È uscito il nuovo libro di Filippo Davoli. Si intitola La luce, a volte e lo pubblica un’editrice maceratese, Liberilibri. Un’etichetta di prestigio, che vanta un catalogo ricco e significativo, spessissimo alla ribalta nazionale della critica. Abbiamo intervistato Filippo Davoli, che per la prima volta pubblica con un editore della sua città.
La decisione di uscire con Liberilibri risponde ad una strategia culturale o è stata una cosa occasionale?
Per temperamento, non sono solito strategizzare. Diciamo che è capitata una felice serie di circostanze che ha portato l’editore e il sottoscritto a maturare la decisione di uscire insieme con questa pubblicazione. A me ovviamente fa molto piacere, perché liberilibri non è soltanto una casa editrice maceratese (la qual cosa non guasta), ma un’ottima casa editrice. Che generalmente non si occupa di poesia, ma quando l’ha fatto è stato sempre con operazioni degne di nota (penso, ad esempio, a quel bel libro di Scarabicchi dedicato a Lorenzo Lotto). Far parte di questa famiglia indubbiamente mi fa piacere e mi onora.
Tu non sei nuovo al tema della luce, a cui hai dedicato giusto vent’anni fa un altro tuo libro, Alla luce della luce, tra l’altro prefato da Franco Loi. Perché oggi “La luce” è “a volte”?
Perché la luce è sempre “a volte”: nella vita la luce irrompe per brevi tratti sostanzianti; la sua eco ha il potere di dare un nome anche a ciò che appare quando la luce si dirada. Probabilmente, l’agio degli anni mi ha semplificato, producendo in me un progressivo ma irriducibile passaggio dal sapére al sàpere (non una conoscenza esclusivamente intellettuale ma incarnata; e anche il contrario: un esserci che la speculazione intellettuale tenta di dire; è il sapere dell’anima di cui scrive Maria Zambrano; è il vero gnostico di Evagrio, la tradizione luminosissima della patristica orientale, etc.). Le parole al servizio della Parola, senza la pretesa di esaurirla o circoscriverla, ma soltanto avvicinandosi ad essa, esperendola per quel che è possibile. Credo significhi quella dicitura “a volte”, che definisce il titolo del nuovo libro.
Hai pubblicato molti libri, il più recente è del 2013, quei Destini partecipati che ti sono valsi il Premio “Città di Fabriano” nel 2014, sbaragliando la concorrenza di nomi come Paolo Valesio e Silvio Ramat. Passi molto tempo a scrivere?
Molto poco, in realtà. Mentre passo moltissimo tempo a leggere e a studiare. E altrettanto a vivere tra la mia gente. Il massimo che mi possa capitare è un tempo redento a leggere seduto su una panchina, tra la mia gente che fa le sue cose. Il brusio, anziché infastidirmi, mi aiuta a concentrarmi. La poesia, se decide di arrivare, quando è il momento arriva. Altra cosa, invece, se devo scrivere un libro di diverso tenore, come quello che ho curato in memoria di Tarcisio Carboni, uscito nel novembre scorso: un saggio richiede una costante seduta al tavolo e un’organizzata attività di ricerca e disamina. Devo dire, però, che ho avuto in dote dal Cielo rapidità di scrittura. E certamente non è poco, anche se mai si può prescindere dalla rilettura, riscrittura, limatura, etc. (che è poi la parte più bella del nostro lavoro).
Massimo Raffaeli, nella bella introduzione a La luce, a volte, testimoniando della tua ormai piena maturità d’autore, ti accosta al Luzi e al Fortini degli ultimi loro anni. Ti ci trovi?
Anzitutto mi corre l’obbligo di ringraziare Massimo, che ai miei occhi rimane uno dei migliori critici in circolazione, non fosse che per la sua raffinata interezza etica e intellettuale (cosa che di questi tempi rappresenta una rarità assoluta). Della mia prossimità all’ultimo Fortini avevano già detto altri critici, e credo sia così. Su Luzi mi risulta più immediato il riscontro, essendo uno dei miei autori prediletti insieme a Vittorio Sereni. Ma, per dirla tutta, a me autore non compete la verifica. Unicuique suum.
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