Nove novembre
Quando d’improvviso venne giù i mortai tacquero e cominciarono ad abbaiare i cani. L’orologio segnava le 10,13 in punto. La verde Neretva, sotto, smise per un istante di scorrere, poi inghiottì le sue pietre e si colorò di giallo. L’arco di pietra bianca, la tenelija, svanì e restarono solo le due torri: l’Helebija e la Tara. Stava lì dal 1566, da quando l’architetto Hayruddin Mimar lo costruì. Il generale croato, Slobodan Pralijac, che per due giorni ininterrotti lo bombardò con i cannoni non se ne curò. Disse che lo avrebbe ricostruito lui stesso, più bello e più antico di prima… Non aveva un ruolo particolarmente strategico. Non era un obbiettivo militare. Il ponte di Mostar esisteva semplicemente. Univa due sponde. Al centro, nel suo arco di volta, si congiungevano nostalgia e speranza. Da quel punto vedevi scorrere il fiume, ma il tempo si fermava. L’arco di pietra ha dentro se una forza invisibile. La sua linea ricalca il ponte celeste che – secondo i musulmani – solo i puri di cuore possono varcare per raggiungere l’aldilà. Era il nove novembre del 1993. Quattro anni prima, in quella medesima data – la storia a volte sa essere crudele - crollava il muro a Berlino. Nel ’91 lo attraversai per raggiungere Mostar est. Mi fermai a parlare con il vecchio Selim che aveva un bazar proprio lì. Gli regalai un sigaro toscano, bevemmo il suo caffè. Lui sentiva già da lontano l’artiglieria che da lì a breve avrebbe ridotto la città in macerie. Non detti molta importanza alle sue parole, ma lui aveva già intuito tutto. Ogni volta che passavo per Mostar mi fermavo da Selim per il caffè e donargli un sigaro. Il ponte non c’era più. Al posto della volta di pietre c’erano tavole e cavi d’acciaio. I giovani del posto fecero mettere un traliccio in orizzontale per potersi tuffare, come facevano da quando fu costruito. D’estate, dal ristorantino, di sotto, sulla parte ovest, li guardavo lanciarsi nel vuoto, infilarsi in acqua e riemergere dopo pochi secondi che mi sembravano lunghissimi. Guardavo nel vuoto e ricordavo a memoria le parole di Ivo Andric a proposito del suo ponte sulla Drina: “Così, ovunque nel mondo, in qualsiasi posto, il mio pensiero vada e si arresti, trova fedeli ed operosi ponti. Come eterno e mai soddisfatto desiderio dell'uomo di collegare, pacificare e unire insieme tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi. Perché non vi siano divisioni, contrasti, distacchi… Così anche nei sogni e nel libero gioco della fantasia, ascoltando la musica più bella e più amara che abbia mai sentito, mi appare all'improvviso davanti il ponte di pietra tagliato a metà. Mentre le parti spezzate dell'arco interrotto dolorosamente si protendono l'una verso l'altra e con un ultimo sforzo fanno vedere l'unica linea possibile dell'arcata scomparsa. E' la fedeltà e l'estrema ostinazione della bellezza, che permette accanto a se un'unica possibilità: la non esistenza. E infine, tutto ciò che questa nostra vita esprime - pensieri, sforzi, sguardi, sorrisi, parole, baci, sospiri - tutto tende verso l'altra sponda. Come verso ad una meta, e solo con questa acquista il suo vero senso. Tutto ci porta a superare qualcosa, ad oltrepassare: il disordine, la morte o l'assurdo. Poiché tutto è un passaggio, un ponte le cui estremità si perdono nell'infinito e al cui confronto tutti i ponti di questa terra sono giocattoli da bambini. Pallidi simboli. Mentre la nostra speranza è su quell'altra sponda.” Nell’altra sponda, appunto, su di una pietra bianca c’era un incisione con della vernice nera: “don’t forget ’93” c’era scritto, in stampatello. Allora il segreto della speranza è la memoria, pensavo io. Quel giorno, quel nove novembre del ’93 la storia si è fermata ed è tornata indietro. Abbiamo festeggiato per l’abbattimento del muro di Berlino, ma non abbiamo pianto abbastanza per il crollo del ponte di Mostar. Perché ogni ponte che cade è un confine in più e una possibilità di riconciliazione in meno. Un ponte che cade è come una bestia che si piega sulle ginocchia dopo il colpo alla nuca. Manda un segnale cosmico che spezza qualcosa nell’universo. E se la costruzione di un ponte è la più sublime delle ingegnerie, il suo abbattimento è la più impressionante delle distruzioni. Quel gorgo che inghiottì le pietre ed ingiallì la Neretva, a più di venti anni di distanza è ancora lì, nel cuore del vecchio continente. I disperati che il Mediterraneo caccia dalle proprie guerre, fanno rotta per il grande fiume d’Europa. Lo percorrono, coperti da pochi stracci addosso, controcorrente, scansando recinti e fili spinati che uomini di poca memoria – quindi senza speranza – innalzano a loro difesa. L’incontro dei due mondi è ancora lontano.
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