza n.13605/2019); pertanto, concludeva la Corte, è necessario fare riferimento ad una serie articolata di criteri di riparto dell’onere probatorio, che ricadono su entrambi i soggetti.
Per tali ragioni, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “Se l’utente, che sia un’impresa o un nucleo familiare, contesta i consumi che gli vengono addebitati nelle fatture, ritenendoli non veritieri, a causa del malfunzionamento del contatore, ricade su di lui sia l’onere di contestare il detto malfunzionamento, che di dimostrare la reale entità dei consumi effettuati, eventualmente facendo riferimento a quelli rilevati in periodi analoghi a quello considerato nei quali egli ha normalmente svolto la sua abituale attività; al gestore spetta, invece, l’onere di dimostrare il regolare funzionamento del contatore (Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 3, ordinanza n. 297/20; depositata il 9 gennaio 2020).
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In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le vicende riguardanti il protocollo da seguire nell’esercizio dell’attività sportiva fino ad arrivare al caso specifico della partita non giocata tra Juventus-Napoli del posticipo della terza giornata di andata del campionato di calcio di Serie A. Di seguito l’analisi dell’avvocato Pantana in merito al risvolto giudiziario della partita Juventus-Napoli.
È la vigilia della sfida valida per la 3^ giornata di Serie A, sabato che registra la mancata partenza del Napoli destinazione Torino. Per decisione dell'Azienda Sanitaria Locale del capoluogo campano, il viaggio degli azzurri viene bloccato dopo l'ordine di rimanere in "isolamento fiduciario per 14 giorni dopo la data dell'ultima esposizione con il caso positivo in oggetto (1 ottobre)" e di comunicare il domicilio presso il quale verrà effettuato l'isolamento. Tutto inizia dopo la notizia della positività di Elmas, di 24 ore successiva a quella di Zielinski e di un membro dello staff (riscontrate venerdì 2 ottobre). Secondo il parere dell'Asl di Napoli, è troppo pericoloso far spostare un così alto numero di potenziali positivi, entrati in stretto contatto coi primi due positivi del Napoli e a soli 6 giorni dalla partita contro il Genoa, che nei giorni seguenti al match del San Paolo aveva fatto registrare ben 22 casi di positività (19 giocatori e 3 dello staff). Assenza determinata quindi da un'autorità locale, ma per la Lega Serie A il match resta programmato per domenica 4 ottobre così come annunciato dalla Juventus attraverso un comunicato: il club bianconero anticipa che si presenterà allo stadio per scendere regolarmente in campo. Da ricordare come le norme pubblicate dalla Lega Serie A, il 2 ottobre precedente in un comunicato ufficiale, affermano che se una squadra ha almeno 13 giocatori negativi e dunque disponibili (compreso un portiere) e non si presenta, rimedierà una sconfitta a tavolino per 3-0.
Il 14 ottobre arriva la decisione del giudice sportivo: 0-3 a tavolino per il Napoli e 1 punto di penalizzazione per il club campano, con la seguente motivazione: "Gli atti delle Aziende sanitarie delineano un quadro che non appare al Giudice affatto incompatibile con l'applicazione delle norme specifiche dell'apposito Protocollo sanitario FIGC e quindi con la possibilità di disputare l'incontro di calcio programmato a Torino". Il giudice ha deciso sulla mancata presenza del Napoli a Torino e sulle "cause di forza maggiore" rivendicate dal Napoli, applicando l'articolo 10 della giustizia sportiva (giudicata assente la "fattispecie della forza maggiore").
Fissata per il 9 novembre, la sentenza della Corte d'Appello Federale (ovvero il secondo grado di giudizio): respinto il ricorso del Napoli e confermato il 3-0 a tavolino per la Juve (con un punto di penalizzazione a carico degli azzurri). La motivazione: "Contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, la Società ricorrente non si è trovata affatto nella impossibilità oggettiva di disputare il predetto incontro, avendo, invece, indirizzato, in modo volontario e preordinato, la propria condotta nei giorni antecedenti all'incontro nel senso di non disputare lo stesso, con palese violazione dei fondamentali principi sui quali si basa l'ordinamento sportivo, ovvero la lealtà, la correttezza e la probità". E ancora: "Il fine ultimo dell'ordinamento sportivo è quello di valorizzare il merito sportivo, la lealtà, la probità e il sano agonismo. Tale principio non risulta essere stato rispettato, nel caso di specie, dalla Società ricorrente (Napoli), il cui comportamento nei giorni antecedenti Juventus-Napoli, risulta teso a precostituirsi, per così dire, un 'alibi' per non giocare quella partita. La mancata disputa non è dipesa da una causa di forza maggiore bensì da una scelta volontaria, se non addirittura preordinata.
Infine, annullato senza rinvio è la formula con la quale il Collegio di Garanzia del Coni (ovvero il terzo grado di giudizio) ha accolto il ricorso del Napoli contro la Figc e le sentenze che infliggevano lo 0-3 a tavolino e un punto di penalizzazione al club partenopeo per non essersi presentato a Torino per la gara con la Juve dello scorso 4 ottobre. La decisione di fatto cancella il risultato a tavolino e il punto di penalizzazione alla squadra azzurra, che dunque sale a quota 24 punti raggiungendo la Roma al quarto posto. Come conseguenza, inoltre, la Juve perde i 3 punti della vittoria a tavolino, scivolando anche lei a 24 in attesa di recuperare la partita contro il Napoli.
Tale vicenda, sotto il profilo giuridico, ruota intorno all'interpretazione dell'art. 55 N.O.I.F., il quale disciplina i casi di mancata partecipazione alla gara per causa di forza maggiore. Il primo comma prevede che "Le squadre che non si presentano in campo nel termine di cui all'art. 54, comma 2, sono considerate rinunciatarie alla gara con le conseguenze previste dall'art. 53, salvo che non dimostrino la sussistenza di una causa di forza maggiore.". Mentre il secondo comma statuisce che la declaratoria della sussistenza della causa di forza maggiore compete al Giudice Sportivo in prima istanza e alla Corte Sportiva d'Appello in seconda e ultima istanza. L'art 55 delle NOIF (norme organizzative interno federali) stabiliscono la mancata partecipazione alla gara per forza maggiore. Ovvero la dottrina, per forza maggiore si intende, ogni forza esterna contro la quale il soggetto non può resistere e che lo determina, contro la sua volontà ed in modo "inevitabile", al compimento di un'azione(C.S.A. UU, DEL 15/1/18) In buona sostanza se una società dimostra di aver fatto di tutto quanto in proprio potere per disputare la gara(in questo caso si dimostra aver seguito i protocolli sanitari antecedenti alla gara), nessun giudice sportivo potrà mai condannarla alla punizione sportiva della perdita della gara! E invero, ove la società avesse deciso di partire il giorno 3 ottobre per raggiungere il luogo dell'incontro, avrebbe violato proprio le disposizioni che l'autorità sanitaria avrebbe meglio specificato il giorno seguente, con il risultato di non poter ugualmente giocare la partita e di aver anche aggravato il rischio di diffusione della pandemia sul territorio nazionale, non potendosi peraltro escludersi - dato il carattere volontario e consapevole della condotta - l'insorgenza di ulteriori profili di responsabilità, anche penali.
Tali considerazioni, trasposte sul piano giuridico, conducono ad escludere una responsabilità della parte asseritamente inadempiente, non solo e non tanto sotto il profilo della sussistenza di una causa di forza maggiore, ma in base al diverso principio dell'inesigibilità ex fide bona, avendo tenuto la SSC Napoli un atteggiamento improntato a diligenza e orientato sulla base degli elementi di fatto (e di diritto) nella propria sfera di conoscenza. In sintesi, la condotta della SSC Napoli non appare passibile di sanzione ai sensi dell'art. 53 N.O.I.F. e dei richiamati principi di origine civilistica. Pertanto la sentenza del Collegio di Garanzia sicuramente ha applicato i principi sopra richiamati, pur esprimendo dubbi sulla sua competenza a decidere in materia di sanzioni disciplinari. In data 07.01.2021 le Sezioni Unite del Collegio di Garanzia del Coni hanno depositato le motivazioni della sentenza del 22.12.2020, nelle quali si legge che le decisioni dei giudici di primo e secondo grado non hanno tenuto conto del sistema legislativo emergenziale e della gerarchia delle fonti. Il Napoli ha applicato il protocollo FIGC vigente all'epoca dei fatti, che rimandava la decisione alla competenza, in caso di positività, all'ASP territorialmente competente.
Rimango in attesa come sempre delle vostre richieste via mail, dandovi appuntamento alla prossima settimana.
Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avv. Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente le controversie che possono insorgere tra cittadino ed Azienda Sanitaria Unica Regionale, in particolare quando la stessa viene meno ai propri doveri. Di seguito la risposta dell’avvocato Pantana alla domanda posta da un nostro lettore di Civitanova Marche, che chiede: “Nel caso in cui sono costretto a rivolgermi ad una struttura sanitaria privata non convenzionata, posso chiedere il rimborso delle relative spese all’Asur?
Il caso di specie ci offre la possibilità di fare chiarezza riguardo ai controversi rapporti tra cittadino ed Asur riguardo alla tempestività delle cure mediche non rimandabili. A tal proposito è utile riportare una recente sentenza di merito secondo la quale, “Il paziente che si rivolge ad una struttura sanitaria privata, non convenzionata con il sistema sanitario nazionale, ha diritto al rimborso delle spese mediche se il ricovero è stato effettuato in stato di urgenza e necessità”, il tutto accertato sulla base dei presupposti richiesti dalla disciplina dettata in materia sanitaria dal D. Lgs. n. 502/1992. Ed invero, il D. Lgs. n. 502/92, in particolare l'art. 1, stabilisce che il Servizio sanitario nazionale assicura, attraverso risorse pubbliche, i livelli essenziali di assistenza nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell'equità nell'accesso all'assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze e prevede che siano posti a carico del Servizio sanitario le prestazioni sanitarie che presentano, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, a fronte delle risorse impiegate. Tenuto conto di ciò, l’elemento essenziale di discrimine nel riconoscere o meno l'insorgenza del diritto soggettivo al rimborso delle suddette spese da parte della Azienda Sanitaria territorialmente competente è l'effettiva ricorrenza di una comprovata situazione, non soltanto di pericolo di vita o di rischio di aggravamento della malattia per l'assistito, ma anche di impossibilità per la struttura pubblica convenzionata di offrire a costui l'intervento o la cura nei tempi e modi utili, alla luce delle conoscenze medico - scientifiche. Pertanto, l’urgenza ed indifferibilità dell'intervento terapeutico da un lato, ed impossibilità per la struttura pubblica di approntare in modo tempestivo tale intervento dall'altro, costituiscono vere e proprie condizioni legislativamente imposte per il riconoscimento del diritto soggettivo al rimborso da parte del SSN delle spese sanitarie sostenute in regime di assistenza non convenzionata.
Ebbene, in risposta al nostro lettore risulta corretto affermare che, “Sussistono i presupposti per il riconoscimento del diritto al rimborso delle spese mediche affrontate dal paziente da parte dell’Asur quando tale intervento è caratterizzato da un’effettiva situazione di urgenza e lo stesso risulta adeguato perché migliorativo delle condizioni fisiche della ricorrente e della sua aspettativa di vita, sempreché il Servizio sanitario nazionale non poteva offrire in tali tempi l'assistenza specializzata richiesta per l'esecuzione dei trattamenti terapeutici” (Tribunale di Brindisi, sentenza n. 1059/2020).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato l’argomento del momento e precisamente se il vaccino contro il coronavirus può essere reso obbligatorio dallo Stato. Di seguito l’analisi dell’avv. Oberdan Pantana.
Per comprendere se il vaccino Covid può essere reso obbligatorio è fondamentale partire dalla Costituzione, in particolare dall’art. 32, il quale afferma, al primo comma, che, “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
Tale disposizione, quindi, valorizza il bene della salute sotto un duplice punto di vista, e, precisamente il diritto all’individuo e l’interesse della collettività. Proprio per tale secondo aspetto potrebbe venire in rilievo la scelta di rendere obbligatoria la somministrazione di un vaccino, cosa che del resto già accade con riferimento a numerose malattie; si pensi ai vaccini obbligatori nella prima infanzia, la cui somministrazione è requisito imprescindibile per l’ammissione a scuola.
Lo stesso art. 32 della Costituzione, oltretutto, al secondo comma, sancisce che, “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Il che vuol dire che, rispettando la persona che vi soggiace, la legge può imporre un trattamento sanitario, e quindi anche un vaccino, purché, chiaramente, sussistano valide ragioni di tutela del bene salute.
A tale ultimo proposito, particolarmente chiarificatrice è la sentenza n. 5/2018 della Corte Costituzionale, che, proprio con riferimento all’obbligo vaccinale, ha precisato che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost., purché, tuttavia, ricorrano le seguenti condizioni:
- il trattamento deve sia migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, sia preservare lo stato di salute degli altri;
- deve prevedersi che il trattamento non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è sottoposto, ad eccezione delle conseguenze che appaiono normali e, quindi, tollerabili;
- nell’ipotesi di danno ulteriore, deve essere prevista la corresponsione di un’equa indennità in favore del danneggiato, a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria.
Tutto ciò considerato e data la portata straordinaria ed eccezionalmente grave della pandemia da coronavirus, possiamo affermare che lo Stato è astrattamente legittimato ad imporre il vaccino contro il Covid-19, ma in che modo?
Nell’escludere ragionevolmente il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) che di certo si caratterizza per essere una misura eccessiva e nel complesso non in grado di assicurare un adeguato bilanciamento di tutti i molteplici interessi costituzionalmente protetti che vengono in rilievo nel caso di specie, a questo punto rimangono le alternative individuate dalla Corte Costituzionale nella medesima pronuncia n. 5/2018.
In particolare la Consulta, ribadendo la discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità con le quali assicurare una prevenzione efficace delle malattie infettive, ha rilevato che la legge può “selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo”.
Pertanto, la scelta più verosimile è quella di realizzare un piano differenziato che preveda delle imposizioni solo per talune categorie di soggetti, che sono vicine a persone particolarmente a rischio, che operano in contesti delicati o che vengano quotidianamente in contatto con un numero elevato di persone (si pensi a medici, infermieri, personale che presta servizio nelle RSA, personale docente, e così via).
Per tutti gli altri, potrebbero essere imposti oneri se non ci si vaccina ed incentivi se lo si fa: ad esempio si potrebbe decidere di limitare l’accesso agli uffici pubblici se non si è vaccinati o consentire di andare al cinema o negli stadi solo a chi si è sottoposto a vaccinazione; il tutto sotto l’ombrello del principio di solidarietà sociale che ispira tutto il testo costituzionale.
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la controversa tematica, relativa alla responsabilità delle compagnie assicurative in caso di sinistro stradale, e in alternativa, la possibilità di attivazione del Fondo di Garanzia vittime della strada.
Ecco la risposta dell’avv. Oberdan Pantana, alla domanda posta da un lettore di Matelica, che chiede: “In caso di sinistro stradale provocato da un veicolo sprovvisto di assicurazione o munito di tagliando assicurativo falso, è comunque responsabile la compagnia assicurativa del soggetto che ha provocato l’incidente, oppure si può essere indennizzati direttamente dal Fondo di Garanzia vittime della strada?”
Il caso di specie ci offre la possibilità di far chiarezza su una questione molto dibattuta, relativa alla responsabilità colposa delle compagnie assicurative, nonché circa le condizioni e modalità di attivazione del c.d. Fondo di Garanzia, facendo particolare riferimento all’art. 283 C.d.A., che disciplina in modo chiaro, le circostanze in cui il Fondo interviene ad indennizzare il soggetto danneggiato nella misura stabilita in sede di formulazione della relativa offerta, statuendo testualmente:
“Il Fondo di garanzia per le vittime della strada, costituito presso la CONSAP, risarcisce i danni causati dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, per i quali vi è l’obbligo di assicurazione, nei casi in cui:
a)il sinistro sia cagionato da veicolo o natante non identificato;b)il veicolo o natante non risulti coperto da assicurazione;c)il veicolo o natante risulti assicurato presso una impresa in stato di liquidazione coatta o vi venga posta successivamente;d)il veicolo sia posto in circolazione contro la volontà del proprietario, dell’usufruttuario, dell’acquirente con patto di riservato dominio o del locatario in caso di locazione finanziaria.”
Inoltre, per il caso specifico di sinistro con veicolo provvisto di tagliando assicurativo falso e dunque, privo di idonea copertura assicurativa, rientrante nella categoria di cui alla lett. b), è opportuno operare una precisazione, poiché in tal caso, infatti, così come stabilito dall’art. 127 C.d.A, la compagnia di assicurazione del soggetto danneggiante risulterebbe responsabile per il solo fatto del rilascio di contrassegno assicurativo ed indipendentemente dall’inefficacia o dall’invalidità del rapporto di assicurazione, pure in ipotesi di contrassegno contraffatto o falsificato, salvo che l’assicurazione stessa dia prova dell’insussistenza di una propria condotta colposa, tale da ingenerare in capo al danneggiato, l’incolpevole affidamento in merito alla sussistenza del rapporto assicurativo; in tale ultimo caso, dunque, ad operare sarà il Fondo di Garanzia.
Tale questione è stata infatti affrontata dalla Corte di Cassazione con l’Ordinanza, n. 6300/2019, la quale ha fatto luce su tale controversa fattispecie, pronunciandosi in merito ad una questione analoga e consolidando un prezioso principio di diritto.
Difatti, nel caso di specie, sia il Giudice di Pace che il Tribunale adito in funzione di giudice di appello, avevano rimproverato al danneggiato che aveva subito dei danni a causa di un sinistro avuto proprio con un veicolo munito di un tagliando falso, di aver attivato direttamente il Fondo di Garanzia per le vittime della strada, anziché promuovere preventivamente una causa di risarcimento avverso la compagnia di assicurazione falsamente indicata nel tagliando, sulla base di un autonomo convincimento circa la palese falsità del contrassegno in oggetto.
Al contrario, la Suprema Corte adita, ha cassato tale pronuncia, stabilendo il principio di diritto secondo il quale: “Non sussiste per il danneggiato la necessità di citare autonomamente l’assicurazione apparentemente titolare del contrassegno assicurativo, allorchè la prova della falsità o comunque della non attribuibilità del tagliando assicurativo all’assicurazione citata, emerga dagli atti del giudizio promosso nei confronti del Fondo Vittime della Strada, per essere stata dal danneggiato spontaneamente e preventivamente accertata, rendendo superflua l’instaurazione di un autonomo giudizio nei confronti dell’apparente compagnia, la quale si limiterebbe ad invocare il fatto notorio della falsità del contrassegno”(Corte di Cass.; Sez. III Civ.; Ord. n. 6300; dep. 05.03.2019).
Per tali motivi, in risposta alla domanda del nostro lettore, in caso di sinistro con veicolo sprovvisto di idonea copertura assicurativa o munito di tagliando palesemente falso, il soggetto danneggiato potrà attivare direttamente la procedura di indennizzo nei confronti del Fondo di Garanzia con le modalità previste dal codice delle assicurazioni, il quale fornirà una copertura dei danni in base all’offerta di indennizzo di volta in volta formulata, senza dover preventivamente citare per il risarcimento dei danni, la compagnia assicurativa falsamente indicata, dal momento che, dato l’immediato accertamento circa la palese falsità del contrassegno assicurativo, non appare in nessun caso ipotizzabile una responsabilità colposa in capo alla stessa.
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In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra comproprietari di beni immobili e relative problematiche. Il caso di specie scelto è di un lettore di Civitanova Marche che chiede: “A quali responsabilità può andare incontro chi da proprietario al 50% di un immobile cambia la serratura della porta d’ingresso negando così l’entrata all’altro comproprietario?”
Il caso di specie ci porta ad analizzare il reato di cui all’art. 610 c.p. secondo il quale, “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”; difatti, come da orientamento giurisprudenziale consolidato di legittimità, “Si ravvisa il delitto di violenza privata anche nella condotta di chi impedisce l’esercizio dell’altrui diritto di accedere ad un locale o ad una delle stanze di un’abitazione, chiudendone a chiave la serratura o cambiandola senza il consenso e la relativa consegna delle nuove chiavi” (Cass., Pen., Sez. V, n. 4284 del 29.9.2015).
A tal proposito, si evidenzia che, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il delitto di cui all’art 610 c.p. si qualifica come reato d’evento e a forma vincolata: il fatto tipico consiste, infatti, nel costringere altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, mediante l’impiego di violenza o di minaccia. Quanto al concetto di violenza rilevante – che è quello che in questa sede interessa - esso è costituito dall’esplicarsi di una qualsiasi energia fisica da cui derivi una coazione personale; non rileva, né la qualità dei mezzi adoperati, né che essi siano diretti o indiretti, di carattere materiale o psicologico, occorrendo solo l’idoneità di essi al raggiungimento dello scopo che è quello di costringere altri a fare, tollerare od omettere qualcosa.
Si parla di violenza in due diverse accezioni: violenza propria e violenza impropria; la prima deve intendersi quella fisica che si esplica direttamente sulla vittima, mentre quella “impropria“, si esplica attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, configurabili anche laddove essa non si indirizzi contro l’altrui persona, ma sulle cose, alla sola condizione che dispieghi un’effettiva incidenza costrittiva sulla volontà della vittima.
Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “Integra il reato di violenza privata ex art. 610 c.p. impedire l'esercizio dell'altrui diritto di accedere ad una stanza di un'abitazione o di un locale chiudendola a chiave o cambiandone la serratura”(Cass. Pen.; sentenza n. 38910/2018).
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In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti debitori tra soggetti con l’utilizzo o meno di strumenti posti a garanzia degli stessi. Il caso di specie scelto è di un lettore di Porto Potenza Picena che chiede: “A quali responsabilità può andare incontro il creditore che pone all’incasso un assegno postdatato o senza data a garanzia di un rapporto obbligatorio tra le parti in violazione del relativo accordo?”.
Circa la legittimità del rilascio di un assegno postdatato a garanzia si può affermare che non integra una fattispecie di reato, ma sussistono certamente profili civilistici da non sottovalutare.
La giurisprudenza sia di legittimità che di merito è uniforme sul punto nell’affermare che l’emissione di un assegno in bianco o postdatato, è contrario alle norme imperative di cui agli artt. 1 e 2 R.D. n. 1736/1933 (T.U. Assegno). Ciò nonostante l’assegno postdatato mantiene la propria piena efficacia cartolare, posto che è sì titolo irregolare, ma non nullo, con dovere di pagamento a vista.
L’assegno, anche se postdatato, mantiene infatti la sua obiettiva idoneità strumentale a costituire mezzo di pagamento equivalente al denaro e non perde le sue caratteristiche di titoli di credito.
Con la conseguenza che gli atti estintivi di debiti, effettuati con assegni postdatati non costituiscono mezzi anormali di pagamento e non sono, pertanto, assoggettati alla azione revocatoria fallimentare prevista dall’articolo 67, comma 1, n. 2, della legge fallimentare; pertanto, un assegno postdatato a garanzia dell’adempimento di un piano di rientro con rate concordate a fronte di un debito certo e già scaduto può essere legittimamente rilasciato e trattenuto dal prenditore, e ciò non comporta alcun illecito.
Contrariamente, se il prenditore mette all’incasso un assegno postdatato prima della data indicata sul titolo stesso, in contrasto con quanto pattuito con il debitore, si configura il reato di appropriazione indebita di cui all’art. 646 del codice penale.
Infatti, la condotta del prenditore che indebitamente incassa l’assegno, con coscienza e volontà, sapendo di non averne diritto, allo scopo di trarre per se’ o per altri un’utilità s’appalesa giuridicamente coerente con l’elemento soggettivo del reato di appropriazione indebita.
La Corte di Cassazione ha più volte ricordato che le parti di un rapporto giuridico, nella loro autonomia negoziale, possono usare l’assegno bancario, anziché nella sua funzione tipica di titolo di credito destinato a circolare secondo le modalità cogenti di questa disciplina, come mero strumento di garanzia per l’adempimento delle obbligazioni pattuite, prevedendo, in caso di inadempienze, un apposito patto di riempimento a favore del creditore che potrà, quindi, da quel momento, considerarsi legittimo possessore e porre in circolazione il titolo, ovvero conferendo a questo valore sostanziale promessa di pagamento utilizzabile, in detta evenienza, nel modi consentiti dalla legge come prova del credito.
Conseguentemente, così come da consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, la condotta del prenditore che ponga all’incasso un assegno bancario ricevuto a garanzia e, in violazione dell’accordo concluso con l’emittente, si appropri della somma riscossa integra il delitto di appropriazione indebita ex art. 646 del codice penale, in quanto, in tale ipotesi si assiste ad un’arbitraria deroga al patto di garanzia con il quale le parti hanno pacificamente negoziato un utilizzo diverso dell’assegno bancario rispetto alla sua tipica funzione di titolo di credito, attribuendogli il valore di mero strumento di garanzia di adempimento delle obbligazione pattuite con esigibilità futura condizionata.
Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “Integra il reato di appropriazione indebita la condotta del prenditore che ponga all’incasso un assegno bancario ricevuto a garanzia e, in violazione dell’accordo concluso con l’emittente, si appropri della somma riscossa”(Corte di Cassazione, Sez. II Penale, sentenza n. 12577/18).
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In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra ex coniugi con esplicito riferimento all’attribuzione per colpa della separazione. Il caso di specie scelto è di un lettore di Morrovalle che chiede: “A quali responsabilità può andare incontro l’investigatore privato assunto dalla moglie per provare il tradimento del proprio marito nel successivo giudizio di separazione con addebito di colpa?”
A tal proposito risulta utile riportare il caso giuridico nel quale a finire sotto processo per diffamazione è il titolare dell’agenzia investigativa per aver consegnato alla cliente una nota investigativa redatta su carta intestata con cui veniva attribuita al marito una relazione sentimentale con una collega, relazione risalente a due anni e mezzo prima quando il matrimonio era ancora solido e i coniugi erano lontanissimi dall’idea della separazione; quel documento è stato poi utilizzato dalla donna, che ha commissionato l’attività investigativa nel procedimento di separazione personale con addebito proprio per tale “presunto” tradimento nel quale però veniva riscontrata l’assenza di effettivi elementi di riscontro in merito all’affermazione di tradimento contenuta nella stessa nota dell’investigatore. La vicenda arrivata in Appello il cui Giudicante dichiarava che, la mail dell’investigatore privato inviata alla propria cliente con cui si comunicava che “da indagini espletate emerge che il proprio marito ha una relazione sentimentale da due anni e mezzo circa con una sua collega”, tanto da attribuire esplicitamente una relazione clandestina, iniziata quando era ancora pienamente operante il dovere di fedeltà nascente dal matrimonio, ha un’oggettiva idoneità lesiva della reputazione del coniuge traditore, a fronte della clamorosa assenza di elementi di riscontro in merito all’affermazione contenuta in tale nota. Tirando le somme, “è munita di oggettiva idoneità lesiva della reputazione ed è obiettivamente pregiudizievole della reputazione della persona offesa l’attribuzione non veritiera di una relazione clandestina, in costanza di matrimonio, ad uno dei coniugi, atteso che integra lesione della reputazione altrui non solo l’attribuzione di un fatto illecito, perché posto in essere contro il divieto imposto da norme giuridiche, assistite o meno da sanzione o da patti riconosciuti vincolanti dal diritto civile, ma anche la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio. Di conseguenza, descrivere la persona, oggetto di comunicazione con altri, capace di tradire la fiducia del coniuge, allacciando una relazione sentimentale con un’altra donna, si ritiene costituisca condotta idonea ad esporla al pubblico biasimo e, conseguentemente, a ledere la sua reputazione”, chiosa il Giudicante.
Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “È diffamazione l’attribuzione non confermata da dati certi di una relazione clandestina in costanza di matrimonio da parte dell’investigatore privato il quale non poteva ignorare che la cliente avrebbe fatto di quella notizia uso a proprio vantaggio, mettendone a parte terze persone, in quanto consapevole dello stato di coniuge separando della stessa e che quindi le avesse fornito la notizia della relazione extraconiugale del marito, con l’intento di farle conseguire un vantaggio nel giudizio di separazione”(Tribunale di Roma, 31 ottobre 2018).
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In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra ex coniugi con esplicito riferimento alla debenza o meno dell’assegno di mantenimento o divorzile alla ex in caso di una sua nuova relazione. Il caso di specie scelto è di un lettore di Tolentino che chiede: “ Se la ex moglie ha una nuova relazione tale circostanza fa venire meno la debenza dell’assegno divorzile?
A tal proposito risulta utile portare il consolidato principio giuridico applicato dal Tribunale di Como con l’Ordinanza del 12.04.2018, con la quale è stato stabilito che, “Il marito non deve più corrispondere l’assegno di mantenimento alla moglie che ha intrapreso una nuova relazione sentimentale, anche se non convive con il nuovo partner ed è priva di attività lavorativa”. Così ha deciso il Presidente delegato del Tribunale di Como, in via provvisoria e urgente, a conclusione della primissima fase di un divorzio giudiziale – quando generalmente vengono confermate le condizioni della separazione – che ha sin da subito esonerato il marito dal dover corrispondere alla ex moglie, l’assegno stabilito in separazione. La donna in questione, già madre di due figli maggiorenni con lei conviventi, aveva avuto il terzo figlio dal nuovo partner con il quale non aveva instaurato alcuna convivenza. Fino a poco tempo fa, al fine di essere esonerati dal pagamento dell’assegno, era necessario che il coniuge obbligato dimostrasse in giudizio la creazione da parte dell’ex coniuge di una nuova famiglia di fatto, stabile e duratura, e che questa convivenza incidesse “realmente e concretamente sulla situazione economica dell’ex coniuge risolvendosi in una fonte effettiva di reddito”. Il Presidente del Tribunale di Como ha però ritenuto che le conseguenze economiche derivanti dalle scelte di vita della donna, nello specifico quella di intraprendere una nuova relazione sentimentale (seppur priva del requisito della convivenza) e quella di avere un figlio (scelta che aveva certamente inciso in termini di difficoltà di reperimento di una occupazione lavorativa), non potessero ricadere sul futuro ex coniuge. Infatti, non è la mera coabitazione a provare la solidità del rapporto ma, al contrario, è l’esistenza effettiva di un nuovo legame, stabile e duraturo, a determinare la cessazione della corresponsione dell’assegno di mantenimento. Nello stesso senso, con decreto pubblicato il 21.05.2018, si è pronunciato anche il Tribunale di Ancona, il quale – in una causa di modifica delle condizioni di divorzio e sulla base delle stesse motivazioni del Tribunale di Como –, ha ritenuto di dover revocare l’assegno stabilito in favore della ex moglie.
In questo caso, a fondare la decisione del Tribunale sono state le numerose foto depositate dal marito (tratte dai social network), che dimostravano l’inequivocabile intensità del rapporto tra la ex moglie e il nuovo partner, i periodi di vacanza trascorsi insieme “a nulla rilevando le modalità di ripartizione tra essi delle spese di vacanza”, e la relazione investigativa dalla quale emergeva l’assiduità della frequentazione (seppur priva del requisito della convivenza). Dunque, costruire una nuova famiglia – nell’accezione moderna del termine – non è un obbligo, ma una decisione libera e consapevole che ha risvolti pratici e conseguenze giuridiche ben precise. Ecco quindi che, anche in queste pronunce, i Tribunali – nel solco tracciato dalla Corte di Cassazione nella discussa sentenza Grilli del maggio 2017 sull’assegno divorzile – continuano a valorizzare il principio della autoresponsabilità economica dei coniugi: “la formazione di una famiglia di fatto costituisce espressione di una scelta di vita esistenziale e consapevole, con assunzione del rischio della cessazione del rapporto, rescindendo ogni collegamento con il tenore e il modello di vita legati al coniugio”.
Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: “La nuova relazione affettiva instaurata dall’ex coniuge fa venire meno l’obbligo di versare l’assegno divorzile mensile da parte dell’altro coniuge obbligato, purché la detta relazione sia connotata dai requisiti di stabilità e continuità”(Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 22604/20; depositata il 16 ottobre 2020).
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Torna, come ogni domenica, la rubrica curata dall’avvocato Oberdan Pantana, “Chiedilo all'avvocato”.
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili ai rapporti tra condomini che spesso e volentieri vanno a deteriorarsi per comportatemi incivili di alcuni nei confronti di altri. Il caso di specie scelto è di un lettore di Macerata che chiede: “A quale responsabilità può andare incontro il condomino che per dispetto ed inciviltà butta le cicche delle sigarette ed altra spazzatura sul terrazzo sottostante?"
A tal proposito risulta utile portare un caso giuridico terminato in Cassazione, nel quale un condomino era stato vittima di dispetti del proprio vicino con il balcone sopra al proprio tanto da far diventare il piano inferiore come “immondezzaio” con lanci di cicche di sigarette, carta ed altri oggetti.
I Giudici della Suprema Corte, con sentenza n.16459/2013, hanno ritenuto inammissibile il ricorso proposto dal condomino incivile, il quale si era visto condannare in secondo grado per i reati di cui agli artt. 81 cpv e 674 cod. pen., avendo arrecato molestia al condomino del piano inferiore.
Difatti, la condotta del ricorrente è stata qualificata non soltanto "incivile", ma considerata una fattispecie integrante il reato di "getto pericoloso di cose", ex art. 674 c.p., secondo cui è punito "chiunque getta o versa in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte ad offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissione di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti".
Si ricorda che quello in analisi è un tipico reato contravvenzionale, punibile indifferentemente a titolo di dolo o colpa; pertanto, ne risponde chiunque abbia agito volontariamente ovvero per semplice negligenza o leggerezza.
I Giudici della Cassazione precisano che sì «la contravvenzione di “getto pericoloso di cose” non è configurabile quando l’offesa, l’imbrattamento o la molestia abbiano ad oggetto esclusivamente cose e non persone» ma «ai fini della configurabilità del reato di “getto pericoloso di cose” non si richiede che la condotta contestata abbia cagionato un effettivo nocumento, essendo sufficiente che essa sia idonea ad offendere, imbrattare o molestare le persone», ed in questa vicenda è certo che «il getto ha interessato il balcone», cioè «un luogo abitualmente frequentato dalle persone che abitavano l’appartamento».
Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: "Integra il reato di getto pericoloso di cosa chiunque getta o versa nel balcone sottostante cicche di sigarette, carta o altro oggetto atto ad offendere o imbrattare o molestare persone”(Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 9474/18).
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In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili alla possibile degenerazione dei rapporti tra il creditore ed il debitore. Il caso di specie scelto è di un lettore di Civitanova Marche che chiede: “A quale responsabilità può andare in contro il debitore che per evitare il pagamento di un debito minaccia i congiunti del creditore?
A tal proposito risulta utile portare un caso giuridico terminato in Cassazione, nel quale un professionista aveva azionato la procedura di recupero del proprio credito professionale nei riguardi del debitore, il quale, dopo aver contestato direttamente al professionista la non debenza di tale credito, aveva minacciato anche violentemente i congiunti del professionista al fine di evitare tale pagamento. Tale condotta sicuramente comporta la commissione di un reato ma quale tra l’estorsione e quello meno grave dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni?
Il fondamentale elemento atto a distinguere i due reati, che assume rilievo decisivo nel caso in esame, è dato dall'astratta azionabilità della pretesa vantata dall'agente nei confronti della parte offesa, poiché il solo reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (non anche l'estorsione) è commesso da chi, "al fine di esercitare un preteso diritto", e "potendo ricorrere al giudice", "si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone". In più occasioni la Suprema Corte (Cass. Pen., Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Rv. 268361) ha già chiarito che, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria. Occorre, in particolare, che l'autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale, anche se detto diritto non sia realmente esistente, e tale pretesa deve, inoltre, corrispondere perfettamente all'oggetto della tutela apprestata in concreto dall'ordinamento giuridico, e non mirare ad ottenere un qualsiasi quid pluris, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall'agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato; nel delitto di estorsione, al contrario, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia. Nel caso di specie, è incontrovertibile il fatto che la pretesa azionata con minacce anche violente da parte del debitore riguarda l'entità dei compensi per prestazioni professionali reclamati dal professionista, e rispetto a tale rapporto obbligatorio i propri congiunti destinatari delle condotte illecite erano del tutto estranei; la richiesta di ottenere, per la predetta causale, vantaggio patrimoniali diretti a discapito di tali terzi estranei, non sarebbe stata, pertanto, in alcun modo coltivabile in giudizio, tanto da integrare per tale ragione il reato più grave di estorsione.
Pertanto, in risposta al nostro lettore, risulta corretto affermare che: "Integra il reato di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario con violenza o minaccia alle persone, la condotta di chi reclami la soddisfazione di un presunto diritto ponendo in essere condotte violente o minacciose in danno di soggetti terzi, estranei al rapporto obbligatorio dal quale scaturisce, nella prospettiva dell'agente, il diritto vantato"(Cass. Pen., Sez. II, sentenza n. 30792/20; depositata il 4 ottobre).
In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al rapporto tra genitori ed istituto scolastico nello specifico con professori e dirigenti scolastici. Il caso di specie scelto è di una lettrice di Macerata che chiede: “Una mamma che entra a scuola e preleva il proprio figlio senza una precedente richiesta al dirigente scolastico può andare incontro a delle responsabilità?
A tal proposito risulta utile riportare un caso giuridico terminato in Cassazione, i cui Giudici hanno ritenuto evidente, come accertato in Appello, «la realizzazione di un danno al regolare svolgimento dell’attività scolastica, essendo incontestato che l’introduzione nella scuola della donna in orario non a ciò previsto, utilizzando una porta secondaria retrostante dell’istituto, prelevando il proprio figlio senza alcuna comunicazione ed autorizzazione, con quel che ne è seguito in termini di aggressione verbale nei confronti della collaboratrice scolastica, ha fatto sì che si determinasse tra gli alunni e gli insegnanti in generale un’agitazione tale da indurli ad interrompere le attività didattiche ed affacciarsi dalle aule per capire cosa stesse succedendo e ad intervenire opportunamente, assieme alla dirigente scolastica». Corretta, quindi, la lettura data al comportamento tenuto dalla madre, poiché il reato di “interruzione di un pubblico servizio” previsto dal Codice Penale si concretizza anche quando «la condotta, pur non determinando l’interruzione o il turbamento del pubblico servizio inteso nella sua totalità, comporta comunque la compromissione del regolare svolgimento di una parte di esso», posto che va tutelato «non solo l’effettivo funzionamento di un ufficio o servizio pubblico, ma anche il suo ordinato e regolare svolgimento».
Evidente poi, secondo i Giudici, la consapevolezza della madre, che ha tenuto «una volontaria condotta trasgressiva», accettando le possibili conseguenze, «anche in punto di regolare svolgimento delle lezioni e dell’attività in genere del plesso scolastico». Corretta anche su questo fronte la valutazione compiuta in Appello, laddove si è applicato il principio secondo cui «ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico è sufficiente che il soggetto sia consapevole che il proprio comportamento possa determinare l’interruzione o il turbamento del pubblico ufficio o servizio, accettando ed assumendone il relativo rischio». A rendere ancora più grave il comportamento della madre, è la constatazione che «non era la prima volta che ella travalicava le regole di comportamento in quel contesto scolastico, essendo più volte accaduto che la ricorrente attaccasse ed offendesse insegnanti ed operatori per un malinteso senso di difesa del figlio, che ripetutamente assumeva comportamenti intemperanti, aggressivi e violenti sia nei confronti dei propri compagni che degli insegnanti».
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice, risulta corretto affermare che: “Va punita la mamma che si reca a scuola senza preavviso per portare via il figlio – in anticipo sull’orario di uscita – e crea così tanto scompiglio da spingere docenti e allievi a uscire dalle classi, per diversi minuti (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 28213/20; depositata il 9 ottobre).
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In questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato tematiche riferibili al rapporto tra locatore e conduttore oltre a quello riferibile anche ai vicini di abitazione. Il caso di specie scelto è di una lettrice di San Severino Marche che chiede: “E’ motivo di inadempimento contrattuale il comportamento del conduttore che reca molestia ai vicini?”
A tal proposito risulta utile riportare il trattato caso giuridico con il quale un locatore intentava azione di risoluzione per inadempimento, nel corso di un rapporto locatizio ad uso abitativo, nei confronti di una conduttrice, per essere quest’ultima inadempiente per comportamenti molesti, e, pertanto, a rilasciare l’immobile in ottemperanza a quanto previsto dell’art. 2 del contratto di locazione sottoscritto dalle parti, che vietava al conduttore di compiere atti e tenere comportamenti che potessero recare molestie agli altri abitanti dello stabile.
Tale vicenda, approdata in Cassazione a seguito del ricorso della conduttrice dopo essere stata condannata sia in I° che in II° al rilascio dell’immobile, la stessa motivava la propria decisione di rigetto richiamando anche il mutato orientamento giurisprudenziale che aveva interessato l’art. 1587 c.c..
A riguardo sosteneva infatti che la giurisprudenza avrebbe dapprima individuato la ratio dell’art. 1587 c.c. nell’abuso del godimento del bene locato solo nel momento in cui venivano modificati lo stato di fatto e la destinazione d’uso dell’immobile e nella misura in cui dette modifiche comportassero un danno economico al locatore o alterassero la conservazione del bene locato che deve essere restituito nelle identiche condizioni in cui è stato ricevuto.
Successivamente si assiste ad una interpretazione estensiva del dettato normativo, individuando l’abuso anche in assenza di modificazione di fatto dell’immobile o cambio della destinazione d’uso, qualora l’uso vada comunque a pregiudicare il valore dell’immobile stesso. Viene, introdotto, quindi un altro criterio ovvero il comportamento del conduttore che molesta i vicini a seguito del quale si configura l’inadempimento contrattuale per abuso della cosa locata nei confronti del locatore, il quale dovrebbe rispondere verso gli altri inquilini come di fatto proprio, se tollerasse tali molestie.
Quindi il contratto può essere risolto non solo se vi è diminuzione del bene locato, ma anche quanto ipoteticamente il locatore potrebbe diventare responsabile nei confronti dei vicini per le molestie del conduttore.
Pertanto, in risposta alla nostra lettrice di San Severino Marche risulta corretto affermare che: “La condotta del conduttore è motivo di abuso di bene locato, se rinviene da atti molesti volti a recare danno agli altri abitanti dello stabile. E’ oltremodo ravvisabile l’inadempimento contrattuale qualora, anche in assenza di modificazione di fatto dell’immobile o cambio della destinazione d’uso, l’utilizzo possa comunque pregiudicare il valore dell’immobile stesso, ciò in applicazione dell’art. 1587 c.c..” (Cass. Civ., Sez. III, ordinanza n. 22860/20, depositata il 20 ottobre).
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Questa settimana, le numerose mail arrivate hanno interessato principalmente la tematica riguardante le nuove misure attuate dal Governo in tema di repressione delle condotte a tutela dell’emergenza epidemiologica da Covid-19.
Di seguito l’analisi dell’avvocato Oberdan Pantana:
"È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 248 del 7 ottobre 2020 il decreto legge n. 125/2020 recante misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19 e per la continuità operativa del sistema di allerta COVID, nonchè per l'attuazione della direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020. Sulla medesima Gazzetta Ufficiale è stata pubblicata la delibera del Consiglio dei Ministri che proroga lo stato di emergenza.
A tal proposito, sono già obbligatorie le mascherine anche all’aperto, o meglio, per riprendere le parole del decreto, è previsto l’«obbligo di avere sempre con sè dispositivi di protezione delle vie respiratorie, con possibilità di prevederne l'obbligatorietà dell'utilizzo nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto ad eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande».
Restano esclusi i soggetti che svolgono attività sportiva, i bambini di età inferiore ai 6 anni, i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina.
Le Regioni possono prevedere misure più restrittive.
In riferimento alle sanzioni, vanno da 400 euro a 1.000 euro, ad oggi, le multe per chi non rispetti le limitazioni imposte dalle regole anti-contagio, come quella di indossare la mascherina; mentre chi ha contratto il Covid-19 ma non rispetta la quarantena può incorrere in una sanzione penale con l'arresto da 3 a 18 mesi, oltre che in un'ammenda da 500 a 5.000 euro.
Inoltre, in caso di violazione dell'isolamento fiduciario, ossia quella misura che viene applicata ai contatti stretti di casi confermati Covid-19 e prevede l’obbligo di isolamento per 14 giorni, così come ai casi confermati Covid dimessi dall’ospedale e dura fino all’accertamento della guarigione mediante due tamponi con esito negativo a distanza almeno di 24 ore l’uno dall’altro, si prevede una sanzione amministrativa in denaro da 400 a 3.000 euro.
Sono in aggiunta stati differiti al 31 ottobre 2020 i termini di cui all'art. 1, commi 9 e 10, d.l. 14 agosto 2020, n. 104, recante «Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell'economia»; riguarda i nuovi trattamenti di cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario e cassa integrazione in deroga.
Infine, la delibera del Consiglio dei Ministri datata 7 ottobre e approdata nella medesima GU, proroga lo stato di emergenza fino al 31 gennaio 2021.
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