Viaggio tra sapori e memoria all’Hostaria Dino e Tony: nel cuore di Prati, la romanità in tavola (FOTO e VIDEO)
In una giornata dai ritmi concitati e passi svelti sul selciato caldo delle vie di Roma, ci siamo concessi una pausa mangereccia nel cuore del quartiere Prati, davanti a un’insegna che promette romanità senza compromessi: Hostaria Dino e Tony.
Sembra quasi che il tempo si pieghi, all'ingresso. Fuori il traffico incalza, ma qui dentro l’orologio batte il ritmo antico di una cucina che sa di casa, di festa in famiglia. L’aria è già un profumo e le puliture dei carciofi romaneschi fuori dal locale sono un preludio fragrante a un banchetto che sollazzerà i nostri palati e le nostre pance, consci del piacevole “abbiocco” cui andremo incontro.
All’interno, le pareti raccontano la storia di una famiglia; tra tutte le immagini che ci circondano, una attira subito la nostra attenzione. Due bambini, in bianco e nero, in piedi fianco a fianco. “Quella è la nostra prima foto insieme, a Pescara del Tronto, eravamo piccoli”, ci dicono Dino e Tony con un sorriso che scava la memoria. Poi, il dovere e la clientela chiamano i fratelli al “fuoco sacro” dei fornelli e ad accoglierci, con grane simpatia e gentilezza, e a raccontarci la storia di questo locale è la figlia di Dino, Rossella: “Era il 28 settembre del 1992: avevo quasi sei anni quando hanno aperto questa attività, con tante difficoltà, ma con una passione che non ha mai vacillato”.
E quella passione, oggi, la ritroviamo in ogni gesto. In quella cassa piena di carciofi pronti a diventare alla giudia, croccanti come vuole la tradizione. Nei pomodori col riso e patate, che sembrano usciti dalla cucina di una nonna. Nella trippa che profuma d’intingolo vero, e nella coda alla vaccinara che sfida l’appetito con la sua sontuosa consistenza.
Dino e Tony, originari di Tino di Accumoli, tra i Sibillini, il Gran Sasso e Monti della Laga, hanno portato a Roma il sapore della loro terra, amalgamandolo con l’identità fortissima della Capitale. Ne è venuto fuori un tempio della romanità, dove le voci dei clienti si fondono col tintinnio dei piatti, e dove ogni forchettata racconta qualcosa di chi cucina.
Il menù è un canto corale di piatti veraci: il trittico amatriciano con gricia, amatriciana e carbonara; le polpette al sugo come quelle della domenica; d’inverno, le puntarelle condite con quel pizzico d’aglio e acciuga. E poi i dolci, tutti rigorosamente fatti a mano: il tiramisù spolverato con l’amaro del cacao, il crème caramel che si scioglie amenamente in bocca.
Intorno a noi, volti e accenti che raccontano il mondo. New York, Atlanta, Santo Domingo, Chicago, Australia e Spagna. Si mangia, si sorride, ci si rilassa. L’hostaria è piena di ospiti affezionati che chiamano Dino e Tony per nome, e di viaggiatori che scoprono in un boccone quello che nessuna guida turistica può spiegare: l’unicità di una cucina che si tramanda di generazione in generazione.
Noi, tra una forchettata e l’altra, ascoltiamo storie, ridiamo con chi ci siede accanto. E mentre fuori Roma continua a correre, qui dentro, tra il profumo del guanciale di Amatrice e la voce allegra di Dino, Tony, Rossella, ci sembra di non avere fretta.
Sazi e con animo ritemprato salutiamo con gratitudine questa grande famiglia e, dopo una foto a immortalare il momento, si riprendono gli strumenti del mestiere e si riparte alla volta di un’intervista speciale, che promette riflessioni e rivelazioni.
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