Nunzia, la 'Stella Rossa' maceratese. “L'Italia ha dimenticato la Resistenza"
Classe 1929, Nunzia nasce a Testaccio – il quartiere “rosso” di Roma – il 23 febbraio, figlia di Giovanni ed Elena, entrambi maceratesi. Il fascismo a quel tempo ha già consolidato in Italia il proprio potere – detenuto e rappresentato nella forma più autorervole da Benito Mussolini. Eppure, la ribellione al regime è già in corso: nella capitale i primi gruppi di azione patriottica (di 5-6 persone al massimo) si stanno già formando, e il papà di Nunzia fa la sua parte, da buon antifascista della prima ora.
Le conseguenze non tardano ad arrivare: la famiglia Cavarischia-Tiburzi è costretta a fuggire nelle Marche per non incorrere nelle “punizioni” del regime. Giunti nel maceratese, nella frazione di Acquacanina (Fiastra), Giovanni si unisce al gruppo partigiano “201 Volante”, guidato dal tenente Emanuele Lena detto “Acciaio”.
È il 1943: Nunzia ha 14 anni e segue ovunque il suo “babbo” – come a lei piace chiamarlo – fino a ricevere una richiesta inaspettata: “Te la senti di portare una lettera importante al gruppo di partigiani di Bolzano?”. Inizia così la storia della giovane “Stella Rossa”, come fu poi soprannominata, a bordo della sua bicicletta. Mentre lentamente prende posto anche lei in quello che dall’8 settembre 1943 verrà riconosciuto come “il movimento della Resistenza”.
Cominciamo con una domanda sciocca: non aveva paura quando si spostava per portare i messaggi agli altri gruppi? Quando vedevo da lontano un gruppo di fascisti, li salutavo e gli sorridevo. In questo modo ho sempre evitato che mi controllassero. Essere la più giovane di un gruppo partigiano era piuttosto insolito: qualcuno deve aver pensato che i miei genitori fossero matti.
E lei cosa pensava a quell’età, così giovane? Io seguivo ‘babbo’ in tutto quello che faceva. E quando mi chiese di cominciare a fare la staffetta, non mi sono fatta problemi. Si potrebbe pensare che al tempo fossi un’incosciente, ma invece vi dico questo: sono stati proprio i fascisti e i nazisti, con tutto l’orrore che commettevano, a farmi diventare davvero consapevole.
Quindi lo rifarebbe ancora? Certamente, per almeno un milione di volte. Soprattutto in tempi come quelli che stiamo vivendo oggi.
A tal proposito, che idea si è fatta di quanto sta accadendo negli ultimi mesi in Italia e su chi paragona la Resistenza partigiana a quella ucraina? Mi viene da domandarmi: “Per quale motivo sono morti tanti compagni? Per avere un’Italia così? Questo Paese oggi fa schifo, è in mano a governanti pazzi da legare. Gli ucraini stanno difendendo la loro patria, e fanno bene. Forse, bisognerebbe aiutarli di piu.
Di lei si è raccontato tanto, si è addirittura cantato, e nel 2011 ha pubblicato il suo libro “Ricordi di una staffetta”. Quale episodio custodisce più di altri? Ce ne sono molti, e uno di questi è senz’altro la volta in cui disarmai un giovane segente altoatesino di 21 anni che combatteva nelle file tedesche. Il gruppo di Erivo Ferri aveva assalito un camion nazista vicino il comando di Muccia, ma uno dei soldati era fuggito. Chiesero a mio padre di aiutarli nelle ricerche, e anche io diedi una mano. Finché un giorno, passando da Valcimarra, scoprii che il tedesco si trovava nella casa di una coppia di contadini che conoscevo.
E quando lo ha visto cosa ha provato? Lui era nella stanza da letto disteso, stremato, ferito a una gamba: non si preoccupò certo di una ragazzina. Sulla sedia accanto a lui c’erano un mitra, due bombe a mano e una rivoltella. Non so cosa mi passò per la testa: mandai la sedia all’aria, presi la pistola e gliela puntai contro. Ricordo quel sergente che disse “Anche i bambini ora sono contro di noi”.
Come andò a finire? Lo facemmo prigioniero per una decina di giorni: lui dormiva con mio padre, anche lui ferito. Un giorno questo ragazzo venne da me e mi disse “Tuo papà mi ha fatto capire tante cose: voi difendete la vostra patria, noialtri invece no”. E poco prima che arrivassero gli alleati, scappò via. Non fece mai i nomi dei suoi carcerieri.
Lo ha più rivisto questo giovane sergente? Proprio il 25 aprile del 1997. Dopo essere entrata nell’ANPI di Tolentino, venni a sapere che Domenico Cerasani (tenente colonnello degli Alpini) aveva visto in una trasmissione l’intervista di questo ex soldato, che raccontava – a modo suo – di come era stato fatto prigioniero dai partigiani. Visto che aveva la mia di voler far ricongiungere tedeschi e italiani, Cerasani si mosse fra Roma e le Marche, e così lo rividi.
Come mai accettò di rivederlo? Si chiamava Erich Klemera, e mi raccontò di essere di Bolzano, che era stato obbligato a imparare l’italiano. E, soprattutto, che lui i fascisti li aveva sempre odiati. “Non mi ci pulisco nemmeno le scarpe con loro”, diceva. Aveva voglia di rivedere la ragazzina che lo aveva imprigionato, e da allora siamo diventati amici: ho conosciuto persino la sua famiglia e spesso siamo stati ospiti l’uno dell’altro. Purtroppo se n’è andato un paio di anni fa.
Oggi Nunzia Cavarischia ha 93 anni e vive vicino ad Alessandria, in Piemonte. Come si sente? Sono una bisnonna e vengo assistita da mia figlia Licia: purtroppo il fisico sta cedendo e ho bisogno d’aiuto. Ma mi mancano le mie montagne marchigiane, la mia gente. Sento la nostalgia dei compagni che se ne sono andati: ormai siamo rimasti davvero in pochi. La storia non va come dovrebbe.
Secondo lei la memoria di certi eventi e persone che hanno combattutto per la Resistenza non viene preservata abbastanza? Non viene fatto nella giusta maniera: ogni cosa oggi si realizza in funzione del “dio denaro”. Quello che ci vorrebbe è una vera rivoluzione.
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