Lavorare con i ‘matti’ della Comunità di San Claudio. “La follia è una dote, ma fa ancora paura” (FOTO e VIDEO)
“Abbiamo tutti una parte schizofrenica, psicotica. Di fronte a ‘loro’ sei messo a nudo, disarmato: e questo ci rimette in contatto con la parte primitiva di noi stessi”. Con queste parole Martina Monterubbiano e Stefania Pietracci, rispettivamente coordinatrice e psicologa della Comunità di San Claudio, provano a spiegarci il perché di quella paura ancestrale nei riguardi della ‘malattia mentale’.
E, anche, cosa significa avere a che fare con i loro pazienti psichiatrici. Una mole di lavoro che da ormai 25 anni si sostiene grazie alla sinergia costruitasi nel tempo fra responsabili e operatori OSS, in riferimento alla missione (senza scopo di lucro, ndr) portata avanti dall’associazione di Capodarco sin dal 1966 (leggi qui).
La realtà di San Claudio nasce ufficialmente l’11 febbraio 1998 in applicazione della legge Basaglia: venti persone, all’epoca, furono trasferite dal manicomio di Macerata alla struttura corridoniense. Persone con cronicità psichiatriche, riconosciute dal resto del mondo come ‘diverse’. E ancora oggi, sfogliando i vari referti clinici, non vi è alcun dubbio sulla patologia principe che le accomuna fra di loro, seppur con diverse sfumature e declinazioni, più o meno gravi: la psicosi. La follia.
"Il turnover nel corso di questi anni è stato piuttosto basso - spiega Stefania - e in questo momento ospitiamo 20 pazienti di età compresa fra i 45 e i 74 anni, di cui: un’ex manicomiale e 19 provenienti dal nostro bacino d’utenza territoriale che si estende fino a Civitanova e Recanati (8 da casa e 11 da altra struttura sanitaria)". Delle 60 persone finora transitate, inoltre, vanno conteggiate quelle decedute (10), le trasferite in altre strutture (26) e i rientrati in famiglia (4).
La Comunità di San Claudio si impegna da sempre anche a mantenere il rapporto con amici e parenti del singolo ospite, anche se nel più dei casi questo va a decedere per almeno due ragioni: il carico di sofferenza insopportabile per il gruppo dei familiari e/o l’inizio tardivo del percorso di riabilitazione. Per cui il paziente, già in età adulta, finisce suo malgrado col sopravvivere ai propri genitori e conoscenti.
"La malattia mentale è ancora uno stigma - sottolinea Martina - e la patologia cambia in base alla società e i suoi mutamenti storici. Per noi che andiamo verso il concetto di una Comunità integrata, inclusiva e compartecipe, parlare di diversità è come parlare di qualcosa che non esiste: tutto ciò che è diverso da noi concorre alla costituzione di un sistema vivo, costruttivo e duraturo. Per questo preferiamo la parola ‘differente’, ovvero portatore di un’altra cosa. Ed ecco che quello che magari manca a noi può essere portato da altri: in questo modo scompaiono discriminazioni e preconcetti, accettando l’idea di una realtà fatta di tante tessere di puzzle, ognuna differente ma importante".
Contemporaneamente, però, non è escluso per gli operatori il richio del cosiddetto ‘burnout’, ovvero lo stress (sia fisico sia mentale) che in questo caso unisce l’impegno lavorativo e al coinvolgimento umano nei confronti del paziente. All’uopo, gli OSS usufruiscono di una supervisione psicoterapica che accompagna la loro ri-scoperta di se stessi (e della personale componente più archètipa), scongiurando la possibilità di rimanere ‘bruciati’ dall’esperienza.
"Dopo 25 anni qui - afferma Filomena - ho capito che la follia è una dote: ti permette di fare cose che in un mondo ‘troppo normale’ non è permesso. Io ho cominciato con i bambini disabili, e mai avrei creduto di entrare a far parte di questa realtà. Gli stimoli sono sempre tanti e la motivazione a sostenere queste persone ancora forte: per questo ho sempre cercato di conciliare lavoro e vita privata".
Come la collega, anche Adriano espone stralci della propria esperienza ventennale cominciata quando don Vinicio Albanesi chiamò a raccolta esclusivamente operatori giovani per dare il via alla missione, 25 anni fa. “E’ iniziato tutto quasi per scherzo, come puro assistenzialismo. Nel tempo è diventato un percorso professionale e di crescita umana, grazie anche ad un gruppo di compagni con i quali siamo riusciti a superare persino i momenti più difficili. Ricordo le prime gite fuoriporta organizzate per i pazienti, con la gente del territorio che ci guardava in maniera torva e gridava ‘Arrivano i matti, arrivano i matti!’ ".
"Visti da fuori, loro sono i ‘malati’ - spiega Serena, da due anni infermiera nella struttura - perché nella mentalità della maggior parte della gente non sono mai usciti dai manicomi. In realtà, sono persone che reagiscono in base a come li tratti, ed è una cosa che credo valga in qualunque contesto sociale, dalla famiglia agli amici. Si pensa che l’infermiere sia semplicemente deputato a stare in una corsia d’ospedale e a somministrare medicine. Qui è diverso, c’è molto rapporto umano e ne sono affascinata: è bello sostenerli nella riabilitazione e riuscire magari a strappargli un sorriso in una giornata no”.
Di seguito, le video interviste complete:
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