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Chiude la fabbrica della carta Fabriano: alcune considerazioni controvento

Chiude la fabbrica della carta Fabriano: alcune considerazioni controvento

È purtroppo finita l'avventura della storica fabbrica di carta marchigiana Fabriano. "La storica produzione di carta Fabriano termina dopo 50 anni", leggiamo ad esempio su "Il resto del Carlino". Ben 173 lavoratori si trovano ora senza impiego e l'Italia – non solo le Marche – perde un altro marchio storico di grande rilievo, che ha fatto la storia del nostro Paese.

Effetti della cosiddetta transizione digitale o della competitività globale? Probabilmente un combinato disposto delle due istanze. Il mondo del tecnofeudalesimo digitalizzato sta sostituendo i libri con gli schermi: gli schermi rappresentano al meglio l'essenza del mondo liquido, dove tutto scorre, e dove la lettura stessa diventa fluida e smart (il mondo delle "non cose" evocato dal filosofo Han).

Tra i tanti fenomeni che si possono interpretare come peculiari della civiltà liquida e tecnomorfa, v’è anche il transito dalla forma-libro alla forma-schermo: il libro è un oggetto stabile, che rende disponibile un mondo compiuto e ordinato, là dove lo schermo fluidifica il reale e lo sottrae a ogni stabilità. L’ordinamento digitale mette, dunque, in congedo il nomos della terra, per dirla con Carl Schmitt.

La globalizzazione neoliberale produce in forma parossistica quella che Marx nel "Capitale" chiamava la "centralizzazione del capitale", la quale si lascia esprimere iconicamente nella raffigurazione di Bruegel il Vecchio che mostra il pesce grande che mangia quello piccolo. Infatti, la legge della concorrenza capitalistica fa sì che i grandi gruppi divorino quelli piccoli e che il capitale si concentri nelle mani di pochi: tale concentrazione del potere economico si porta appresso la concentrazione del potere politico, come è sempre più evidente dal fatto che i grandi gruppi del capitale amministrano anche il potere politico, con pressioni sempre più massicce sui governi a loro volta sempre più subalterni al potere del capitale no border. Big tech, big Pharma, big food, ecc.

Il capitolo XXIV del primo libro di Das Kapital, dedicato all’“accumulazione originaria”, ove Marx affronta il nodo della "centralizzazione capitalistica" (Zentralisation der Kapitale): "con la produzione capitalistica si forma una potenza assolutamente nuova, il sistema del credito, che ai suoi inizi s’insinua furtivamente come modesto ausilio dell’accumulazione (bescheidne Beihilfe der Akkumulation), attira mediante fili invisibili i mezzi pecuniari, disseminati in masse maggiori o minori alla superficie della società, nelle mani di capitalisti individuali o associati, diventando però ben presto un’arma nuova e terribile (eine neue und furchtbare Waffe) nella lotta della concorrenza e trasformandosi infine in un immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali".

Il capitale finanziario favorisce la centralizzazione, nella forma di una nuova e "terribile" arma nella concorrenza: "I capitali più grossi sconfiggono quelli minori" scrive Marx, rendendo la concorrenza e il credito "le due leve più potenti della centralizzazione". La contraddizione non è più solo quella tra il capitale e il lavoro, ma anche quella interna alle fazioni differenti e antagonistiche del capitale stesso. I capitalisti più piccoli soccombono, precipitando nell’inferno del proletariato.

E immani quantità di capitale e di potere connesso si concentrano nelle mani di sempre meno soggetti, generando un contesto sempre più marcatamente oligopolitistico. Peraltro, tali colossi globocratici – veri 'padroni del mondo' – non inverano soltanto la tesi marxiana della "centralizzazione dei capitali" ma, in pari tempo, dimostrano come essa trapassi anche, senza soluzione di continuità, in una conseguente centralizzazione del potere politico: la potenza economica di tali istituti finanziari è tale da mutarsi in forza politica in grado di porsi al di sopra degli Stati e di condizionarli, assai frequentemente rendendoli semplici esecutori della loro voluntas economica, alla stregua di docili e zelanti maggiordomi.

Anche questa è una delle cifre fondamentali della globalizzazione finanziaria: gli Stati sono soggiogati dalla potenza dell’economia finanziaria – il nuovo superiorem non recognoscens –, rispetto alla quale si trovano a svolgere una funzione prettamente ancillare. La tesi marxiana della "centralizzazione" del capitale risulta, ancora una volta, aderente alla realtà fattuale, se si considera che la classe turbocapitalistica dominante, liquida e post-borghese, conta attualmente una decina di milioni di persone in tutto il pianeta. D’altro canto, è noto che il mercato finanziario occidentale risulta signoreggiato da tre colossi americani, che rispondono ai nomi di Black Rock (che gestisce circa 10 trilioni di dollari), Vanguard (che ne amministra circa sette trilioni) e State Street (che ne controlla circa quattro trilioni).

Non si contano, in effetti, le piccole e medie imprese italiane che in questi decenni hanno definitivamente abbassato la serranda, non riuscendo più a sopravvivere nel mondo della competitività planetaria. La legge della competitività capitalistica fa sì che, come usa dire, la moneta cattiva cacci quella buona e, dunque, le eccellenze come Fabriano vengano spazzate via da gruppi e da marchi che riescono a produrre la merce a prezzi più bassi, magari anche sfruttando il lavoro e l'ambiente senza limiti.

Il capitalismo potrebbe con diritto essere inteso come la guerra di tutti contro tutti di hobbesiana memoria, una giungla in cui vince chi riesce a produrre al costo più basso, quelli che siano le conseguenze. Non per caso Hegel parlava di "regno animale dello spirito" in relazione al sistema dei bisogni dell'atomistica concorrenziale: nei cui spazi, appunto, lo spirito smarrisce la sua umanità e si fa ferino, producendo quello che Hegel stesso chiamava lo smarrimento dell'idea etica.

Già questo peraltro basterebbe a mettere criticamente in discussione la sempre decantata globalizzazione, la quale, lungi dall'essere un campo neutro e magari anche encomiabile, rappresenta semplicemente l'humus ideale per il trionfo del dominio capitalistico e delle sue sempre più palesi malefatte su scala globale. Con la fine dell'avventura di Fabriano l'Italia perde un'altra sua eccellenza. Non è la prima e purtroppo temo non sarà neppure l'ultima.

Questo aspetto, oltretutto, giova a mostrare come il conflitto non sia più solo, genericamente, tra capitale e lavoro: la nuova figura dello scontro è quella del capitale contro tutto e tutti, dall’ambiente alla vita umana, secondo una dinamica folle e irrazionale destinata a generare sempre nuove catastrofi di ogni genere.

La si potrebbe idealmente raffigurare, in forma iconica, con La parabola dei ciechi (1568) di Bruegel il Vecchio, l’opera che immortala una colonna di ciechi che segue un altro cieco in direzione dell’abisso: non v’è immagine che meglio descriva la folle marcia nel baratro del nulla a cui la cosmopoli si è consegnata aprendo la via a quel nuovo capitalismo finanziario, che – contraddizione in movimento – sta trascinando nell’abisso la vita umana e del pianeta.

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