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Il cane che morde i marò

Il cane che morde i marò

Sorpresa! Tre anni e sette mesi dopo si scopre che i proiettili che uccisero i due poveri pescatori del Kerala, Valentine Jelastine e Ajeesh Pink, a bordo del peschereccio Saint Anthony, non sarebbero quelli in dotazione ai Fucilieri di Marina. E a dirlo non sono gli avvocati italiani, visto che finora non è ancora stato possibile arrivare davanti a un qualsiasi organo giudiziario per spiegare come andarono le cose secondo Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Ma è lo stesso collegio di esperti indiani che, tra le carte presentate al Tribunale internazionale per il diritto del mare di Amburgo, forse per un clamoroso errore hanno inserito la prima autopsia da tempo considerata svanita in qualche cassetto della polizia del Kerala. Nella seconda pagina dell'allegato 4 il dottore Sasika certifica che il proiettile estratto dal cervello di Jalestine presenta un’ogiva di 31 millimetri e una circonferenza di 20 millimetri alla base e 24 nella parte più larga. I proiettili in dotazione ai fucilieri di Marina sono invece calibro 5.56x45 Nato e la loro lunghezza è di 23 millimetri. Otto millimetri in meno che portano ad un solo proiettile compatibile con la lunghezza di 31 millimetri, considerando lo schiacciamento fisiologico di tre o quattro millimetri nell’impatto: il calibro 7,62X54 R, proiettile utilizzato per la PK, la mitragliatrice Kalashnikov, arma prodotta in Russia ed entrata in servizio nel 1961 ma anche per la più moderna PKM fabbricata da Russia, Jugoslavia e Cina che la produce nella versione Tipo 80. Ad utilizzarla, oltre i paesi dell’ex Unione Sovietica, dell’ex Patto di Varsavia, dell’ex Jugoslavia e decine di altri nel mondo, oggi sono anche i vigilantes a contratto a bordo delle navi private. Tanto che da più parti si è fatto riferimento a una “pista cingalese”, come ha fatto il quotidiano Il Mattino, spiegando che lo Sri Lanka è «in conflitto per la gestione delle zone di pesca del tonno con respingimenti in mare da parte appunto cingalese», ricordando che nei giorni dei fatti dell’Enrica Lexie «i due pescatori indiani erano andati, secondo quanto riportato dalla stampa locale, proprio a pesca di tonni». Le condizioni del proiettile, inoltre, fanno ritenere con buona certezza che sia stato sparato da oltre un chilometro di distanza, dunque non a poche decine di metri come concordemente si trovavano la petroliera Lexie, protetta dai marò, e il Saint Antony. Se questo non fosse stato inopinatamente, quanto inspiegabilmente, affondato cinque mesi dopo l’incidente, ora sarebbero disponibili altri elementi decisivi per scagionare Latorre e Girone. Non solo i residui di polvere da sparo nei fori dei proiettili, cancellati dall’acqua, e i fori stessi erosi dalla salsedine, ma anche i rilievi sulle traiettorie dei proiettili che colpirono il Saint Antony. Le raffiche furono sparate orizzontalmente, quindi da un'imbarcazione alta quanto il peschereccio, “probabilmente una motovedetta dello Sri Lanka, e non dall'alto verso il basso come avrebbero dovuto essere se sparate dalla petroliera”, ricostruì già tre anni fa il quotidiano Libero. E le stesse testimonianze di chi era a bordo della Lexie dicono concordemente che la barca che avvicinò la petroliera non rassomigliava neppure vagamente al Saint Antony. Ognuno a questo punto può leggere, ipotizzare, argomentare, trarre conclusioni. Ma non è condannare o assolvere i due Fucilieri di Marina quello che, a mio parere va fatto se si vuole garantire loro una giustizia vera e di dignità pari a quella che hanno dimostrato. Il processo deve svolgersi nella sede opportuna. Ed è proprio ciò che l’arbitrato internazionale, promosso dall’Italia e accettato dall’India, dovrà accertare: a chi spetta la giurisdizione, cioè processarli. Certo, gli elementi venuti fuori dall’autogoal indiano con i documenti che anziché incriminare sembrano scagionare Latorre e Girone, potrebbero spingere Delhi a più miti consigli nella trattativa dietro le quinte per risolvere diplomaticamente la questione, nello spazio lasciato volutamente aperto dal Tribunale del Mare con la decisione in cui a fine agosto ha inteso cristallizzare la situazione almeno fino al 24 settembre, data per la consegna delle rispettive memorie da parte di India e Italia. Ma più che il forse involontario autolesionismo indiano, sconcerta in questi giorni un fenomeno di volontario autolesionismo tutto italiano. Chi volle condannare dal primo momento i due Fucilieri come sicuri colpevoli da lasciare in balia della giustizia penale prima del Kerala e poi di Delhi, alimentate entrambe da una forti pressioni elettoralistiche, ora insorge per confutare gli elementi a discolpa dei marò come “sospetti”, “chi sa come saltati fuori proprio adesso” e “chi sa perché non rivendicati per tre anni e mezzo dall’Italia”. Insomma, pur di processare e condannare a priori due militari mandati dallo Stato Italiano a difendere dai pirati una petroliera privata, in forza di una legge della Repubblica per quanto controversa, si comportano come il cane che si morde la coda. Latorre e Girone sono colpevoli del fatto che gli fu impedito di dimostrare in giudizio la loro innocenza. Forse è più opportuno parlare di cane che morde i marò.

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