Le vecchie redini per la nuova Intifada
“E’ arrivato il momento degli attacchi suicidi”. L’ordine di dare inizio ad azioni kamikaze contro Israele, lanciato da Gaza dagli estremisti palestinesi di Hamas alle cellule disseminate in Cisgiordania, è un brusco risveglio. Una tremenda virata per la nuova Intifada, la terza, con le sue caratteristiche di disperazione degli adolescenti e giovani palestinesi, nati dopo gli accordi di Oslo, la stretta di mano alle 11 e 43 del 13 settembre 1993, nel cortile della Casa Bianca, quando Ytzhak Rabin, primo ministro israeliano, e Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, disegnarono un futuro di convivenza che non c’è stato. In quella “Dichiarazione dei principi” per la prima volta gli israeliani riconobbero all’OLP di essere l’interlocutore ufficiale nel nome del popolo palestinese e anche il diritto di governare su alcuni dei territori occupati. Dal canto proprio, l’OLP riconobbe allo Stato di Israele il diritto ad esistere e rinunciò formalmente all’uso della violenza come strumento per raggiungere il proprio obiettivo finale, la creazione di uno stato palestinese. Insomma, due stati e un piano per risolvere definitivamente la “questione palestinese”, un percorso definito “road map”. Israele prometteva di ritirarsi da Gaza e dall’area di Gerico, nella Cisgiordania. Prometteva anche che nei cinque anni successivi si sarebbe ritirata da altri territori occupati militarmente. E’ questo il futuro promesso, e naufragato in ventidue anni di scontri quotidiani, di cui i giovani palestinesi si sono sentiti scippati, mentre sono prigionieri di una vita dove è tutto impossibile, dagli spostamenti quotidiani, alla realizzazione, alla fuga all’estero. Una vita troppo diversa da quella che sognano guardando il mondo dal Web. Per questo l’Intifada della disperazione, dei minorenni che si muovono in contatto con i telefonini, fuori dal controllo dei capi delle milizie islamiche. Ma ora, lanciando l’ordine di attacchi suicidi, proprio Hamas, il Movimento islamico di resistenza considerato terrorista da Israele, Stati Uniti, Canada, Unione Europea, Egitto e Giappone, intende rimettere le mani sulle redini della lotta armata, la negazione dello Stato Israeliano. L’obiettivo strategico, non a caso, è quello di riconquistare la città di Gerusalemme. E il comando impartito è militare, operativo, rivolto in particolare alle cellule di Hebron e Nablus perché logisticamente “possono raggiungere più facilmente Gerusalemme”. Le forze di sicurezza palestinese hanno arrestato a Hebron una cellula di Hamas, trovando ingenti quantitativi di denaro ed esplosivi che hanno consentito all’intelligence israeliana di ricostruire quanto sta avvenendo dentro Hamas. A ben poco serviranno provvedimenti come l’arresto a Ramallah del leader politico e “uomo immagine” di Hamas in Cisgiordania, lo sceicco Hassan Yusef, prelevato dall’esercito israeliano nella notte, alla vigilia della nuova giornata della rabbia proclamata per martedì 20 ottobre. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha accettato di sospendere per il momento la costruzione del nuovo muro di divisione tra il quartiere arabo di Jabel Mukabber e quello ebraico di Armon HaNatziv, considerato dai partiti di destra che appoggiano il governo “un risultato e un premio al terrore”. Ma sembra pronto a riprenderlo appena dovesse trasformarsi in realtà l’intenzione di Hamas di mettere sotto attacco dei suoi kamikaze la Capitale. Una svolta dopo la quale non avrebbe senso parlare della terza Intifada come di “Intifada 2.0”, quella degli adolescenti. E il muro, più che una concessione al terrore, apparirebbe allora una minima difesa militare dai terroristi di sempre. E così lo scontro continua.
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