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Editoriale - Perché in Italia c’è ancora chi considera "l'eutanasia" un crimine e non un diritto?

Editoriale - Perché in Italia c’è ancora chi considera "l'eutanasia" un crimine e non un diritto?

EDITORIALE. Come spesso accade di fronte alle giornate di rilevanza storica, occorre rallentare, fermarsi e provare a mettere un punto. Dal quale poi, di norma, si tenta di andare a ritroso, riavvolgere il nastro delle puntate precedenti, nella speranza di avere un quadro della situazione più chiaro e meno ingannevole. Quella di “Mario” – persona tetraplegica da 10 anni – è senz’altro una vicenda che segna, in qualche modo, una svolta nella storia del comparto etico e morale dell’Italia (leggi qui). L’uomo è risultato il primo malato in Italia ad ottenere il via libera – a fronte del possesso dei requisiti legali, secondo il comitato etico dell'Asl delle Marche (Asur) – per procedere al suicidio medicalmente assistito, meglio noto ai più come “eutanasia legale”.

Una richiesta durata ben 14 mesi, quella di Mario, e che ha messo le istituzioni nuovamente con le spalle al muro, dimostrandone la mancata presenza e decisione rispetto a un tema di questa portata. Si è parlato di scaricabarile, di ideologie, di indecisione del Governo (si pensi alla diffida nei confronti dei Ministri Speranza e Cartabia), di paralisi del Parlamento (che a tre anni di distanza dalla richiesta della Corte costituzionale, ancora non si è espresso). E più di tutti, di indifferenza. Eppure, il 6 ottobre di quest’anno, il Referendum sull’Eutanasia – promosso dall’Associazione Luca Coscioni - raccoglieva più di 1,2 milioni di firme, diventando il primo referendum consegnato presso la Corte Costituzionale sul quale sono state depositate le firme dopo 10 anni. Di fatto, quindi, il 93% degli italiani (sondaggio SWG) è pro eutanasia. Perché, allora, c’è chi – attraverso la vicenda di “Mario” – continua a non volersi esprimere, o a considerare quello del suicidio medicalmente assistito un crimine piuttosto che un diritto?

Innanzitutto, è bene sottolineare che - giuridicamente parlando - quella del suicidio assistito rientra a pieno titolo nella gamma di modalità attraverso le quali la “buona morte” (dal greco, eutanasia) può essere messa in pratica. Ma sebbene il Parlamento italiano tardi a pronunciarsi in termini legislativi sulla questione – essendo la nostra una società pluralista fondata su valori – è stato possibile per la Corte Costituzionale stabilire le condizioni per le quali “l’assistente al suicidio” possa rimanere impunito, invece di incappare nell’art.580 c.p. e le relative conseguenze. Parliamo di 4 condizioni - legate al paziente – definite nell’ordinanza n.207/2018, ratificata nella sentenza n.242/2019: la patologia deve essere irreversibile; le sofferenze, sia psicologiche che fisiche, devono essere insopportabili; la persona deve essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; la persona deve essere capace di intendere e di volere.

Molto è stato dibattuto a riguardo anche nelle ultime settimane, soprattutto dal Popolo della Famiglia, a seguito delle firme raccolte dal referendum. Da sempre strenuo oppositore della cosiddetta “cultura dello scarto”, il leader Mario Adinolfi si è in questo senso espresso lamentando l’imbroglio che sarebbe stato nascosto agli italiani firmatari, ovvero che si trattasse in realtà di una manovra atta ad abrogare le pene dall’art. 579 che punisce l’omicidio consenziente. Una sorta di via di fuga per il politico e attivista Marco Cappato - noto per il sostegno nel caso Piergiorgio Welby (2006) e per l’assistenza in quello di Fabiano Antoniani-Dj Fabo (2017). Da qui il passo è stato breve nel dare ulteriore slancio alla campagna in difesa dell’ordinamento giuridico della Repubblica Italiana, facendo leva sull’impossibilità da parte della Corte Costituzionale di agire rispetto all’eutanasia legale per la “vacatio legis” che ne deriverebbe. Quindi, sì al diritto di nascere e di vivere, ma non a quello di morire.

Resta emblematico, a tal proposito, il caso che interessò Eluana Englaro, risalente al 1992. La ragazza 21enne finì in coma per alcuni mesi a seguito di un grave incidente stradale, per poi uscirne ed essere dichiarata in stato vegetativo, ovvero in una condizione tendenzialmente perpetua di totale incoscienza. Solo dopo 17 anni di vicende giudiziarie, il padre di Eluana ottenne l’autorizzazione a interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione forzata presso la casa di cura "Beato Luigi Talamoni" di Lecco, ma solo dopo il ricorso presentato alla Corte di Cassazione ai sensi dell’art.32 della Costituzione: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

Peraltro, le Suore Misericordine che dal 1994 assistevano la ragazza si opposero all’autorizzazione concessa dalla Corte d’Appello di Milano - alla quale fu rinviato il caso (decreto del 9 luglio 2008) -, chiedendo che venisse lasciata alle loro cure e che i genitori si dimenticassero di lei. Fatto che costrinse gli stessi a trasferire Eluana in un'altra struttura ove poter eseguire le sue ultime volontà. Quelle ricostruite secondo le testimonianze delle amiche e dei familiari, che nel corso del tempo provarono a interagire con lei nel tentativo di coglierne delle risposte coscienti.

Va detto che, per la scienza medica, parlare oggi di stato vegetativo rappresenta una forzatura: di fatto, un paziente che non risponda a stimoli esterni non significa che non li senta o percepisca. Nel 2014, uno studio della Cambridge University ha dimostrato come la ricchezza delle reti neurali che comporta il nostro stato di coscienza in cervelli sani sia tipicamente - ma non sempre - compromessa in pazienti in stato vegetativo. In alcuni pazienti in tale condizione infatti si preservano le reti neurali, che rimangono simili a quelle degli adulti sani. Una linea di confine molto sottile, ma significativa: la scoperta sta permettendo concretamente ai ricercatori di sviluppare un modo relativamente semplice per riuscire a differenziare i pazienti in un completo stato vegetativo da quelli che in realtà lo sembrano solamente, ma che sentono, percepiscono e rispondono a qualunque forma di stimolo esterno.

Nel frattempo, però, l’eutanasia in Italia resta ancora illegale. E il Parlamento italiano presto dovrà affrontare a viso aperto la questione ed esprimersi sul tema della “buona morte” in quanto diritto umano (in primis) e giuridico (in secundis). Tenendo presente, allo stesso tempo, di appartenere ad uno Stato laico, ovvero neutrale in campo religioso. E quindi, non discriminante nei riguardi di alcuna confessione.

 

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