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Economia Colmurano Recanati

La politica dei tassi di interesse e le misure preannunciate dalla BCE

La politica dei tassi di interesse e le misure preannunciate dalla BCE

Era il mese di gennaio quando il Consiglio direttivo della BCE riunitosi a Francoforte affermava di non modificare la politica dei tassi di interesse dopo la fine del programma del c.d. quantitative easing che aveva consentito l’immissione nel sistema bancario e finanziario della UE di una notevole liquidità negli ultimi anni. Sono bastati pochi mesi e la presa d’atto che l’economia dell’eurozona non mostrava significativi segnali di ripresa, perché Draghi ripensasse di utilizzare nuove misure a sostegno della stabilità del sistema dell’eurozona, tra cui lo strumento del quantitative easing, anche tenendo conto dell’indice Zew sulle prospettive future dell’economia tedesca.

È di metà giugno l’anticipazione che la BCE sta valutando di intervenire ancora sui tassi e di ripristinare il quantitative easing per cercare di risollevare l’economia europea. Ma prima di soffermarci su tale decisione è utile ricordare che anche negli USA, solo un paio di mesi fa, si è discusso di modificare i tassi di interesse quale principale misura di stimolo per l’economia statunitense.

Ad aprile, infatti, Donald Trump ha espressamente chiesto alla Federal Reserve di compiere drastici tagli dei tassi di interesse e di riutilizzare il quantitative easing, ritornando cioè al programma di acquisto di bond e asset finanziari già utilizzato dopo la crisi del 2008. Il Presidente USA ha auspicato nuove politiche espansive, con un taglio dei tassi di mezzo punto percentuale per far riprendere a volare l’economia americana, ritenendo insufficiente la riduzione del portafoglio degli asset in pancia alla FED accumulato proprio durante il programma di quantitative easing.

È utile ricordare le dimensioni e gli obiettivi del quantitative easing adottato dalla FED sino al 2015 per capire le parole di Donald Trump. In tale periodo il bilancio della FED è passato da circa 800 miliardi di dollari a 4400 miliardi di dollari, con la creazione di nuova moneta immessa sul mercato per acquistare debito pubblico (principalmente titoli di stato), che così è aumentato drasticamente come visto prima. Dal 2015 la FED ha terminato l’acquisto di titoli pubblici (mantenendo però a bilancio quelli già acquistati) e di conseguenza ha terminato l’emissione di nuova moneta. Infatti il bilancio della FED è da allora piuttosto costante. Dopo la fine del quantitative easing la FED ha posto in essere il processo inverso ovvero, un programma di quantitative tightening, attraverso il quale ha iniziato a ritira- re la liquidità immessa preceden- temente nel sistema per steriliz- zarla (cioè eliminarla), aumentando di conseguenza i tassi di interesse sul mercato, rivalutando il cambio e diminuendo l’inflazione.

Ciò avviene principalmente in due modi: 1) la FED vende i titoli di stato sul mercato acquistati in precedenza ed elimina la liquidità incassata dalla vendita, oppure 2) attende la scadenza dei titoli di stato che ha in bilancio che verranno rimborsati dallo Stato per poi eliminare il denaro incassato.

Con questa procedura quindi la FED ha ritirato gradualmente la moneta dal mercato, cercando di rivalutare il dollaro, di diminuire la domanda di titoli di stato e di conseguenza anche i prezzi, ma con aumento dei tassi di interesse. Donald Trump chiede ora la cessazione del quantitative tightening che non sembra aver incrementato l’inflazione ma solo il debito pubblico e il prezzo dei titoli azionari, per cui sollecita a gran voce un ritorno ad un programma di stimolo e di espansione per sostenere l’economia americana che non cresce come nelle previsioni.

A distanza di quasi due mesi la stessa decisione, stranamente ora criticata da Trump soprattutto in termini  di concorrenza sleale sui cambi, viene ipotizzata da Mario Draghi che, nel recente simposio delle banche centrali tenutosi a Sintra, ribadisce come la BCE sia pronta a intervenire con tutti gli strumenti a sua disposizione se l’inflazione resterà al di sotto degli obiettivi, come appare ormai quasi certo. Gli strumenti ipotizzati dalla BCE prevedono nuovi acquisti di titoli di Stato, finanziamenti a basso costo alle banche ed un possibile taglio dei tassi di interesse, nonostante quattro anni di stimoli straordinari da oltre 2.600 miliardi, rendendosi necessari nuovi aiuti all’economia europea. Draghi ha sottolineato che «guardando in prospettiva, i rischi per l’outlook rimangono orientati al ribasso e gli indicatori per i prossimi trimestri puntano a una debolezza persistente».

I rischi che sono stati presenti per tutto l’ultimo anno - ha aggiunto Draghi - in particolare i fattori geopolitici, la crescente minaccia del protezionismo e le vulnerabilità dei mercati emergenti, non sono scomparsi e continuano a pesare in particolare sul settore manifatturiero.

Per tale motivo, ha aggiunto Draghi, «nelle prossime settimane il Consiglio direttivo delibererà in che modo i nostri strumenti possono essere adattati alla severità del rischio sulla stabilità dei prezzi. Manteniamo la capacità di rafforzare la nostra forward guidance modificando la sua condizionalità per tener conto delle variazioni negli aggiustamenti del percorso di inflazione».

La Bce, quindi, vuole guidare le aspettative di inflazione - che stanno calando - verso l’alto. Draghi ha però voluto anche indicare gli strumenti che «nelle prossime settimane» potrebbero essere almeno predisposti per sostenere questa strategia, tra cui un taglio dei tassi, insieme a misure che possano ridimensionare gli eventuali effetti collaterali. Il tasso di rifinanziamento è attualmente a zero - e molto probabilmente resterà in ogni caso a questo livello - mentre il tasso sui depositi presso la Bce è a -0,40%: è qui che la Bce - il presidente è stato esplicito nell’ultima conferenza stampa - intende intervenire. Non secondariamente c’è poi il quantitative easing, anche se non appare lo strumento primario in questa fase.

In questo quadro macro-economico e di politica (attuale e futura) dei tassi di interesse v’è da dire che il mercato dei mutui sta realizzando risultato che sembravano irraggiungibili, sia in riferimento ai tassi fissi che ai tassi variabili. I dati del mese ci indicano che il costo medio dei mutui a tasso fisso in Italia (ponderato su durate di 20 e 30 anni) è sceso all’1,68%, il livello più basso di tutti i tempi. Inoltre, se il costo del fisso è sceso ai minimi è perché gli indici con cui è calcolata la rata il giorno della stipula, gli Eurirs, hanno ritoccato al ribasso i precedenti minimi, complice il calo del rendimento del Bund tedesco, sceso a sua volta al minimo a -0,328% sulla durata a 10 anni.

L’Euribor a 1 mese, l’indice su cui si calco- lano le rate variabili mese dopo mese, è sceso a -0,398%, minimo assoluto. Dopo le parole di Draghi i mercati danno per scontato che la Bce entro fine anno taglierà il tasso sui depositi di almeno 10 punti base, portandolo dall’attuale soglia di -0,4% (minimo assoluto) a -0,5%.

Quando questo accadrà le rate di chi sta pagando un mutuo a tasso variabile, già clamorosamente basse considerato che ad oggi allo spread andrebbe sottratto (e non sommato) l’Euribor perché negativo, scenderanno ulteriormente.

Dunque, l’effetto Draghi, cui aggiungasi l’effetto-Fed che sicuramente procederà ad un taglio dei tassi per stimolare nuovamente l’economia come richiesto dal Presidente Trump, significa un vantaggio di circa 300 euro l’anno per chi stipula un mutuo oggi.

In prospettiva, però, entro fine anno il risparmio dovrebbe riguardare anche la categoria dei “vecchi mutui” rimasti fedeli al tasso variabile. Se la Bce ridurrà il tasso sui depositi di 10 punti base, la rata di un prestito ipotecario medio di euro 130 mila dovrebbe scendere, a seconda della durata residua, tra i 7 e i 10 euro. Cifre da raddoppiare se la BCE taglierà, e non è affatto da escludere, il tasso di 20 punti base. Come è dato a vedere, i tempi corrono veloci ed a distanza di poche settimane il cambio della politica dei tassi di interesse e l’adozione di strumenti a sostegno dell’economia incidono non solo sui consumatori finali ma anche sulle banche che devono recepire e fronteggiare nuove sfide, nonché sono costrette ad adeguarsi a repentini cambiamenti concernenti le strategie commerciali e l’impatto che questi strumenti rischiano di avere a livello patrimoniale.

Articolo a firma di Gerardo Pizzirusso 

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