Crisi economica, La Pasta di Camerino si fa portavoce delle Marche. “Situazione grave, servono interventi mirati”
A quasi tre mesi dall’inizio del conflitto russo-ucraino, gli imprenditori della provincia di Macerata proseguono la corsa ai ripari dalle conseguenze di una crisi economica che, sotto più aspetti, sta mettendo sempre più a dura prova i settori d’eccellenza. Fra questi, quello legato alla produzione della pasta che, sebbene risulti solo marginalmente ‘toccata’ dalla guerra – nel 2021 appena il 3% delle importazioni proveniva dalla Russia – è costretta a fare i conti con i rincari più gravosi del comparto energetico.
In tutta Italia – secondo Unionfood – si stimano oggi circa 120 aziende e oltre 10 mila dipendenti, tutti direttamente coinvolti da quelle variazioni del mercato globale che ha visto negli ultimi 12 mesi un aumento del prezzo del grano duro pari all’80%. Ad inficiare sarebbero stati i magri raccolti di Canada e Stati Uniti – principali esportatori nel mondo – per i quali si è ritenuto necessaria una ricontrattazione degli scambi commerciali al netto dell’inflazione sopracitata.
Le Marche – come le altre regioni – hanno perciò dovuto adeguarsi, mettendo a dura prova la propria produzione in termini di qualità e offerta al consumatore (vessato anch’egli dall’aumento dei costi energetici). Nel maceratese, anche l’azienda “La Pasta di Camerino” si è ritrovata a fare i conti con le onde sempre più incerte del mercato globale, adoperandosi al contempo nel mantenere alta la genuinità dei propri prodotti e la capacità di lavoro, e nel contenere in maniera diretta il peso dei prezzi sulla propria clientela.
“Le nostre aspettative non sono positive, la situazione economica del Paese è grave. Per questo servono degli interventi mirati da parte delle istituzioni” – dichiara il direttore Federico Maccari, aiutandoci a fare chiarezza su quanto stia accadendo all’intero settore della pasta in questo delicato momento storico.
Lei pensa che la crisi attuale sia unicamente legata alla guerra nell’Est Europa? Per i pastifici non ci sono state particolari ripercussioni per il reperimento della materie prime, visto che si utilizza prettamente la semola di grano duro. Discorso diverso per panifici e similari, che impiegano quello tenero. Il problema semmai è di mercato: il conflitto ha aggravato una situazione generale già tesa nel 2021. Oggi il prezzo del grano duro arriva quasi al 120%.
Da chi è dipeso questo rincaro? I cambiamenti climatici hanno dimezzato la produzione di Canada e Stati Uniti, e di conseguenza le quotazioni in borsa sono salite alle stelle. In più c’è l’aumento del costo dell’energia: la nostra filiera artigianale, a differenza di quelle industriali, richiedete tempi di lavoro sul grano 100% italiano anche di 60 ore. Non ultimo, il rincaro di carta e cartone, che va ad inficiare sulle spese del packaging.
Le prospettive future indicano un’inevitabile aumento dell’inflazione. Facendo noi riferimento alla Borsa Merci di Bologna, siamo soggetti a determinati strumenti finanziari legati comunque al mercato nazionale e internazionale. Non solo: di fronte al rincaro delle materie prime, l’agricoltore con il quale hai già stipulato un accordo commerciale si sente legittimato a riformulare il prezzo del proprio raccolto in base alle suddette variazioni di mercato.
Voi nel frattempo come vi state adoperando per contenere la crisi? Avendo contratti di filiera, ci sono delle garanzie che altre realtà non possiedono, quindi sono costrette a cercare prezzi più convenienti a scapito della qualità. Il nostro impegno oggi, pur lavorando in perdita, è quello di tutelare il cliente accollandoci più della metà dei costi legati all’inflazione, e rimanere competitivi in termini di produttività. In questo modo anche i nostri 71 dipendenti possono continuare a lavorare serenamente, senza ricorrere ad ammortizzatori sociali come la cassa integrazione.
Quali soluzioni adotterete per il futuro più imminente? Serve innanzitutto una riqualificazione energetica che ci permetta di essere autonomi e sostenibili al 100%, puntando unicamente sul fotovoltaico. Poi dovremo trovare nuove efficienze gestionali, per ridurre al minimo i nuovi costi dei prodotti. Nel frattempo continueremo i nostri negoziati con imprenditori locali, Regione e istituzioni governative. La speranza oggi si lega almeno a un adeguamento dei costi sul mercato e ad accrescere il potere d’acquisto del consumatore. Pertanto, è necessaria una riduzione del cuneo fiscale: le persone andando avanti saranno sempre meno disposte a spendere anche per i beni di prima necessità.
Secondo lei è una situazione che poteva essere evitata? Era prevedibile. La nostra economia è strutturata secondo il mercato globale, e allo stesso tempo però non è stata mai messa in atto negli ultimi 30 anni una politica energetica. Le istituzioni ne erano ben consapevoli, ma non hanno fatto nulla. Per questo ora siamo costretti a rinunciare ai vecchi accordi commerciali e formularne di nuovi con altri paesi. Soluzioni minori utili a tamponare per qualche tempo. Persino la PAC dovrà essere rimessa in discussione se davvero non vogliamo che la crisi peggiori ancora di più.
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