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Lavori in corso, dalla pandemia alla fuga di cervelli: analisi dell'Italia che non cambia

Lavori in corso, dalla pandemia alla fuga di cervelli: analisi dell'Italia che non cambia

In questo secondo appuntamento cercheremo di carpire più nel dettaglio la profonda frattura che si è verificata all’interno del mercato del lavoro dopo la pandemia, analizzando quello che a tutti gli effetti può essere indicato come un vero punto di rottura nella parabola del mercato del lavoro in Italia.

Dall’inizio del nuovo millennio, infatti, l’Italia ha attraversato un ventennio pieno di difficoltà fra crisi economiche e profonde trasformazioni interne (digitalizzazione e sensibilità ambientale su tutte). Eppure, all’alba del periodo pandemico, il report ISTAT del 2019 fotografava una situazione positiva e in miglioramento: il tasso di disoccupazione era sceso al 9,3%, mentre l’occupazione aveva raggiunto le vette del 1977, con il 59%. 

Come mostrato dal grafico (dati ISTAT aggiornati al 2022), con la diffusione del covid e le conseguenti limitazioni sul mondo del lavoro, la disoccupazione generale ha ripreso a crescere andando a colpire soprattutto i giovanissimi e allargando la forbice che già li separava dagli over 24. Se infatti nel 2018 la disoccupazione giovanile si attestava sui 24,8 punti percentuali, questa è balzata al 29,2% nel 2019, calando significativamente solo nel 2022 (23,7%).

Il calo registrato non può ancora essere definito rassicurante, specialmente se paragonato con la media degli altri Paesi europei: nel 2022 l’Italia si attesta al terzo posto per tasso di disoccupazione (8,8%) - preceduta solo da Spagna (12,9%) e Grecia (12,5%) - e al secondo per numero di NEET (19%) con il primato alla Romania (19,8%).

Tante le cause che impediscono all’Italia di accorciare le distanze con l’UE, dalle disparità di genere e territoriali mai superate al basso numero di laureati e diplomati (complici denatalità e invecchiamento della popolazione). Su tutte, preme registrare il senso di sfiducia, la perdita di prospettive future e il riassestamento del sistema valoriale che hanno interessato una larga fascia di giovani.

A livello sociale e relazionale, la pandemia causata dal Covid 19 ha rappresentato un evento senza precedenti storici che, nell’isolamento, ha comunque permesso a milioni di persone di rimanere “connesse” grazie alla potenza di internet. Per quanto con difficoltà tutt’altro che trascurabili, la società non si è congelata nella separazione della quarantena, ma ha lentamente continuato ad incedere fra lavoro agile e didattica a distanza. Le prospettive sul tempo, sulla relazionalità e sul lavoro hanno cominciato a cambiare, la scala delle priorità si è stravolta di fronte alla fragilità di un sistema che, mentre funzionava, sembrava invulnerabile.

Se a ciò si aggiunge lo scollamento fra domanda delle imprese e offerta dei lavoratori che da anni si estende nel mercato, ecco che il quadro inizia a delinearsi. Da un lato abbiamo sempre meno giovani, spesso disillusi e sconfortati con in tasca titoli poco richiesti e ancor meno retribuiti, dall’altro un sistema economico ancora retrogrado ed incapace di soddisfare la domanda di beni e servizi richiesti.

La soluzione rimarrebbe quella di aumentare gli investimenti pubblici in istruzione e ricerca, intervenire seriamente sui programmi scolastici allo scopo di formare i cittadini di domani, consapevoli e sicuri nel mondo digitalizzato, e orientarli verso il giusto percorso di crescita, in linea con le inclinazioni individuali.

L’Italia, nonostante quanto detto finora, vanta alcuni fra gli atenei più antichi e rinomati al mondo, in grado di garantire una formazione di ottimo livello e preparare laureati molto apprezzati sul mercato estero. Dal 2010 al 2022, più di un milione di italiani si sono trasferite oltre confine, di cui il 23% in possesso di un titolo accademico.

Investire seriamente nell’istruzione non aiuterebbe solo a trattenere talenti e competenze in Italia, ma avrebbe effetti positivi a cascata si tutti gli effetti distorsivi che incidono sull’alto tasso di disoccupazione e sul tessuto sociale del Paese. Il futuro non può essere uno slogan, per esistere ha bisogno di basi concrete da un lato, di speranza e desiderio dall’altro.

 

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