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'Reddito di cittadinanza' e imprenditori che non si rinnovano. Chi sono i veri furbetti?

'Reddito di cittadinanza' e imprenditori che non si rinnovano. Chi sono i veri furbetti?

In un paese dove nel 2021 l’evasione fiscale ha segnato secondo i dati de Lo Sportello del Contribuente uno slancio del +4,7% (il record appartiene al Nord dove si è raggiunto il +6,5%), è consueta abitudine ricorrere alla formula del “je t’accuse” nei confronti di chi non può assicurarsi il pane a tavola la sera, piuttosto che i cosiddetti “padroni del lavoro”.

Notate bene, cari lettori: l’Agenzia delle Entrate evidenzia ad oggi come il totale delle tasse non riscosse in Italia abbia sfondato il tetto dei 1.100 mld di euro, confermando il nostro primato assoluto nell’Unione Europea.

Nella classifica delle regioni “più furbe”, il primo posto spetta alla Lombardia, dove il numero degli evasori è cresciuto del 6,3% (le Marche si difendono con un +3,5%), mentre l’imponibile evaso – in senso più assoluto – è di circa il 5,9%. A dispetto dei pregiudizi, è nel Meridione che si registra la percentuale minore di frode fiscale a livello nazionale: 19,3% contro il Nord Ovest al 31,4%, il Nord Est al 27,1% e il Centro al 22,2%.

A questo punto, viene da domandarsi: chi sono i maggiori nemici del fisco? Al primo posto troviamo gli industriali (34,3%), seguiti da bancari e assicurativi (33,2%), quindi dai commercianti (11,8%), gli artigiani (9,4%), i professionisti (6,5%) e i lavoratori dipendenti (6,4%).

Poiché ai primi viene già concesso di accedere a vari incentivi, sussidi e agevolazioni, a tutti gli altri non resta che fare i conti con il famigerato precariato figlio di mancate politiche del rinnovamento, oltre che dell’inefficacia delle misure finora messe in campo per sopperire a disoccupazione e inoccupazione. Dai bonus 200 al sussidio di maternità, dall’indennità NASpI all’assegno unico o famigliare, a fare la differenza è comunque l’ISEE.

Nel frattempo, però, i padroni-imprenditori sono tornati a lamentarsi – quando ovviamente non lo fanno i politici per cavalcare il dragone alato della propaganda – dei cittadini che “non vogliono lavorare”, sacrificarsi per un “dignitoso” stipendio dal 1.200 – 1.300 euro (a fronte di anche 70 ore di impiego a settimana), rinunciare a qualche garanzia in più per il bene dell’azienda.

Ma se nella “classe operaia” di Eliopetriana memoria il crumino Gian Maria Volonté se la cavava con un dito mozzato, negli anni 2000 i macchinari atti a garantire il surplus produttivo si prendono direttamente la vita dei lavoratori (Luana D’Orazio, 3 maggio 2021, ndr).

Non ultimo, i lamentosi ricorrono ciclicamente al vecchio slogan de “i giovani sono pigri e fannulloni”, che oggi vale quanto un alibi stantio, considerando che in Italia il 38% dei laureati è sovraistruito (ma si riducono a svolgere mansioni banali e di routine, lontane dal proprio titolo di studio conseguito) e che, volenti o nolenti, vige ancora il corporativismo nella stragrande maggioranza dei mestieri. 

Un preambolo, questo, lungo quanto necessario per meglio comprendere il dibattito che nelle ultime settimane è tornato ad accendersi sulla questione del reddito di cittadinanza: “abolirlo oppure no?”. Al netto delle indagini condotte nell’ultimo anno dall’Arma dei Carabinieri, ammontano a circa 5.000 le irregolarità riscontrate, su un campione di oltre 87mila persone controllate (1.400 delle quali distribuite fra pregiudicati e mafiosi).

Contemporaneamente, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi (FI) è tornato a puntare il dito contro i cittadini, definendoli “approfittatori di aiuti di Stato e bonus, con la scusa di non riuscire ad arrivare a fine mese”: come se le imprese italiane non avessero mai usufruito di prestiti a fondo perduto, casse integrazioni a pioggia, e/o miliardi investiti per la delocalizzazione.

Insieme a lui, si va ad aggiungere il senatore Massimo Mallegni (FI), che con la scusa della direttiva Bolkestein si è reinventato difensore del proletariato: fermo restando che lui stesso possiede uno stabilimento balneare da salvaguardare. Non ultimo, il numero uno di Federalberghi Bernabò Bocca, che si è detto risentito dell’indisponenza dei lavoratori stagionali nonostante l’offerta di 1.300 euro al mese per il periodo estivo.

Altre figure imprenditoriali più o meno di spicco continuano poi a sostenere la retorica del “lavori-gratis-ma-così-fai-esperienza”, mentre sul piano politico la giostra elettorale vede a fasi alterne rincorrersi tra di loro gli oppositori del reddito – soprattutto forzisti, fratelli d’Italia, leghisti e renziani, simpatizzanti dell’imprenditoria – e i genitori dello stesso, i pentastellati oggi divisi fra corrente dimaiana e contiana.

Per i primi – portavoce: Antonio Tajani, Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Davide Faraone – i soldi del reddito andrebbero dirottati a stostegno delle imprese e per abbassare il cuneo fiscale così da far ripartire l’economia. Per i secondi – capitanati oggi da Giuseppe Conte - toglierlo per dare altri fondi agli imprenditori “è un'idea priva di consistenza, che rischia di ledere ulteriormente il già delicato tessuto socio-economico”.

L’unica faccenda rimasta da chiarire è: tra salari bassi, contrattini estemporanei, sovraccarico delle ore di lavoro, precarietà - dunque art. 36 della Costituzione buttato nel cestino - a chi conviene davvero fare a meno del reddito di cittadinanza?

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